L'architettura religiosa e funeraria del mondo greco, etrusco-italico e romano

Il Mondo dell'Archeologia (2002)

L'architettura religiosa e funeraria del mondo greco, etrusco-italico e romano

Giorgio Rocco

L'architettura religiosa

L'età geometrica

L'architettura dei secoli immediatamente successivi alla fine dell'età del Bronzo, per la deperibilità dei materiali cui fa ricorso, ha lasciato poche tracce, spesso difficilmente interpretabili; le tipologie meglio documentate sono evidentemente quelle riconducibili ad esigenze monumentali che in questa fase, la quale per certi versi si può considerare di transizione, sono soprattutto da riconoscersi nella residenza del basileus o negli stessi heroa destinati al culto post mortem dello stesso sovrano eroizzato. Il ruolo particolare svolto dal basileus e dalla sua residenza nel culto delle divinità protettrici della comunità ritarda lo sviluppo di tipologie religiose monumentali; al pari di quanto avveniva nel mondo miceneo, l'eschara del capo del villaggio assume evidentemente un valore simbolico, laddove il focolare familiare diviene focolare collettivo, luogo dei sacrifici e quindi sacro; a questo spesso si affiancano un altare e sedili per i partecipanti ad una ritualità cui non doveva essere estraneo il banchetto comune. Tra i rinvenimenti più significativi dell'età geometrica vi è un grandioso edificio a Lefkandì in Eubea, datato ai primi decenni del X sec. a.C.; nella struttura deve essere riconosciuto un heroon, destinato al culto del basileus, sepolto con le sue armi all'interno dell'edificio insieme con una donna, forse la moglie, e con il suo cavallo. Nella tradizione degli edifici absidali o cosiddetti "a forcina" noti già dal Bronzo Medio, l'edificio presentava un corpo principale absidato, lungo 50 m e largo 10 m, suddiviso internamente in cinque vani di cui quello centrale più importante accoglieva le sepolture ed era forse destinato ai banchetti funebri; ma quel che è più interessante è la presenza di una peristasi, la prima sinora documentata, che circonda la costruzione e contribuisce a sostenere l'aggetto della copertura a falde. La struttura riflette le tecniche costruttive dell'epoca: mura in mattoni crudi, su zoccolo di pietre irregolari, rafforzate da un'orditura di pali lignei addossati internamente, ripido tetto a due falde, con terminazione semiconica posteriore, realizzato in materiali leggeri. La costruzione durò poco e presto l'edificio distrutto fu obliterato da un tumulo, testimonianza della continuità del culto eroico-funerario di cui pure l'heroon di Lefkandì costituisce una delle prime manifestazioni. La nascita dell'edificio religioso si manifesta con la realizzazione di strutture destinate ad accogliere i banchetti sacrificali per una divinità: una ritualità sino allora ospitata all'interno del megaron del basileus e che, a partire dal IX sec. a.C., si è evoluta autonomamente. Appare allora naturale trovare in questi primi edifici di culto la presenza di un'eschara, trasposizione del focolare del basileus ed elemento funzionale al sacrificio e al conseguente banchetto, cui spesso si accompagna l'adozione di immagini di culto iconiche o aniconiche. Sin da questa fase iniziale l'edificio di culto si configurava al tempo stesso come abitazione della divinità e le relative forme architettoniche replicavano evidentemente il tipo dell'abitazione del basileus. La varietà tipologica rifletteva naturalmente le specificità delle diverse aree: se la Grecia continentale vede la prevalenza delle forme absidate o a forcina con coperture a spiovente, diffuse sin dal Medio Elladico, più frequenti appaiono a Creta e in Asia Minore planimetrie rettangolari più o meno allungate, spesso con tetto piano, anche se non mancano soluzioni circolari od ovali di cui sono anche testimonianza modellini fittili, come quello di Archanes (Creta), riproducente una struttura ad impianto circolare con copertura conica, da identificare con un tempio, vista la presenza all'interno di una rappresentazione della divinità. Particolarmente indicativo per la Grecia propria è il tempio di Apollo Daphnephoros ad Eretria, un edificio absidato di 10 m di lunghezza, datato al IX-VIII sec. a.C., il quale, nell'armatura delle mura mediante pali lignei addossati internamente ed esternamente, richiama l'heroon di Lefkandì; il tempio viene affiancato, ancora nell'VIII sec. a.C., da una più monumentale struttura, sempre a pianta absidata, e quindi, nel VII e nel VI sec. a.C., da edifici peripteri che testimoniano della continuità del culto. Documentazioni della persistenza di culti dall'età del Bronzo sino all'arcaismo sono d'altronde attestate in più centri del mondo antico e ancora più frequente è la sovrapposizione dei santuari dell'età del Ferro ad insediamenti d'età micenea. Una sicura continuità insediativa si riscontra a Thermos dove, dall'Elladico Medio sino all'Ellenismo, si succedono edifici che evolvono dalla tipologia absidata del Megaron A, all'impianto rettangolare allungato, con pareti appena convesse, del Megaron B, sino al tempio periptero C di fine VII sec. a.C., ampiamente restaurato in età ellenistica. I megara di Thermos, con il complesso di edifici absidati e non che li circonda, pure nelle contrastanti interpretazioni espresse dagli studiosi, rivestono particolare interesse per i fini di questo contributo: la loro struttura, la cronologia, la presumibile destinazione d'uso attestano l'evoluzione degli edifici destinati al culto; ne fanno testimonianza la lunga vita del Megaron A, forse residenza del basileus/archegeta o heroon, l'affiancarsi alla fine del II millennio del Megaron B, forse destinato a banchetti rituali, la loro distruzione intorno all'VIII sec. a.C., cui farebbe seguito l'ipotetica erezione di una peristasi di pali disposti a forcina, secondo alcuni a racchiudere il Megaron B ricostruito, secondo altri solo un'ampia pavimentazione per un altare a cielo aperto. La documentazione relativa a templi peripteri in età geometrica si è arricchita con i ritrovamenti di Ano Mazaraki, presso Patrasso, dove è stato portato alla luce un edificio, datato alla fine dell'VIII sec. a.C., probabilmente dedicato ad Apollo e Artemide, con cella allungata e absidata circondata da una peristasi di colonne lignee che sembrano ripetere la terminazione absidata anche in corrispondenza del vestibolo, diaframmato, appunto, verso l'esterno da pali disposti in semicerchio; la copertura, a falde molto ripide, originariamente in materiale leggero, fu poi nel VI sec. a.C. sostituita da un tetto di tegole corinzie. La conoscenza degli alzati è naturalmente più scarsa, ma anche in questo caso un aiuto consistente viene dai numerosi modellini fittili che per la madrepatria restituiscono soprattutto piccoli edifici absidati con tetti a falde molto inclinate raccordate posteriormente da soluzioni semiconiche, mentre il prospetto frontale, spesso preceduto da un portico prostilo, era sormontato da una sorta di frontone nel quale sovente si apriva una finestra; la struttura dei muri è difficilmente deducibile dalla decorazione dipinta, a meno di ritenere che le pareti, rivestite da uno strato protettivo esterno, venissero poi decorate; frequente appare invece la presenza di piccole finestre poste in alto per aerare e dare luce all'interno. Consistenti sono anche i dati relativi all'architettura geometrica nelle Cicladi e in Asia Minore; nel primo caso sono soprattutto i rinvenimenti di Iria a Nasso a fornire maggiori indicazioni; qui è possibile seguire lo sviluppo di un santuario dall'età micenea sino all'arcaismo, attraverso le trasformazioni tipologiche che segnano la nascita dell'architettura ionica. All'inizio dell'VIII sec. a.C. venne infatti realizzato un piccolo oikos suddiviso in due navate da tre pali che contribuivano a sostenere la copertura piana, mentre all'interno fu collocata la trapeza e forse una statua di culto; nella seconda metà dello stesso secolo il tempio fu ricostruito e ampliato, l'interno venne suddiviso in quattro navate da tre file di sostegni e attrezzato con panche perimetrali ed un'eschara a testimoniare la trasposizione all'interno del tempio dei banchetti rituali. L'edificio fu ancora trasformato all'inizio del VII sec. a.C., quando ebbe inizio parallelamente una progressiva caratterizzazione della sua architettura: sulla fronte fu aggiunto un prostoon tetrastilo, l'interno fu suddiviso in tre navate da due file di colonne, conferendo una maggiore monumentalità all'eschara, cui corrispondeva in alto un'apertura nel tetto ancora piano; lo stadio finale dello sviluppo, ormai d'età arcaica, vide il completamento del processo di litizzazione, con la realizzazione di un tempio ionico in marmo e granito e contemporaneamente la trasposizione delle celebrazioni fuori della cella, presso un altare esterno. Un grande rilievo rivestono anche le fasi geometriche del santuario di Samo; il primo tempio sul sito, che si presentava come un edificio rettangolare e che per la lunghezza pari a 100 piedi può anche essere considerato un hekatompedon, risale all'VIII sec. a.C. L'interno era suddiviso in due navate da un filare di sostegni mediano, il quale contribuiva a sostenere il trave di colmo di un tetto a falde realizzato con materiali leggeri, mentre un'ampia piattaforma circondava il tempio su tutti i lati. L'edificio fu interamente ricostruito alla metà del VII sec. a.C. con le pareti della cella, interamente di pietra, coronate da un fregio ionico continuo con figurazioni di guerrieri. All'interno i sostegni centrali furono sostituiti da una sequenza di pali addossati alle pareti longitudinali, allo stesso modo di Lefkandì ed Eretria. La soluzione periptera è comunque attestata in Asia Minore già dall'VIII sec. a.C., come si evince dal primo tempio di Artemide ad Efeso, che presentava infatti una peristasi di 4 × 6 pali, sollevati su basi di pietra, a racchiudere una cella, forse ipetra, nella quale si conservava la statua di culto, protetta da una più piccola struttura a baldacchino. Certamente originale appare la produzione cretese: le strutture templari sono in prevalenza riconducibili alla tipologia ad oikos, a volte arricchita da un pronao in antis, con copertura piana; la produzione architettonica dell'isola in età geometrica era decisamente avanzata, forse quanto la stessa plastica, ma era al tempo stesso legata alle consolidate tradizioni dell'età del Bronzo che impedirono lo sviluppo di tipologie innovative, quali potevano essere le soluzioni periptere o prostile, sino ad ostacolare l'affermazione di un'architettura fondata sugli ordini; nell'isola, infatti, alla grande vitalità dell'età geometrica fece seguito una stagnazione e un chiudersi su posizioni conservative. Ma la produzione geometrica a Creta sembra precorrere sviluppi successivi anche per l'integrazione tra architettura e plastica: di ciò forse il Tempio A di Priniàs è l'esempio più rappresentativo; l'edificio, di dimensioni ridotte, era composto di una cella con eschara centrale e di un pronao posti in comunicazione tramite un portale reso più monumentale da una ricca decorazione plastica, mentre più discussa appare la localizzazione del grande fregio con cavalieri che pure doveva incidere significativamente sull'immagine d'insieme dell'edificio. L'età geometrica pone le basi di un culto che non sia totale appannaggio del basileus, ma si configuri sempre più come un patrimonio comunitario; il processo va naturalmente di pari passo con la nascita della polis, ma i riflessi sull'architettura sono sensibili e in questa età, infatti, inizia lo sviluppo di un'architettura religiosa svincolata dalle residenze palaziali. Naturalmente proprio l'ascendenza delle prime tipologie templari da modelli residenziali evidenzia l'attuarsi del processo; non deve conseguentemente meravigliare la successione tipologica che dal megaron del basileus, attraverso l'heroon, conduce al tempio, né la somiglianza tipologica e strutturale tra questi. Ma è proprio il lento processo evolutivo che, a partire dalle pur monumentali realizzazioni del Protogeometrico sino alle evolute tipologie templari dell'Orientalizzante, consente le profonde trasformazioni dell'età protoarcaica, la cui vitalità, unita alle consistenti innovazioni nelle tecniche e nei materiali, introduce alla grande stagione dell'architettura arcaica.

