L'architettura barocca e le nuove sfide del costruire

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Tecnica (2013)

L’architettura barocca e le nuove sfide del costruire

Gianfranco Gritella

Nascita, sviluppo e caratteristiche dell’architettura barocca

L’età del Barocco è caratterizzata da un mutamento profondo dell’estetica architettonica che coinvolge i rapporti tra le diverse parti dell’edificio e che produce, nell’arco di oltre due secoli, un continuo divenire e un successivo scomparire di forme complesse. Queste trasformazioni generano delle metamorfosi ricorrenti, che evolvono con ricerche nuove e tensioni articolate, le quali, a loro volta, con modalità espressive molto variegate coinvolgono lo spazio architettonico e la decorazione.

Con l’avanzare del Seicento si assiste a un profondo rinnovamento culturale di cui è artefice soprattutto la generazione dei matematici, dei filosofi e degli architetti attivi tra il 1640 e il 1690. La riscoperta della natura, dello spazio come elemento mentale e biologico, di nuovi modi espressivi, nonché il rinnovamento tecnologico – nuovi materiali per la decorazione, l’impiego monumentale ed eloquente della prospettiva come mezzo di persuasione, una sensibilità più spirituale e interiore nei confronti dell’espressione decorativa – conducono, a partire dal Settecento, alla fase decisiva di maturazione del Barocco.

Infatti, con gli anni Venti di quel secolo il ceppo vitale della multiforme retorica secentesca conduce alla riscoperta del pittoresco, a un’esuberanza decorativa filtrata da una sensibilità fatta di apparenze e illusioni, con la tendenza a una ricerca intimistica che guarda alla natura, al mito dell’Arcadia perduta. Si esalta l’attività umana, il mestiere come valore tramandato da generazioni di artigiani. La cultura scientifica basata sulla ragione si muove verso una raffinatezza di forme che condurrà precocemente a espressioni tecniche e capacità artistiche controllate da talenti virtuosi attraverso una revisione della sensibilità e del gusto estetico del secolo precedente. Prende valore la convinzione che l’illusione di un’età scomparsa stia all’interno dell’anima e dello spirito propri di ciascun individuo e non debba essere appassionatamente esibita attraverso una retorica enfatizzata e razionalizzata.

Fattori diversi, anche economici e politici, conducono in Europa alla nascita dell’architettura di corte e dell’accademismo internazionale, e dopo il 1740 si assiste allo svilupparsi di singolari autonomie espressive, tipiche dell’età del rococò. Si confrontano tendenze artistiche differenti e si concretizzano sperimentalismi urbanistici nuovi, che investono le città capitali. Al naturalismo si contrappone in architettura il gigantismo, mentre nella seconda parte del secolo nuove sensibilità filosofiche, come la dottrina sensista, producono effetti vigorosi sulle ricerche relative alle strutture architettoniche aperte e agli organismi edilizi a pianta centrale.

L’architettura e la decorazione si evolvono, attraversando aree geografiche nettamente distinte e intraprendendo strade diverse che passano dal neoguarinismo per condurre alla stagione finale del secolo dei lumi, nella quale l’affermarsi di una coscienza del sociale esprime un nuovo classicismo, intersecato nella sua fase estrema dalle mode decorative dell’ultimo barocchetto, con i motivi ornamentali dell’esotismo e del frantumarsi della rocaille, mentre si sviluppa e si afferma la nuova filosofia del positivismo, che apre al primo Ottocento.

I protagonisti di questa lunga stagione, che si estende dal Seicento fino agli ultimi decenni del Settecento, realizzano le loro opere in quelle regioni europee – Italia, Germania, Austria e Boemia, soprattutto – in cui la Controriforma ha inciso più profondamente sulla società, ponendo le basi per il controllo delle coscienze, a cui aspirano, oltre alla Chiesa di Roma, anche le monarchie assolute.

Con il contributo di filosofi come Thomas Hobbes, John Locke, Gottfried Wilhelm von Leibniz e Baruch Spinoza, il Seicento cerca di trovare un’alternativa alla cosmologia medioevale e all’antropocentrismo dell’Umanesimo. I rapporti tra spazio infinito e centralità, tra estensione illimitata e fulcro, generano nuove concezioni architettoniche, basate sul dinamismo e sul movimento. In architettura come in filosofia, si tenta di coniugare la finitezza dell’orizzonte terreno con l’infinito trascendentale del cosmo.

Nell’architettura sacra, il compito dell’architetto sarà così quello di creare un edificio in grado di guidare il fedele in un percorso verso un centro – il dogma – inteso come il cardine dell’esistenza umana e spirituale. In ambito laico, si tratterà di creare nuove organizzazioni urbane e territoriali, in cui da un luogo centrale, sede del potere, si irradiano differenti sistemi minori, subordinati a un unico principio ordinatore che ne controlla la genesi e la proliferazione.

Se il Rinascimento, nella sua parte iniziale, è stato il primo periodo in cui si è tentato di riorganizzare gli elementi del codice architettonico sulla base dei principi di Vitruvio, il Barocco rappresenta «l’ultimo e disperato tentativo di raggiungere questa stessa meta» (Kaufmann 1955, trad. it. 1966, p. 96). I sistemi concettuali e organizzativi dell’architettura barocca, sino alla reazione finale neoclassica, traggono dunque le loro basi dal sistema rinascimentale e attingono, in particolare nell’età postbarocca, al sistema medioevale.

L’edificio si caratterizza non solo per le proporzioni matematiche e le simmetrie tipiche dell’età rinascimentale, ma soprattutto per la differenziazione gerarchica tra le parti, arricchendosi di elementi nuovi, come l’integrazione e la graduazione, e accostando e fondendo la decorazione con il telaio architettonico, sino a modificarne gradualmente i valori semantici desunti dalla tradizione. Le forme canoniche assumono così nuovi significati, più intimamente connessi con i dinamismi insiti nell’intera dimensione spaziale dell’edificio.

Gli architetti barocchi rielaborano in forme nuove il tema, rimasto sostanzialmente irrisolto, del rapporto tra le singole parti e l’intero edificio, ossia tra le parti e il tutto e tra le parti fra loro, una problematica innescata proprio dall’architettura rinascimentale. La ricerca proporzionale conduce inevitabilmente alla ricerca di finalità che, partendo dal rafforzamento di singoli elementi del telaio architettonico di facciata, si sviluppano sino a coinvolgere prima il sistema strutturale, poi l’involucro esterno e, infine, l’intero organismo edilizio.

Trasformismi architettonici dal Seicento al Settecento

A partire dal Seicento, dopo l’età degli esperimenti sintattici dei manieristi, s’inizia a conferire preponderanza a elementi verticali come colonne e lesene, in diretto rapporto con fasce orizzontali e cornicioni. Tale processo, in realtà, era stato avviato già da Michelangelo Buonarroti (1475-1564) e da Andrea Palladio (1508-1530) – i quali ne avevano dato esempi concreti rispettivamente nel vestibolo della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze (progettata da Michelangelo tra il 1524 e il 1526 e costruita da Bartolomeo Ammannati nel 1560), e nella chiesa del Redentore a Venezia (iniziata nel 1576) e nel tempio di villa Barbaro a Maser presso Treviso (1550-60) –, ma raggiunge l’apogeo nell’età di Francesco Borromini (1559-1667) e di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680). Entro l’intelaiatura prevista dal sistema classico (ma non necessariamente canonico secondo la codifica vitruviana), i muri cominciano a inflettersi e a incurvarsi; l’edificio assume una configurazione planimetrica definita da progressive espansioni e contrazioni, alternate a settori di parete rettilinei, creando un effetto mosso e dinamico che dalla pianta si trasferisce all’intera superficie delle pareti. Un esempio fra tanti, la cappella del castello di Smiřice in Boemia (nota anche come cappella Šternberk; 1699-1711), da molti attribuita a Christoph Dientzenhofer (1655-1722), nella quale è perfettamente compiuto il processo di relazione complementare tra interno ed esterno: un concetto che evolve dai principi compositivi di Guarino Guarini (1624-1683) espressi nella chiesa torinese dell’Immacolata concezione di Maria Vergine (nota anche come chiesa dell’Arcivescovado e iniziata nel 1675).

Verso la metà del Settecento, l’aulica stagione della rocaille consentirà di assistere all’ultima mutazione della forma architettonica, in cui la struttura portante sostiene la dissolvenza della parte e della decorazione; la reazione a questa sterilità scheletrica della forma edilizia, divenuta quasi per intero modellata dalla luce, segnerà la fine della stagione barocca e l’affermarsi del neoclassicismo.

Il bisogno di stabilire una relazione tra ambiente esterno e spazio architettonico interno è il risultato di una ricerca che comincia nell’età rinascimentale, per trovare nuova linfa nelle istanze metafisiche ed estetiche proprie della concezione naturalistica del Settecento. La tendenza a unificare in un divenire continuo gli spazi dei volumi edilizi e l’ambiente aperto circostante, agevola l’avvento di soluzioni strutturali a scheletro portante dedotte dall’architettura gotica. La rottura dei confini periferici conduce alla disgregazione dei volumi degli edifici, che generano, quasi per gemmazione, elementi isolati satellitari, sovente posti ai vertici delle figure geometriche semplici che sono alla base del principio compositivo dell’edificio; il processo, replicato e frammentato, conduce a generare piante complesse, ricche di simbologie latenti. La destrutturazione dell’impianto principale, con il dissolversi delle pareti e la creazione di membrane secondarie che uniscono gli elementi isolati, produce nell’architettura religiosa il diffondersi di un vasto repertorio di piante ricche di simbologie teologiche e rituali, piante che combinano cellule spaziali isolate aggregate fra loro secondo una regola geometrica simmetrica. L’utopia barocca di dare unità generale all’edificio, in particolare a quello religioso, attraverso l’integrazione di singole unità spaziali in sé compiute e svincolate dall’impianto planimetrico d’insieme, conduce alla riappropriazione dell’organismo unitario iniziale, all’interno del quale le singole parti ritrovano una loro posizione canonica e gerarchica.

Il principio barocco della disgregazione dei volumi interni trova la sua consacrazione nella chiesa veneziana di S. Maria della salute (nota come la Salute; iniziata nel 1631), di Baldassare Longhena (1596 ca.-1682), e nel santuario torinese di S. Maria della consolazione (noto come la Consolata; iniziato nel 1678), di Guarini, dove gli spazi si affrancano dalla navata principale e trovano un’autonomia satellitare come cellule in sé conchiuse rispetto allo spazio liturgico centrale.

