L'architettura nel mondo greco, etrusco-italico e romano: caratteri generali

Il Mondo dell'Archeologia (2002)

L'architettura nel mondo greco, etrusco-italico e romano: caratteri generali

Claudio Tiberi

Caratteri generali

Una meditazione critica di caratteri spaziali limpidamente espressa dagli artefici dell'Atene periclea suggerisce di definire subito gli elementi costitutivi dell'architettura sacra, nel cui ambito soprattutto si esercita dapprima il costruire in grande, almeno a giudicare dai resti che, dopo il silenzio dei secoli seguiti all'esaurirsi della civiltà elladica dell'età del Bronzo, testimoniano, dall'VIII sec. a.C. o poco prima, la nascita dell'architettura puramente ellenica dell'età del Ferro. Tali elementi si colgono, tutti materiati, tutti fisicamente percepibili, in un edificio assai più antico, scoperto nell'area del Telesterion di Eleusi sotto le tracce di quelli che per Demetra vi sorsero, susseguendosi, via via più grandi, nei secoli. È il cosiddetto Megaron B: parte dell'abitato si distingue per fattezze proprie, a suggerire, per lo stato particolare, un rapporto con il culto e l'appartenenza al gruppo familiare che l'amministrava. È composto da un piccolo ambiente preceduto da un atrio, al modo del nucleo dei palazzi achei, che poté ospitare gli oggetti santi che si credevano lasciati dalla dea; da una singolare piattaforma sporgente, a prolungamento dell'atrio tra due scalette d'accesso dal terreno digradante, dalla quale gli oggetti santi poterono essere mostrati ai fedeli; da un muro, anch'esso singolare, che cinge la corte all'intorno, in cui essi poterono radunarsi, atto a garantire la segretezza del rito. Si possono definire, dunque, il nucleo sacro, dove sta o si manifesta la presenza divina, il luogo del rito e il limite del temenos, cioè dello spazio sacro che li contiene entrambi e costituisce il vero spazio architettonico, fruibile, creato per l'uomo e i momenti del suo esistere. A confronto con lo schema, di necessità netto, astratto, le fabbriche greche offrono un panorama vitalmente concreto, vario, e passaggi sfumati. I tre elementi talvolta possono non lasciarsi definire o fondersi e confondersi; talvolta, invece, si colgono chiari e, assumendo forma e importanza diverse, lasciano distinguere due gruppi di casi. Presumibilmente per gli dei oggetto di pubblico culto, s'esalta il nucleo sacro, il tempio, il tabernacolo all'occasione immenso e devotamente curato che ospita il loro simulacro; separato dal tempio sta il luogo del rito, l'altare; intorno ad essi, lo spazio fruibile può, proprio perché pubblico è il culto, non essere cinto da muri, e in tal caso il limite del temenos manca. Per divinità di cui il culto è riservato a un gruppo di iniziati, e segreti sono i riti, si materia invece proprio il limite del temenos, a generare ambienti conclusi (come il Telesterion di Eleusi). Il nucleo sacro, pur essendo vertice d'intensità mistica, s'impoverisce per dimensione e figura (entro il Telesterion, l'anaktoron, quasi una capanna, per gli oggetti santi). Il modo del rito e il luogo (a Eleusi forse lo spazio intorno al trono del sacerdote, presso l'ingresso all'anaktoron) restano quasi sempre dubbi, o ignoti, per un segreto non svelato mai. Due gruppi di casi: è un'ulteriore astrazione categorica, perniciosa se ad essa s'avvilisce il reale, utile se, come fa, apre vie per ordinarlo e intenderlo. Un tempio eretto per l'immagine di un dio, nucleo sacro, non è confrontabile con l'edificio che, limite del temenos, racchiude uno spazio fruibile: pretendere necessarie analogie è arbitrario; constatare la distinzione o la confusione dei tipi in momenti storici diversi è invece illuminante per valutarne la temperie, il modo di conoscere il mondo e di viverlo. Intorno a tempio e altare lo spazio fruibile può non essere cintato, definito soltanto da un limite non espresso in materia: s'afferma la possibilità di un'architettura di esterni, viva non per le superfici che la concludono, ma per le relazioni tra le presenze che ospita; e possono essere coinvolti brani di natura, prossimi e lontani, per propri contorni suggestivi, per un valore sacrale. Sono elementi che l'uomo riceve dalla realtà di cui è parte: li subisce senza alterarli, mentre li implica nelle opere. Così, costruito e non costruito si legano a innervare una vicenda di riuscite singolarissime. È un'architettura di esterni; e lo spiegarsi o il contrarsi del suo respiro sono anch'essi densi di significato, linfa di storia.