L'età arcaica e classica

Nella Grecia arcaica e classica la presenza degli dei segnava tutte le attività della vita pubblica e privata e la loro immanenza prevedeva che fossero loro consacrate ampie aree dove fosse possibile la celebrazione dei sacrifici nelle forme previste dalle specificità di ciascun dio. L'accesso al santuario, lo hieròn, era sempre preceduto da riti purificatori, ma le forme del rituale variavano: in particolare, la distinzione tra culti ctonii ed uranii non mancava di riflettersi sulle forme dell'architettura. Altre varianti derivavano dalle peculiarità proprie di alcuni santuari, connessi, ad esempio, a culti oracolari o alla presenza di divinità guaritrici. Da un punto di vista strettamente funzionale, perché un luogo potesse configurarsi come un santuario non necessitava altro che di un'area sacra, un temenos, il cui limite, il peribolos, poteva essere costituito da una recinzione fisica o più semplicemente da un confine segnalato da horoi, semplici cippi di pietra iscritti, e da un altare. La presenza di un tempio non era essenziale: il tempio costituisce infatti l'oikos, il luogo dove veniva ospitata l'immagine sacra, e la protezione della statua di culto poteva essere costituita anche da un semplice naiskos, come quello che ancora nell'età di Cimone venne realizzato per ospitare l'immagine sacra di Atena Nike sul bastione miceneo presso l'accesso occidentale all'Acropoli di Atene. A queste prime fondamentali strutture se ne potevano aggiungere altre destinate ad assolvere funzioni accessorie, come i thesauròi, dove si conservavano i ricchi donari che le poleis dedicavano nel santuario, e gli hestiatoria, destinati ai banchetti rituali, o riconducibili a modelli di più ampio utilizzo, come le stoài, che offrivano riparo e rifugio per la notte, accoglievano offerte e dediche e, in alcuni casi, assolvevano alla funzione di hestiatorion (Brauron) o di abaton (Asklepieia di Epidauro e di Atene). La varietà edilizia era tanto più grande quanto maggiore era la rilevanza dei santuari stessi e quindi erano i grandi santuari panellenici e panionici a presentare la più ampia diversificazione tipologica. A tale varietà si aggiungevano le strutture funzionali agli agoni sportivi, drammatici e poetico-musicali che accompagnavano le principali festività: stadi, ippodromi, teatri ed odeia arricchivano i principali santuari e a questi si aggiungevano edifici accessori quali ginnasi, katagogia e balaneia. Ma se i culti principali avevano radici nella protostoria egea e costituivano un sostrato culturale comune delle popolazioni greche, pur se localizzate in territori anche assai distanti del bacino del Mediterraneo, diverse erano le problematiche insite nella produzione architettonica di queste stesse popolazioni. L'architettura greca è infatti il prodotto di quelle profonde trasformazioni sociali che caratterizzarono la fine dell'Orientalizzante e l'esordio dell'età arcaica. L'avvio del processo di progressiva litizzazione dell'architettura monumentale, iniziato già nei primi decenni del VII sec. a.C. è infatti all'origine dell'elaborazione di quel linguaggio architettonico fondato sugli ordini, dorico e ionico, destinato ad informare l'architettura del mondo antico. Le fasi iniziali della nuova architettura in pietra vedono le popolazioni greche disperse su di una vasta area che comprendeva, oltre alle estreme propaggini della Penisola Balcanica, la gran parte delle isole egee e le zone costiere dell'Anatolia, con le grandi isole antistanti di Lesbo, Chio, Samo, Rodi, Coo, Cipro. Questi territori, occupati nell'ambito dei grandi movimenti migratori della fine del II millennio a.C., si svilupparono in maniera autonoma rispetto agli insediamenti della madrepatria; i rapporti dei Greci d'Asia con le più sviluppate civiltà del Vicino Oriente ebbero una grande rilevanza nella formazione di una cultura architettonica che non poteva non risentire del contatto con quelle civiltà, che già da tempo avevano sviluppato un linguaggio evoluto. Le soluzioni spaziali e costruttive e le forme decorative delle architetture arcaiche della Ionia e dell'Eolia, e per alcuni aspetti della Doride d'Asia, furono conseguentemente condizionate dai rapporti stabiliti sia con gli Stati confinanti, sia con l'Egitto, con il quale intercorrevano relazioni commerciali molto intense. Sia i Greci del continente, sia quelli delle fondazioni asiatiche adottarono, prevalentemente su suggestione della architettura egizia, il sistema costruttivo trilitico quale soluzione più congrua alle crescenti esigenze di monumentalità. All'origine il linguaggio architettonico si configurò come trasposizione formale di soluzioni strutturali o funzionali e, nell'ambito di tale processo di litizzazione, si articolò in un vocabolario proprio, ordinato da una sintassi in parte dipendente da precedenti modelli costruttivi. Questo linguaggio si concretò nella definizione degli ordini architettonici, il dorico e lo ionico, ovvero le forme espressive che, indipendentemente dal ceppo linguistico di appartenenza, i Greci del continente e dell'area centrale e orientale dell'Egeo elaborarono tra la fine dell'Orientalizzante e l'inizio dell'età arcaica. Va però rilevata una distinzione interna nell'area ionica: la produzione cicladica e quella più propriamente asiatica presentano infatti significative differenze, alle quali non è estranea la diversa collocazione geografica, che non si limitano a caratteristiche interne all'ordine ma coinvolgono anche, così come accade per l'ordine dorico, soluzioni planimetriche e spaziali. Caratteri assai diversi presenta invece la produzione architettonica delle poleis greche nate dal processo di colonizzazione che investì l'intero bacino del Mediterraneo tra VIII e VI sec. a.C., fenomeno rispondente ad interventi pianificati che avevano peraltro nella metropolis, la città madre, un referente culturale forte. D'altronde, la cronologia della stessa colonizzazione, in età storica, fa sì che, all'atto della fondazione, la nuova polis sia marcatamente caratterizzata da forme culturali già definite; le condizioni di partenza, quindi, non sono confrontabili con quelle delle prime fondazioni derivate dalla migrazione della fine del II millennio a.C. In sostanza, le poleis nate dalla colonizzazione di età storica portavano con loro modelli architettonici già delineati nelle metropoli di origine; conseguentemente, Siracusa, fondazione corinzia, si espresse nelle forme dell'architettura dorica, mentre nei resti architettonici della Naxos siceliota sono chiaramente riconoscibili i tratti dello ionico cicladico. Tuttavia, il diverso contesto in cui si sviluppò l'architettura delle colonie rispetto a quella della madrepatria fece sì che, nonostante le comuni radici, queste si andassero in breve diversificando. Il processo di litizzazione è riscontrabile, almeno nella prima età arcaica, soprattutto nell'ambito della tipologia templare, proprio per la specifica rilevanza che il tempio va assumendo in questa età. Almeno nella madrepatria, all'origine di tale processo, che sembra si sia manifestato contemporaneamente tanto nella Grecia continentale che nelle Cicladi e in Asia Minore, sembra esservi la progressiva introduzione di coperture fittili, inizialmente legate alla produzione delle officine di ceramisti corinzi, nel secondo quarto del VII sec. a.C. Il conseguente sensibile aumento del carico determinò infatti la progressiva sostituzione degli elementi portanti, fino ad allora realizzati in mattoni crudi e legno, con corrispondenti elementi di pietra. L'effetto diretto di tale trasformazione fu il sovradimensionamento e, al tempo stesso, un forte ravvicinamento delle colonne tra loro. Se le prime manifestazioni del processo di litizzazione dell'architettura nella madrepatria sono documentate soprattutto nell'area corinzia, come attestano i resti del tempio di Apollo a Corinto e di Poseidone all'Istmo, elementi certi di uno stato avanzato nell'elaborazione di forme doriche sono riscontrabili alla fine del terzo quarto del VII sec. a.C. in più luoghi della Grecia centrale e del Peloponneso, come emerge dai noti rinvenimenti di metope a Micene e a Thermos. I tratti salienti di queste architetture protodoriche sono riconoscibili nella preferenza per la tipologia periptera, che conferisce una maggiore monumentalità al tempio, e nelle proporzioni strette e allungate delle piante degli edifici, con celle anguste ma molto profonde, generalmente precedute da un vano, il pronao, aperto verso la peristasi e posto in comunicazione con la cella, il naòs, mediante un ampio portale. Lo spazio interno alla cella è spesso suddiviso in due navate da file di sostegni che riducono la lunghezza dei travi di copertura e contribuiscono a sostenere il trave di colmo che, negli edifici a due falde o a quattro falde, come sembra debbano essere ricostruite queste prime architetture protodoriche, corre appunto lungo l'asse di mezzeria. Assai presto, ancora nell'ultimo quarto del VII sec. a.C., appare con sempre maggior frequenza un ulteriore vano alle spalle del naòs, l'opistodomo, che, privo di collegamento con quest'ultimo, è rivolto verso il retro del tempio determinando un impianto simmetrico del nucleo interno. Pronai ed opistodomi si aprono infatti rispettivamente verso la peristasi orientale ed occidentale tramite prospetti distili in antis, ovvero caratterizzati dalla presenza di due colonne racchiuse tra le ante, le testate che concludono agli estremi i muri laterali della cella. Dunque già alla fine del VII sec. a.C. si consolida una tipologia ben definita di tempio dorico, con un nucleo interno tripartito racchiuso da un giro esterno di colonne e coperto con un tetto a falde. Già delineati appaiono gli elementi dell'ordine architettonico stesso: la colonna, con fusto scanalato e capitello dall'echino fortemente rigonfio, e parte della trabeazione (in particolar modo il fregio) che, nell'alternanza di metope e triglifi, costituisce il tratto più riconoscibile del dorico. Altri aspetti dell'ordine rimangono a lungo in sospeso: la definizione della cornice e molti dettagli minori della trabeazione e del capitello non sono riconducibili ad un modello univocamente accettato, ma evidenziano una varietà che testimonia della compresenza, per buona parte dell'età arcaica, di centri di produzione autonomi. Tale varietà è del pari attestata nella produzione delle coperture fittili, le quali, al fianco del modello protocorinzio e poi corinzio, vedono emergere produzioni laconiche, arcadiche, argive, etoliche, oltre al gruppo della Grecia centrale cui si apparenta in parte anche la produzione attica. Il tempio di Hera a Olimpia, datato ai primi anni del VI sec. a.C., è appunto il prodotto della tradizione laconica e, in quanto tale, si distingue dalla più evoluta tipologia corinzia. Se da un lato la planimetria, con il nucleo interno tripartito e l'alternanza di setti murari e colonne lungo le pareti della cella, costituisce uno stadio avanzato rispetto alla produzione protodorica, dall'altro la costruzione, salvo per la crepidine e gli ortostati alla base dei muri, realizzati in pietra, e il tetto fittile di tipo laconico, mostra ancora un elevato in mattoni crudi e una peristasi lignea. Il presumibile sovradimensionamento delle colonne di legno, nel tempo sostituite da esemplari di pietra, dovette comportare ricadute nell'articolazione del fregio, la cui correlazione con le colonne della peristasi è una caratteristica peculiare dell'ordine dorico; nell'Heraion è infatti documentata la prima apparizione di quel particolare accorgimento noto come contrazione angolare, destinato a divenire una caratteristica costante delle architetture doriche della madrepatria. L'elevato del tempio, in gran parte sconosciuto a causa dei materiali utilizzati, doveva presentare colonne dai capitelli schiacciati e fortemente espansi, decorati alla base dell'echino da una gola ornata da fogliette di bronzo, di cui si sono rinvenuti frammenti; al di sopra, una trabeazione lignea con il fregio a metope e triglifi era coronata dalla ricca decorazione policroma del tetto. Una particolare rilevanza dovevano assumere i frontoni alle due estremità dell'edificio, con la decorazione figurata dei timpani e i grandi acroteri circolari. I successivi sviluppi dell'architettura templare nella madrepatria vedono l'affermarsi delle più rigorose forme corinzie, soprattutto a partire dalla seconda metà del VI sec. a.C., mentre la fase di larga sperimentazione lascia il posto, nell'area peloponnesiaca e nella Grecia centrale, ad una maggiore uniformità. Nell'ordine dorico si rafforza quel rigore formale che ne ha sempre costituito il carattere più evidente, si riduce la componente ornamentale e si consolida la logica interna che lega le diverse parti tra loro; regulae, triglifi e mutuli, questi ultimi ormai canonici nella tipologia delle cornici doriche, costituiscono l'ossatura sintattica dell'ordine e la loro corrispondenza con gli assi delle colonne determina una stretta interrelazione tra alzato e planimetria. Questi tratti, che emergono chiaramente nel quinto tempio di Apollo a Delfi, testimoniano di come il dorico della madrepatria sia ormai un linguaggio maturo. L'edificio, completato nella facciata orientale di marmo pario a spese della famiglia degli Alcmeonidi nel 505/6 a.C., evidenzia una planimetria periptera caratterizzata da proporzioni piuttosto allungate, di 6 × 15 colonne, e da un nucleo interno costituito da una cella, probabilmente tripartita da due file di colonne, con pronao e opistodomo distili in antis; la cella doveva forse ospitare, così come nel successivo tempio tardoclassico, un recesso nella pavimentazione, una sorta di adyton, che raggiungeva il livello della roccia naturale ed era attraversato dall'acqua della fonte Cassotis, ispiratrice della sacerdotessa di Apollo, la Pizia. Al di là delle particolarità determinate dalle esigenze oracolari, il tempio è un eccellente esempio di architettura dorica tardoarcaica, con colonne ancora massicce, alte 4,5 volte il diametro di base del fusto, trabeazione prossima alla metà dell'altezza della colonna, interassi piuttosto ravvicinati e più ampi sui lati brevi, dove pure maggiore era il diametro delle colonne. Un posto importante nel tempio dorico è occupato dalla scultura architettonica e, in particolare, dai gruppi frontonali che in questo tempio vedevano ad est l'epifania di Apollo e ad ovest una Gigantomachia, mentre gli acroteri erano costituiti da Nikai alate e sfingi. Nello stesso periodo, architetture più inclini ad accettare le influenze del mondo ionico venivano erette nella più ionica delle poleis del continente, Atene, dove i templi dei Pisistratidi parteciparono solo in parte del rigore del dorico peloponnesiaco. Il tempio di Atena Poliàs sull'Acropoli si ritiene che abbia affiancato all'ordine dorico della peristasi, peraltro più snello di quello di Delfi, colonne ioniche nel pronao e nell'opistodomo e forse un fregio figurato continuo a coronamento del muro della cella. È possibile che alla base della produzione attica degli ultimi anni della tirannide e dei primi decenni della democrazia vi sia l'influenza di quell'architettura dorico-cicladica che, a partire dall'ultimo quarto del VI sec. a.C., sostituisce in quelle isole la più tradizionale produzione ionica e a cui si deve anche la realizzazione di un altro importante periptero tardoclassico, il tempio di Aphaia ad Egina. Il punto di arrivo delle sperimentazioni dell'età arcaica, e certamente il modello del dorico peloponnesiaco sviluppatosi dalla tradizione corinzia, è il tempio di Zeus ad Olimpia, la cui realizzazione agli esordi dell'età classica sarà destinata ad influenzare profondamente la successiva produzione templare dorica anche al di là della Grecia continentale. L'edificio, costruito nel secondo quarto del V sec. a.C. da Libone di Elis e realizzato in un calcare locale, si presenta con una peristasi di 6 × 13 colonne, più compatta rispetto a quella del tempio di Delfi e con colonne più snelle; il nucleo interno tripartito vede i fregi del pronao e dell'opistodomo arricchiti da metope scolpite con il mito di Eracle; l'interno della cella, suddivisa in tre navate da due file di colonne doriche, ciascuna delle quali sorregge un ordine sovrapposto, ospitava la colossale statua crisoelefantina creata da Fidia. Ad accentuare la grandiosità del monumento contribuiscono i gruppi frontonali, di cui quello orientale celebra la sfida tra Pelope ed Enomao e quello occidentale la lotta tra Lapiti e Centauri. In parte diversa appare l'architettura templare delle colonie occidentali, dove pure prevale largamente l'architettura dorica. A Siracusa, almeno nella prima età arcaica, è ancora sensibile l'influenza della metropoli, Corinto: il tempio di Apollo, datato alla fine del primo quarto del VI sec. a.C., presenta infatti tratti di influenza corinzia insieme ad altri di evidente matrice occidentale, anche se non mancano suggestioni ioniche. L'edificio, un periptero di 6 × 17 colonne, appare caratterizzato da un raddoppio del colonnato orientale e da una spaziatura ampliata nell'intercolumnio centrale della fronte, aspetti che rimandano