A partire dalle suggestioni matematico-spaziali del secolo precedente, l’architettura sacra barocca del Settecento ricerca tensioni contrapposte generate dalla compresenza di moti e assi, che evidenziano entrambi, sia nelle chiese a pianta longitudinale sia in quelle a pianta centrale, un elemento architettonico di riferimento inglobato in uno o più sistemi affiancati, ciascuno dotato a sua volta di una propria centralità, costituita sempre da una figura geometrica semplice o poco complessa. Tutti gli spazi secondari partecipano, sia in pianta sia in alzato, alla creazione dell’organismo generale, il quale è ‘centrato’ simmetricamente su un volume emergente o chiaramente individuabile. Spesso gli spazi minori sono tra loro incardinati e intersecati e lo schema geometrico è fornito da un asse allungato, inclinato o ortogonale rispetto all’asse di simmetria principale che controlla l’intero organismo. Fra tutti, alcuni esempi di riferimento sono rappresentati dalla chiesa dell’abbazia dei SS. Ulrico e Afra presso Neresheim nel Baden-Württemberg, progettata nel 1748 da Balthasar Neumann (1687-1753), e da certi edifici religiosi di Leonhard Dientzenhofer, come la chiesa dell’abbazia benedettina di Banz presso Bad Staffelstein in Baviera (iniziata nel 1698).

Nella ricerca dell’autonomia delle parti diviene protagonista la materia costituente la struttura portante degli edifici, in particolare la pietra, che viene lavorata sino a generare la decorazione; quest’ultima ‘sgorga’ direttamente dal materiale costituente l’edificio, a cui poi si adattano e si aggiungono il legno, l’intonaco, il laterizio e, di conseguenza, i materiali nobili come i metalli e persino il vetro, che sono riassorbiti nell’architettura in un processo d’integrazione che si rifà allo spirito berniniano del ‘mirabile composto’. Si assiste così a una sorta di mutazione delle forme proprie della tradizione classica, fino a quel momento rappresentate da sistemi costruttivi costituiti dall’impiego di materiali la cui posizione e forma nel contesto del telaio architettonico corrispondeva, semanticamente, a uno specifico ruolo, strutturale o di complemento. In particolare, all’uso della pietra, impiegata per le colonne, gli architravi e le membrature del telaio figurativo, corrispondeva il ruolo strutturale. A quello del laterizio, dello stucco e dell’intonaco, corrispondeva il ruolo di complemento; entrambi, nella loro coesistenza e con un differente trattamento superficiale, sono i segni di riferimento coloristico delle componenti esteriori dell’architettura e derivano dai principi compositivi e dall’estetica del Rinascimento, soprattutto da quella fiorentina del Quattrocento.

Il Barocco produce una mutazione profonda di questa concezione, sia nella forma esteriore sia nell’uso e trattamento concettuale dei materiali, i quali si arricchiscono e si ricoprono di un’epidermide coloristica che nasconde la materia di cui sono fatti. Si va verso materiali duttili, che possono essere facilmente modellati per assecondare la svolta organica, prevalentemente antropomorfa e vegetale, che si vuole imprimere all’architettura. Attraverso un’abile manipolazione, anche materiali ‘duri’ come la pietra e il mattone possono apparire malleabili come creta e gesso. L’intonaco si estende a coprire la struttura litologica e laterizia, così che tutte le ‘dimensioni’ figurative dell’architettura appaiono amalgamate in una plasticità uniforme.

Il nuovo protagonista diviene il colore, che raggiunge la sua massima efficacia vitalistica e di persuasione nelle opere d’illusione architettonica di Pietro da Cortona (1596-1669) e di Andrea Pozzo (1642-1709) e nella pittura libera delle dimore reali, con l’impiego di nuove materie decorative a cornice delle imprese arcadiche e mitologiche, di Giambattista Tiepolo (1696-1770), Francesco Trevisani (1656-1746) e Luca Giordano (1634-1705).

Nei Paesi ove la tradizione del costruire con la pietra è consolidata, come la Francia e la Germania, s’impiegano materiali lapidei particolarmente adatti alla lavorazione scultorea, portando quasi all’estremo le caratteristiche di resistenza di pietre sedimentarie come i calcari e le arenarie, di facile trasporto e rapida lavorazione. Fra gli esempi più noti, il complesso rococò del Palazzo Zwinger di Dresda, eretto a partire dal 1712 da Matthäus Daniel Pöppelmann (1662-1736) e pervaso da un decorativismo che si sviluppa direttamente dalla forma che sostanzia la struttura.

In Italia, soprattutto in Piemonte, la scarsa dimestichezza con la pratica del costruire in opera lapidea e, per contro, la consolidata tradizione nella costruzione laterizia (che affonda le sue radici nell’architettura tardomedioevale e soprattutto quattrocentesca) producono, in età barocca, un repertorio tecnico e decorativo di eccezionale qualità. La svolta, dopo le esperienze tardocinquecentesche di Ascanio Vittozzi (1539- 1615), è ancora opera di Guarini, che introduce sperimentalismi unici ed eccezionali nel campo della stereometria lapidea, con le arditissime soluzioni tecnico-decorative attuate nella cappella torinese della Sacra Sindone (iniziata nel 1667), dove sperimenta gli esiti statico-decorativi dell’abbinamento di pietra e laterizio. Quest’ultimo viene modellato in forme sorprendenti ed è lavorato ‘a secco’, cioè in postcottura – secondo la tradizione medioevale che implica l’uso di mattoni di forma speciale, ricavati da casseforme e stampi semplici, e poi rifiniti con raspa, lima e martellina –, oppure ‘a umido’, calcando l’argilla in matrici lignee così da ricavarne elementi preformati al banco, ossia già finiti e pronti per la cottura, poi destinati a comporre forme decorative complesse, ottenute mediante l’accostamento di elementi scultorei fittili, come capitelli e forme vegetali o antropomorfe.

Queste tecniche sostanziano l’epidermide esterna dell’edificio, che è destinata a ricevere l’intonaco o che, eccezionalmente, come in altri due progetti torinesi di Guarini, quelli per Palazzo Carignano e per il Collegio dei nobili (entrambi del 1679), rimane a vista, producendo i così potenti esiti espressivi della civiltà edilizia del Seicento piemontese, tecnologicamente più avanzata del sistema borrominiano.

La tecnologia del laterizio è la materia base che dà forma all’architettura di scuola juvarriana, dove però il mattone, come in Benedetto Innocente Alfieri (1699-1767) e in Gian Giacomo Plantery (1680-1756), è ridotto a supporto essenziale, privo di valore figurativo e destinato solo a sostenere il successivo strato d’intonaco, il quale è invece impiegato in maniera abbondante e plastica – con l’ausilio di armature metalliche immerse nella malta modellata – per conferire forma e dimensione all’ornamento dell’architettura.

Con l’affermarsi del Barocco, si accentua la tendenza al ‘gigantismo’ delle fabbriche edilizie di committenza aristocratica e religiosa, a iniziare dai complessi lavori di completamento delle basiliche di S. Pietro e di S. Giovanni in Laterano a Roma.

La necessità di portare a compimento fabbricati grandiosi, come le residenze delle corti europee, rende i cantieri sempre più complessi, anche per la compresenza di artisti e tecnici addetti alla realizzazione di opere aventi natura e difficoltà molto differenti tra loro. Risulta quindi necessario sperimentare e mettere a regime operativo tecnologie, sistemi costruttivi e meccanismi nuovi, rivolti a facilitare le fasi di costruzione, riducendone i tempi e i costi.

La figura dell’architetto e le accademie

L’emergere di figure specialistiche come i ‘matematici’, che con verifiche sperimentali tentano in modo sempre più articolato un approccio scientifico e teorico a sostegno di scelte tecniche e strutturali complesse, apre il campo a nuove identità professionali.

Sino alla metà del Seicento non esiste in Italia una scuola di architettura. Gli studi professionali sono i principali protagonisti dell’ars aedificandi e i luoghi deputati alla formazione professionale di intere generazioni di architetti. La loro struttura organizzativa è basata su gruppi di professionisti specializzati, cui sono affidate mansioni specifiche. Nello studio di Bernini, oberato di grandi commesse architettoniche e scultoree provenienti dalla corte pontificia e da quelle cardinalizie, opera un nutrito gruppo di referenti di progetti specifici, che coordina collaboratori, apprendisti e garzoni. Al titolare è riservato il compito prima di concepire, abbozzare e talvolta delineare le fasi iniziali, e poi di supervisionare l’opera.

Nel 1673, presso l’Accademia di S. Luca a Roma sono istituiti corsi regolari di architettura, prospettiva e anatomia, e a partire dal 1702 i ‘concorsi clementini’ (così chiamati perché promossi da papa Clemente XI) offrono – prima ogni anno e poi, a partire dal 1716, per lo più ogni tre anni – l’occasione per premiare gli architetti vincitori, molti dei quali hanno già svolto un tirocinio presso gli studi professionali più affermati della città. Tuttavia, soprattutto a Roma, lo studio dell’architetto-artista resta per tutto il Settecento il luogo per la formazione delle nuove generazioni. In quegli ambienti si formano anche molti dei professionisti stranieri inviati a Roma dalle corti d’Europa: questi, infatti, dopo aver studiato presso un’istituzione accademica, e prima di fare ritorno ai luoghi d’origine, svolgono un apprendistato presso gli studi d’architettura più celebrati dell’Urbe.

Con la stagione berniniana si chiude definitivamente la generazione in cui l’architetto è il padrone di tutte le tecniche, il giudice supremo delle scelte artistiche in campo architettonico, plastico e pittorico. Carlo Fontana (1634-1714), il più noto continuatore di Bernini, rivendica la specifica padronanza della materia architettonica, distinguendola dalle altre competenze artistiche, che non possiede. Con lui comincia ad affermarsi la figura dell’architetto moderno, il cui prestigio si basa su un’unica, specifica professione. Prima dell’egemonia esercitata da Ferdinando Fuga (1699-1781) e da Luigi Vanvitelli (1700-1773), lo studio di Fontana è un riferimento organizzativo essenziale; viene esportato anche in altre città tramite i suoi allievi, come avviene con Filippo Juvarra (1678-1736) e il sistema operativo da lui organizzato a Torino dopo il 1714. Si diffonde la nuova figura professionale dell’architetto moderno, con affermazioni e incarichi di prestigio a livello internazionale, come avviene in Francia con gli esponenti di maggior spicco dell’Académie royale d’architecture – istituita nel 1671 e guidata fino al 1686 da Nicolas-François Blondel (1618-1686) e negli anni 1687-1735 da Robert de Cotte (1656-1735) – e con i collaboratori del premier architecte du roi, Jules Hardouin-Mansard (o Mansart, 1646-1708).

Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini

Bernini e Borromini costituiscono due nodi essenziali per comprendere lo sviluppo dell’architettura barocca e il suo ‘stacco’ rispetto alla tradizione classicista rinascimentale.

L’elemento essenziale di rottura con la tradizione sta nell’uso dell’ordine architettonico e di conseguenza nell’impiego del linguaggio degli ordini, che Borromini rivoluziona rispetto allo stile manierista e protobarocco ancora presente in Bernini, operando una cesura netta anche rispetto al lieve solco prodromico avviato da Carlo Maderno (1556-1629) nelle facciate di due chiese romane, quella di S. Susanna (completata nel 1603), tradizionalmente ritenuta la prima opera orientata verso il ‘gusto’ barocco, e quella di S. Pietro in Vaticano (iniziata nel 1608).

Borromini comprende che è possibile impiegare il linguaggio degli ordini non più come codice regolatore e invariato ordinatore proporzionale del telaio ornamentale di facciata, né come modulo di riferimento planimetrico, e inizia quindi con lo scardinare i vincoli derivanti dall’impiego immutabile del codice classicista; peraltro, già Michelangelo aveva cominciato a utilizzare gli ordini con un’articolazione più variata, più disinvolta e meno relazionata con sistemi edilizi e canoni proporzionali rigidi e geometrici. Il passo successivo, oltre il colonnato ‘classico’ di Bernini, che appare come manifestazione ultima del linguaggio manierista di ascendenza ancora cinquecentesca – sebbene si svincoli dai contesti storici precedenti nell’impianto ellittico, tipicamente barocco, della piazza –, sarà quello di considerare il sistema dell’ordine architettonico a priori, conferendogli un ruolo di autonomia caratterizzante rispetto all’impianto proporzionale e costitutivo dell’edificio, impostato in precedenza.

Questo procedimento di stravolgimento della forma e dell’ornamentazione conduce, in Borromini, a concepire lo spazio nella sua complessa totalità, come matrice costituente dell’architettura che lo avvolge; una concezione che appare oggi di sorprendente attualità.

Nella sua impostazione architettonica, Borromini esprime in maniera tangibile il concetto filosofico cartesiano della dualità tra la realtà dello spazio fisico (res extensa) e la realtà della dimensione psichica (res cogitans). Questo concetto si esprime con un rigore assoluto nel controllo dello spazio, che è plasmato con lucidità meccanica attraverso un processo costruttivo basato sull’impiego di figure geometriche semplici ma differentemente articolate, in maniera tale da congegnare meccanismi strutturali e proporzionali molto complessi, che dispiegano tutte le loro potenzialità all’interno degli edifici racchiusi entro una membrana continua che non rivela il sistema costruttivo interno (cfr. P. Portoghesi, Roma barocca, 1966, p. 155). Complice una tecnica costruttiva raffinata, basata quasi esclusivamente sull’impiego del laterizio, la ricerca dell’unità spaziale dei volumi borrominiani si enuncia già nelle prime opere romane (la cappella del Sacramento in S. Paolo fuori le mura, 1629, l’oratorio dei Filippini, a cui Borromini lavora dal 1637) e in alcune degli anni seguenti (in particolare nella facciata laterale del palazzo di Propaganda fide, a cui lavora dal 1646), dove all’interno dei contenitori murari è inserita una nuova direzione geometrica, prevalentemente obliqua, una rotazione diagonale delle strutture che innervano lo spazio, creando dei reticoli scheletrici che scalano le pareti e intersecano le volte.

La rottura con la tradizione cinquecentesca e la ricerca di una continuità spaziale sono risolte da Borromini con espedienti diversi, come avviene tra il 1634 e il 1641 nel complesso di S. Carlo alle Quattro fontane. Qui, nell’interno della chiesa come nel chiostro e in molti ambienti del convento, si osserva il sostanziale rifiuto dell’angolo retto, sostituito da lesene diagonali e raccordi concavo-convessi. Settori di trabeazioni curvilinee si espandono e si inflettono, accompagnando senza soluzione di continuità la curvatura degli archi che emergono a segnare gli assi della navata.

Lo stesso avviene nella navata della chiesa di S. Maria dei sette dolori (progettata nel 1642 e rimasta incompiuta). Borromini vi sviluppa il proprio concetto di spazialità estesa, applicando un meccanismo di ricerca compositiva basato sull’addizione di spazi concatenati che si influenzano reciprocamente. Ogni individualità spaziale è contraddistinta da forme che derivano da tensioni scatenate da ciascuna figura; questa genera un campo di forze, le quali influenzano lo spazio adiacente. Il meccanismo fuoriesce dall’edificio per influenzare lo spazio esterno. Ne deriva che le singole unità componenti lo spazio architettonico si contraggono e si espandono, influenzando l’andamento delle pareti che delimitano ciascuna cellula, creando quell’effetto di moto continuo, definito di giustapposizione pulsante, che diverrà un paradigma di riferimento per intere generazioni di architetti barocchi, fino alla metà del Settecento.

In Italia, la tradizione potente del Seicento romano, e borrominiano in particolare, conduce verso un’architettura del palazzo urbano che rielabora con forme autonome, derivate dalla tradizione, la volontà di dare continuità fluida e nello stesso tempo plasticamente vigorosa al telaio decorativo esteriore, come avverrà compiutamente a Roma per il Palazzo Doria al Corso (1731-35) di Gabriele Valvassori (1683-1761) o, in forme ricche di una tensione vibrante e arguta, nelle opere di Filippo Raguzzini (1690-1771) – con il complesso dei palazzi di piazza Sant’Ignazio (1727-28) – e di Alessandro Specchi (1668-1729).

L’influenza esterna, mitteleuropea più che francese, appare solo in alcune opere del decennio centrale del Settecento, a eccezione di Palazzo Corsini alla Lungara (1730-40), oggi sede dell’Accademia dei Lincei, opera di Fuga, il quale coniuga, nel meccanismo compositivo centrato sul doppio sistema scalone-vestibolo a doppia altezza, i principi compositivi del palazzo urbano della villa di campagna.

In sintesi: Bernini sviluppa un’architettura basata su un insieme di segni ed elementi costitutivi ancora razionali e ‘classicisti’, impiegati come telaio essenziale e canonico su cui adagiare una ‘reazione’ decorativa fantasmagorica e visionaria; Borromini, con l’utilizzo di un codice che possiamo definire surrealista, tenta una fusione tra relazioni diverse, giocando sulla compenetrazione tra struttura, involucro, spazio e codice decorativo, generando una rielaborazione unitaria dell’insieme per elementi semplici ma variati e combinati fra loro.

Guarino Guarini

Il passo successivo nella ricerca di una completa interrelazione spaziale tra i volumi che sono alla base delle concezioni architettoniche borrominiane, è svolto da Guarini, che percorre una ricerca compositiva basata sulla giustapposizione di figure geometriche e cellule spaziali indipendenti, raggruppate o collocate in sequenza, parzialmente relazionate o intersecate, comunque disposte o in successione concentrica su un polo centrale o lungo uno o più assi preferenziali.

Ne deriva che il movimento dell’involucro esterno si adatta alla relazione e al ‘pulsare’ delle cellule che ne definiscono l’organismo costitutivo; questa reciproca relazione tra interno ed esterno conduce in Guarini a una sintesi astratta, più fortemente psicologica rispetto a quanto avviene in Borromini.

Guarini considera l’architettura alla stregua di un organismo vivente, le cui strutture portanti, esposte in tutta la loro forza vitale, sono come gli elementi costitutivi di un sistema organico pietrificato, dove le forme, come egli stesso scrive, sono espressione del «moto spontaneo di dilatazione e contrazione […] diffuso per l’intero essere vivente» (Placita philosophica, 1665, p. 755).

Tale concetto si esplicita in una duplicità tecnico-formale, ben evidente se si osservano le piante degli edifici di Guarini, che sono organizzate mediante la sovrapposizione e la compenetrazione di figure geometriche indipendenti; queste vengono ruotate e integrate, a definire spazialità complesse secondo schemi continui, evoluti nella sintesi di geometrie latenti che determinano la definizione degli schemi strutturali essenziali, giocati sull’intreccio di strutture talvolta portate all’estrema sintesi di resistenza dimensionale. Questa modalità concettuale di concepire gli edifici come sistemi integrati, ove le linee di forza divengono i gangli innervati di un organismo permeato da una vitalità quasi antropomorfa, si comprende ancora meglio negli elevati, ove attorno all’asse verticale centrale è inanellata in successione ascendente tutta una serie di volte sovrapposte, spesso ridotte alle sole componenti, quasi filiformi, di un sistema scheletrico riconducibile alla trama di complessi canestri di giunco. È questo un sistema che si evolverà nel secondo Settecento, portando a soluzioni tecniche in cui la tendenza a una centralità sacrale lascia il posto a una ricerca priva di retorica.

Questo processo, caratterizzato da spiccate autonomie regionali, si sintetizzerà, soprattutto in Italia, nella pura astrazione strutturale, potremmo dire spirituale, in cui la teatralità che abbiamo ricordato precedentemente si estremizza sino a divenire, appunto, pura struttura. Tale principio risulterà pienamente evidente solo all’interno degli edifici religiosi a pianta centrale, come quelli, eccezionali, di Guarini, che evocano, nel loro intreccio di linee di forza non separabili, l’essenza di una ricerca del divino che continuerà per tutto il Sei e Settecento, unendo con metamorfosi continue il Barocco di Borromini e Guarini con la distillata purezza di Bernardo Antonio Vittone (1704-1770), sino al tedesco Dominikus Zimmermann (1685-1766) e poi all’architettura illuminista della Rivoluzione francese.

I principi che Guarini applica negli edifici religiosi tengono conto delle precedenti esperienze francesi e in particolare delle opere parigine di François Mansard (o Mansart, 1598-1666), come la chiesa della Visitazione (1632-34) o la chiesa di Val-de-Grâce (iniziata nel 1654), in cui la struttura radiale del nodo cupola-transetto è inserita in uno schema a croce latina. Saranno invece alcune opere torinesi di Guarini, come la chiesa di S. Lorenzo (iniziata nel 1634) e la già citata cappella della Sindone, a costituire i riferimenti principali per le generazioni degli architetti dell’Illuminismo.