Medioevo ellenico ed età arcaica

Prima manifestazione originalissima d'arte nuova, la ceramica geometrica (IX-VIII sec. a.C.) esprime, con scelte spinte a conseguenze estreme, un'ansia di regola, per l'equilibrio compositivo di figure astrattamente piegate a puri rapporti di elementi costitutivi in nitide partizioni di superfici. Lo stesso bisogno di razionalità, destinato ad arricchirsi, dovette esprimersi nelle opere che precedettero i grandi templi in pietra: i sacelli, primi templi che, giudicando dai resti scarsissimi e da qualche modello fittile (da Perachora, dall'Heraion argivo), superato l'uso elladico di celebrare culti nelle case principesche o di gruppi familiari ad essi preposti, si dedicarono agli dei, piegando a funzione nuova le vecchie dimore o erigendo edifici nuovi secondo il loro tipo, il megaron, e poi arricchendoli via via e cingendoli di colonne. Ma in ceramiche e fabbriche restò "nel calcolo dei particolari un residuo insoluto" (A. Rumpf), a dissolvere l'idea di formule perfette, a lasciare esistere accanto alla regola il guizzo di fantasia, a indicare subito allo storico d'oggi la chiave per intendere l'esperienza ellenica in tutto il suo corso, perché piccole peculiarità figurali dicono mutamenti anche profondissimi di contenuto in un'architettura soltanto apparentemente conservativa. Così da quando, a cominciare dallo scorcio del VII sec. a.C., le costruzioni in pietra si sostituiscono a quelle in legno e mattoni crudi, acquistano fisionomia sempre più netta gli ordini architettonici: il dorico, prevalente nella Grecia propria e nelle colonie dell'ovest, più pronto a formularsi sistematicamente; lo ionico, nelle colonie dell'est, più ricco di varianti, meno rapido a definirsi. Garantiscono un controllo del costruire, una griglia entro cui contenere e figura e senso. Si snodano i tempi dell'architettura arcaica, complessa, varia, ricca di indizi anticipatori, e di quella classica, problematica, intensissima: né l'una né l'altra si lasciano costringere in poche righe, e conviene cercarne i caratteri per confronto, guardando alla transizione che si compie nell'avanzata prima metà del V sec. a.C.