alle prime manifestazioni dello ionico asiatico, mentre il nucleo interno presenta un pronao distilo in antis, una cella tripartita da due file di colonne interne e un vano sul fondo posto in comunicazione con la cella, l'adyton. Se pronao e naòs si riallacciano ai modelli della madrepatria, la presenza dell'adyton e l'assenza dell'opistodomo appaiono piuttosto un tratto occidentale. Gli intercolumni, più ampi sui lati brevi, sono particolarmente contratti, mentre i triglifi non sono in asse con le colonne, costituendo in questo una rara eccezione. L'elevato presenta colonne molto pesanti, con capitelli schiacciati ed espansi, a sostegno di una trabeazione, ancora parzialmente in legno, dalle proporzioni particolarmente massicce, in cui la cornice a mutuli è sormontata da un secondo gocciolatoio a cassetta di tradizione tipicamente occidentale; la decorazione fittile del tetto è molto ricca e la sima che borda l'intero perimetro della copertura appare anche alla base del timpano, al di sopra del gocciolatoio orizzontale. Più integralmente siceliota è l'architettura arcaica di Selinunte, di cui il Tempio C sull'acropoli costituisce un esempio significativo; l'edificio, datato alla metà del VI sec. a.C., è un periptero molto allungato di 6 × 17 colonne, con una disposizione del nucleo interno tale da lasciare tra i muri della cella e la peristasi uno spazio assai maggiore che negli esemplari della madrepatria e del tempio di Siracusa. Anche in questo caso, il colonnato sulla fronte è raddoppiato, mentre l'edificio della cella è costituito da un pronao chiuso verso l'esterno, da un naòs privo di sostegni interni, ma con un altare e da un adyton. Le colonne sono fortemente rastremate e più snelle di quelle del tempio di Siracusa e dei coevi edifici della madrepatria e la trabeazione presenta anch'essa il raddoppio del gocciolatoio e la sima disposta alla base del frontone. Una gigantesca testa di Gorgone in terracotta a rilievo occupava l'intero timpano orientale, accentuando la ricca policromia del tempio, mentre la presenza di metope scolpite sullo stesso prospetto sottolineava la frontalità dell'edificio, già messa in evidenza da un'alta gradinata. I caratteri prevalenti dell'architettura siceliota arcaica, al di là delle differenze che pure distinguono la produzione delle diverse poleis, sono ben rappresentati dal Tempio C di Selinunte, ma deve essere anche evidenziata una spiccata tendenza al gigantismo nelle costruzioni: se sono frequenti, infatti, a Selinunte, a Siracusa e ad Agrigento templi la cui lunghezza supera i 60 m, non mancano edifici che raggiungono i 110 m, come il Tempio G di Selinunte o il più tardo Olympieion di Agrigento. Si tratta di edifici singolari ma coerenti con la politica edilizia delle tirannidi, non dissimile da quella dei Pisistratidi ad Atene e di Policrate a Samo, e più in generale con la stessa cultura locale che, dopo la caduta dei tiranni, portò avanti i progetti. Le forme dell'architettura templare, tuttavia, rispondono solo ad una parte delle esigenze religiose: le particolarità connesse all'espletamento dei riti misterici propri dei culti ctonii produssero infatti soluzioni alternative più idonee a rituali riservati ai soli iniziati. Il santuario di Demetra Malophoros sulla collina di Gaggera a Selinunte costituisce un interessante esempio di queste architetture: un alto muro delimita il temenos, all'interno del quale vi sono i resti di due edifici succedutisi sul sito, il più recente dei quali, datato forse alla prima metà del VI sec. a.C., è un megaron, una struttura tripartita in pronao, naòs ed adyton. Il pronao, come quello degli altri templi sicelioti, è privo di colonne ed è accessibile attraverso un'ampia porta a due ante, mentre le forme architettoniche, prive di ogni richiamo agli ordini, rievocano modelli predorici. Il megaron era preceduto da un grande altare, lungo più di 16 m, di forma rettangolare. La tipologia del complesso richiama soluzioni della madrepatria, tra le quali il santuario di Eleusi costituisce l'esempio più noto. Anche qui, all'inizio del VI secolo, un megaron si apriva su di un'ampia corte racchiusa da un alto muro di recinzione; a questo semplice impianto, nell'età di Pisistrato si sostituì un'architettura più complessa che inserì l'adyton all'interno del Telesterion, un'ampia sala ipostila quadrata di circa 27 m di lato; il prospetto orientale dell'edificio era sottolineato da un portico dorico di 10 colonne, profondo 2 interassi, che ne occupava l'intera lunghezza, dal quale 3 porte davano accesso all'interno. Il nuovo impianto era stato pensato in modo da consentire lo svolgimento dei riti all'interno dell'edificio; nella sala ipostila, addossati alle pareti, infatti, correvano 9 gradini dai quali gli iniziati, in piedi, potevano assistere alla celebrazione dei misteri. Appare evidente che il Telesterion non era un tempio in senso stretto, poiché non era solo destinato ad ospitare la statua di culto, che doveva trovare posto insieme agli oggetti misterici necessari al culto nell'adyton interno, ma era soprattutto finalizzato alla celebrazione stessa di parte dei riti, configurandosi come un santuario autonomo all'interno del più ampio temenos dell'Eleusinion. La preferenza per la tipologia periptera caratterizza invece anche in Magna Grecia i templi dedicati alle divinità uranie, tra i quali un particolare interesse, per la loro originalità, rivestono quelli prodotti nelle poleis achee. Il tempio di Hera I a Poseidonia (Paestum), datato al terzo quarto del VI sec. a.C., è un interessante esempio di queste architetture; caratterizzato da una peristasi di 9 × 18 colonne doriche, sollevata su di una crepidine di 3 gradini e molto distanziata dal nucleo interno, come già negli esemplari sicelioti, l'edificio è sostanzialmente uno pseudodiptero; il nucleo interno è costituito da un pronao tristilo in antis dal quale, attraverso 2 passaggi, si accede ad una cella bipartita da una fila di 7 colonne doriche, mentre altre 2 porte danno accesso all'adyton. La particolare configurazione bipartita della cella e il numero dispari di colonne sui lati brevi che ne deriva, in considerazione della cronologia relativamente tarda, devono essere riferiti ad una duplicità del culto, probabilmente dedicato a Hera e Zeus. L'ordine dorico del tempio si discosta significativamente da quello della madrepatria: le colonne, fortemente rastremate e dall'entasis molto accentuata, sostengono capitelli che, al pari di quelli sicelioti, presentano alla base dell'echino una profonda gola ornata da fogliette e, sull'echino degli esemplari del lato occidentale del tempio che prospettava sulla via principale dell'insediamento greco, appaiono elementi vegetali a rilievo. L'architrave, privo di taenia, regulae e guttae, è coronato da una combinazione di modanature, ripetute, sia pure con motivi diversi, anche al di sopra del fregio a triglifi, in sostituzione della cornice, assente sui lati brevi e sostituita, sui lati lunghi e sul frontone, da un complesso gocciolatoio a cassetta policromo; falsi pluviali a protome leonina ornano il rivestimento fittile della cassetta al di sotto dello sporto del tetto corinzio, arricchito da antefisse a fiori di loto e a palmetta che si ripetono anche lungo i frontoni. Gli sviluppi dell'ambiente acheo di Magna Grecia nell'ultimo quarto del VI sec. a.C. e nei primi anni del secolo successivo testimoniano della crescente penetrazione di motivi ionici, di cui il tempio di Atena a Poseidonia costituisce una valida testimonianza, pure nel persistere delle peculiarità del dorico locale. I tratti delineati nel primo tempio di Hera sono infatti diffusamente attestati nei diversi centri achei dell'Italia meridionale, ma le realizzazioni della prima età classica evidenzieranno una discontinuità evidente nell'evoluzione dell'architettura occidentale. L'influenza del modello peloponnesiaco, nelle forme consolidatesi tra la fine dell'età arcaica e il primo classicismo, determinò infatti l'abbandono di molte delle specificità dell'architettura siceliota ed italiota, come testimoniano numerosi edifici classici dell'Occidente, quali, ad esempio, il Tempio E a Selinunte, il tempio della Concordia ad Agrigento, il tempio di Atena a Siracusa, il tempio di Himera e il tempio di Hera II (cd. Tempio di Nettuno) a Poseidonia. In Occidente vennero adottati molti tratti del più rigoroso dorico della madrepatria, tra i quali la più stretta interrelazione tra peristasi e nucleo interno, con l'abbandono degli ampli ptera di tradizione occidentale a favore di un allineamento tra il filo esterno dei muri della cella e l'asse della seconda e della penultima colonna dei lati brevi, l'introduzione generalizzata dell'opistodomo e, a volte, del doppio colonnato interno alla cella, il ricorso alla soluzione distila in antis per il pronao e l'opistodomo e ancora l'adozione della doppia contrazione angolare con la quale si affrontò finalmente in maniera organica il problema del conflitto angolare. L'influenza peloponnesiaca è ancora più evidente negli alzati: le colonne si fecero meno slanciate e rastremate, i capitelli, meno espansi, rinunciarono alla ricca decorazione alla base dell'echino, le vistose cornici a cassetta lasciarono il posto alle più canoniche cornici a mutuli, mentre nelle diverse parti dell'ordine le modanature in uso nella madrepatria sostituirono quelle locali. Un problema a sé è costituito dall'architettura templare dell'Etruria, nell'Italia centro-settentrionale. Questa in età arcaica e protoclassica presentava infatti caratteri propri molto distanti dalla contemporanea produzione greca: i templi, sollevati su alti podi di tufo, erano accessibili da scalinate frontali e presentavano un elevato con muri di mattoni crudi, colonne e struttura del tetto di legno e coperture fittili; gli impianti planimetrici, con proporzioni tendenti al quadrato, prevedevano soluzioni in antis, con cella singola o tripartita, o anche prostile, con pronao colonnato molto profondo. Talvolta il muro di fondo risvoltava al di là del limite della cella e raggiungeva la fronte, venendo a determinare spazi laterali di risulta, le alae; forse, in alcuni casi, probabilmente per influenza greca, i muri delle alae lungo i lati dell'edificio furono sostituiti da colonnati, determinando così la tipologia del periptero sine postico. Le colonne, molto spaziate, sorreggevano trabeazioni lignee mentre i tetti, a due o tre falde, erano bordati da sime a cassetta di terracotta policroma di tradizione greca e racchiudevano frontoni aperti, senza timpano; alla base del frontone, il gocciolatoio orizzontale a cassetta era sormontato da un tetto a tegole con antefisse, mentre lastre di terracotta, anche figurate, rivestivano le estremità dei mutuli (proiecturae mutulorum) e del trave di colmo (columen) che, con i cantherii, costituiva l'orditura primaria del tetto. L'edilizia religiosa arcaica in Asia Minore e nell'Egeo centrale presenta un quadro ancora diverso. Nonostante un attardamento nella diffusione delle coperture fittili, apparse solo nella seconda metà del VII sec. a.C., il processo di litizzazione dell'architettura templare inizia comunque forse già dalla fine dell'VIII, certamente dalla prima metà del VII sec. a.C., come attestano i resti del terzo tempio di Iria a Nasso e dell'Hekatompedon II a Samo, entrambi caratterizzati da muri interamente in pietra. Attestazioni di una prima elaborazione dell'ordine ionico sono basi cilindriche in pietra e resti di un fregio figurato continuo ritrovati a Samo, mentre all'ultimo quarto del VII sec. a.C. appartiene il primo capitello ionico in marmo giunto fino a noi, un esemplare votivo da Sangrì (Nasso). Se le fasi II e III del tempio di Iria sembrano configurarsi ancora come sale ipostile, rispettivamente con tre e due file di cinque colonne all'interno di un ampio vano bordato internamente da una banchina e con un'eschara al centro, la sua ultima ricostruzione testimonia dello stato avanzato dell'architettura cicladica all'inizio del secondo quarto del VI sec. a.C. Si tratta di un tempio prostilo tetrastilo realizzato parte in granito e parte in marmo di Nasso; all'interno, la cella è suddivisa in tre navate da due file di quattro colonne ioniche, mentre un ampio portale introduce nell'adyton. I resti del prostoon consentono di restituire, anche sulla base di confronti con altri edifici cicladici, l'ordine architettonico esterno con colonne piuttosto snelle, sollevate su basi e concluse da capitelli ionici, privi di abaco, dal pulvino stretto e allungato su di un echino molto espanso; la trabeazione doveva consistere di un architrave piano coronato da un kyma ionico, un fregio continuo e un semplice gocciolatoio, mentre un tetto corinzio di marmo, privo di sima, era decorato sui lati da antefisse a palmetta. Nel suo insieme, l'edificio evidenzia una ricerca di monumentalità degli spazi interni, cui fa da riscontro all'esterno un'attenzione alla frontalità, sottolineata dal prostoon. Si tratta di caratteri propri della produzione cicladica, dove appunto il ricorso alla tipologia periptera è raro ‒ l'unico esemplare conosciuto è il tempio di Palatia a Nasso ‒ mentre gli interni assumono spesso una rilevanza particolare cui non sono estranee specifiche esigenze di culto, come nel caso del tempio di Demetra a Sangrì. Più strettamente legata a modelli orientali ed egizi è invece la produzione architettonica dell'area asiatica. La particolare attenzione alla monumentalizzazione dell'esterno dei templi, già evidente nei primi templi di Hera nel santuario di Samo, si concreta nella realizzazione del grande diptero di Rhoikos e Theodoros, datato agli inizi del secondo quarto del VI sec. a.C. L'edificio, che misurava oltre 100 m di lunghezza, aveva un doppio giro di colonne intorno alla cella, di cui quello esterno ne contava 8 × 21, mentre sul lato occidentale posteriore ve ne erano 9 o 10; il nucleo interno era costituito da un profondo pronao e da un naòs, entrambi tripartiti rispettivamente da 2 file di 5 e di 10 colonne. I muri della cella, i fusti e le basi delle colonne erano di un poros locale, mentre la trabeazione e la struttura del tetto dovevano essere di legno; il tetto, di tipo corinzio, era interamente di terracotta e presentava sui lati antefisse a palmetta. Il gigantismo della costruzione, insieme alla massa delle colonne snellissime, alte circa 12 volte il diametro di base, che avvolgevano il nucleo della cella e penetravano nel contempo nel profondo pronao, richiamano, come sottolineano le stesse fonti antiche, le grandiose sale ipostile egizie, mentre la ricchezza nelle forme decorative che caratterizza l'ordine ionico è fortemente debitrice, nei motivi e nei temi, all'architettura anatolica e del Vicino Oriente. Ma la ricerca di monumentalità dell'architettura ionicoasiatica non era limitata ai soli edifici templari: sempre a Samo, infatti, agli stessi architetti cui si attribuisce il terzo tempio di Hera si ascrive la costruzione di un grandioso altare dedicato alla dea le cui dimensioni, 36 × 16 m, e la cui ricchezza decorativa lo rendono uno dei monumenti più significativi dell'architettura ionica arcaica. La struttura è costituita da un alto muro disposto a Π, coronato da un kyma ionico e concluso alle estremità da due ante riccamente decorate, all'interno del quale, protetta dall'altezza di questo e accessibile da ovest da una bassa crepidine, era la tavola destinata ai sacrifici. Altri dipteri fecero seguito alla costruzione del terzo Heraion di Samo; tra questi, l'Artemision di Efeso, la cui costruzione, attribuita agli architetti cretesi Chersiphron e Metagenes, iniziò alla metà del VI sec. a.C., godette di particolare fama nell'antichità: il gigantismo dell'impianto, che superava i 115 m di lunghezza allo stilobate, la realizzazione interamente in marmo dell'elevato, la ricchezza della decorazione figurata fecero sì che venisse considerato una delle sette meraviglie del mondo antico. Contrariamente all'uso comune, ma secondo una consuetudine che caratterizzava gli Artemisia asiatici, il tempio era rivolto ad ovest, dove erano tre file di otto colonne ciascuna, rese più preziose dalla presenza di sculture a rilievo sui rocchi inferiori dei fusti scanalati. Come in tutti i grandi dipteri asiatici, la planimetria era impostata su una griglia ortogonale in modo che vi fosse una corrispondenza tra gli assi delle colonne della peristasi e quelli dei muri longitudinali e trasversali della cella, nonostante gli interassi delle colonne della peristasi non fossero costanti, in particolare sulla fronte dove erano di ampiezza decrescente a partire dal centro verso gli angoli. Il nucleo interno era costituito da un profondo pronao, diviso in tre navate da due file di quattro colonne ioniche sollevate su di un alto plinto scolpito con motivi figurati, da una grande cella ipetra e da un adyton posto sul fondo. L'ordine vedeva fusti snellissimi su basi riccamente decorate; i capitelli, caratterizzati da un pulvino allungato, secondo l'uso arcaico, sulla fronte del tempio erano arricchiti da grandi rosette al posto delle volute; la trabeazione, di tipo asiatico, era relativamente sottile e si componeva