Guarini introduce sperimentalismi unici ed eccezionali nel campo della stereometria lapidea, con le soluzioni tecnico-decorative arditissime attuate nella cappella della Sindone. Egli sperimenta qui gli esiti – sino ad allora difficili da valutare e ritenuti poco efficaci dal punto di vista tecnico ed estetico – derivanti da una duplicità statico-decorativa giocata sul mutuo soccorso strutturale della pietra e del laterizio. La caleidoscopica struttura della cappella è impostata su una pianta circolare, il cui perimetro interno presenta una partizione architettonica parietale asimmetrica, derivata dall’affaccio della cappella sul fondo dell’abside del duomo (S. Giovanni Battista) e dal vincolo di collocare tre ingressi preesistenti – due comunicanti con gli scaloni laterali che conducono al duomo e uno verso il Palazzo ducale (oggi Palazzo reale) –; tali ingressi determinano la suddivisione del perimetro circolare in nove sezioni. Questi settori, divisi a due a due, definiscono gli apici di un triangolo i cui vertici fuoriescono dalla pianta della cappella. Il triangolo base corrisponde ai piedritti verso cui convergono tre potenti arconi, che nella loro rivoluzione si inclinano rispetto al piano della generatrice per adattarsi e innervare una calotta sferica, a sua volta interrotta da tre ampi e poco profondi semibacini a copertura di altrettante concavità molto schiacciate. Questo elaborato sistema, conosciuto anche come tronco di cono, sostiene a sua volta il tamburo cilindrico, traforato da sei arcate e strutturalmente costituito da una doppia, potente muratura, secondo una concezione già sperimentata da Guarini, tra il 1662 e il 1666, nella chiesa di Sainte-Anne-la-Royale a Parigi. Qui il muro interno era costituito da un giro di colonne libere, accoppiate e allacciate tra loro a due a due mediante archi a pieno centro, così da delineare una corona di serliane senza soluzione di continuità.

Nella cappella della Sindone il tamburo sostiene una pseudocupola inconsueta: un vero e proprio canestro di nervature lapidee, generate dalle cornici degli archi dei finestroni interni del tamburo medesimo, cornici che con andamento sinuoso divengono le linee di una linfa pietrificata che continua a salire sino a raggiungere l’apice della volta. Il sistema delle nervature è costituito da settori di archi depressi, impostati seguendo in pianta delle figure esagonali regolari, scalate dimensionalmente verso l’alto e replicate, ruotate e sovrapposte le une sulle altre sei volte. Si crea così una struttura scheletrica completamente aperta, ove le linee di forza divengono un libero ornamento interno, dissimulato esteriormente da una successione di cilindri via via più piccoli, intercettati da sei archi rampanti che riprendono la soluzione borrominiana della chiesa di S. Ivo alla Sapienza (1643-64). Il fantasmagorico organismo, uno dei più complessi di tutta la civiltà architettonica barocca, genera aperture finestrate di forma libera, residui dello spazio di luce nel quale si erge la composizione guariniana, conclusa al vertice da una spettacolare camera di luce. Quest’ultima è costituita da una calotta in muratura, preceduta all’interno da una stella lapidea che si libra nel vuoto, resa del tutto indipendente dal soprastante cupolino.

Tale opera affonda le sue origini nella codificazione classica della regola proporzionale rinascimentale, ma se ne libera nel suo crescere in altezza, quando la ricerca decorativa si arricchisce di riferimenti semantici e di spunti teoretici legati al simbolismo della dottrina.

La cappella della Sindone, nella sua apparente sfida alle regole della fisica dei gravi, è il manifesto che decreta l’appartenenza di Guarini al mondo della classicità palladiana, ed è proprio in questo confronto con Palladio che si palesa il concetto espresso da Guarini nella sua Architettura civile (1683): «Ogni vivo sia sopra il vivo, e il muro sia sopra il muro» (p. 67; cfr. anche A. Palladio, I quattro libri dell’architettura, 1570, libro primo, cap. XXV). Il sistema barocco reso da Guarini così esplicito nella cappella della Sindone rincorre con tenacia questo assunto, ricercando, con l’applicazione di un meccanismo tecnico costruttivo complesso, come le regole della statica applicate alla geometria possano essere evidenziate con il tentativo di farle apparire le une contrarie alle altre; ma questo è apparenza, berniniana illusione, così che la sua architettura gioca con l’appoggio in falso e con l’illusione che i pesi e le masse murarie appaiano scaricati di ogni gravità.

La tecnologia costruttiva applicata nella cappella della Sindone rivela un sistema costruttivo molto particolare, che varia in relazione al progredire in altezza dell’edificio. Su un basamento laterizio, parzialmente preesistente, ma modificato dopo l’approvazione del progetto definitivo, Guarini pone in opera il volume cilindrico inferiore, costituito da un giro di fulcri lapidei perimetrali rappresentati da trenta colonne monolitiche di marmo nero e da una coppia di colonne giganti, destinate a sorreggere l’arco che separa la cappella dal duomo. Le colonne del giro interno sono affiancate a pilastri fortemente aggettanti, anch’essi interamente costruiti in pietra. Il sistema che costituisce l’ordine architettonico principale inferiore sorregge la trabeazione superiore, ed è posteriormente fasciato da un rivestimento lapideo di grande spessore, accostato alla retrostante potente massa del muro laterizio. Nel tronco di cono superiore la decorazione dell’involucro e i tre archi spaziali sono per intero lavorati nella massa lapidea; sbozzati a piè d’opera, sono rifiniti in sito dopo la loro posa; di notevole e vario spessore, svolgono un ruolo di mutua reazione con la struttura muraria retrostante, alla quale sono connessi mediante perni e staffe in ferro.

Le due masse murarie – pietra e mattoni – sono tra loro allacciate quasi senza l’impiego di malta cementizia, che sarebbe peraltro risultata inutile per sostenere l’unione dei conci in pietra senza l’impiego del metallo e dell’incastro; ma svolgono entrambe il proprio ruolo di sostentamento di se medesime. Il complesso apparecchio lapideo si dispone secondo un calcolato congegno costruttivo, cercando di agevolare, con la forma e la disposizione dei blocchi lapidei, lo scaricarsi delle forze verso i fulcri inferiori. Si può quindi considerare il ‘placcaggio’ in pietra come autoportante, ma, con il contributo di un vicendevole prestito di relazioni con la muratura posteriore, esso risulta vincolato alla struttura laterizia, che a sua volta è nuovamente autoportante e indipendente, quindi non gravante sul rivestimento interno.

Nel tamburo soprastante, i due sistemi costruttivi sono invece nuovamente resi svincolati nella loro essenza statica. La corona interna, pressoché completamente lapidea, è circondata dal tamburo esterno, interamente laterizio ma fasciato, nella sua faccia interna, da un rivestimento in lastre di pietra, costituenti un vero e proprio placcaggio asservito al retrostante apparecchio portante laterizio. Concatenazioni poligonali metalliche svolgono la funzione di contenere le spinte radiali scaricate dai contrafforti che solcano l’estradosso della cupola. Questa è per intero costituita da soli elementi lapidei, le cui risultanti delle forze si contrastano e si elidono vicendevolmente, sino a venire canalizzate verso il basso attraverso un sistema di fusi radiali in cui defluiscono i carichi principali. Nella cupola traforata, la massa muraria esterna è ridotta ai minimi termini. Una serie di cerchiature esagonali in ferro contiene, ai vari livelli, le spinte radiali, serrando la struttura traforata, mentre all’esterno i contrafforti non sono apparecchiati con laterizi disposti secondo i fusi, e quindi non possono staticamente considerarsi degli archi rampanti. Essi assolvono il compito di concentrare le forze verticali nei punti di scarico prescelto, svolgendo nello stesso tempo il ruolo determinante di linee di forza che per gravità caricano le loro masse verso l’asse verticale della cupola, così da agevolare le forze di compressione riducendo potenziali dissesti dovuti a possibili sforzi di trazione, che potrebbero influire sul serraggio in chiave dei fragili conci costituenti gli anelli del canestro.

Questo sistema costruttivo, attuato mediante autonome intuizioni ed esperienze dirette nei cantieri, fa sì che la cappella della Sindone sia un edificio eccezionale, che sintetizza i traguardi raggiunti dalla tecnologia edilizia barocca, portando a esaurimento le possibilità estreme nell’impiego dei materiali tradizionali prima dell’affermazione, nel periodo dell’Illuminismo, di nuove tecniche costruttive e, a partire dall’Ottocento, delle scienze matematiche. A Guarini guarderà un altro architetto torinese, Alessandro Antonelli (1798-1888), che per taluni aspetti riaprirà l’utopistica visione dell’esasperazione tra forma e struttura e costituirà un ponte ideale tra classicismo, Barocco e positivismo.

La concezione architettonica di Guarini costituisce anche il riferimento di molte opere realizzate durante il primo Settecento nell’Europa settentrionale; queste sono costituite da un sistema strutturale ridotto all’essenziale, in cui le pareti secondarie svolgono un ruolo marginale nella lettura della composizione planivolumetrica, sino a divenire elementi di complemento dell’arredo, concettualmente rimovibili senza compromettere la fruizione dell’organismo nella sua totalità.

Quando le idee del Barocco italiano secentesco si diffondono nell’Europa settentrionale e nei Paesi di forte tradizione medioevale, ne scaturiscono sintesi attraenti, che danno le loro maggiori potenzialità espressive in nuove concezioni strutturali, come i sistemi scheletrici a pilastro murario propri della cosiddetta scuola di Vorarlberg (1680-1750), la regione dell’Austria occidentale in cui si sviluppa in piena autonomia una ricerca compositiva derivata dal principio gotico dell’architettura a pilastri liberi con spiccato valore prospettico degli interni.

L’architettura barocca in Italia nel Settecento: Filippo Juvarra

A partire dal terzo decennio del Settecento, con Juvarra e con alcuni architetti boemi si assiste, nell’architettura sacra, ma anche in quella profana (palazzina di caccia di Stupinigi, progettata da Juvarra nel 1729), a un sempre maggiore intreccio tra situazione esterna e spazialità interna. Questa ricerca avviene cercando una fusione tra volumi principali semplici e cellule edilizie secondarie più complesse, queste ultime generate a loro volta dalla sintesi di compenetrazioni di figure geometriche primarie, spesso curvilinee. Anche il trattamento superficiale delle pareti, affidato alla decorazione o al trattamento delle aperture dal contorno mistilineo, è sovente generato più da necessità rappresentative che da esigenze funzionali. Tale mutazione conduce a una ricerca tesa a ridurre le partizioni tra gli ambienti, ad accentuare le interrelazioni spaziali e, con l’impiego della decorazione e dei dettagli dell’ornamentazione architettonica, a incrementare il valore teatrale dell’architettura, sia civile sia religiosa, in particolare nelle tipologie italiane e boeme del palazzo e della villa di loisir.