Dall'arcaismo alla classicità e alle sue negazioni

I templi si fanno più compatti per il diminuire del rapporto tra lunghezza e larghezza (si confrontino i templi di Hera e di Zeus a Olimpia). I particolari che distinguono gli elementi architettonici d'una stessa serie, conferendo loro valore individuale (a Paestum, nella cosiddetta Basilica, alcune colonne presentano ornamenti diversi al piede dell'echino), si attenuano a favore dell'identità. Si abbandona l'uso di differenziare, per intercolumni e diametro di colonne, i fronti corti della peristasi da quelli lunghi, generando in angolo non più cesura tra piani diversi ma continuità d'involucro; e mentre si contraggono gli intercolumni estremi secondo una pratica nata in età arcaica per risolvere il cosiddetto "problema del triglifo angolare" del fregio dorico, alle colonne d'angolo si dà diametro maggiore, bloccando le fabbriche con un addensamento di materia agli spigoli (Partenone). Si riducono l'entasi del fusto e l'aggetto del capitello; la giunzione tra fusto ed echino da incavo diventa quasi raccordo; il profilo dell'echino da curvo e gonfio tende a farsi lineare; il suo arrotondamento in alto si fa angolo smussato e genera legame con l'abaco. L'unità è serrata, i valori volumetrici s'impongono a quelli lineari e di superficie, l'occhio afferra l'insieme seguendo contorni senza cesure forti. Le fabbriche, prima quasi narrativamente disposte nell'intorno naturale in un rapporto non meditato, non problematico, si concentrano in sé (efficace è il paragone tra esempi fisicamente vicini: i cosiddetti Basilica e Tempio di Poseidon a Paestum); e dell'intorno dicono una consapevolezza nuova. Possono escluderlo e chiudersi, materialmente chiudersi, attorno allo spazio fruibile, se nascono per ospitare gruppi di fedeli per riti segreti (il Telesterion pericleo d'Eleusi coerentemente non ebbe portico: le pareti immense di pietra grigia si ergevano nude, incombenti, per separare). Possono, se nascono come nucleo sacro o luogo del rito entro uno spazio fruibile non limitato da mura, porsi in dialettica con l'intorno naturale; e il rapporto, meditato, drammatico, è tra ciò che si costruisce e ciò che si subisce, tra l'opera umana e una natura che sfugge alla misura umana (presso l'antica Figalia, il tempio-santuario di Apollo Epikourios si confronta con i monti aspri d'Arcadia, sperduto tra essi, e con le vette lontane del monte Liceo, verso est, e dell'Itome, verso sud, sacre a Zeus. Ma ora vale soltanto l'esperienza diretta, con l'abitudine a valutare architetture di spazi non murati, quelle che per i limiti del conoscere d'oggi o si ignorano o non si è inclini a considerare come architettura). Con intensità nuova l'informe è coinvolto nella forma, e sin nell'intimo delle opere: nei Propilei, sull'Acropoli ateniese, un profluvio di marmi s'erge a segnare il passaggio dall'ambito laico a quello divino; e cinque sono le porte, ma per quella maggiore, priva di soglia, va il percorso sulla roccia del clivo, non figurata dall'uomo, forse ricca di carica mistica. Il costruito, mentre s'esalta a fronte della natura intatta, quasi a gara s'arricchisce. Alieno da geometrie coercitive, vibra di fremiti. Stilobate e trabeazione s'incurvano verso l'alto a potenziare in una sintesi nuova un partito nato in età arcaica; le colonne e le pareti senza porte s'inclinano verso l'interno nei portici in antis e verso l'esterno in quelli prostili; e così, variamente, i fianchi dell'abaco del capitello dorico e altri elementi della trabeazione. Possono sciogliersi le corrispondenze rigide delle parti, per un diverso loro significato. Nel Partenone, le zone est e ovest si distinguono in particolare, l'una a livello del suolo e l'altra svettante, per variazioni piccolissime negli aggetti dei capitelli e nelle larghezze di triglifi e metope della peristasi; per i temi trattati nei frontoni e la fattura delle loro sculture; per il diametro delle colonne o il trattamento