probabilmente di un architrave, diviso in fasce e coronato da una modanatura ionica, sormontato da una sottocornice a dentelli e da un gocciolatoio; il tetto in marmo, di tipo ibrido, era concluso da un'alta sima, decorata da un fregio figurato continuo e scandita da pluviali a protome leonina. Gli sviluppi dell'architettura ionica asiatica in età tardoarcaica attestano una certa continuità nella costruzione dei grandi templi dipteri; in particolare, la ricostruzione in età di Policrate dell'Heraion di Samo, crollato per un dissesto delle fondazioni orientali, costituisce un evento di grande rilievo: le particolari manifestazioni dello ionico samio, riconoscibili soprattutto nel capitello, saranno infatti destinate ad un'ampia diffusione attestata dalla costruzione a Siracusa, ad opera di un'officina samia, del tempio ionico sotto Palazzo Vermexio, edificio assai vicino alla produzione tardoarcaica dell'importante polis asiatica. Un'interessante manifestazione dell'architettura cicladica alla fine del terzo quarto del VI sec. a.C. è costituita dal thesauròs dei Sifni a Delfi. La tipologia dei thesauròi è caratteristica dei grandi santuari panellenici, ma appare anche in santuari minori; si tratta di edifici generalmente distili in antis o prostili tetrastili, dediche di città greche al santuario, la cui architettura rifletteva i modelli della polis di appartenenza piuttosto che quelli dell'area in cui venivano costruiti. L'architettura del piccolo edificio è sorprendentemente ricca: interamente realizzato in marmo insulare, arricchito da raffinati rilievi nel fregio e nei frontoni, il thesauròs presenta un prospetto distilo in antis, con cariatidi su plinti al posto delle colonne, a sorreggere una trabeazione cicladica composta da un architrave, coronato da un kyma ionico e decorato con rosette a rilievo, sormontato dal fregio figurato e da un gocciolatoio, mentre il tetto è bordato da una sima scolpita con motivi vegetali. I successivi sviluppi dell'architettura templare nell'area cicladica vedono l'abbandono dell'ordine ionico a favore di un dorico con caratteri propri, testimoniato da edifici come i templi di Aliki a Taso, di Koressia e di Apollo a Karthaia, nell'isola di Ceo, o di Hera a Delo. Con la fine del VI sec. a.C. le poleis della Grecia insulare e asiatica entrarono in una grave crisi: l'esito sfortunato della rivolta ionica e l'espansione persiana nell'Egeo comportarono infatti una brusca interruzione della produzione architettonica. L'esito finale delle guerre persiane, la nascita della Confederazione di Delo e la conseguente egemonia ateniese determinarono invece, soprattutto all'indomani della pace di Callia, nel 449 a.C., un incremento significativo nell'attività edilizia in Attica che culminò nel progetto di ristrutturazione complessiva dell'Acropoli, distrutta dai Persiani. L'impegno economico dell'impresa, senza precedenti nel mondo greco, determinò l'afflusso ad Atene di maestranze provenienti da tutti i centri della Confederazione, per la gran parte di cultura ionica. Gli apporti ionici si vennero così ad inserire su di una tradizione cicladica già presente ad Atene: ne derivò lo sviluppo di un'architettura ionico-attica che si può configurare come l'erede più diretta della tradizione ionico-cicladica. Tra i numerosi edifici riconducibili a questa produzione vanno annoverati il tempio di Atena Nike e l'Eretteo sull'Acropoli, la cui costruzione fece seguito a quella del Partenone, l'edificio simbolo dell'Atene periclea. Il tempio di Atena Parthenos, che non era sede di un culto proprio e non aveva né altare né sacerdoti, non può in alcun modo essere considerato un edificio canonico. Unico ottastilo dorico tra i templi della Grecia continentale, prendeva il posto di più antichi edifici ed andava ad affiancare il tempio di Atena Poliàs, o meglio ciò che del tempio pisistratico, sede del più importante culto poliade, era sopravvissuto alle distruzioni persiane. La sua costruzione, durata dal 447 al 438 a.C., salvo per i frontoni, completati nel 432, risponde ad un programma politico di cui erano parte integrante la grandiosità dell'edificio e i temi stessi dei cicli scultorei, espressioni del nuovo ruolo politico-militare di Atene. Alla direzione del progetto vi era Fidia, alla cui officina era affidata anche l'esecuzione dei cicli scultorei, coadiuvato da Ictino e Callicrate. Il tempio periptero, interamente di marmo pentelico, presenta 8× 17 colonne, mentre il nucleo interno tetrapartito è composto da un pronao e un opistodomos prostili esastili, una cella orientale, che ospitava la statua di culto crisoelefantina al centro di un colonnato su due ordini disposto a Π, e una cella occidentale, con 4 colonne ioniche interne, aperta verso l'opistodomo e con funzione di thesauròs. L'ordine dorico esterno ha colonne relativamente snelle e sorregge una trabeazione il cui fregio dorico è arricchito da metope con scene di Amazzonomachia, Centauromachia, Gigantomachia, oltre ad episodi della guerra di Troia; i frontoni est ed ovest riproducono la nascita di Atena e la disfida tra la dea e Poseidone, mentre il tetto, coronato da grandi acroteri vegetali, si presenta sui lati lunghi scandito da palmette. A coronamento della fronte del pronao e dell'opistodomo e lungo il muro esterno della cella, al di sopra di un architrave dorico, corre un fregio ionico con la rappresentazione della processione delle Grandi Panatenee, mentre forse un altro fregio continuo decorava al suo interno lo stesso pronao. Due finestre si aprivano ai lati del grande portale che dal pronao dava accesso alla cella, contribuendo a migliorare l'illuminazione del vano in cui era ospitato il simulacro della dea. Nel tempio furono applicate tutte quelle sottili alterazioni dell'esatta geometria della costruzione che vanno sotto il nome di correzioni ottiche, accentuando in questo la complessità del progetto e i già alti costi dell'esecuzione. Sotto l'aspetto tipologico il Partenone è certamente un tempio anomalo, non solo per il numero delle colonne, ma anche per le soluzioni prostile di pronao ed opistodomo e l'ampiezza inusitata della cella. Infatti, la soluzione ottastila non è qui combinata con la tipologia diptera o pseudodiptera, ma con quella periptera e, sotto questo aspetto, si tratta dunque certamente di un unicum. Diversamente, le forme dell'elevato rispecchiano le problematiche che agitano il dorico attico del V secolo, cui non sono peraltro estranee le commistioni con elementi ionici che costituiscono un filo conduttore dell'architettura ateniese: in questo, l'architettura del Partenone sarà destinata a lasciare un segno importante negli sviluppi successivi. L'Eretteo, la cui costruzione inizia durante la pace di Nicia e si protrae non senza interruzioni fino al 406/5 a.C., è invece l'ultimo dei templi realizzati sull'Acropoli. La complessità del progetto risponde alla molteplicità dei culti uranii e ctonii cui il tempio era dedicato, primo tra tutti quello di Atena Poliàs, ma anche Poseidone, Efesto, Eretteo e Bute, oltre a Zeus Hypatos, Zeus Herkeios, Hermes, Thyechoos, Pandrosos e Kekrops. L'edificio, destinato a sostituire il tempio pisistratico di Atena parzialmente distrutto, era situato infatti su di un luogo cruciale, legato per più aspetti ai miti originari della polis. L'impianto prevedeva un corpo principale orientato est-ovest e due portici addossati rispettivamente alle estremità occidentali dei lati settentrionale, il portico nord, e meridionale, la loggia delle Cariatidi. La situazione era complicata dall'altimetria del sito che faceva sì che i prospetti ovest e nord si situassero 3 m più in basso di quelli est e sud. Il corpo principale era diviso trasversalmente in due parti: una orientale, costituita da un pronao prostilo esastilo e dalla cella dedicata ad Atena, ed una occidentale con un portico tetrastilo in antis, sollevato su di un alto podio, sul quale si aprivano due celle quadrangolari; l'accesso agli ambienti occidentali avveniva dal portico nord, caratterizzato da una struttura prostila tetrastila che introduceva anche all'area subito ad ovest, il Pandrosion. L'elevato risponde agli sviluppi dello ionico attico, sia pure nelle forme sovradecorate dello stile ricco; in particolare, l'ordine dei portici est, ovest e nord mostra la caratteristica tripartizione della trabeazione in architrave, fregio e cornice, sia pure arricchita dalla dicromia dei materiali del fregio, con le figure in marmo pario sovrapposte al fondo di pietra nera di Eleusi, un trattamento sino a quel momento limitato alla decorazione di interni. Fa invece eccezione la loggia delle Cariatidi che, al di sopra delle figure femminili stanti, di tradizione cicladica, vede la presenza di una trabeazione ionica bipartita, con la sottocornice a dentelli inserita, al posto del fregio, tra architrave e gocciolatoio. La conclusione della guerra del Peloponneso interruppe bruscamente la grande stagione ateniese e il ruolo egemone nel settore passò ai principali centri del Peloponneso e della Grecia centrale. Alla fine del V sec. a.C. anche le colonie occidentali entrarono in una fase di profonda crisi: la distruzione di Selinunte nel 409 a.C., di Agrigento nel 406 a.C. e ancora di Gela e Camarina da parte dei Cartaginesi e il successivo trattato tra questi e Siracusa che sancì lo stato di fatto determinarono una sostanziale stagnazione dell'edilizia monumentale nell'isola per gran parte del IV sec. a.C. Non migliore era la situazione in Magna Grecia, dove l'aggressività delle popolazioni italiche determinò una lunga fase di conflittualità cui si deve la paralisi di ogni attività edilizia di rilievo. L'architettura del tardoclassicismo ha dunque nel Peloponneso una delle aree di maggiore sviluppo, ma anche in Asia Minore, in particolare dopo la pace di Antalcida, si assiste ad una significativa ripresa dell'attività edilizia. La produzione di queste due aree testimonia inoltre di influenze reciproche, dovute ad una notevole mobilità delle maestranze impegnate nei principali cantieri; il fenomeno è rilevante anche in considerazione della profonda diversità tra le rispettive forme architettoniche ed è determinante per le profonde trasformazioni dell'età ellenistica. L'architettura peloponnesiaca di età tardoclassica è il prodotto dell'evoluzione della consolidata tradizione locale cui si integrano influenze attiche prevalentemente riconducibili alle forme prepericlee. Un importante precursore deve essere riconosciuto nel tempio di Apollo a Bassae, per più aspetti oggetto di opinioni contrastanti. L'edificio, un periptero dorico di 6 × 15 colonne, attribuito, non unanimemente, ad Ictino, fu realizzato in due fasi, l'ultima delle quali deve essere probabilmente posta negli ultimi anni del V sec. a.C.; a questa fase sono riconducibili la sistemazione interna della cella e l'elevato del pronao e dell'opistodomo. Il naòs, stretto e allungato, è scandito per due terzi della lunghezza da setti conclusi da semicolonne ioniche raccordate da una colonna corinzia posta in asse a racchiudere su tre lati lo spazio della cella e a separare uno spazio retrostante, l'adyton accessibile anche da una porta aperta nel muro est. Il colonnato interno, salvo per una colonna corinzia posta in asse, presentava semicolonne ioniche e forse corinzie addossate a setti murari. I sostegni ionici e corinzi partecipavano di uno stesso ordine architettonico dai tratti cicladici o protoattici, la cui trabeazione, arricchita da un fregio con scene di Amazzonomachia, era completa di gocciolatoio, nonostante fosse collocata in un interno. I capitelli di entrambe le tipologie erano fortemente innovativi e destinati ad una notevole diffusione in ambiente peloponnesiaco; in particolare, sia il capitello ionico a quattro facce sia l'esemplare protocorinzio fanno qui la loro prima apparizione in un contesto architettonico, essendone precedentemente documentati, sempre in ambito peloponnesiaco, solo sporadici materiali votivi. L'importanza del tempio è notevole: l'elaborazione di un ordine ionico peloponnesiaco, l'introduzione del capitello corinzio e l'attenzione all'interno appaiono determinanti per i successivi sviluppi. Ma l'impianto d'insieme con il tentativo di ampliare la cella eliminando le navate laterali, pur mantenendo un forte risalto delle colonne rispetto al muro, non riveste quel grado di novità che alcuni gli attribuiscono. Si tratta infatti di un carattere di antica tradizione peloponnesiaca, attestato non solo nell'Heraion di Olimpia, ma anche nel precursore arcaico del tempio di Bassae del quale il nuovo edificio ripete fedelmente la pianta. L'esempio di Bassae sarà destinato ad una grande fortuna: le successive costruzioni nel Peloponneso e nella Grecia centrale dimostrano altrettanto interesse per gli spazi interni, che diventano sempre più ampi e ricchi, per i quali si generalizza il ricorso all'ordine ionico, spesso reso più ricco dall'inserimento di capitelli corinzi. Un'interessante testimonianza di questi sviluppi è costituita dalla Tholos di Delfi, nel santuario della Marmarià, costruita alla fine del primo quarto del IV sec. a.C. L'edificio, nel quale si potrebbe forse identificare una "oploteca", ovvero il luogo destinato ad accogliere la panoplia di Atena, è costituito da un anello di venti colonne doriche a racchiudere una cella arricchita internamente da un giro di colonne corinzie addossate al muro di fondo e sollevate su di un podio. Non meno significativi per la comprensione dell'evoluzione della tipologia templare nel IV sec. a.C. sono i templi dorici di Atena Alea a Tegea, attribuito a Scopas di Paro, e di Zeus a Nemea, datati rispettivamente alla metà e al terzo quarto del secolo; entrambi presentano celle ampie, con semicolonne il primo e colonne molto ravvicinate alle pareti il secondo, la cui disposizione a Π consente l'inserimento di un adyton molto simile a quello di Bassae; le colonne doriche in entrambi gli edifici, alte più di sei volte il diametro di base del fusto, appaiono assai snelle, confermando una linea di tendenza che a partire dall'età arcaica ha visto un costante processo di snellimento dei fusti e assottigliamento delle trabeazioni; i capitelli interni, corinzi, sono molto prossimi tra loro, ma si distinguono da quelli di Bassae e Delfi, e a Nemea sorreggono un ordine superiore ionico, forse presente anche a Tegea. La peristasi esterna era di 6 × 14 colonne a Tegea e 6 × 12 a Nemea, il cui nucleo interno era anche privo di opistodomo; ma le proporzioni allungate di Tegea sono anomale per l'età tardoclassica, che vede piuttosto affermarsi peripteri di 6 × 12 o anche 6 × 11 colonne, come nei templi di Asclepio ad Epidauro, Meter ad Olimpia o Zeus a Stratos di Acarnania, mentre parallelamente si diffondono le tipologie prostile, attestate dai templi di Atena Pronaia a Delfi, Artemide e Afrodite ad Epidauro. Una notevole importanza riveste per i successivi sviluppi la Tholos di Epidauro, la cui costruzione, protrattasi a lungo, ha inizio nel 360 a.C. L'edificio, la cui destinazione d'uso non è certa, anche se potrebbe trattarsi di un heroon di Asclepio, presenta una peristasi di 26 colonne doriche, molto snelle, intorno ad una cella circolare al cui interno erano 14 colonne corinzie separate dalla parete a creare un ambulacro anulare. L'interno della cella era interamente in marmo bianco con elementi a contrasto di pietra nera; la decorazione scolpita era ricchissima, sia nell'articolazione della parete sia nei cassettoni del soffitto degli ambulacri interno ed esterno. Il capitello interno costituisce uno stadio evidentemente avanzato, sia rispetto alla tipologia di Bassae sia a quella di Tegea, dei quali riprende molti tratti, e si configura assai presto come un modello di riferimento; altrettanto interessante appare la trabeazione, di tipo ionico attico, il cui fregio si presenta sagomato con un profilo a gola diritta. La particolarità e la ricchezza dell'edificio gli conferiranno ad ogni modo una fama la cui conferma indiretta è riscontrabile nella rapida diffusione, anche in aree molto lontane del mondo greco, di alcuni degli elementi più innovativi della sua architettura. L'architettura asiatica di età tardoclassica ha nel tempio di Atena Poliàs a Priene, realizzato da Pytheos, un esempio di rilievo. L'edificio, un periptero ionico di 6 × 11 colonne, datato alla metà del IV sec. a.C., presenta un nucleo interno tripartito, con un profondo pronao, una cella senza colonne e, per la prima volta in Asia Minore, un opistodomo. L'impianto planimetrico, impostato su di una griglia ortogonale che identifica l'asse dei muri e delle colonne, e le forme dell'ordine ionico della peristasi riflettono un'evidente continuità con la tradizione ionico-asiatica. In particolare, la composizione della trabeazione, priva di fregio ma con la caratteristica sottocornice a dentelli, attesta la persistenza della tradizione locale, anche se non sono assenti influenze attiche e peloponnesiache nella forma dei capitelli e in più di un dettaglio della decorazione. La nascita dell'impero macedone nella seconda metà del IV sec. a.C. e, alla morte di Alessandro, la successiva frantumazione di questo con la formazione dei regni