In Italia sono un esempio eclatante di questa mutazione in senso teatrale, cui partecipano con ruolo di protagoniste le arti figurative, la chiesa di S. Uberto nella reggia di Venaria Reale (1716-29), la già citata palazzina di Stupinigi e la chiesa della Madonna del Carmine a Torino (1732-36): tutti edifici di Juvarra ove compare (in particolare nel colonnato aereo dell’abside della chiesa di Venaria) una derivazione diretta dalla già citata chiesa veneziana del Redentore; si tratta dell’omaggio forse più convincente reso a Palladio in epoca barocca. Il rapporto tra spazio esterno e spazio architettonico interno è il risultato di una ricerca che era iniziata già nell’età rinascimentale e aveva trovato nuova linfa nelle istanze metafisiche ed estetiche proprie della concezione naturalistica del Settecento.

La tendenza a unificare in un divenire continuo le spazialità confinate all’interno dei volumi edilizi e l’ambiente aperto circostante agevola la scelta di soluzioni strutturali a scheletro portante dedotte dall’architettura gotica. La lacerazione delle delimitazioni periferiche conduce alla disgregazione dei volumi degli edifici, volumi che si separano generando, quasi per gemmazione, elementi isolati posti all’apice di corpi di fabbrica semplici; il principio conduce alla configurazione di piante complesse, sviluppate però da forme geometriche semplici, e ripropone schemi a pianta stellare molto ben congegnata.

Nelle citate chiese di S. Uberto e del Carmine, il percorso juvarriano rivela la sua utopia e la ricerca della centralità diffusa si avvia su nuove strade. La frantumazione organica del centro in differenti unità aggregate e totalmente autonome scompare per lasciare luogo a una spazialità che riconduce a una cellula principale dominante e da essa dipende.

La pianta di S. Uberto riprende chiaramente l’impianto d’insieme della chiesa parigina di Saint-Louis des Invalides (1680-1706) di Hardouin-Mansard, sgravato del monumentalismo classicista che pervade le proporzioni grandiose e bloccate della chiesa parigina, di cui Juvarra non riprende l’uso delle aperture collocate sulle diagonali. L’articolazione dell’invaso centrale, ricco di una teatralità giocata sullo scorcio prospettico e sull’impiego della decorazione in stucco, riflette apertamente spunti classicisti derivati dalla crociera della basilica di S. Pietro, dopo l’intervento ai piloni attuato da Bernini con la realizzazione delle tribune delle reliquie.

Alla centralità della croce greca, qui accentuata in senso longitudinale mediante l’innesto di un’abside aperta dichiaratamente estratta dalla chiesa del Redentore, si aggiunge un secondo sistema diagonale, altrettanto potente, ma meno dichiarato visivamente nella percezione dello spazio totale centrale in quanto dissimulato oltre le quinte dei pilastri angolari che reggono la cupola, scavati nella loro massa muraria da cappelle circolari non visibili dal nucleo centrale dalla chiesa. Questa soluzione compositiva sviluppa un tema ancora fortemente berniniano, dal quale si evolve tutta la ricerca compositiva e decorativa di Juvarra. Questo secondo sistema, integrato e nascosto, prevede delle cappelle circolari secondarie; esse appartengono alla massa muraria dei quattro piloni che sostengono il tamburo, e in pianta si configurano come dei mozzi dai quali fuoriescono a raggiera otto bracci, orientati secondo il sistema ordinatore principale della chiesa. Al nucleo inferiore delle cappelle si sovrappongono, su tre livelli, dei settori cilindrici che si concludono con alte camere di luce. Il meccanismo introduce un tema compositivo radiocentrico, il quale per germinazione diretta sviluppa forme secondarie, ma generate secondo i principi di una separazione integrata che conduce a mutazioni geometriche controllate dall’organismo principale; una disgregazione in scala esponenziale, una sorta di mutazione fisiologica della forma iniziale che richiama alla mente il sistema di proliferazione infinita propria delle curve frattali.

La separazione tra le parti che compongono gli edifici religiosi contraddistingue alcune tematiche della ricerca compositiva juvarriana. L’imposizione in forma libera di portici addossati agli edifici, come quello per la basilica di Superga presso Torino (1717-31) e quello ideato – ma non realizzato – per l’incompiuta facciata della chiesa di S. Uberto, sono discendenti diretti degli sperimentalismi berniniani (chiesa di S. Andrea al Quirinale, 1658-78) e costituiscono il proemio più diretto del neoclassicismo.

Juvarra guarda all’architettura berniniana da cui trae spunti compositivi che rielabora con un processo di progressive e continue trasformazioni, anche di cesello e nei dettagli più nascosti. Questo processo di metamorfosi si ripropone nella gestazione progettuale della basilica di Superga, con il tema della cupola affiancata da due campanili, soluzione chiaramente riferita alla chiesa di S. Agnese in Agone a Roma (1652-72), progettata da Girolamo Rainaldi (1570-1655) e proseguita da Borromini. Rispetto a quella chiesa, il tema architettonico è qui ‘aggiornato’ al fine di accentuarne il valore plastico come segno di riferimento a scala paesaggistica per un intero territorio; una variazione di scala che è ottenuta facendo avanzare la cupola rispetto ai campanili e portando all’esterno, sino a coinvolgere il blocco del podio basamentale, l’involucro cilindrico che contiene l’aula centrale, controllata da un ordine colonnare gigante che scandisce anche tutto l’involucro esteriore.

Il tema dell’ordine gigante deriva da Bernini e da Fontana (ma non solo da loro, naturalmente), ed è adottato nel fronte principale di grandi architetture di rappresentanza, raggiungendo i massimi effetti sulla scena urbana nell’avancorpo di Palazzo Madama a Torino (completato nel 1721), elevato su un alto podio bugnato. Il modello di riferimento è ancora Bernini, sia nel progetto (non realizzato) per il palazzo del Louvre a Parigi (1665) sia nel Palazzo Chigi-Odescalchi a Roma (1665), già impostato da Maderno. La facciata di palazzo Madama costituisce un paradigma a cui guarderanno generazioni di architetti del Settecento che ne reinterpreteranno il tema delle lesene giganti, di cui una delle elaborazioni più convincenti è data dal rifacimento del Palazzo reale di Stoccolma, progettato nel 1697 da Nicodemus Tessin il Giovane (1654-1728).

Questo ‘mezzo’ o ‘strumento’, spesso elevato su un basamento a bugnato (preso da Bernini e da Fontana), risultò molto efficace per evidenziare la potenza politica e sociale delle famiglie e dei sovrani che ne vollero la costruzione.

L’ordine gigante scardina il sistema architettonico precedente, giocato sulla sovrapposizione di ordini minori, e assume un efficace valore scenografico in campo urbanistico soprattutto a Torino, dove le architetture regie, così come le facciate delle chiese, sono collocate al termine delle lunghe strade rettilinee.

L’adozione dell’ordine gigante raggiunge il suo più elevato livello qualitativo e di rappresentanza nel Palazzo reale di Madrid, progettato da Juvarra nel 1735, che costituirà un modello per molti altri palazzi reali d’Europa, sino al Novecento.

Un’idea derivata da Borromini, per es., è quella di collocare un settore di parete curvilinea in corrispondenza degli angoli interni di grandi volumi edilizi o di spazi urbani, così che l’involucro possa proseguire senza soluzione di continuità; un espediente che consente inoltre di giocare su ritmi compositivi differenziati, muovendo i piani di facciata; ne sono un esempio la cappella borrominiana dei Re Magi (1662-64) all’interno del citato palazzo di Propaganda fide a Roma e, per Juvarra, la chiesa di S. Filippo Neri a Torino (1715-30) e la ricostruzione della Galleria grande (1715) nella reggia di Venaria Reale, in corrispondenza delle absidi.

Un’altra fonte di ispirazione di Juvarra è Michelangelo, da cui deriva l’impiego delle profonde nicchie semicircolari che scavano il piano di facciata; nicchie semplici, che hanno il solo scopo di modulare la luce e creare un contrappunto cromatico profondo. Un altro riferimento è l’impiego della colonna ‘alveolata’, ossia parzialmente incastrata all’interno di lesene che ne costituiscono la cornice; è un omaggio che Juvarra tributa nel 1715 con il progetto (non realizzato) per l’aula grande della Sacrestia vaticana, alludendo all’atrio michelangiolesco della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze.

L’architettura barocca in Italia nel Settecento: Bernardo Antonio Vittone

Nell’architettura religiosa del Settecento, l’interpretazione più geniale e geometricamente complessa della ricerca sullo spazio centralizzato a sviluppo verticale appartiene al piemontese Vittone. La sua vasta produzione, pur innestandosi sulla tradizione retorica della grande tradizione barocca guariniana, perde di drammaticità: si riduce l’importanza degli assi di simmetria che individuano le espansioni orizzontali degli edifici religiosi, simmetrie che invece compaiono con dichiarata enfasi e con contraccolpi volumetrici importanti nelle chiese controriformistiche boeme e del Seicento mitteleuropeo.

Vittone sviluppa autonomamente le performances di Guarini, giungendo a una sintesi geniale dello schema centripeto juvarriano, e, filtrando la lezione accademica, crea architetture caleidoscopiche, costituite da una successione verticale di volumi prismatici dimensionalmente decrescenti a mano a mano che l’edificio aumenta in altezza. All’esterno, il meccanismo a superficie continua delle pareti viene innalzato a fasciare l’intera fabbrica, così da creare un involucro ininterrotto, solcato da una trama di decorazioni architettoniche lineari che indicano in maniera diafana e trasparente l’andamento delle principali membrature verticali e orizzontali interne. Queste ultime vengono plasticamente enfatizzate solo in corrispondenza dei fronti principali degli edifici, dove compaiono coppie di colonne isolate inserite con valore decorativo, a guisa di quinte che affiancano i portali, sovente inseriti in volumi espansi o concavi, forzati inserimenti che risentono direttamente del valore coloristico proprio dell’architettura juvarriana.