più affinato o più rude di pronao e opistodomo (a est, l'ambito puro del divino, pacato, sottratto al tempo; a ovest, quello del mondo terreno, gravido di materia, soggetto al divenire). Al tempo stesso, l'arcaica esigenza di regola si esplica in formule esatte, per un empito razionale non più sommesso; e la misura impera, i rapporti matematici possono legare lunghezze, larghezze e altezze dell'insieme e delle parti, e forse più complessi tracciati geometrici reggono le opere. Così i fermenti di una tradizione secolare, illimpidendosi nel confronto, sfociano in una cultura nuova, sintesi di astrazione e amore sconfinato del reale. Si legano la natura intatta e l'opera umana, e nell'opera l'ordine e una varietà indocile in gara con quella di natura, tutti insieme tessuti in forme dense di significati. L'uomo esplica in pienezza i poli del conoscere e dell'esistere: la "partecipazione", momento del subire, abbandono alla marea del non numerabile; il "pensiero", momento del valutare, del costruire, per immagini e per concetti. "Partecipazione" e "pensiero" vivono in una sintesi rara. È la classicità; e il termine non è più mero riferimento al mondo greco e romano senza alcuna implicazione di valore, ma significa ora un modo di conoscere e d'esistere, constatato in un tempo e in un luogo e insieme, in quanto categoria astratta, senza tempo e senza luogo. Nella vicenda greca è un momento intensissimo: liberato dall'idea che abbia dato avvio a un'arte di fattezze perfette, a una bellezza assoluta, s'impone ancora per il contenuto profondo raro, viste le figure non nell'essere forzate a diventare classicisticamente perfette, ma nell'essere, classicisticamente imperfette, perfette per dire quel contenuto. L'afflato classico, che rifulge ormai pieno in Atene e fuori di Atene nelle opere degli architetti dell'Acropoli (Callicrate, Ictino, Mnesicle), non è senza contrasto, e quasi dal nascere, e nella stessa Atene. Nel Partenone (dal 447 a.C.), che a chi entri nell'Acropoli si offre per viste diagonali a esaltare l'oggetto a tre dimensioni, Ictino slarga la cella e apre finestre sul suo fronte est: un respiro nuovo anima il vano per l'immagine divina, un respiro di spazio fruibile, vivo. Il gesto è innovatore, ma non traumatico, com'è invece quello dell'architetto che, per un verso ancorato al passato e per altro verso, se si guarda al futuro, risolutamente "moderno" in senso aclassico, erige pressoché contemporaneamente l'Hephaisteion nell'Agorà (l'inizio si può datare al 449 a.C.). L'architetto dell'Hephaisteion è sordo alla conquista nuova e fa la cella stretta e senza colonnati interni, che soltanto più tardi compariranno, forse a seguire il Partenone, ma prossimi alle pareti laterali, risolti pittoricamente, inefficaci a dilatare il vano; ma privilegia la zona est, volta all'Agorà e da essa vista, come sfondo tra quinte costruite, dal basso e di fronte; e scolpisce le metope soltanto a est e sui due intercolumni adiacenti dei lati lunghi nord e sud. I fronti ancora si differenziano: ma nel Partenone sottilmente, per aderire a significati diversi; nell'Hephaisteion grossolanamente, senza dialogo, per esaltare una veduta che par compiacersi di sé, in una fabbrica, del resto, priva di fremiti vitali e fredda per corrispondenze geometriche più secche. Una di queste lega, su un unico asse nord-sud, le colonne del pronao e quelle corrispondenti dei lati lunghi della peristasi, le terze da est; e deriva dall'esser prolungati fino ad esse, oltre il limite dei muri laterali della cella, l'architrave e il fregio del pronao (altrettanto si ripete, a dire la forza della tendenza, nei templi, di poco più tardi, di Poseidon a Capo Sunio, di Ares, ora nell'Agorà di Atene, di Nemesi a Ramnunte). Avanti al pronao, entro la peristasi e in corrispondenza del suo tronco con le metope scolpite, s'intaglia così una sorta di ambiente; e il passaggio attorno alla cella perde continuità per un taglio brutale ed è invaso, ma