ellenistici provocano profonde trasformazioni sociali nel mondo greco. La civiltà ellenica, che trovava il suo fondamento nell'individualità delle singole poleis, lascia il posto all'età ellenistica con la sua visione cosmopolita. Gli interscambi tra le diverse aree del mondo greco, che pure avevano caratterizzato l'architettura del IV sec. a.C., subiscono una forte accelerazione e le manifestazioni di evergetismo dei sovrani ellenistici nelle poleis e nei santuari più prestigiosi contribuiscono in maniera significativa al superamento delle diversificazioni linguistiche che erano alla base della produzione architettonica arcaica e classica. L'architettura dorica e quella ionica non sono più i linguaggi specifici di aree geografico- culturali autonome, ma, rese compatibili da una progressiva attenuazione delle relative specificità, si vanno assimilando al punto da favorire una diffusione indifferenziata dei due ordini. Il richiamo alla tradizione rimase più forte laddove la fama del sito richiedeva una continuità con il passato: è il caso della ricostruzione dei grandi santuari come l'Artemision di Efeso, iniziata già in età tardoclassica, o l'Apollonion di Didyma. La ricostruzione di quest'ultimo, iniziata prima del 300 a.C., quando Seleuco I vi riportò la statua di culto arcaica trafugata dai Persiani ad Ecbatana duecento anni prima, volle replicare nell'impianto, seppure in forma più monumentale, l'antico diptero arcaico, ma la grandiosità dell'impresa fece sì che i lavori si protraessero sino al II sec. d.C., senza peraltro giungere mai a conclusione. Il tempio fu concepito come un diptero decastilo, lungo 110 m, interamente di marmo. Il nucleo interno risentiva nella sua composizione delle specifiche esigenze del culto oracolare per cui, oltre il profondo pronao, pentapartito da quattro file di colonne ioniche, e prima della grande cella ipetra, fu inserito un vano intermedio, il chresmographeion, destinato alla trascrizione dei responsi. Il vano aveva al suo interno due colonne corinzie, direttamente ispirate a quelle di Epidauro, e si raccordava attraverso una grande scalinata al livello della cella scoperta, più bassa, all'interno della quale era il naiskos, un prostilo tetrastilo ionico, che ospitava la statua di culto. Interessanti i caratteri architettonici del piccolo tempio interno, con la presenza nella trabeazione sia del fregio che della sottocornice a dentelli; la compresenza dei due elementi, il primo dei quali profilato a gola diritta, anche in questo caso per diretta suggestione da Epidauro, è documentata nel Peloponneso pochi decenni prima e, nel caso di Dydima, è la prima apparizione del tipo in Asia Minore. Tale particolare variante dell'ordine ionico è comunque destinata a generalizzarsi, venendo a costituire la tipologia ionico-ellenistica. Un edificio che per la sua risonanza contribuì a renderla canonica è il tempio di Artemide a Magnesia al Meandro, opera di Hermogenes datata agli ultimi anni del III sec. a.C.; si tratta di uno pseudodiptero ionico ottastilo, con nucleo interno composto da un pronao profondo e tripartito, come la cella, da due file di colonne interne, e da un opistodomo distilo in antis. L'ordine si caratterizza per la compresenza di fregio e sottocornice a dentelli, mentre il frontone, secondo l'uso asiatico, è privo di gruppi scultorei e presenta tre aperture nel timpano. Nell'insieme, il tempio conferma una continuità, anche in età ellenistica avanzata, con la tradizione ionica asiatica cui deve essere riferito l'impianto planimetrico generale, con la griglia ortogonale di base e l'interasse ampliato sull'asse mediano; non mancano però nell'ordine elementi innovativi, destinati a farne un modello di riferimento per la successiva produzione templare asiatica sino all'età imperiale avanzata. Uno degli effetti collaterali delle trasformazioni culturali dell'età ellenistica fu il diffondersi dei diversi linguaggi architettonici in aree estranee a quelle di origine. Se l'ordine ionico aveva fatto la sua apparizione nel Peloponneso già dal IV secolo, a partire dal III si rileva una grande diffusione dell'architettura dorica in Asia Minore. Contrariamente a quanto tramandato da Vitruvio, infatti, questa età vede una particolare fortuna del dorico, ampiamente rappresentato non solo nell'architettura templare di Pergamo e dei centri sotto il controllo attalide, come Troia, Aigai e Mamurt Kale, ma anche nelle Sporadi meridionali, dove il suo uso a partire dalla fine del III sec. a.C. è generalizzato, e in importanti santuari della Ionia, come l'Apollonion di Claros. I tratti di questo dorico ellenistico risentono necessariamente delle specificità locali, ma alcuni caratteri, come lo snellimento delle colonne, il forte assottigliamento delle trabeazioni o una certa schematizzazione dei dettagli dell'ordine, sono ampiamente diffusi e così la tipologia prostila che gode in questa fase di particolare fortuna. Non mancano commistioni tra gli ordini, che non si limitano alla compresenza negli edifici di ordini diversi all'esterno e all'interno, ma coinvolgono l'articolazione stessa dell'ordine. Utile alla conoscenza delle soluzioni architettoniche destinate ai culti misterici è il santuario di Despoina a Lykosoura, in Arcadia. All'interno dello hieròn, delimitato da un muro di peribolos, era un tempio, un prostilo esastilo dorico, datato al II sec. a.C., orientato come di consueto ad est, davanti al quale trovavano immediatamente posto gli altari di Demetra, Despoina e della Magna Mater; all'interno della cella, un ampio basamento sosteneva le statue di culto realizzate da Damophon, mentre una porta che si apriva nel muro sud permetteva di uscire su una piccola area, racchiusa tra la collina retrostante e il tempio stesso, occupata da una gradinata rettilinea. È credibile che in quest'area teatrale, nascosta agli sguardi indiscreti, dovessero svolgersi rappresentazioni sacre e forse la celebrazione dei misteri della dea. Ma nuovi dei si andarono ad aggiungere al Pantheon tradizionale, con forme di sincretismo determinate dall'assimilazione ai culti greci di quelli delle diverse provincie ellenizzate. Tra le operazioni più fortunate va annoverata l'introduzione del culto di Serapis che dalla fusione dell'Osiris-Apis egizio allo Zeus-Hades greco, ereditava aspetti uranii e ctonii. Il principale santuario sorse ad Alessandria per opera di Tolemeo III, ma di esso si è preservato assai poco; una maggiore documentazione si conserva invece per numerosi altri Serapeia, che attestano della grande diffusione del culto, spesso affiancato a quello di Isis. Tra questi, il santuario dedicato alle divinità egiziane a Delo può rendere un'idea della loro complessa articolazione interna. L'edificio si articolava su due corti: quella meridionale, accessibile da un propileo a sud e internamente porticata, era di forma trapezoidale allungata; un dromos egizio al centro del cortile, bordato da altari e piccole sfingi, conduceva verso sud ad un oikos, mentre dall'estremità nord della stessa corte si accedeva al secondo piazzale. Questo, porticato sui lati sud e ovest e con altari nel centro, presentava a nord un tempio prostilo tetrastilo dedicato a Serapis e ad est due tempietti dorici distili in antis attribuiti ad Isis e alla triade Serapis, Isis, Anubis. Le corti, recintate da alti muri, consentivano lo svolgimento delle cerimonie in forma riservata, compatibilmente con le esigenze misteriche del culto. A tali innovazioni religiose si affiancò presto, su suggestione di un costume diffuso nel mondo orientale e a seguito di quanto era avvenuto per Alessandro Magno, il culto dei sovrani divinizzati. Sorsero quindi, soprattutto laddove maggiore era l'influenza, in termini di potere e di evergetismo, dei sovrani ellenistici, edifici dedicati al culto degli Attalidi, dei Seleucidi o dei Lagidi. Spesso si trattava di templi tradizionali, che trovavano posto in santuari, agorài o in altre aree pubbliche, come il prostilo tetrastilo dedicato al culto degli Attalidi nell'agorà di Coo, o il periptero esastilo dorico di Hermopolis dedicato a Tolemeo III e Berenice, o ancora il monoptero di Afrodite-Arsinoe a Zephyrion presso Alessandria. A questi edifici si possono assimilare anche gli heroa, che, documentati sin dall'età arcaica, costituivano il luogo di sepoltura e di culto degli eroi; come attesta il Pelopion di Olimpia, l'heroon era sostanzialmente uno hieròn, provvisto di altare e di peribolos, ma non necessariamente di un edificio. In età ellenistica l'heroon si configura più propriamente come una struttura architettonica e diviene spesso il luogo di culto del sovrano eroizzato-divinizzato, presso il quale a volte era la sepoltura, come nel caso dello Ptolemaion di Alessandria, vero e proprio tempio funerario. Un heroon era dedicato a Pergamo al culto dei sovrani divinizzati e tale può forse essere considerato il Philippeion di Olimpia, che accoglieva le immagini di Filippo II di Macedonia e della sua famiglia. Una notevole rilevanza architettonica rivestono in età ellenistica numerosi altari, tra i quali si deve ricordare il grande altare di Zeus a Pergamo. Il monumento, che misurava oltre 36 × 34 m, fu eretto da Eumene II e presentava un nucleo costituito da un muro a Π su una crepidine di quattro gradini; un colonnato ionico, sollevato su di un alto podio scolpito, avvolgeva esternamente la struttura e risvoltava lungo parte delle pareti laterali interne chiudendo trasversalmente il prospetto e delimitando un'area di rispetto interna destinata ad accogliere la tavola dei sacrifici e al tempo stesso determinando una rientranza sul prospetto per la gradinata di accesso. Lo spazio interno era a sua volta racchiuso da colonne ioniche binate, sollevate su plinti, le quali creavano sul prospetto principale un doppio diaframma. Monumento politico prima ancora che religioso, l'altare di Pergamo combina l'imponenza architettonica con la grandiosità dei cicli scultorei: la Gigantomachia del podio esterno rappresenta uno dei maggiori monumenti scultorei dell'antichità ed è al tempo stesso una metafora dell'epica vittoria sui Galati, massima gloria della dinastia, la cui discendenza da Eracle è invece raccontata nel fregio di Telefo, sulle pareti interne dell'altare stesso; all'esterno, i portici ospitavano statue di dimensioni maggiori del vero e numerose figure acroteriali decoravano il tetto piano. L'altare di Zeus non è un esempio isolato: i precedenti vanno riconosciuti negli altari di Artemide a Magnesia al Meandro e Atena a Priene, mentre la risonanza del monumento pergameno si rintraccia facilmente nell'altare dell'Asklepieion di Coo. Anche in Occidente, in età ellenistica, non mancarono altari monumentali e, tra questi, l'ara di Ierone II a Siracusa, della metà del II sec. a.C., costituisce un esempio particolarmente monumentale. La struttura si compone di un alto podio, largo 22,6 m e lungo circa 1 stadio (198,4 m), coronato da una trabeazione dorica; alle due estremità del podio, due scalette, fiancheggiate da telamoni, conducono alla tavola dei sacrifici, lunga quanto l'intero basamento. Lo spazio antistante fu completato in età augustea con la realizzazione di un piazzale racchiuso da un portico su tre lati, interrotto al centro da un propileo di accesso. Attraverso le poleis greche siceliote ed italiote, le forme dell'architettura ellenistica raggiungono presto l'Italia centrale, condizionando l'architettura templare etrusca e, più in generale, dei centri italici. Tra la fine del IV e il III sec. a.C., vengono introdotti muri di pietra e colonne più slanciate, di tipo greco, ma le planimetrie etrusco-italiche continuarono a conservare caratteristiche proprie molto marcate, anche se la diffusione della tipologia del periptero sine postico potrebbe rispecchiare l'accresciuta suggestione esercitata dai peripteri greci. Influenze greche si riconoscono, nello stesso periodo, nell'abbandono dei frontoni aperti di tradizione etrusca e nell'introduzione di timpani arricchiti da gruppi scultorei. Al tipo del periptero sine postico si attenne la ricostruzione di età sillana del tempio di Giove Capitolino a Roma; l'edificio, sollevato su di un alto podio, presentava una cella tripartita e un profondo pronao esastilo arricchito da tre file di colonne provenienti dall'Olympieion di Atene, ma più probabilmente doricizzanti secondo l'uso etrusco-italico e realizzate per l'occasione, visto il conservatorismo che impronta l'intervento. In altri interventi più innovativi, come nel tempio nord del Foro Olitorio, la tipologia del periptero sine postico si presenta con proporzioni più allungate e con una redistribuzione dello spazio che vede una profondità del pronao di soli due interassi contro i sei della cella; inoltre, la distanza tra le colonne ioniche, fortemente contratta, consente l'adozione di trabeazioni in pietra, trasformando così l'elevato che assume ora un aspetto marcatamente ellenizzato. A partire dalla metà del II sec. a.C., d'altronde, la politica di espansione romana in Oriente accelerò il processo di ellenizzazione. Il ruolo svolto dai generali vincitori nella monumentalizzazione di una capitale ritenuta troppo provinciale rispetto alle città orientali fu certamente determinante, mentre la competizione politica alimentava l'evergetismo degli imperatori. Sempre più frequente fu il ricorso a maestranze greche e all'uso del marmo: esemplare in questo senso il tempio di Iuppiter Stator nella Porticus Metelli, a Roma, che, tra il 146 e il 143 a.C., Q. Metello Macedonico fece realizzare da Hermodoros di Salamina nella forma di un periptero esastilo ionico. Non meno significative sono le dediche dei negotiatores, i ricchi mercanti impegnati nei traffici con l'Oriente, cui pure spetta un ruolo significativo nell'ellenizzazione della società romana. Un interessante documento in questo senso è costituito, sempre a Roma, dal tempio rotondo del Foro Boario, fatto costruire da M. Octavius Herrenus, nell'ultimo quarto del II sec. a.C., nelle forme di una tholos greca interamente di marmo pentelico; con una peristasi di 20 colonne corinzie sollevate su di una crepidine di 3 gradini, piuttosto che su di un podio, l'edificio dimostra anche nei dettagli dell'ordine l'aderenza a modelli greci. Al di là degli edifici propriamente greco-ellenistici, ad ogni modo, l'architettura templare a Roma alla fine del II sec. a.C. pur propendendo per la conservazione degli impianti planimetrici di tradizione etrusco-italica, evidenzia l'adozione ormai generalizzata degli ordini architettonici greco- ellenistici e, per i materiali da costruzione, il sempre più frequente ricorso al travertino. Si prediligono comunque gli edifici su podio e una marcata frontalità degli impianti, caratteri però non del tutto estranei ad una buona parte della cultura architettonica dell'Oriente ellenistico. Una notevole importanza nell'architettura religiosa tardorepubblicana dell'Italia centrale rivestono i grandi santuari laziali di Giunone a Gabi, della Fortuna Primigenia a Preneste, di Giove Anxur a Terracina, di Ercole Vincitore a Tivoli. I tratti principali di questi complessi di notevole monumentalità sono la disposizione su terrazze, l'assialità degli impianti e la loro articolazione in grandi piazzali porticati, l'integrazione del tempio e dell'edificio teatrale in un impianto organico. Particolarmente grandioso è il santuario oracolare di Preneste, costruito nella seconda metà del II sec. a.C. Due scalinate, inserite in un muro poligonale di terrazzamento, conducono alla prima terrazza, sulla quale trovano posto due fontane porticate e dalla quale si dipartono due rampe oblique, convergenti verso il centro, che portano alla seconda terrazza, detta "degli Emicicli", costituita da un prospetto porticato, sormontato da un attico, nel quale si aprono due esedre semicircolari. Il portico di ordine dorico diviene ionico in corrispondenza delle esedre colonnate, delle quali quella orientale identifica il sito dell'oracolo, attestato dalla presenza del pozzo delle sortes, monumentalizzato nelle forme di un monoptero dorico-corinzio. Il portico della Terrazza degli Emicicli è interrotto al centro da un'ampia gradinata che conduce alla superiore Terrazza dei Fornici a semicolonne, caratterizzata da un prospetto ad arcate inquadrate da semicolonne corinzie, dal quale, attraverso un'altra scalinata, si raggiunge la Terrazza delle Cortine, un ampio piazzale quadrangolare bordato su tre lati da un portico corinzio a due navate. Sull'asse mediano un'ultima rampa conduce all'orchestra di una piccola struttura teatrale coronata da un portico anulare a due navate al di là del quale il tempio, una rotonda coperta a cupola, conclude l'intero complesso. L'interesse della costruzione è accresciuto dall'esteso uso dell'opus caementicium con cui sono anche realizzate le volte a botte cassettonate dei portici. L'uso generalizzato degli ordini architettonici, sia pure nelle forme peculiari dell'Ellenismo italico, peraltro fortemente indebitato con modelli di importazione orientale, conferisce all'insieme un'immagine fortemente ellenizzata, anche se qui si registra una delle prime apparizioni del tema dell'arco inquadrato dall'ordine. Anche