Un calcolato gioco di ‘camere di luce’, talvolta dissimulate oltre il complesso intrecciato degli archi e dei pennacchi, altre volte direttamente aperte nelle vele delle volte policentriche che coprono lo spazio centrale – quest’ultimo impostato solitamente su un impianto planimetrico esagonale derivato dalla figura base del triangolo –, mostra chiaramente le intenzioni dell’architetto, proteso a modellare l’edificio attraverso l’impiego della luce, conferendogli un dinamismo strutturale che ripropone in chiave nuova la tensione della retorica religiosa barocca di ascendenza borrominiana.

In una delle prime realizzazioni significative di Vittone, la chiesa-santuario della Visitazione a Vallinotto presso Carignano (1738), il manifesto programmatico del suo percorso compositivo è già apertamente dichiarato. La pianta esagonale – contenuta, nel primo livello inferiore, entro un’epidermide perimetrale, che introduce il tema dei ‘vasi di espansione’, dilatati a delineare un perimetro lobato di chiara fede borrominiana, determinato da una serie di controcurve concavo-convesse – sostiene il triplice sistema di involucri e gusci soprastanti, innestati uno sull’altro in progressione scalare, i quali conferiscono all’esterno un singolare aspetto a pagoda. Il meccanismo compositivo borrominiano è abbandonato nel progredire in altezza dell’edificio, in cui si sfrutta il sistema degli archi spaziali gettati tra i sei fulcri indipendenti generati dall’esagono di base. L’inserimento di camere di luce nascoste nelle absidi perimetrali crea forti suggestioni di controluce, riproposte dalle aperture del secondo livello messe a coronamento periferico del catino della cupola. Quest’ultima risulta sorretta da sei archi intrecciati, chiaramente derivati dalla chiesa di S. Lorenzo di Guarini. L’inserimento di camere di luce nascoste nella cinturazione periferica superiore agli archi che sorreggono le volte, crea effetti luministici che risentono, oltre che degli espedienti scenografici berniniani (ben studiati da Vittone durante il suo soggiorno a Roma), delle suggestioni juvarriane esplicitate nella chiesa del Carmine. La ricerca di Vittone per la definizione di una forma architettonica suggestivamente ‘sorretta’ dalla luce, che pare alleggerire le forme strutturali complesse, si evolve compiutamente nelle opere successive, in cui le intenzioni dell’architetto evidenziano il valore plastico interiore del sistema strutturale a scheletro portante, incardinato nel circostante spazio verticale luminoso.

Nella cappella di S. Luigi all’interno del cimitero di Corteranzo (1760), nella chiesa di S. Bernardino a Chieri (1740-42), nelle tre chiese di S. Chiara – a Torino (1742-45), a Bra (1742-48) e a Vercelli (1754-56) –, nella cappella di S. Maria Assunta a Grignasco (1750-70), nonché nelle due chiese di S. Michele Arcangelo – a Rivarolo Canavese (1758) e a Borgo d’Ale (1770) –, tutta l’invenzione vittoniana esprime la sua controllata enfasi giocando su alcuni concetti spaziali e strutturali ricorrenti e tra loro variamente interconnessi.

In S. Bernardino la preesistente chiesa a croce greca conduce Vittone ad adattare le sue concezioni inserendo le camere di luce all’apice dei catini nei bracci della crociera. L’intera superficie delle volte e dei pennacchi è traforata da aperture dalle forme più diverse, mentre scompaiono le nervature strutturali a vista degli archi guariniani, sostituiti da dilatate membrane di volte policentriche. La compatta scatola edilizia basamentale si smaterializza esteriormente nel tamburo soprastante, che sostiene una bassa cupola, quasi invisibile dall’esterno. Singolarmente, Vittone introduce un duplice, congegnato meccanismo strutturale tra l’involucro circolare interno, traforato da un giro regolare di ampie aperture arcuate, e l’impianto esterno. Quest’ultimo si espande sopra il podio che ingloba l’aula liturgica, dove si generano quattro potenti contrafforti, scavati da alte finestre e orientati secondo gli assi principali della crociera, mentre diagonalmente, complice la presenza dei due campanili di facciata, compaiono altrettante camere di luce più contratte, che contengono finestre non canonicamente disposte secondo le diagonali, bensì allineate ai lati di un ideale tiburio a pianta quadrata che ripropone l’involucro inferiore debitamente scalato.

Negli edifici successivi a S. Bernardino, Vittone dimostra di saper meglio controllare l’impostazione spaziale di tutto l’organismo, filtrando in maniera più matura gli spunti juvarriani e borrominiani, percorrendo una strada che via via allenta i dinamismi strutturali, ideati con una concezione quasi meccanica, propri dell’influenza guariniana.

Nelle chiese di S. Chiara a Torino e a Vercelli, come anche nella cappella di S. Maria Assunta a Grignasco, bene si apprezza la tendenza verso una maggiore linearità e semplicità d’impostazione tra la zona inferiore, ancora definita da un doppio sistema di murature e di camere cieche aventi, in entrambi i casi, valore strutturale nettamente autonomo rispetto al sistema murario esterno, i fulcri dei pilastri fascicolati posti ai vertici dell’esagono che definisce l’aula e il loro confluire verso le membrane dei livelli superiori sino ai costoloni della cupola. Scompaiono le camere di luce nascoste, mentre le ampie fonti luminose finestrate, di ampiezza, dislocazione e forma diverse, si aprono nelle pareti perimetrali che contengono le cellule superiori dello spazio centralizzato, innalzandosi sino a raggiungere e a ‘intaccare’ larghe porzioni delle volte centrali, intersecate da ampie lunette che ne perforano profondamente le superfici veliche.

Nella chiesa di S. Michele Arcangelo a Borgo d’Ale, il principio strutturale di base, con la membrana ondulata della parete esterna, prossima al cerchio e nettamente separata dal giro interno dei pilastri, esplicita chiaramente le proprietà del principio compositivo vittoniano e il ricercato effetto scheletrico dell’intero organismo a doppia camera. L’interno evidenzia il ritorno verso più marcati spunti neoborrominiani, come la mancanza di una trabeazione interna continua e il fluire diretto delle membrature architettoniche che delimitano le cellule ovoidali poste a corollario dello spazio liturgico, mentre ricompaiono le finestre dissimulate oltre le volte. In questo edificio – come peraltro nell’altra chiesa di S. Michele Arcangelo, quella a Rivarolo Canavese, o nella cappella di S. Luigi a Corteranzo – si palesano nelle sezioni inferiori, a profilo quasi sempre ondulato, il rapporto più accentuato tra esterno e interno e le relazioni che legano gli edifici con l’ambiente urbano o rurale circostante, mentre gli stadi superiori sono enucleati in funzione dell’evolversi della forma interna e riducono il loro sviluppo in altezza subordinatamente all’innalzarsi dello stadio inferiore. Quest’ultimo – come avviene nella chiesa di S. Chiara a Bra – avvolge quasi l’intero edificio. Partendo quasi sempre da figure esagonali, a cui si sovrappongono croci greche, impianti ottagonali e circolari, Vittone giunge all’unificazione spaziale mediante l’aggregazione di cellule perimetrali e secondarie dal profilo curvilineo, la cui geometria latente, che controlla il tracciamento, è generata dalle molteplici intersezioni geometriche innescate dalla sovrapposizione dei poligoni principali. Il medesimo principio compositivo è applicato nello sviluppo verticale, dove compaiono poliedri complessi e solidi sferoidali secati da piani verticali, questi ultimi differentemente orientati nello spazio o rotanti su piani che tagliano in orizzontale l’asse centrale verticale. Ne risulta un organismo integrato e non scomponibile, dove l’illusione ottica gioca un ruolo determinante. L’illusione è ottenuta con la definizione di uno spazio geometricamente ben definito e matematicamente congegnato. Ne risulta un amalgama convincente, che sapientemente depura, caricandola di valenze nuove, la ricerca guariniana, sfociando in una sintesi che riunisce le opere del boemo Kilián Ignác (o Kilian Ignaz) Dientzenhofer (1689-1751), il monumentalismo di alcune chiese di Juvarra e la duttile plasticità di Plantery, zio di Vittone.

Nelle opere più mature, Vittone dimostra, con l’impiego di strutture laterizie ardite e l’uso disinibito della torsione dell’arco a tutto sesto che si inflette in due direzioni, di saper conferire alle sue architetture un carattere intimistico, in cui prevale un uso disinvolto della luce. La luce, infatti, in maniera diversa rispetto a Bernini e con un carattere più sereno che in Guarini, non serve a evidenziare drammaticamente un evento artistico o un luogo predefinito, ma è impiegata diffusamente a modellare e alleggerire – si direbbe a sostenere – le membra dell’architettura, intese come forme della spiritualità che, nella modellazione dello spazio centralizzato, risultano protese a ricercare la natura imponderabile del trascendente.

Il Barocco in Francia tra Sei e Settecento

In Francia il Barocco del Seicento risente inevitabilmente dell’influenza italiana e della Controriforma, e proprio su questo ceppo s’innestano i tre temi dell’architettura d’oltralpe che meglio evidenziano l’evoluzione della tradizione classicista francese: la chiesa, l’hôtel e il palazzo o château di committenza aulica e aristocratica.

Successivamente all’edificazione della chiesa di Val-de-Grâce, iniziata su progetto di Mansard nel 1654 e ultimata nel 1667 da Jacques Lemercier (1585-1654), si sviluppano due importanti progetti cui si è già accennato. Innanzitutto, quello per la chiesa della Visitazione, anch’esso di Mansard, a pianta circolare intercettata da uno schema triangolare con chiare influenze guariniane. A esso segue, in chiave monumentale, quello di Hardouin-Mansard per la cupola della chiesa di Saint-Louis des Invalides (1680), esempio tipico dell’applicazione di un ordine gigante di concezione palladiana a un tempio a croce greca, ma dotato di un’assialità prevalentemente longitudinale che sfrutta una preesistente cappella absidale. L’impianto si rifà al progetto di Michelangelo per la basilica di S. Pietro (1547), ma introduce novità essenziali anche nello sviluppo verticale, con la doppia cupola e la calotta inferiore aperta da un grande occhio, soluzioni che riconducono alla già citata chiesa veneziana della Salute.

Nel contesto della ricerca compositiva romana, incentrata sul problema di conferire un’assialità preferenziale allo schema centrale e un centro all’organismo longitudinale, ricerca che vede in Rainaldi uno dei protagonisti, la Francia del Seicento produce, con la cappella parigina di Sainte-Ursule de la Sorbonne (1635-42) di Lemercier, un organismo a schema allungato centralizzato, dotato di due monumentali ingressi su colonne: un impianto che cerca di sistematizzare l’organizzazione spaziale giocata sugli ambivalenti poli compositivi del centro e della periferia, del nucleo e della direzione assiale. Si tratta di un’interpretazione che sviluppa il progetto michelangiolesco per la basilica di S. Maria degli Angeli a Roma (1561).