appunto in modo brutale, per indifferenza, da un brano di spazio fruibile, lo spazio che prima era intorno al tempio, esterno. L'architetto dell'Hephaisteion non esprime la classicità. Nel suo respiro, invece, gli architetti dell'Acropoli procedono sulla via del nuovo e in particolare, come se accettassero una sfida, rimeditano con spirito critico i valori spaziali, li distinguono lucidamente, ne ritessono il passato (proprio per tale lavorio è stato possibile e lecito definirli). Nel complesso dei Propilei, Mnesicle e Callicrate (l'artefice del tempio di Atena Nike) intessono un dialogo, per un esito singolarissimo: il fronte ovest dell'atrio sud-occidentale e la faccia sud del tratto di muro che conclude a ovest l'adiacente colonnato d'ala si inclinano insolitamente verso la terrazza col tempio e il suo altare; e pare che la terrazza, scoperta, sia un interno. A conferma stanno il trattamento inconsueto di architrave e fregio del fronte ovest dell'atrio e, nel tempio, l'architrave a tre fasce, proprio, al tempo e nella madrepatria greca, di interni. Si chiariscono e si saggiano qualità dello spazio. Tempio e altare (nucleo sacro e luogo del rito) stanno entro il proprio temenos così come l'anaktoron e lo spazio intorno al trono del sacerdote (nucleo sacro e luogo del rito) stanno entro il Telesterion a Eleusi (il richiamo è pregnante, perché nella fabbrica del Telesterion pericleo è implicato Ictino). Il temenos, per essere aperto, non perde la sua qualità e può essere assimilato a quello chiuso della sala; e il limite del temenos può essere suggerito costruendone un frammento, configurando come sue pareti interne quelle esterne di parti dei Propilei. A tale coscienza di valori Ictino aggiunge la sua parola: nella fabbrica in forma di tempio che crea per Apollo Epikourios sui monti d'Arcadia lega insieme una celletta con porta a est e una sala con ingresso a nord, lasciando vivere nucleo sacro e spazio fruibile entro l'unica peristasi, al pari dell'architetto dello Hephaisteion e con ben più risoluta scelta. Ma è diverso il gesto, perché alla brutalità e all'indifferenza oppone un sottile e significativo dosaggio della figura: sia comunicando lo stato particolare di un tabernacolo che tale è soltanto all'apparenza e dissolvendone l'unità serrata col risolvere al modo arcaico il volume in piani (le colonne del fronte nord sono più corpose, e sui lati sono ridotti gli intercolumni); sia imprimendo alla sala, ora in contrappunto con Mnesicle e Callicrate, caratteri d'esterno (l'architrave ionico interno è a una sola fascia ed è presente un fregio scolpito tutt'in giro) e assimilandola a un temenos aperto. Ma non basta. Mentre l'edificio, tanto sapientemente modellato, e le opere connesse si rivelano minuscoli, indifesi, nel selvaggio ambiente montano, e la natura intatta trionfa a dire il peso del non misurabile, la sala s'arricchisce, si dilata e per un momento pare isolarsi: il contorno si flette in recessi e sporgenze di speroni murari; sui fronti degli speroni le semicolonne ioniche svettano, più in alto delle colonne doriche esterne; il confine concluso si dissolve per lame d'ombra agli spigoli della parete d'ingresso; linee e superfici dell'involucro si piegano, nelle espanse basi delle semicolonne e nella cornice aggettante sul fregio, a chiudere il vano in un profilo curvato e chiuso, a escludere l'intorno. A fronte dello spazio naturale sta ora una presenza nuova: il brano di "spazio dell'esperienza" formato per accogliere oggetti e atti umani diventa rappresentazione dello spazio, "spazio ideologico", formato per essere sufficiente in sé per virtù di figura. Ictino oppone all'architetto dello Hephaisteion un vertice di classicità, consertando l'informe e il costruito, la "partecipazione" e il "pensiero", dell'una subendo tragicamente l'erompere, dell'altro sfrenando orgogliosamente la forza creatrice. Ma è sintesi temeraria, e si spezza presto per un prevalere di "pensiero".