nel ricorso alla scenografica struttura terrazzata con impianto assiale sono d'obbligo i richiami alle soluzioni già sperimentate nei santuari ellenistici delle Sporadi meridionali, quali quelli di Atena sulle acropoli di Lindo, di Camiro e della stessa Rodi o quello di Asclepio a Coo, centri i cui rapporti con il mondo italico sono in questa età assai ben documentati. L'evoluzione dell'architettura templare nel I sec. a.C. è in gran parte riconducibile agli estesi interventi che hanno caratterizzato gli ultimi decenni della repubblica e la prima età imperiale. È in particolare con l'età augustea che sorge la necessità di un'immagine rinnovata e al tempo stesso idonea a rappresentare il ruolo centrale che il principato assegna ai culti poliadi tradizionali da un lato e ai culti dinastici dall'altro. Tra conservazione e innovazione, le forme dell'architettura templare augustea si concretizzano nell'elaborazione di un modello che, per quanto concerne l'impianto planimetrico, predilige le tipologie del periptero sine postico e dello pseudoperiptero, mentre sporadico appare il ricorso alla tipologia periptera. A Roma, il tempio di Venere Genitrice nel Foro di Cesare, dedicato nel 46 a.C. da Cesare, e il tempio di Marte Ultore nel Foro di Augusto, dedicato da Ottaviano nel 2 a.C., costituiscono gli esempi più significativi di una tipologia tardorepubblicana e protoimperiale a cavallo tra tradizione etruscoitalica ed ellenizzazione. Entrambi i templi aderiscono alla tipologia del periptero sine postico, con un pronao molto profondo (corrisponde infatti a tre degli otto interassi dei lati lunghi), e una cella modificata dall'introduzione di un'abside nel muro di fondo e di colonnati interni disposti su due ordini sovrapposti; la peristasi presenta otto colonne sulla fronte e altrettante sui lati lunghi, molto ravvicinate tra loro, con un ritmo picnostilo che si pone agli antipodi della disposizione areostila di tradizione etrusco-italica. Entrambi i templi sono sollevati su alti podi, accessibile direttamente dalla fronte quello di Marte Ultore, e con un sistema misto di scalinate laterali e scalinata assiale quello di Venere Genitrice. L'ordine architettonico dei due edifici è uno ionico arricchito dalla presenza di capitelli corinzi, oltre che dall'inserimento di un elemento modiglionato tra la sottocornice a dentelli e il gocciolatoio: una configurazione destinata a divenire la soluzione canonica per l'architettura templare in età imperiale. La tipologia del periptero sine postico è documentata anche in altri interventi di età augustea, come nella ricostruzione del tempio di Iuppiter Stator, o del tempio di Augusto e Livia a Vienne, nella Gallia Narbonense, ma anche la cella absidata sarà ripresa in numerosi edifici successivi. A questa tipologia se ne affiancano altre: frequenti sono gli edifici prostili, come il Tempio del Divo Cesare nel Foro Romano, più rari i peripteri, quale il Tempio dei Castori, sempre nel Foro; molto frequente è anche il ricorso alla tipologia pseudoperiptera, attestata in area greca sin dall'alto Ellenismo e diffusasi nel Lazio in maniera crescente a partire dagli ultimi anni del II sec. a.C., peraltro particolarmente idonea all'esportazione della nuova architettura augustea, come attestano la Maison Carrée a Nîmes e il Capitolium di Narbonne, entrambi nella Gallia Narbonense. Si tratta infatti di una soluzione adatta a consentire l'ampliamento dello spazio interno senza rinunciare alla monumentalità propria della soluzione periptera. Ciò era certo per i piccoli pseudoperipteri tetrastili repubblicani di Tivoli e del Foro Boario a Roma, ma lo è a maggior ragione per uno pseudoperiptero esastilo come il tempio di Apollo in Circo a Roma, con i suoi colonnati interni disposti su due ordini. La fortuna di questo tipo in età augustea, come conferma anche il tempio di Apollo Palatino, risponde forse anche alla possibilità di meglio combinare le esigenze della tradizione etrusco-italica con le più attuali forme ellenistiche, cui si aggiunge la relativa economicità della concezione: la notevole profondità del pronao e l'alto podio si combinano infatti in questi edifici con la ricchezza esteriore del periptero. L'elevato, con colonne dal ritmo picnostilo, capitelli corinzi, cornici modiglionate, non si discosta da quanto già descritto. La diffusione del capitello corinzio e della cornice modiglionata non deve però suggerire l'esistenza di un ordine corinzio romano, poiché in età augustea e nella successiva età imperiale cornici modiglionate sono documentate anche in templi ionici e capitelli corinzi sono presenti pure in assenza di modiglioni. Il linguaggio architettonico augusteo, soprattutto nelle sue manifestazioni ufficiali, è riconducibile alle forme ormai canoniche dello ionico greco-ellenistico, pure nell'esigenza di una maggiore ricchezza decorativa, terreno fertile per la diffusione del capitello corinzio. Il neoclassicismo dell'età imperiale a volte si vena di neoatticismo e ne fanno fede i richiami all'Atene periclea, come le cariatidi dell'interno del Pantheon di Agrippa o quelle poste sull'attico dei portici del Forum Augusti. Altrettanto significativo è il tramonto della decorazione estrema e fantasiosa propria dell'Ellenismo italico, così come delle violazioni più plateali della sintassi aggregativa degli ordini che pure avevano caratterizzato l'ultima architettura repubblicana. Se la politica edilizia augustea ad Atene si ammanta di neoclassicismo, come dimostrano la porta di Atena Archegetis, il propileo di accesso all'Agorà romana, il monoptero di Roma e Augusto sull'Acropoli, il tempio di Afrodite e il tempio di sudovest nell'Agorà greca, le consolidate tradizioni architettoniche della Ionia d'Asia, così come più in generale dell'Oriente greco rendono queste aree poco permeabili sia alla penetrazione dei modelli augustei sia alle successive influenze imperiali. In Caria, il tempio di Afrodite ad Afrodisiade, città molto legata ad Augusto, datato tra la seconda metà del I sec. a.C. e l'inizio del I sec. d.C., attesta infatti la persistenza di modelli ellenisticoasiatici, come emerge dall'adozione di una planimetria pseudodiptera di 8 × 13 colonne e di un ordine ionico canonico, con chiari richiami all'Artemision di Magnesia al Meandro. Un posto importante tra le realizzazioni dell'età augustea occupa certamente l'Ara Pacis Augustae, un altare riconducibile alla tipologia del recinto sacro di tradizione etrusca, dedicato nel Campo Marzio nel 9 a.C. Il monumento, la cui decorazione è certamente opera di maestranze neoattiche, è realizzato interamente in marmo ed è costituito da un altare racchiuso da un muro di delimitazione, sull'asse mediano del quale si aprono due porte, accessibili attraverso ampie gradinate. Il recinto, sollevato su podio, è scandito tanto all'esterno che all'interno da lesene corinzie ed è suddiviso in due registri caratterizzati, all'esterno, da rilievi figurati su di un fregio a girali di acanto, destinato ad affermarsi come un tema ricorrente della scultura architettonica augustea. Il tempio di Bel a Palmira rappresenta per altri versi la commistione tra Ellenismo greco e tradizioni mesopotamiche, non senza suggestioni propriamente romane. L'edificio, costruito in età tiberiana, è sollevato su di un'alta crepidine, di oltre 62 × 36 m, posta al centro di un ampio piazzale porticato. Si tratta di uno pseudodiptero di 8 × 15 colonne, ma l'impianto planimetrico è anomalo: l'accesso avviene infatti dal lato lungo occidentale, attraverso una monumentale scalinata che conduce ad un portale situato in corrispondenza dell'ottavo interasse della peristasi a partire da nord; da qui, attraverso un seconda scalinata, si accede all'interno della cella, alle estremità della quale sono due ambienti di dimensioni ridotte, i thalamoi, sollevati rispetto al livello della cella e monumentalizzati da complessi prospetti architettonici. L'ordine della peristasi esterna presenta capitelli corinzi, con decorazione vegetale interamente di bronzo, e una trabeazione modiglionata riccamente decorata, mentre due semicolonne ioniche racchiuse tra ante, sui lati brevi dell'edificio della cella, simulano la presenza di un pronao e di un opistodomo. Nonostante la presenza dei frontoni, la copertura del tempio è piana e da questa emerge il corpo parallelepipedo della cella, sottolineato agli angoli da quattro torrette. Un alto parapetto decorato con merli triangolari, di tradizione persiana, corre lungo i lati lunghi del tetto, lungo l'emergenza del nucleo della cella e sulle torrette. Nell'architettura religiosa della prima età imperiale assumono grande rilevanza i culti orientali, tra i quali un posto importante riveste quello di Isis e Serapis, la cui presenza è attestata in Italia dalla fine del II sec. a.C. Il tempio di Isis a Pompei, ricostruito a spese private dopo il terremoto del 62 d.C., pur essendo un edificio minore, rende conto abbastanza chiaramente delle particolarità del culto. Come nella Delo ellenistica, il tempio, di piccole dimensioni e sollevato su di un podio, è situato in un cortile porticato, è rivolto a est ed è costituito da una cella più larga che lunga, preceduta da un profondo pronao prostilo tetrastilo; la cella è accessibile, attraverso una scaletta esterna, anche dalla parete sud e presenta sul fondo un podio praticabile per le statue di culto. Addossate ai lati del tempio sono due edicole destinate ad accogliere le immagini di Anubis e Harpokrates, mentre in una piccola nicchia ricavata dall'esterno nella parete di fondo era una statua di Bacco. Nell'angolo sud-orientale del cortile è il purgatorium, una piccola costruzione ipetra dalla quale è possibile raggiungere un piccolo vano sotterraneo destinato alle abluzioni con l'acqua del Nilo; alle spalle del portico, nell'angolo nord-occidentale, si trova l'ekklesiasterion, il luogo di riunione degli iniziati. L'architettura ufficiale della seconda metà del I sec. d.C. è invece ben rappresentata dal Templum Divi Vespasiani nel Foro Romano, una dedica che testimonia della diffusione a Roma del culto ellenistico del sovrano, affermatosi già dall'età di Augusto. L'edificio, costruito nell'86/7, è inserito in uno spazio ristretto e questo ha certamente condizionato l'impianto planimetrico, che presenta interassi più stretti sui lati e la gradinata del podio inserita, in parte, tra le colonne della fronte. Per la presenza di lesene sui muri laterali, la tipologia può interpretarsi come pseudoperiptera esastila, con una profondità del pronao pari a un terzo dell'intero edificio; la cella, quadrata, presenta sul fondo un'edicola per la base della statua di culto, e, sui lati, colonnati liberi, sollevati su di un podio continuo, cui fanno da riscontro delle lesene sulle pareti interne; l'ordine esterno, in marmo lunense, vede colonne corinzie e trabeazione modiglionata. In sostanza, il tempio non si discosta significativamente dal modello introdotto in età augustea, salvo per la decorazione architettonica sovrabbondante che caratterizza l'età flavia, né sembra che da questo dovessero discostarsi gli altri edifici della seconda metà del I sec. d.C. a Roma. Diversa appare la situazione nelle province orientali nel I sec. d.C.; un posto importante nell'architettura religiosa di quest'area è certamente occupato dal complesso di Heliopolis (Baalbek), luogo di culti sincretistici quale quello della triade eliopolitana Baal-Hadad-Helios-Zeus e dei suoi paredri Mercurio-Adone-Bacco e Venere-Atargatis-Allat; qui, sul luogo di più antichi santuari di culti locali, risalenti almeno al VI sec. a.C., sorse, a partire dalla fondazione della colonia romana nel 16 d.C., il santuario di Iuppiter Heliopolitanus. La sua costruzione, che durò almeno fino alla metà del III sec. d.C., comprende, su di una grande area terrazzata, un propileo di accesso, un vestibolo esagonale porticato, una grande corte quadrangolare, anch'essa porticata, nella quale sono gli altari, ed infine il tempio di Iuppiter-Baal, mentre, fuori del recinto, sono il tempio di Mercurio- Bacco e il tempio rotondo. L'altare principale, completato insieme al tempio maggiore entro il I sec. d.C., è al centro della grande corte ed era costituito da un podio modanato, posto su di una bassa crepidine, dal quale si elevava una struttura a pianta rettangolare di 16,45 × 15,5 m alta quattro piani, accessibile dalla corte attraverso quattro porte disposte a nord e a sud. Nei piani si snodavano corridoi e scale che conducevano ad un attico superiore terrazzato. L'altezza complessiva alla sommità dell'attico era di 17,8 m e nei prospetti, articolati da esedre e pilastri, si aprivano finestre che davano luce ai diversi piani, mentre è possibile che l'intera struttura fosse rivestita di bronzo e statue ne decorassero la parte bassa. Evidentemente, la terrazza doveva svolgere un ruolo significativo nelle celebrazioni: è probabile infatti che fosse destinata all'olocausto, secondo un uso attestato nell'area. Sullo stesso asse, poco più ad ovest, era un secondo altare, anch'esso del tipo a torre, che raggiungeva gli 8,9 m e misurava alla base 9,9 × 8,4 m. Il tempio maggiore, interamente in calcare locale, è uno pseudodiptero di 10 × 19 colonne, che misura più di 88 × 48 m ed è sollevato su di un podio che sovrasta il piazzale antistante di ben 13,5 m. Il nucleo interno è costituito da un profondo pronao prostilo esastilo, mentre la cella può essere ricostruita come un grande ambiente decorato da semicolonne, che racchiudono nicchie ed edicole sui lati e con un adyton sul fondo; questo, che ospitava la statua di culto, è caratterizzato da un prospetto monumentale ed è sollevato su di un'alta piattaforma, raccordata alla cella da una scalinata. L'ordine della peristasi è costituito da colonne corinzie, alte circa 20 m, e da una trabeazione, riccamente ornata, con un fregio decorato da protomi taurine e leonine e una cornice modiglionata. Nell'edificio sono chiaramente riconoscibili sia tratti di tradizione greco-ellenistica e siro-ellenistica, sia romano imperiali, sia ancora mesopotamici, persiani e giudaici, che ne fanno un grandioso esponente di quel sincretismo architettonico peculiare dell'area siriana. Importanti innovazioni nell'architettura religiosa dell'età imperiale si manifestano a Roma nella prima metà del II sec. d.C. con Adriano, di cui la ricostruzione del Pantheon di Agrippa, tra il 118 e il 125 d.C., costituisce una delle imprese architettoniche più innovative. L'edificio appare composto da tre elementi, un pronao prostilo ottastilo, una grande rotonda coperta a cupola e un elemento di raccordo che ospita i gruppi scale. Il pronao ottastilo, unico elemento percepibile all'esterno, è diviso in tre navate da due file di tre colonne e si presenta nelle forme di un tempio tradizionale, sollevato su di un podio a dominare il piazzale porticato antistante. La struttura di raccordo, conclusa superiormente da un secondo frontone, sfalsato rispetto a quello del pronao, è articolata da due nicchioni semicircolari e da uno rettangolare centrale nel quale si apre l'ingresso alla cella; questa, costituita da un anello in muratura spesso oltre 7 m, articolato da nicchie alternativamente semicircolari e rettangolari, racchiude uno spazio circolare coperto da una cupola cassettonata del diametro di 43,3 m e di pari altezza, la più grande del mondo antico. Un grande oculo centrale illumina la cella le cui pareti, al di sotto della cupola, sono articolate in due registri, costituiti in basso da un ordine maggiore di lesene e colonne corinzie, le quali diaframmano i nicchioni ricavati nello spessore del muro perimetrale, e, in alto, da un ordine minore di lesene corinzie, che racchiudono finestre rettangolari cieche; otto edicole con frontoncini alternativamente circolari e triangolari trovano posto tra i nicchioni, mentre la decorazione interna vede l'impiego generalizzato di marmi colorati di provenienza orientale e nord-africana, ormai da tempo usuale nelle costruzioni pubbliche romane. Non meno sofisticata appare la struttura: complessi sistemi di arcate consentono di far convergere il carico sui tratti resistenti dell'anello, mentre apposite cavità interne furono allestite per favorire il processo di essiccamento delle enormi masse dell'opus caementicium; inoltre, la composizione dell'opera cementizia fu diversificata, utilizzando inerti progressivamente sempre più leggeri, sino alla sommità della cupola e al tempo stesso provvedendo ad un progressivo assottigliamento del suo spessore. Al di là delle dimensioni monumentali, della ricchezza della decorazione e della sofisticata tecnologia dell'intervento, è nella concezione spaziale dell'insieme che risiede il maggior apporto del Pantheon all'architettura religiosa imperiale: doveva infatti essere impressionante l'effetto provocato dal passaggio dal pronao, di concezione tradizionale, allo spazio inaspettato della cella coperta dall'enorme cupola. Si tratta della prima importante acquisizione all'architettura religiosa di una spazialità sino a quel momento riservata ai grandi complessi termali, ma al tempo stesso è la riaffermazione del valore rappresentativo dell'architettura architravata, che nel