Nell’architettura tardobarocca francese, il meccanismo dell’architettura scheletrica impostato da Guarini si trova anche nelle opere degli allievi di Hardouin-Mansard, come Pierre Cailleteau (più noto come Lassurance, 1655-1724), che nel progetto (1722) per l’Hôtel Bourbon a Parigi riprende l’impianto a struttura scheletrica indipendente.

Nell’evoluzione della dimora francese, con le tipologie dello château e dell’hôtel, il Seicento si muove partendo dallo sviluppo della corte a U (di ascendenza medievale e cinquecentesca), e concretizzando alcune architetture che combinano la funzionalità interna degli appartements collocati nei padiglioni angolari con il corpo centrale di rappresentanza, volumetricamente emergente sulla cour d’honneur; su tutto s’impongono le alte coperture a spioventi, ricoperte da scaglie di ardesia, che esaltano il sistema compositivo a pavillons tipico della tradizione francese. Sono opere come gli chateaux di Vaux-le-Vicomte (Louis Le Vau, 1656-61), di Maisons-Laffitte (Mansard, 1642-46), di Raincy (Le Vau, 1643-50) e naturalmente di Versailles (il cui progetto iniziale, del 1668, è di Le Vau) a imprimere un contrassegno di dignità internazionale alle grandi dimore francesi dell’età tardobarocca.

Partendo dagli hôtels secenteschi, primi fra tutti il palazzo del Luxembourg (Salomon de Brosse, dal 1615) e il palazzo delle Tuileries (costruito nella seconda metà del Cinquecento, ma molto ingrandito nel Seicento, prima, 1607-10, da Jacques II Androuet e poi, 1659-66, da Le Vau e François d’Orbay), negli anni Venti del Settecento gli sperimentalismi in precedenza sviluppati dal tema del palazzo cinquecentesco romano e fiorentino condurranno in Francia a verificare tutte le molteplici possibilità espressive consentite dall’architettura civile e, in particolare, dagli hôtels urbani.

Dal 1667 al 1675 s’innalza, sulla base di un progetto di Claude Perrault (1613-1688), la colonnade del Louvre, una facciata posticcia costituita da una sequenza di colonne corinzie accoppiate, sorreggenti una trabeazione continua e poste davanti a una parete cieca a guisa di peristilio templare, senza aperture fra le colonne (queste saranno introdotte solo nel Settecento). Questo prospetto, così come lo conosciamo oggi, ha uno sviluppo tormentato ed è il risultato di una complessa sequenza di cantieri interrotti e poi ripresi con successive modifiche, tutte derivate da un piano generale iniziale, scaturito da una commissione di architetti incaricati di elaborare diverse proposte per la nuova facciata orientale del palazzo. La colonnade, edificata sulla base di un progetto iniziale predisposto da Louis Le Vau (sebbene sussistano dubbi a tal proposito, e alcuni lo attribuiscano a suo fratello Charles) e cantierata a iniziare dal 1666 (sebbene le fonti siano contraddittorie e sia stato dimostrato un intervento decisivo di d’Orbay), trova la sua forma definitiva solo dopo il 1668-70 e, come rivela un’incisione di Sébastien Leclerc, è in piena realizzazione nel 1674. La facciata di Perrault rappresenta la soluzione più matura e convincente del tentativo di simbiosi tra interno ed esterno, e diverrà il manifesto più rigoroso del classicismo come architettura di Stato.

Le opere di Jean Courtonne (1671-1739) dimostrano nuova sensibilità nel trattamento delle masse degli edifici e delle facciate. In luogo del meccanismo scheletrico a fulcri separati, le pareti sono trattate come una superficie unica, trapassata da aperture di forma e ampiezza diverse, come nel caso dell’Hôtel Matignon (progetto e inizio dei lavori nel 1721), dove scompare del tutto l’impiego dell’ordine classico, nello sforzo di conferire all’involucro che definisce tutta la massa dell’edificio un carattere di spiccata autonomia.

In queste realizzazioni, come in quelle di altri esponenti dell’Académie royale d’architecture, quali de Cotte e Germain Boffrand (1667-1754), compaiono inoltre delle soluzioni tecniche ove alla forma strutturale è dichiaratamente conferito valore di segno architettonico con spiccata valenza nell’insieme del progetto, soluzioni che connotano indelebilmente gli sperimentalismi francesi della stagione rocaille e dell’architettura ufficiale parigina della Reggenza, come nel caso dell’Hôtel Soubise (ex Hôtel Clisson, un edificio trecentesco trasformato nel Settecento, prima, 1704-1707, da Pierre-Alexis Delamair e poi, 1732-39, da Boffrand), e dell’impiego degli archi a sesto ribassato costituenti le piattabande delle aperture finestrate, come nei castelli di Lunéville (edificato tra il 1703 e il 1720 a opera di vari architetti, il principale dei quali è Boffrand), di Haroué (edificato tra il 1720 e il 1732 su progetto di Boffrand) e di Champs-sur-Marne (edificato tra il 1699 e il 1707 su progetto di Pierre Bullet e di suo figlio Jean-Baptiste Bullet de Chamblain).

Boffrand è forse il più creativo architetto della prima parte del Settecento, anche per la sua capacità di governare sistemi architettonici complessi e temi civili e religiosi. L’originale pianta del castello di La Malgrange presso Nancy, disegnata nel 1712 per il duca Leopoldo I di Lorena, è il suo progetto più significativo e rivela compiutamente la sua capacità di trattare piante a schema libero e di accostare sistemi strutturali diversi. Lo schema planimetrico è generato da un fulcro circolare, con il fastoso salone centrale concepito come un doppio cilindro a due livelli, definito perimetralmente da strutture portanti indipendenti, costituite da un doppio giro di colonne binate e da pilastri che sorreggono contrafforti concavi disposti radialmente. Dal salone si dipartono quattro ali diagonali a pareti continue, disposte secondo uno schema a croce di Sant’Andrea. L’edificio riprende in scala monumentale e fortemente espressiva il tema già affrontato a Vienna da Johann Bernhard Fischer von Erlach (1656-1723) nella trasformazione (1709-11) del palazzo Althan (poi Lobkowitz), e certo costituisce un precedente importante lo sviluppo di idee nuove che hanno come riferimento più immediato il progetto juvarriano per la palazzina di Stupinigi.

Possiamo quindi riassumere che, a iniziare dai primi decenni del Settecento, in Francia si assiste a un mutamento del sistema compositivo e della trattazione esterna, dove, in luogo dell’ossatura riproposta sul piano di facciata, compare un’epidermide continua traforata da ampie aperture e profusa di una decorazione sottile che pervade anche gli interni. L’architettura si adatta a versatili esperimenti dove tuttavia prevale, anziché la sistematizzazione di un genere diffuso, una più spiccata individualità, giocata sul trattamento delle pareti e sull’intimità e razionalizzazione degli ambienti interni, che generano diffuse varianti del tema tardosecentesco del pavillon e dell’appartement double.

La differenziazione delle tipologie e della dimensione degli spazi interni, dove prevale l’abbondante uso di una decorazione profusa e quasi nebulizzata sulle pareti e sulle volte – queste sovente realizzate in strutture lignee leggere e graticci di canne applicati a un’ossatura rigida in legno avente funzione portante – apre la strada all’adozione di grandi aperture finestrate, a un rapporto più diretto tra spazio interno e natura. Nello schema planimetrico dell’edificio perde importanza la presenza di un asse di simmetria prevalente a vantaggio di volumi indipendenti, variamente articolati fra loro, come rivelano le architetture dell’ultima generazione di architetti barocchi francesi di rilevanza europea, capitanati da Jacques-Ange Gabriel (1698-1782), autore di edifici simbolo dell’ultima stagione del tardo Barocco francese – un Barocco che è ancora cadenzato e controllato da un classicismo derivato dalle regole dell’Académie d’architecture, e che evolve verso l’incipiente neoclassicismo –, come i palazzi di Place de la Concorde a Parigi (1755) e, a Versailles, il teatro dell’Opera (1761-68) e il Petit Trianon (1762).

L’Austria e le influenze del Barocco italiano

La variegata stagione tardobarocca si sviluppa in Austria dopo la definitiva sconfitta dell’impero ottomano (con il fallito assedio di Vienna del 1683), e produce una versione affinata del Barocco, filtrata attraverso la tradizione storica locale, dominata da un invadente prolungarsi del Medioevo che in sostanza scavalca il Cinquecento. Vienna guarda più verso l’Italia che verso la Francia, il nemico storico che si deve non emulare, ma superare anche in architettura, con progetti grandiosi come quelli di Fischer von Erlach per la reggia di Schönbrunn presso Vienna (primo progetto nel 1688) e, nella città stessa, quelli di Johann Lukas von Hildenbrandt (o Hildebrand; 1668-1745) per i Palazzi Schwarzenberg (1697) e Starhemberg-Schönburg (1700), ma soprattutto per le due residenze del Belvedere (unteres Belvedere, 1714, e oberes Belvedere, 1721), entrambe concepite per il principe Eugenio di Savoia-Soissons.

In queste opere Hildebrandt dà prova di una sintesi estremamente convincente delle proprie capacità, padroneggiando con maestria le esperienze acquisite con il soggiorno italiano e, in particolare, coniugando indizi compositivi derivati da Le Vau e Hardouin-Mansard, più evidenti nell’articolazione e nella concatenazione dei volumi, con ricordi guariniani e borrominiani, senza tuttavia cadere nella replicazione seriale del sistema originario. È stato giustamente osservato da Christian Norberg-Schulz (1971) come gli architetti austriaci cercassero di superare l’architettura francese combinando la perfezione delle sue piante con la ricchezza dell’articolazione italiana.

I principi costitutivi di questa sintesi sono certamente enucleati nei citati due palazzi del Belvedere: in quello superiore (oberes) le caratteristiche costitutive di quello inferiore (unteres) sono ampliate ed elaborate in un raffinatissimo gioco di volumi impostati sul cardine del vestibolo traforato centrale. L’edificio appare come un castello medioevale posto su un avvallamento del giardino. I differenti livelli interni, giocando sulle differenze altimetriche e sui pendii esterni, hanno consentito una distribuzione ingegnosa degli spazi, che sono collegati da uno scalone centrale dislocato all’interno di un volume quadrangolare, traforato da grandi finestroni e aperture che lo rendono quasi trasparente. L’articolazione spaziale, i giochi dei piani sfalsati, una maestosa semplicità di proporzioni associata a una ricercatezza decorativa raffinata, con l’impiego diffuso di una plasticità antropomorfa a tutto tondo, costituita da cariatidi, telamoni ed erme-pilastri, fanno di questo edificio uno degli esempi simbolo dell’architettura barocca europea.