La crisi della classicità

Il cedimento avviene negli ultimi decenni del V sec. a.C.: l'artefice dell'Eretteo dell'Acropoli ateniese ripete fattezze dei Propilei e lega parti diverse in un sol corpo; ma non intende più i significati correlati alle figure e placa tensioni sottili mentre propone incontri aspri di parti, indifferente e brutale come l'architetto dell'Hephaisteion, anche se nuovo per un'eleganza nuova. Se classiche si vogliono chiamare le opere di Fidia, di Ictino, di Callicrate, di Mnesicle, e se il termine deve significare un contenuto profondo, la classicità è finita e, quale modo di conoscere e d'esistere, come sintesi di "partecipazione" e "pensiero", non si verificherà più nella vicenda antica. Avvilita la "partecipazione", si snoda l'avventura del "pensiero", ricca, rivelatrice di pieghe molteplici del conoscere e dell'esistere, ma stagliata contro cieli meno profondi. Si smorza il respiro di spazi aperti, formati per le presenze e gli atti che ospitano e per il nesso con l'intorno non formato. Lo spazio fruibile si sottrae al confronto, si chiude nel costruito, ideologicamente formato per essere goduto in sé. Il ripensamento critico di valori d'interno e d'esterno, sapientemente espresso dagli architetti dell'Acropoli, non ha seguito e fabbriche in figura di tempio possono indifferentemente ospitare spazi fruibili, al modo dell'architetto dell'Hephaisteion. S'articola un gioco di regola e libertà, a dar vita a classicismi e anticlassicismi: ed è gioco interno al "pensiero", che sa costruire anche il disordine. Il mutamento è radicale e illumina l'intero mondo antico, fonda revisioni critiche, delle fabbriche svela valori non intesi (non a caso si privilegia qui quanto è utile per capirlo). Che la classicità si estenda fino al IV sec. a.C. o, comunque, che esista continuità d'esperienze, è idea vacua di senso e da respingere: cara a classicismi antichi e moderni, continua, più o meno subdolamente, a inquinare il giudizio e, riducendo la classicità a classicismo, vela l'originalità delle architetture classiche e spinge a elencare e correggere pretese anomalie, a cercarne le cause, a fantasticare di progetti belli via via malamente alterati. Che la classicità sia sintesi di regola, la quale isolata dà vita a classicismi, e libertà, la quale isolata dà vita ad anticlassicismi, è idea nata da originale esigenza d'intendere (quella, sofferta, di R. Bianchi Bandinelli), ma è anch'essa da respingere, poiché, mentre della classicità coglie un aspetto concreto, la riduce a un momento, sia pure intenso, del gioco di "pensiero": mentre s'esalta il costruire, e nel costruire si consertano regola e libertà, ciò che fa unica l'esperienza classica è la capacità di abbandonarsi al subire, che ignora e regola e libertà, e ordine e disordine. Al volgere del V sec. a.C. in Grecia s'avvia una vicenda che, segnati anche noi da una cultura di "pensiero", possiamo naturalmente sentire come passato nostro: quello che c'è prima ci sfugge e, per essere riconquistato davvero, chiede il lavorio dello storico che non misuri col metro del suo tempo, ma con quello dei fenomeni che indaga.