prospetto ottastilo del pronao si conferma ancora la più adeguata a rappresentare la sacralità del culto. Se tratti ellenizzanti sono percepibili nel ritmo del colonnato del pronao del Pantheon, è però il tempio di Venere e Roma sulla Velia che più di altri rivela ascendenze ionico-asiatiche nella sua architettura. L'edificio, dedicato da Adriano nel 135 d.C. ma completato solo da Antonino Pio, costituisce il più grande tempio mai realizzato a Roma: si tratta infatti di un diptero di 10 × 22 colonne che misura 108 × 54 m; l'edificio, situato in un ampio piazzale porticato, è sollevato su di un'alta crepidine, secondo l'uso greco, e presenta un nucleo centrale tetrapartito con due celle contrapposte, rivolta ad est quella di Venere, ad ovest quella di Roma, precedute da portici prostili esastili. L'interno delle celle era arricchito da colonnati ed era caratterizzato da una copertura lignea piana, mentre passaggi aperti nel muro di diaframma sembra mettessero in comunicazione i due vani. L'impianto planimetrico, con la spaziatura differenziata degli interassi sulla fronte, rimanda evidentemente ai grandi dipteri ionici asiatici, oltre che all'Olympieion di Atene, che Adriano completò in quegli anni contestualmente alla realizzazione del grande piazzale porticato che lo circondava; non meno significativa è la trabeazione dell'edificio, che, nell'apparentamento con le forme del Traianeum costruito dall'imperatore sull'acropoli di Pergamo, attesta la presenza di maestranze asiatiche, attive anche nella successiva produzione antoniniana, come traspare da numerosi tratti dell'Hadrianeum, e destinate a influenzare anche costruzioni del secolo successivo, quale il tempio di Serapis sul Quirinale. La permanenza di Adriano in Asia Minore è d'altronde ampiamente attestata e numerose sono le imprese architettoniche che si legano al suo principato: oltre al Traianeum, si ricordano infatti, nell'Asklepieion della stessa Pergamo, il tempio di Zeus Asklepios Soter, un'evidente riproposizione del modello del Pantheon, e, ad Aizanoi, il tempio di Zeus e Kybele, il cui impianto pseudoperiptero, di 8 × 15 colonne di ordine ionico, conferma la vitalità della tradizione ionico-ellenistica ermogeniana in quella regione. All'età adrianea appartiene, sempre a Pergamo, il Kizil Avlu (Sala Rossa), il santuario dedicato alle divinità egizie; il complesso è costituito da un grande piazzale rettangolare recintato, di oltre 200 × 100 m, sul quale si affaccia da Oriente, al di là di un diaframma di colonne, un complesso di edifici costituiti da una grande sala centrale racchiusa tra due corti porticate, a loro volta concluse ad est da rotonde coperte a cupola. La grande corte è attraversata trasversalmente dal fiume Selinos, canalizzato in due gallerie parallele per tutto il tratto sotterraneo. La grande aula centrale, che misura 60 × 26 m e raggiunge i 19 m di altezza, è illuminata nella parte superiore da ampie finestre ed è conclusa ad Oriente da colonnati, disposti su due ordini, ai lati di un podio che sosteneva la statua di culto; nelle adiacenti corti porticate, invece, le colonne erano sostituite da cariatidi e atlanti egittizzanti. La tecnica costruttiva del complesso non è tipicamente romana: la grande sala centrale, infatti, è sì realizzata in opera testacea, ma i laterizi sono adoperati per l'intero spessore della muratura, come in altri esempi di strutture imperiali in Asia Minore che evidentemente risentono di tradizioni costruttive locali. Nell'insieme, l'impianto dell'edificio si distacca in modo significativo dalle forme dell'architettura religiosa ufficiale e rivela in più di un tratto riferimenti a modelli egittizzanti alessandrini. L'architettura religiosa tra la seconda metà del II e il primo terzo del III sec. d.C. non mostra significative rotture con la tradizione precedente, salvo, a partire dall'età severiana, l'accentuarsi di un decorativismo che richiama l'età flavia, ma fa ricorso sempre più frequentemente agli effetti chiaroscurali prodotti dall'uso crescente del trapano. Si diffondono a Roma gli edifici dedicati agli imperatori divinizzati e all'Hadrianeum si affianca il coevo tempio di Antonino e Faustina, più convenzionale nelle forme. A divinità orientali vengono dedicati i templi di Serapis sul Quirinale e di Eliogabalo sul Palatino, ma è in Oriente che più intensa si manifesta l'attività edilizia. In Asia Minore, infatti, vengono restaurati e trasformati importanti santuari, quale l'Artemision di Sardi, e costruiti nuovi templi dedicati al culto imperiale, come a Sagalasso e a Pergamo, o a culti orientali, come ad Efeso, ma anche a culti tradizionali, come attesta la costruzione di due peripteri a Side, dedicati ad Atena ed Apollo, o di un più semplice prostilo esastilo con cella absidata a Termesso; quest'ultimo, nell'adozione del frontone interrotto da un arco, frequente negli adyta dei grandi templi siriani, anticipa un motivo destinato ad una grande fortuna nell'architettura tardoantica e paleocristiana. Anche più rilevante appare nel periodo la produzione delle province di Siria e di Arabia: le costruzioni del tempio di Mercurio-Bacco e del piccolo tempio rotondo a Heliopolis o del tempio di Artemide a Gerasa testimoniano della ricchezza dell'area e al tempo stesso della vitalità di quell'architettura siro-ellenistica che delle istanze religiose dell'Oriente romano si era già dimostrata una eccellente interprete. Un ruolo importante in età antonina e severiana era rivestito anche dall'attività edilizia dell'Africa settentrionale che vede, nella seconda metà del II sec. d.C., la realizzazione di numerosi capitolia, in cui il culto tradizionale della Triade capitolina si fondeva con il culto imperiale. Da un punto di vista tipologico, il panorama appare piuttosto eterogeneo: soluzioni planimetriche pseudoperiptere si affiancano ai peripteri sine postico, ai prostili o ai templi gemini. Di un certo interesse appare il Capitolium di Sufetula (Sbeitla), in cui alla tripartizione del culto corrisponde la realizzazione di tre templi separati; i tre edifici, pseudoperipteri, sono allineati sul fondo del piazzale porticato del foro e presentano lesene aggettanti e cella absidata quelli laterali, di poco più piccoli, semicolonne quello centrale, dedicato a Iuppiter. Tutti e tre sono sollevati su podio, di cui quello centrale, privo della gradinata frontale, veniva a formare una tribuna sul foro, mentre l'elevato è costituito da trabeazione modiglionata e colonne corinzie per i due templi laterali, sostituite da colonne composite in quello centrale. A partire dall'età severiana, l'attività edilizia nell'area vide l'erezione di numerosi edifici di culto imperiale: tra questi, un certo interesse riveste il tempio del foro severiano di Leptis Magna, un periptero sine postico, sollevato su di un alto podio e preceduto da una monumentale scalinata piramidale. Il tempio, con una tripla fila di colonne sulla fronte, otto sul prospetto e sei nelle file successive, e una cella quadrata, era realizzato con materiali pregiati, granito rosa d'Egitto, marmo proconnesio e marmo pario per le sculture; le colonne corinzie erano sollevate su alti plinti modanati, alcuni dei quali scolpiti con scene di Gigantomachia, e sorreggevano una trabeazione modiglionata, con fregio a girali di acanto. L'architettura religiosa dell'età successiva risente della crisi che seguì alla morte di Alessandro Severo; a Roma, bisognerà aspettare gli ultimi anni del terzo quarto del III sec. d.C. perché Aureliano, all'indomani della vittoria su Zenobia, costruisca, ai limiti del Campo Marzio, un tempio dedicato al Sol Invictus nelle forme, stando al Palladio, di una tholos posta in un ampio piazzale recintato e preceduto da un vestibolo biabsidato. L'attenzione per soluzioni a pianta centrale è d'altronde un carattere ricorrente nella produzione architettonica tardoantica: la Rotonda di Galerio a Salonicco è un interessante esempio di questa tipologia; l'impianto circolare, il pronao prostilo, l'articolazione interna con otto grandi nicchie diaframmate da colonne rimandano chiaramente al Pantheon. Anche negli anni successivi pochissimi furono gli interventi edilizi significativi e, tra questi, va ricordata la ricostruzione del tempio di Venere e Roma, distrutto da un incendio, da parte di Massenzio. L'intervento appare interessante per la trasformazione delle celle, ricostruite con terminazione absidata, per l'introduzione di una copertura a botte cassettonata e per il rifacimento della decorazione interna, con colonnati interni di porfido, sollevati su di un podio, a racchiudere edicole a loro volta inquadrate da colonne sollevate su mensole tipicamente tardoantiche. Edifici religiosi pagani furono restaurati o realizzati ex novo anche negli anni successivi all'età di Costantino, cui si deve peraltro la costruzione di un Capitolium e di un Tychaion a Costantinopoli, fino all'età di Giustiniano, almeno in quelle province dove il paganesimo si conservò forte a lungo, ma dall'età di Massenzio non sono comunque più attestate architetture di rilievo monumentale, né si riscontrano significative innovazioni della tipologia templare, ormai in via di estinzione.

Bibliografia

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L'architettura funeraria

Il mondo greco arcaico e classico non ha prodotto un'architettura funeraria in senso proprio: lo sviluppo di sepolture monumentali, salvo heroa o monumenti a carattere eroico celebrativo, è infatti in qualche modo estraneo alla cultura greca e le tombe a tumulo, destinate a comunità o gruppi familiari, costituivano certamente la tipologia maggiormente diffusa sin dall'età arcaica, soprattutto dove vi era sufficiente spazio a disposizione; altrove si faceva ricorso alle stele, più raramente, come a Cirene, alle tombe rupestri, le cui facciate richiamavano prospetti di case o di templi. Ad Atene, in età classica e tardoclassica la tipologia prevalente deve essere riconosciuta nelle tombe a naiskos, una piccola struttura prostila distila eretta al di sopra della sepoltura e destinata ad ospitarne le sculture. Ma lo sviluppo di una tipologia architettonica monumentale dovrà attendere il IV sec. a.C. e avrà le sue più significative manifestazioni soprattutto nell'età ellenistica, quando le mutate condizioni politiche e sociali determinarono comportamenti fortemente individualizzati, presupposto primario della monumentalizzazione delle sepolture. La produzione di età tardoclassica in Asia Minore si caratterizza per l'elaborazione di una tipologia nuova, propriamente greca, la tomba a tempio che, destinata ad affermarsi inizialmente presso l'aristocrazia anatolica ellenizzata, si diffuse poi presso le nuove classi dominanti determinate dalla dissoluzione dell'impero macedone, risentendo però al tempo stesso delle influenze di una tradizione architettonica anatolica e vicino- orientale di antica data, di cui sono testimoni gli alti podi, le coperture piramidali e alcuni aspetti dello stesso apparato decorativo. Tra i primi e più significativi esemplari riconducibili alla tipologia delle tombe a tempio è il monumento funerario di un dinasta licio, forse Arbinas, conosciuto, per le statue che apparivano tra gli intercolumni, come Monumento delle Nereidi; realizzato nel primo quarto del IV sec. a.C. da un'officina indigena ellenizzata e da maestranze greche, che conoscevano da vicino le ultime imprese architettoniche realizzate sull'Acropoli di Atene, l'edificio combina la tipologia templare periptera con l'alto podio decorato peculiare della tradizione licio-persiana, una commistione di caratteri che si conserva in parte anche nella decorazione. La tomba si configura come un piccolo tempio periptero tetrastilo ionico di marmo bianco, con sei colonne sui lati lunghi. L'edificio della cella era costituito da un vano centrale collegato attraverso due portali monumentali con i vestiboli che si aprivano sulle due fronti contrapposte est ed ovest. Il podio appariva scandito da due fregi ionici continui di diversa altezza, mentre un terzo fregio coronava la sommità del muro della cella; l'elevato mostrava colonne notevolmente distanziate tra loro, evidentemente per fare spazio alle statue delle Nereidi disposte negli intercolumni, e un ordine relativamente eterogeneo, con capitelli d'anta e di colonna di impronta attica, capitelli angolari a quattro facce negli angoli, secondo l'uso peloponnesiaco, e trabeazione, priva di fregio, con cornice a dentelli e architrave arricchito da un fregio continuo, di tradizione ionico-asiatica, mentre acroteri figurati coronavano l'insieme. L'influenza esercitata dal Monumento delle Nereidi in Asia Minore dovette essere consistente: in qualche modo alla stessa ispirazione fortemente influenzata da tratti attici è infatti riconducibile anche l'Heroon di Limyra, sempre in Licia, un edificio anfiprostilo tetrastilo, sollevato su podio, con cariatidi al posto delle colonne e trabeazione ionico-asiatica. Nell'ambito della stessa tipologia deve essere collocata la sepoltura monumentale di Mausolo, satrapo di Caria, ad Alicarnasso, realizzata da maestranze di grande fama provenienti da diverse aree del mondo greco. Architetti furono Pitheos e Satyros, mentre tra gli scultori si annoverano Bryaxis, Leochares, Timotheos e Scopas di Paro. Anche in questo caso si combina la soluzione templare propria della tradizione greca con tratti di chiara ispirazione orientale, quale il podio e la copertura piramidale, ma anche motivi scultorei di indubbia ascendenza vicino-orientale. L'inizio della costruzione risale certamente ad alcuni anni prima della morte di Mausolo, avvenuta nel 353 a.C., e continua sotto la regina Artemisia (353-350 a.C.), sorella e sposa di Mausolo, fino ad essere completata dai fratelli Idrieo e Ada. Gli architetti avrebbero anche scritto riguardo alla costruzione un volume, cui fa riferimento Vitruvio. È indubbio che l'architettura del Mausoleo, il quale venne annoverato tra le meraviglie del mondo antico, dovette avere un notevole influsso sugli sviluppi dell'architettura ionico-asiatica del periodo. La ricostruzione del monumento rimane in larga parte ipotetica, ma tra le ricostruzioni del Mausoleo recentemente proposte si riscontra una relativa concordanza, almeno nei tratti generali: si sarebbe trattato infatti di una struttura costituita da una peristasi ionica sollevata su tre podi di ampiezza progressivamente decrescente a partire dal basso e coronata da una copertura piramidale gradinata, al culmine della quale si sarebbe eretta una quadriga. L'intera struttura appare finalizzata ad accogliere i numerosi gruppi scultorei attribuiti dalle fonti ad artisti famosi dell'antichità e di cui sono stati rinvenuti resti significativi. Nella ricostruzione di K. Jeppesen i gruppi scultorei con scene di caccia e di sacrificio, di proporzioni maggiori del vero, vengono disposti sulla sommità del podio più basso, le scene di combattimento tra Greci e Persiani, a tutto tondo, sul secondo podio e il fregio con Amazzonomachia a coronamento del podio più alto; altre statue dovevano trovare posto tra le colonne della peristasi, così come nel Monumento delle Nereidi, forse la serie delle statue "eroiche", e altre ancora all'interno della peristasi, mentre sul tetto piramidale erano rappresentazioni di leoni stanti. L'ordine del Mausoleo si caratterizza per una colonna relativamente snella e una trabeazione ionico-asiatica piuttosto sottile, priva di fregio e con cornice a dentelli. L'importanza dell'edificio risiede soprattutto nell'influenza che ebbe sulla successiva produzione ionico-asiatica, influenza per larga parte determinata dalla fama di cui godeva il Mausoleo nel mondo antico; alla sua notorietà non erano estranee la ricchezza della realizzazione e l'alta qualità delle sculture, oltre alla straordinaria concentrazione di grandi artisti, ma quel che è certo è che molti dei caratteri architettonici apparsi per la prima volta nell'ordine del Mausoleo erano destinati a divenire canonici nelle architetture degli anni successivi e la stessa tipologia architettonica non mancò di divenire, per un lungo periodo di tempo, un modello di riferimento per molti monumenti funerari non solo nell'Asia Minore di III e II sec. a.C., dove pure edifici quali la Tomba dei Leoni a Cnido, i monumenti funerari di Labraunda e Alinda o il mausoleo di Belevi testimoniano della profonda influenza esercitata dall'heroon di Mausolo, ma anche in aree e culture assai distanti, anche cronologicamente, da quella che l'aveva prodotto. La fine dell'età tardoclassica vide lo sviluppo di sepolture monumentali anche nella Grecia continentale; nel corso del IV sec. a.C. in Macedonia venne infatti introdotto un particolare tipo funerario costituito da una o due camere, di forma quadrangolare, coperte da volte a botte e interrate in un tumulo; l'accesso dall'esterno, prima della definitiva obliterazione, avveniva attraverso un dromos, generalmente ipetro, che conduceva ad un prospetto monumentale. A volte questo era articolato su due livelli con ordini sovrapposti o con un attico superiore, con chiari riferimenti alla tipologia palaziale, mentre in altri casi era costituito da soluzioni prostile o