I riferimenti e le inevitabili oscillazioni tra l’attenzione verso l’Académie francese negli anni di de Cotte e Boffrand e quella verso la tradizione italiana più recente, e in particolare Juvarra, conducono Neumann al progetto (1720) della residenza di Würzburg in Baviera, che coniuga la classicità e la vigoria plastico-decorativa del Barocco secentesco italiano con la limpida monumentalità e la semplicità della simmetria francese.

La calcolata efficacia decorativa e proporzionale di alcuni ambienti della residenza, come la Kaisersaal, lo scalone d’onore (entrambi poi affrescati, nel 1752-53, da Tiepolo e da suo figlio Giandomenico) e la Gartensaal, costituiscono soluzioni ingegnose e insuperate del tardo Barocco tedesco. Complice la decorazione pittorica, compaiono nel palazzo alcune invenzioni strutturali di sorprendente chiarezza e insospettata efficacia spaziale. Grazie al disinvolto impiego di colonne prive di trabeazione, che sostengono la volta a vela policentrica che copre la Gartensaal, caratterizzata da un’altezza relativamente bassa rispetto allo spazio coperto che ne deriva, l’ambiente architettonico rivela come la rielaborazione di tematiche austriache e italiane – che pare riecheggino spunti tratti da Michelangelo Garove (1648-1713) – abbia qui raggiunto esiti di sorprendente efficacia retorica e leggerezza strutturale, anche in virtù della decorazione plastica e pittorica raffinatissima.

La Boemia e l’architettura tardobarocca mitteleuropea

In Boemia, due esponenti della vasta famiglia Dientzenhofer, Christoph e suo figlio Kilián Ignác, percorrono una ricerca autonoma che, in maniera più convincente e completa di quanto accade in Austria, integra la tradizione medioevale locale con le influenze del Barocco romano, dal quale essi traggono solo gli spunti più utili, derivati soprattutto dall’architettura religiosa, che meglio si prestava a essere adattata a quella locale. Danno così vita a una sintesi fortemente espressiva dello spazio liturgico. Le chiese, prevalentemente quelle a navata longitudinale, sviluppano una forte diversificazione delle tipologie compositive, quasi sempre giocate sull’impiego dello scheletro portante costituito da pilastri murali disposti lungo la linea perimetrale dell’aula. La traslazione del sistema strutturale sul perimetro esterno ha lo scopo di produrre, mediante l’inflessione ininterrotta delle pareti e mediante complesse volte continue a baldacchino, una convincente fusione tra la pianta centrale e quella longitudinale.

Questo complesso sistema scardina i sistemi organizzati centrali, bloccati e in sé risolti, tipici dell’architettura e dell’urbanistica rinascimentali, da cui tuttavia discende. Un esempio significativo lo si trova in alcuni edifici simbolo dell’edilizia religiosa di ispirazione boema, come quelli, già citati, della chiesa del convento di Neresheim e della cappella della residenza di Würzburg, entrambe di Neumann.

La vasta produzione di tipologie complesse trova infatti nelle regioni nordorientali dell’Europa barocca, e in particolare in Baviera (soprattutto nella sua parte più settentrionale, la Franconia) e in Boemia, un terreno fertile per sperimentalismi che attingono alla tradizione del simbolismo religioso già presente nella tradizione costruttiva locale. Queste forme sono giocate sull’impiego di piante centralizzate, prive di una facciata predominante e costituite da cellule edilizie affiancate o parzialmente intersecate, a corollario di un nucleo centrale; il tutto è avvolto da una membrana muraria esterna che evidenzia il sistema compositivo ottenuto per volumi semplici, accostati facendoli roteare attorno a un fulcro verticale, sul quale sono incardinate le pareti interne secondarie di separazione dei singoli ambienti. Il meccanismo, che è alla base dell’impianto fondante delle chiese germaniche ad aula unica conosciute come Hallenkirchen, trova il suo massimo sviluppo nelle opere boeme di Hildebrandt e di Christoph Dientzenhofer, entrambi conoscitori dell’opera di Guarini a Torino, e in particolare della chiesa di S. Lorenzo.

Come ha riconosciuto Norberg-Schulz, la fusione fra tre elementi (gli sperimentalismi geometrici di Guarini, le strutture aperte di Hildebrandt, il pilastro murario di ribattuta applicato da Dientzenhofer) conduce, mediante la rielaborazione del meccanismo compositivo a cellule contratte derivanti dall’espansione degli spazi adiacenti, all’ultima stagione barocca rocaille in terra boema. Il sistema compositivo guariniano riproposto da Hildebrandt trova sbocchi di rinnovata attualità in alcune opere di architetti della stagione aulica del rococò italiano, in particolare la chiesa di S. Marta (1740-58), nel castello di Agliè presso Torino, di Costanzo Michela (1689-1754).

L’Inghilterra e l’epilogo della civiltà del Barocco

Come bene aveva intuito e dimostrato in anni ormai lontani Emil Kaufmann (1955), poi ripreso magistralmente da Norberg-Schulz (1971), quelle profonde tendenze riformatrici emerse nel Settecento che condussero alle conquiste dell’Ottocento sono spiegabili solo attraverso la conoscenza delle trasformazioni che, rispetto alla tradizione rinascimentale, il Barocco impresse nel Seicento, e queste mutazioni furono avviate proprio in un Paese, l’Inghilterra, dove la civiltà architettonica del Cinquecento era stata meno radicata.

Le nuove istanze artistiche sorrette dall’impalcatura architettonica sviluppata in Inghilterra nella seconda metà del Settecento risultano fissate in un’opera editoriale di riferimento per intere generazioni a venire, il Vitruvius Britannicus, or the British architect […] (3 voll., 1715-1725, e 2 voll. postumi, 1767-1771), di Colen Campbell (1676-1729); essa, ispirando il neopalladianesimo, sancisce l’affermazione internazionale di Christopher Wren (1632-1723), autore della cattedrale di Saint Paul a Londra (iniziata nel 1675), in cui si concretizzano le nuove idee del tempo.

Comuni alla concezione di Wren sono due caratteristiche del costruire barocco: la tendenza alla concatenazione delle parti e la tendenza alla negazione del muro, concetti che in alcune opere di altri architetti inglesi, come nel colonnato della Buckingham House a Londra (di William Winde, 1703), sono riferimento diretto al costruire in Italia nel periodo fondamentale del passaggio tra Sei e Settecento, un’età di transizione che condizionerà i decenni successivi.

Il dinamismo barocco inglese del Settecento esprime alcune figure di primo piano, a livello internazionale. Tra queste emerge certamente John Vanbrugh (1664-1726), architetto eclettico e geniale le cui tendenze eterogenee emergono soprattutto in alcune realizzazioni, quali l’opulento Castle Howard nello Yorkshire (1699-1712), il monumentale Blenheim Palace nell’Oxfordshire (1705-22) e la sobria, quasi neomedievale King’s Weston House a Bristol nel Gloucestershire (1712-19).

In questi edifici – che presentano tratti compositivi molto diversi tra loro – compare una ricca decorazione abbinata all’uso del codice classicista, manifestato da pronai con colonne giganti e al contempo trattamenti di superfici con caratteri goticizzanti. Questa eterogenea complessità di fonti e citazioni compositive e figurative rende comprensibile l’irrequietezza della stagione barocca del primo Settecento inglese, un’insoddisfazione che porta a contraccolpi verso la tradizione europea. Tale reazione si manifesta appunto nell’atteggiamento anticonvenzionale di Vanbrugh, e avrebbe potuto condurre a un ritorno verso una concezione architettonica più nazionalista, che guardasse al repertorio storico elisabettiano; essa porterà invece, nel prosieguo del secolo, verso forme e convenzioni stilistiche d’impronta italiana.

L’entusiasmo verso la tradizione classicista italiana si esprime con efficacia, per es., nelle opere di Nicholas Hawksmoor (1661 ca.-1736). Questi è un osservatore acuto del barocco borrominiano e del manierismo romano, che interpreta in maniera molto personale e indipendente, realizzando opere tecnicamente audaci e architettonicamente conflittuali nell’assonanza e trasformazione di motivi ornamentali e strutturali tratti dal repertorio palladiano, come la Christ Church nel quartiere londinese di Spitalfields (facciata del 1723), manifesto di antagonismi lessicali che traggono ispirazione persino dall’età gotica, come la sorprendente guglia prismatica, che conclude la scalare successione di serliane e di motivi rinascimentali italiani.

I caratteri disparati espressi dall’architettura inglese del periodo sono evidenti in altri protagonisti dell’epoca, come James Gibbs (1682-1754) e William Kent (1685 ca.-1748). Il primo, allievo di Fontana, esprime un tentativo di sintesi di caratteri italiani nella plastica rotonda della Radcliffe Camera a Oxford (1737-49), ispirata al Rinascimento e al Barocco romano con affastellate citazioni tratte dalle chiese di Pietro da Cortona, Borromini e Palladio. Anche Kent si forma a Roma, dove ha occasione di conoscere Juvarra e Richard Boyle, terzo conte di Burlington (1694-1753), che lo influenza notevolmente e lo conduce verso i principi del palladianesimo e del classicismo erudito. Questi spunti sono poi sviluppati da architetti come Roger Morris (1695-1749) e dal teorico Robert Morris (1702 ca.-1754) che, criticando l’eccessiva esuberanza della decorazione barocca, contribuiscono a diffondere la visione razionalista del palladianesimo inglese e, al contempo, elaborano i principi nuovi di un’architettura giocata sulla presenza di forme derivate da volumi cubici intesi come nucleo e principio geometrico generatore della composizione.

Da queste figure sgorgano i principi che guidano una nuova generazione di architetti. Vanbrugh, Hawksmoor, Burlington, Morris e Kent, ognuno in maniera quasi autonoma, intraprendono un percorso che, pur non producendo una reazione immediata e tangibile alla tradizione barocca inglese, è fondamentale perché introduce i germi di un’epoca futura. Questo fenomeno otterrà riconoscimenti solo nell’epoca successiva, quando si renderà omaggio alla generazione degli architetti del primo Settecento, fautori di un rinnovamento la cui reale portata artistica sarà compresa solo con l’affermazione del neoclassicismo, alle soglie dell’Ottocento.

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