Dal momento classico al iv secolo e all'ellenismo

Consumata la crisi degli ultimi decenni del V sec. a.C., nelle fabbriche del successivo si coglie un'ansia di recuperare coerenza, una ricerca d'ordine nuovo; e l'accento va sulla regola piuttosto che sulla libertà. Il distacco dall'architettura dell'età di Pericle è totale: il tempio di Atena Alea a Tegea segue il modello di quello di Apollo Epikourios in Arcadia, ma scompaiono le tensioni, si offusca il senso, prevale l'idea di fattezze belle; a Eleusi il Telesterion pericleo riceve un portico e il blocco murario eretto a difesa di riti misterici s'impreziosisce, a mo' di tempio. A dire il gusto di vedute frontali, talvolta s'atrofizza l'opistodomo (tempio di Zeus a Nemea). Si diffondono gli edifici a pianta circolare, con colonnati esterni d'ordine ionico (Olimpia) o dorico (Delfi, Marmaria; Epidauro): e, per quest'ultimo, è un modo per scansare il problema del triglifo d'angolo. Sorgono edifici in pietra per scopi pratici (arsenale del Pireo), per lo spettacolo (Epidauro), per adunanze (Thersilion a Megalopolis), e portici e monumenti commemorativi, a dar avvio a una durevole ricchezza dell'edificare, segno di interessi molteplici, di cura dell'umano. Si manifesta talvolta una più evidente esigenza di regola, nella madrepatria e in Asia Minore (Pytheos disegna il suo tempio ionico di Atena Poliàs a Priene secondo un serrato canone di proporzioni), dove è ricca la messe di fabbriche, anche grandiose (nuovo Artemision di Efeso; tempio di Artemide-Cibele a Sardi). Nel quadro variegato dell'età ellenistica non è agevole trovare nell'architettura i guizzi di libertà che si riconoscono nelle altre arti; e si assiste a un conformarsi di tendenze, sia pure reso meno limpido dall'incontro del mondo greco con mondi non greci. Del ritrarsi dello spazio fruibile nel costruito è eloquente esempio il Didymaion presso Mileto: il diptero immenso, sollevato sul terreno per l'alto crepidoma, racchiude una corte a cielo aperto, limitata da un muro altissimo a escludere l'intorno, nella quale sta il sacello del dio: una gradinata lega la corte e una sala a est, aperta sul pronao, destinato ai fedeli, con una porta a dimensione fisicamente non umana (la soglia è alta 1,46 m; l'accesso alla corte è garantito da due passaggi laterali in pendenza verso l'interno); vive il monumento, e pare creato più per opprimere che per ospitare. La natura rimane esclusa: nel grande altare di Pergamo, riuscita superba, l'altare vero sta in una corte rettangolare circondata da un colonnato che su tre lati si staglia contro pareti chiuse, sulle quali è scolpita la vita di Telefo in un quadro sapiente di approfondimenti prospettici ricco di scene d'esterni, e sul quarto lato, a ovest, si apre sul paesaggio. E il paesaggio, visto come immagine in una cornice, si confonde con la sua rappresentazione, si fa esso stesso rappresentazione. Nell'avanzata prima metà del II sec. a.C., Hermogenes, l'autore del tempio di Artemide Leukophryene a Magnesia sul Meandro, codifica regole per l'ordine ionico e, nella scia di Pytheos, sconsiglia l'uso del dorico, perché non privo di discordanze: precetti in armonia con l'arida involuzione classicistica che nel secondo Ellenismo pesa sulle arti. Altri dà la formula per disegnare un tempio dorico senza difetti, scansando il problema del triglifo d'angolo col porre in angolo un pezzo di metopa: è un'esercitazione erudita (non ha avuto diffusione prima del maturo Rinascimento), ma è significativa, poiché elimina un "residuo insoluto", una possibilità di scelte non codificate; qualcosa che, se estendiamo all'intera esperienza greca quanto s'è detto all'inizio, ha contribuito a garantirne la vitalità.