in antis, prevalentemente doriche, ma anche ioniche, generalmente coronate da un frontone, che richiamano esplicitamente modelli templari. La cosiddetta Tomba del Giudizio a Lefkadia, datata all'ultimo quarto del IV sec. a.C., costituisce uno degli esempi più grandiosi di "tomba macedone", con il prospetto articolato su due livelli da membrature architettoniche integrate da rilievi figurati e l'interno riccamente decorato da rilievi in stucco. La tomba, contenuta in un tumulo di 10 m di diametro, presenta una facciata scandita a livello inferiore da un portico dorico tetrastilo in antis, con interasse centrale ampliato e metope scolpite con scene di Centauromachia, mentre negli intercolumni, al di sopra di un alto basamento, appaiono quattro personaggi: il defunto, Hermes, Eaco e Radamanto; un fregio figurato continuo con scene di battaglia tra Greci e Persiani costituisce il basamento per il secondo livello, rappresentato da un colonnato ionico esastilo in antis che racchiude false aperture ed è sormontato da un frontone le cui pitture sono purtroppo perdute. L'articolazione della facciata rimanda chiaramente ai prospetti a due livelli dei palazzi macedoni così come sono noti dai recenti scavi e al tempo stesso fornisce utili indicazioni per la loro restituzione; l'interno era costituito da un vestibolo e da una camera sepolcrale, entrambi coperti a volta, con le pareti di quest'ultima scandite da lesene, sollevate su di un podio modanato e sormontate da una trabeazione ionica. Assai ben documentata è anche la tipologia templare di cui la cosiddetta Tomba delle Palmette, sempre a Lefkadia, costituisce uno degli esempi meglio conservati, sia per l'integrità del prospetto prostilo tetrastilo ionico, coronato da un frontone con grandi acroteri a palmetta, sia per l'eccellente stato di conservazione del colore che riveste buona parte della trabeazione e del timpano, oltre alle due stanze interne; la tomba, i cui tratti architettonici richiamano modelli peloponnesiaci, si data alla prima metà del III sec. a.C. Un notevole interesse riveste anche l'architettura funeraria dell'Egitto tolemaico, in particolare per quel che concerne le necropoli alessandrine; si tratta di sepolture ipogee costituite nei casi più rilevanti da complessi di ambienti organizzati attorno ad uno spazio scoperto che riproduce nelle forme un cortile porticato, richiamando nell'insieme la tipologia delle ricche residenze a peristilio del periodo. Oltre alle interessanti soluzioni architettoniche incentrate sull'uso anche illusionistico degli ordini, cospicuo appare l'apporto della decorazione pittorica e degli stucchi a rilievo i cui tratti complessivi rimandano al secondo stile pompeiano. Un posto particolare nel panorama dell'architettura funeraria tardoellenistica in Oriente spetta senza dubbio all'architettura nabatea: a Petra, centro principale del regno, le cui fortificazioni naturali costituivano al tempo stesso l'ambiente ideale per lo sviluppo di un'architettura funeraria rupestre, si conservano molti esempi di tale produzione; le tipologie documentate sono numerose, ma l'interesse maggiore è rivestito da alcune tombe i cui prospetti monumentali denunciano chiare ascendenze da modelli greco-ellenistici. Tra le più note è certamente il cosiddetto Khazneh (tesoro), sia per la scenografica posizione sul fondo di una stretta gola, sia per il cromatismo della roccia in cui è scolpito, sia per l'articolazione barocca del prospetto, che rimanda alle raffigurazioni architettoniche delle pitture di secondo stile pompeiano oltre che a modelli alessandrini. La tomba consiste di tre ampi vani scavati nella roccia, preceduti da un vestibolo cui fa da riscontro all'esterno una facciata monumentale articolata su due ordini sovrapposti. Al livello inferiore un prospetto prostilo tetrastilo corinzio, corrispondente al vestibolo e sormontato da un frontone, emerge tra due strette ali arricchite da gruppi scultorei; superiormente, sollevate su di un attico piano, due ali fanno da riscontro a quelle inferiori e sorreggono tratti di un frontone triangolare spezzato, mentre al centro è una tholos, lavorata quasi interamente a tutto tondo, coperta da un tetto conico coronato da un capitello corinzieggiante, a sua volta sormontato da un'urna funeraria. Lo sfondo della tholos presenta rilievi che suggeriscono il suo posizionamento in un peristilio costituito dai risvolti delle ali, rievocando descrizioni letterarie e affreschi largamente diffusi in età tardoellenistica; numerosi anche i rilievi figurati: amazzoni, nikai e soprattutto una rappresentazione di Tyche nella tholos, al centro della composizione. Inconsueti nell'architettura funeraria nabatea, essi suggeriscono la presenza di maestranze forse alessandrine. La civiltà etrusca riveste certamente un ruolo rilevante per quel che concerne le prime manifestazioni dell'architettura funeraria in Occidente; la tipologia funeraria prevalente nel VI e V sec. a.C. è certamente quella del tumulo, le cui origini sono forse riconducibili alla tradizione del Vicino Oriente e della stessa Grecia. Si tratta in genere di una o più stanze scavate nel tufo, coperte da consistenti interri racchiusi da un alto zoccolo modanato e raggiungibili attraverso un dromos; all'interno gli ambienti, riccamente decorati con lavorazioni scolpite e affreschi, riproducevano sin nei dettagli costruttivi quella che doveva essere l'apparenza delle ricche residenze aristocratiche. I successivi sviluppi vedono, a partire dall'inizio del IV sec. a.C., di pari passo con la diffusione della cremazione, il progressivo abbandono dei tumuli e l'affermarsi di tombe rupestri, i cui prospetti monumentali si richiamavano all'architettura palaziale e risentivano delle influenze ellenizzanti provenienti dai centri italioti o ellenizzati dell'Italia meridionale, a loro volta fortemente condizionati dall'architettura funeraria dell'Asia Minore e della Macedonia. In questo senso, un esempio significativo è costituito dalla Tomba Ildebranda a Sovana, il cui schema complessivo, riconducibile ad un periptero sollevato su di un alto podio, richiama evidentemente una tipologia ampiamente diffusa in Asia Minore. Si tratta di una struttura scavata nella roccia, dalla quale è liberata per tre lati, costituita da un colonnato corinzieggiante, che racchiude una cella con copertura piana, sollevato su di un alto podio racchiuso tra due scale. Numerosi i richiami alla produzione asiatica, in particolare a Belevi, nonostante la decorazione architettonica riveli una conoscenza approssimativa delle forme greche. Molto ricco è l'apparato ornamentale dell'insieme che prevede, oltre al fregio, un architrave decorato da motivi figurati, capitelli antropomorfi e una vivace decorazione policroma. Un'architettura funeraria di rilevanza monumentale appare a Roma relativamente tardi, non prima della seconda metà del III sec. a.C., e si colloca necessariamente all'interno del processo di marcata ellenizzazione che aveva investito l'area etrusca e che investe la stessa società romana in età mediorepubblicana. La tomba degli Scipioni, presso la via Appia, è certamente uno dei primi monumenti di rilievo e rivela nel prospetto, ricostruito nella seconda metà del II sec. a.C., chiare ascendenze ellenistiche. La tomba è costituita da un ipogeo scavato nel tufo cui corrisponde esternamente una facciata monumentale articolata in un podio, coronato da una cornice modanata, sormontato da un ordine di semicolonne ioniche o corinzie a sorreggere forse un basso attico; nel podio, affrescato per tutta la sua estensione, si aprono tre aperture ad arco che danno accesso all'ipogeo. A modelli di derivazione ellenistica vanno anche ricondotte le tombe a torre, generalmente costituite da una struttura quadrangolare scandita da semicolonne o paraste sollevata su di un alto podio, largamente diffuse nel I sec. a.C., cui si affiancano le tombe a tumulo, quale quella in cui fu sepolto Silla, in un voluto richiamo alle origini etrusche di cui questi primi esemplari riproducono la struttura. Alla tipologia del tumulo appartiene lo stesso mausoleo di Augusto, realizzato tra la fine del terzo e l'inizio dell'ultimo quarto del I sec. a.C. presso il Campo Marzio, tra la via Flaminia e il Tevere, dove sorgevano altre sepolture prestigiose. L'area fu circondata da un parco. L'edificio, racchiuso in un recinto delimitato da cippi, era costituito da un grande tumulo, di poco meno di 90 m di diametro, elevato su di un alto podio di travertino e coperto da un boschetto che culminava al centro nella statua bronzea dell'imperatore. Il nucleo interno consisteva di una serie di muri concentrici raccordati da setti, il più esterno dei quali articolato in vani semicircolari. Un corridoio voltato, che si dipartiva dall'ingresso, a sud, conduceva ad un terzo ambulacro, più interno e praticabile, dal quale si accedeva, attraverso due passaggi disassati, forse volti a condizionare il percorso processionale, ad un quarto ambulacro più interno e da questo ad un altro ancora, scandito da tre nicchie per sepolture, all'interno del quale era un vano quadrangolare destinato ad ospitare le ceneri dell'imperatore. La scelta augustea per una sepoltura a tumulo, sia pure nella veste grandiosa prescelta, deve essere interpretata nel contesto storico di contrapposizione con la politica filo-orientale di Antonio, che aveva scelto di farsi seppellire nel Tolemaion, rivendicando all'atto del confronto politico-militare la continuità con le tradizioni di Roma e la contrapposizione alle scelte orientalistiche di un avversario che in quelle evidenziava la continuità con una linea di tendenza propria della società tardorepubblicana. Nel monumento vennero sepolti molti dei rappresentanti della famiglia giulio-claudia e successivamente, per speciale concessione, furono qui deposte anche le spoglie di Nerva. Dopo Augusto la fortuna della tipologia del tumulo non si arrestò. Il tipo si diffuse tra l'aristocrazia e tra i personaggi di rango, soprattutto in Italia centrale, divenendo simbolo di conservatorismo e fedeltà alle tradizioni. Ma per alcuni imperatori si scelsero soluzioni particolari: Traiano venne collocato nel basamento della Colonna Traiana, laddove il monumento celebrativo del trionfo veniva al tempo stesso ad assumere un valore funerario, riconoscibile peraltro anche nella successiva Colonna Antonina; l'uso della colonna come monumento celebrativo, ma anche funerario, è attestato d'altronde nel mondo greco e una sua ripresa è documentata nel II secolo in Oriente, soprattutto in Siria, dove si trova spesso nella forma binata e in connessione con ipogei. Anche nel mausoleo che Adriano fece costruire sulla sponda destra del Tevere, in asse con il Ponte Elio, presso gli horti Domitiae, deve essere riconosciuto un tumulo; le sue particolarità lo distinguono comunque dagli esempi precedenti: la ricchezza della decorazione scultorea, lo sviluppo volumetrico dell'insieme, la suggestione del percorso processionale spiraliforme che conduce alla camera sepolcrale, sono tutti elementi che ne fanno un monumento profondamente innovativo. La struttura, sollevata su di un basamento quadrato di 87 m di lato per 10 m di altezza, rivestito di marmo pario, consisteva di un ampio tamburo di 64 m di diametro, alto 21 m e articolato su due piani, che sosteneva una copertura troncoconica; questa era destinata a contenere il terreno per gli alberi che circondavano un edificio circolare, posto a coronamento dell'intero monumento, sul quale si ergeva, a 55 m di altezza, la quadriga bronzea condotta dall'imperatore. L'accesso si apriva nel basamento a sud, sull'asse del ponte, e portava ad un vano voltato, sulla sinistra del quale si dipartiva una rampa a spirale dalla quale, attraverso un corridoio radiale, posto 10 m più in alto, si perveniva alla camera sepolcrale, al centro del tamburo del tumulo; un secondo vano era situato al di sopra della camera principale, mentre ancora al di sopra si ergeva l'edificio. Molto ricco era anche l'apparato scultoreo, dai pavoni bronzei del recinto esterno, ai gruppi colossali che dominavano gli angoli del podio, alle statue che decoravano la sommità della rotonda sino alla grande quadriga bronzea. Completato solo da Antonino Pio nel 139 d.C., il mausoleo restò a lungo in uso divenendo il luogo di sepoltura degli Antonini e dei Severi, tra i quali Adriano e sua moglie Sabina, Antonino Pio e Faustina Maggiore, Elio Cesare, Commodo, Marco Aurelio e ancora Settimio Severo, Giulia Domna, Geta e Caracalla. L'architettura funeraria di II sec. d.C. appare diversificata nelle scelte tipologiche; molto ampia la diffusione delle tombe a camera le quali, costituite da un ambiente coperto a volta nel cui prospetto principale, inquadrato da lesene e coronato da un frontone, si apre il portale sormontato dall'epigrafe, ricorrono con frequenza a Roma nella necropoli vaticana e in quella dell'Isola Sacra, ma lo stesso tipo appare anche isolato e sollevato su un alto podio, con o senza scala antistante, lungo le vie consolari, venendo a configurare rispettivamente la tipologia a tempietto e a podio; alla prima di queste può essere riferita la cosiddetta Sedia del Diavolo, a Roma, per altro notevole per le coperture adottate: a vela nell'ipogeo e a calotta su pennacchi sferici nel vano superiore. Queste tipologie sono generalmente diffuse anche nelle altre province dell'Impero sebbene la cortina laterizia a vista che caratterizza la produzione romana rimanga un fenomeno localizzato, sostituita altrove da strutture lapidee che riconducono il tipo alla tradizione ellenistica. Molte delle varietà tipologiche emerse nel II secolo, tra le quali i mausolei a torre, a podio e a edicola, continuano a diffondersi nel III secolo e la loro produzione, soprattutto in Africa, rimane significativa; tuttavia, l'elemento più innovativo deve forse essere riconosciuto nell'apparizione della tipologia a pianta centrale, tra i cui primi esemplari è il cosiddetto Tempio di Portuno presso Porto di Roma. La struttura consta di un livello inferiore con cella cruciforme che costituisce il podio del nucleo superiore, riconducibile ad un corpo centrale circolare articolato internamente da otto nicchie, alternativamente semicircolari e rettangolari, coperto a cupola e racchiuso da un portico anulare chiuso da campate a crociera. L'architettura funeraria dell'età tardoantica appare improntata proprio allo sviluppo di quest'ultima tipologia: strutture poligonali o circolari coperte con cupole prive di oculo, accessibili da pronai porticati, articolate internamente da profonde absidi inquadrate da ordini architettonici, spesso disposti su due livelli; la decorazione interna, molto ricca, faceva ricorso ai tradizionali rivestimenti con marmi colorati, cui si affiancavano con sempre maggiore frequenza i mosaici di pasta vitrea, il cui uso era ormai generalizzato per i rivestimenti degli intradossi delle volte. Numerosi gli esempi noti, tra i quali il Mausoleo di Romolo sulla via Appia, il Mausoleo dei Gordiani, a Roma, il cosiddetto Tempio della Tosse a Tivoli, il Mausoleo di Galerio, subito a nord del peristilio del palazzo dell'imperatore a Salonicco e il Mausoleo di Diocleziano a Spalato; quest'ultimo, situato all'interno della villa fortificata dell'imperatore, dato l'eccellente stato di conservazione, costituisce un interessante esempio del tipo e fornisce indizi per la conoscenza della tipologia. L'edificio, situato all'interno di un piazzale posto ad est del "peristilio", è costituito da un corpo principale ottagonale, coperto da un tetto a falde, sollevato su di un podio, alto 3,7 m, della stessa forma, ma più ampio al punto da accogliere un porticato esterno di 24 colonne; l'accesso al monumento era da ovest, attraverso il "peristilio", ed era costituito da un pronao prostilo tetrastilo coronato forse, secondo l'uso tardoantico, da un fastigio. Al podio corrisponde internamente una cripta coperta a cupola, articolata da otto nicchie trapezoidali coperte da volte troncoconiche, mentre il corpo principale si presenta internamente come un ampio vano circolare, anch'esso coperto a cupola, articolato da otto profonde esedre, a pianta alternativamente semicircolare e quadrata, e da colonne disposte su due ordini sovrapposti. Il sarcofago in porfido dell'imperatore doveva occupare una delle esedre, mentre otto colonne di granito scandivano il perimetro interno del vano ed erano a loro volta sormontate da altre otto colonne più piccole, alternativamente di porfido e di granito, sino a raggiungere l'imposta della cupola, interamente rivestita di mosaico di pasta vitrea così come forse anche le pareti e le esedre. I monumenti funerari a pianta centrale costituiscono l'ultima tra le tipologie monumentali imperiali e, in quanto tali, sopravvivono nel mondo orientale ancora a lungo. Anche in Occidente questa tipologia mostra una particolare persistenza: ne sono testimoni i numerosi edifici funerari a pianta centrale di IV e V secolo e infine lo stesso Mausoleo di Teodorico che, nella prima metà del VI secolo, propone ancora una soluzione tutta interna alla tradizione imperiale tardoantica.

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