L'esperienza romana

Delle regole di Hermogenes e dell'idea di tempio dorico perfetto scrive Vitruvio: il classicismo tardoellenistico è componente forte dell'influenza esercitata dall'evoluta civiltà orientale su quella romana. Ma i rapporti tra i due mondi e il formarsi dell'ultima grandiosa serie di manifestazioni dell'architettura che latamente diciamo classica sono un problema aperto: basti qui qualche accenno. La civiltà greca è fondamentalmente teoretica; quella romana, fondamentalmente pratica: è dato primario, illuminante. A Roma, l'architettura appare più sentita (e resterà meno debitrice all'Oriente) di scultura e pittura (è attività che corrisponde a esigenze di vita prima che a una soddisfazione estetica) e plasma le proprie figure potenziando quelle del patrimonio medioitalico (si dovranno definire gli apporti e, tra questi, quelli dell'Etruria e della Magna Grecia), quali il tempio tripartito su podio alto e con portico anteriore profondo, il tempio con ambulatio sine postico, l'altare inserito nella gradinata d'accesso, la casa ad atrio e la sua variante con peristilio. Si crea presto, dallo scorcio del III sec. a.C. e con pienezza nel II, un modo di costruire proprio e destinato a durare per secoli, qual è l'opus caementicium unito all'impiego di archi e volte: a fronte del sistema trilitico, preferito dai Greci, sta un altro, duttile, atto a curvare pareti in orizzontale e in verticale per spazi multiformi, per articolazioni nuove, per strutture audaci. Quando, dallo scorcio del II sec. a.C., giungono a valanga a Roma opere, artisti e teorie nella scia delle conquiste che in breve volgere di tempo la fanno padrona del Mediterraneo, l'ellenismo, anche se nella sostanza sono comuni il ritrarre tutto nel costruito e il disinteresse per l'intorno, è di fatto non digerito, si direbbe; e non si sostituisce a tendenze locali, ma può legarsi con esse in esiti a volte ibridi (il tempio pseudoperiptero) ma robusti. Con più intensa presenza, quando le concezioni augustee innovano politica e cultura in senso imperiale, fornisce i mezzi (sono quelli eleganti e freddi del classicismo neoattico) per creare un'adeguata architettura celebrativa e dare a Roma un volto che possa confrontarsi e competere con quello delle città d'Oriente: ma la scelta ancora una volta non scaturisce da apprezzamento profondo, ma da esigenza pratica. E così è in futuro: le forme greche si fanno pure fattezze, non intese come sono nei loro contenuti, per nobilitare edifici eretti a significare la grandezza di Roma: edifici che, vari per tipo (insieme con i templi, i monumenti sepolcrali, gli archi onorari, sorgono portici, fori, ninfei e fontane, basiliche, terme, teatri e anfiteatri e circhi, mercati, case e ville), soddisfano d'altra parte, così come le strade, i ponti, gli acquedotti, le richieste di una società che apprezza fortemente la vita. Ma non si tratta dell'aggregazione di una sorta di pelle e del corpo che riveste: anche se possono distinguersi le origini, anche se il problema si presenta diverso in regioni diverse, corpo e pelle si fondono nel dar vita a un'architettura che romana è sin dalle origini; e al suo mutare come unità si guardi per tesserne la storia, non a una progressiva liberazione dall'ipoteca ellenistica e al correlato emergere di tratti squisitamente romani. Di tale unità è carattere il saper ripetere fattezze pure e il crearne di nuove (a differenza dall'ambito greco, dove può essere carico di senso anche un minimo particolare). L'emergere di un valore decorativo (tale può essere quello degli stessi ordini architettonici) toglie forza ai mezzi d'indagine consueti: si pensi ai tentativi, inefficaci, di ordinare secondo schemi di sviluppo coerente, spesso al fine di definire datazioni, membrature, ad esempio un tipo di capitello, che sviluppo coerente possono non avere (le datazioni, in mancanza di dati certi, fluttuano ancora). Così, soprattutto per seguire, come ci siamo proposti, il gioco di regola e libertà, siamo spinti a cercare mezzi nuovi, là dove emerga significato chiaro. Tra i molti rammentiamo il rapporto tra le parti delle fabbriche che a segno di regola convergono, graduate, a una, che è culmine dell'unità dell'insieme, o, a segno di libertà, assumono forza in sé e nell'unità lasciano vivere un confronto (ciò vale nell'antichità romana, nell'Alto Medioevo, per antitesi, e nel Rinascimento e oltre); l'emergere di elementi costruiti entro spazi ideologici, che sussurra l'insofferenza del vuoto e il bisogno di farlo vivere per qualcosa, sia pure privo di vita; l'accrescersi di spazi intorno a quello interno, negli edifici a pianta centrale, a suggerire rappresentazioni sempre più esclusive dello spazio e la forza dell'ideologia. Con tali mezzi (e se ne potrebbero dire altri) si può delineare una vicenda. Al classicismo augusteo segue un turbamento, avvertibile al tempo di Claudio, evidente con Nerone (ampiezza degli ambienti a contorno della sala ottagona della Domus Aurea) e con i Flavi (colonne libere che fronteggiano la parete interna del domizianeo Foro Transitorio, ad essa legate per tratti emergenti della trabeazione). Al nuovo classicismo traianeo s'oppone, al tempo di Adriano, il convivere di classicismo e anticlassicismo: un "classicismo romantico", come l'ha definito R. Bianchi Bandinelli con un termine nato nel XX secolo per i tempi di J.J. Winckelmann (misura e scontri violenti di parti del Pantheon romano; colonne libere, anche nei piedistalli, a fronte di pareti nella biblioteca e nell'arco di Adriano ad Atene). Saldo è il momento antonino; turbati quello severiano (colonne libere della via adiacente alla basilica di Leptis Magna, emergere del caldarium nelle Terme di Caracalla) e i seguenti (forza dei piloni del fronte esterno del frigidarium delle Terme di Diocleziano a Roma). Con Costantino, un classicismo che può anche vivere in figure di precedenti anticlassicismi (lo spazio ideologico, nel mausoleo di Costantina a Roma, s'arricchisce di suggestioni d'ombre). Ma l'esperienza antica volge al suo termine, vengono tempi nuovi, e per un verso l'ideologia trionfa nel mondo protobizantino, per altro verso è superata per una concretezza. Per un fermento che dà frutti pieni in età carolingia, il rapporto tra parti dell'edificio diventa scontro e dialettica di uguali (il Westwerk), lo stesso confine murario si disarticola (S. Giustino a Hoechst), trionfa lo spazio dell'esperienza, nelle sue modulazioni, per ospitare oggetti e atti umani. Per un verso il "pensiero" si volge a trionfi diversi; per altro verso, dopo secoli, dilata orizzonti la "partecipazione". Per via d'architettura si traggono dunque conclusioni diverse da quelle correnti, che delineano un Medioevo fondato sull'astrazione, sull'irrazionalismo? No, se si rivedono le idee correnti; se si comprende che all'astrattismo figurale non corrisponde necessariamente un contenuto astratto (il connubio tra figure e contenuti non è immutabile); se si scorge che l'astrattismo figurale può significare la dissoluzione del naturalismo di una civiltà morente, ma anche l'amore di una che nasce: un amore della realtà tanto grande, da rifiutarne la rappresentazione, perché il vero si vive, non si sostituisce con un simulacro del vero.

Bibliografia

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