L'archeologia delle pratiche funerarie. Subcontinente indiano

Il Mondo dell'Archeologia (2002)

L'archeologia delle pratiche funerarie. Subcontinente indiano

Anna Filigenzi

Le aree, le sepolture, i corredi e i riti

Le aree e le tipologie sepolcrali

La vasta distesa del Subcontinente indiano, caratterizzata da ambienti ecologicamente assai vari e toccati da fenomeni di immigrazione diversamente distribuiti, ha dato luogo a strategie di adattamento culturale altrettanto diversificate, certo in contatto reciproco più o meno costante o intenso, ma solo occasionalmente, e per periodi ed aree limitati, soggette ad una vera e propria integrazione; diversi sono anche gli orizzonti cronologici dei vari periodi culturali, che registrano relativi fenomeni di precocità o attardamento regionali. Il panorama delle pratiche funerarie è di conseguenza poco omogeneo, fin all'interno dei singoli contesti, dove spesso convive una pluralità di usi, talora complementari, talora addirittura contrastanti. La ricerca archeologica in quest'area è del resto ancora giovane e poco capillare e ancor più incerta e lacunosa è la storia biologica delle popolazioni che abitarono il Subcontinente; tuttavia, sono proprio le tracce archeologiche delle pratiche funerarie a fornire informazioni preziose su contesti culturali o avvenimenti ancora scarsamente noti, quando non ne costituiscono addirittura l'unica testimonianza. Un avanzato processo di elaborazione rituale della morte è documentato nel sito di Mehrgarh, in Baluchistan (Pakistan), ininterrottamente occupato dalla fine dell'VIII millennio (periodo IA, Neolitico antico) alla metà del III millennio a.C. (periodo VIII, Antico Bronzo). Caratteristica pressoché costante dell'organizzazione spaziale del sito è l'alternanza di settori abitativi e aree sepolcrali. Le sepolture più antiche (periodo IA) sono costituite da semplici fosse, che nel periodo IB appaiono protette all'entrata da muretti in mattoni crudi; ricorrono già elementi costanti, quali l'orientamento est-ovest, la posizione flessa, la presenza di corredi e offerte rituali. L'ocra rossa che impregna gli scheletri, usata forse come una sorta di protezione, ha suggerito però anche l'ipotesi che i defunti venissero avvolti in un sudario. Si segnala, unico ma significativo per l'analogia con altri contesti, il rinvenimento di una giara contenente resti ossei di neonato in un ambiente domestico del periodo IV (inizi/metà del IV millennio). I tratti culturali locali osservabili a Mehrgarh troveranno pieno sviluppo nella successiva fase di integrazione della civiltà dell'Indo (2600-1900 a.C.), espressione di una matura urbanizzazione, che annovera fra i suoi tratti caratteristici un'attenta pianificazione igienica. Le aree sepolcrali, non più distribuite fra casa e casa, occupano ora zone esterne agli abitati, anche se a breve distanza. Le sepolture sono a fossa, spesso di forma oblunga o, in alcuni casi, con una più accurata forma rettangolare, demarcata talora da uno o più corsi di mattoni; in due soli casi si registra la presenza di una rampa di accesso. Tombe circolari e ovali, alcune delle quali prive di resti scheletrici e tuttavia fornite di corredo, sono attestate a Kalibangan; la loro peculiarità rispetto al contesto generale è sottolineata dal raggruppamento topografico nel settore nord del cimitero. Si segnalano a Harappa il caso isolato di una bara lignea e a Rupar quello di un defunto deposto su un letto di vasellame ceramico. Un'importante quanto enigmatica testimonianza storica è costituita dal Cimitero H di Harappa, attribuito alla cosiddetta Ravi Culture, nota dagli scarsi indizi raccolti in pochi siti pakistani, lungo il confine con il Rajasthan. Le sepolture sono concentrate in due strati, nel più antico dei quali (strato II) i corpi sono deposti, in posizione supina o flessa, direttamente sul suolo e ricoperti di terra, o all'interno di fosse poco profonde, senza alcuna cura per l'orientamento. Lo strato più recente (strato I) segna una più marcata differenza rispetto ai costumi harappani: le sepolture ospitano deposizioni secondarie, all'interno di urne, di ossa frazionate, che testimoniano la pratica dell'esposizione dei cadaveri. La lunga diatriba sulla relazione tra la civiltà harappana e il Cimitero H, da alcuni ritenuti contemporanei, fu risolta dagli scavi di M. Wheeler, che evidenziarono stratigraficamente uno stacco cronologico; resta invece aperto un problema di identificazione culturale, da taluni studiosi ricondotta all'arrivo delle popolazioni arie, da altri a popolazioni allogene ancora ignote, in ogni caso coinvolte in un rapporto di sintesi con la cultura tardoharappana. Forse un anello mancante dell'enigmatica catena storica che si dipana tra il periodo harappano e quello vedico successivo è custodito dalla protostoria dello Swat (Pakistan nord-occidentale), nota soprattutto attraverso le testimonianze archeologiche delle necropoli, che sembrano confermare le ipotesi di studiosi di vari settori, i quali individuano nello Swat la più probabile strada di accesso delle popolazioni arie in India. Le necropoli di Katelai I, Loebanr I, Butkara II e Aligrama, databili tra la seconda metà del II millennio e il IV sec. a.C., sono riferibili a popolazioni sedentarizzate (identificate con i Dardi delle antiche fonti), con un livello di vita protourbano, che riservano ai loro defunti pratiche ben inquadrabili in un contesto "prevedico". Con l'eccezione di Aligrama, dove alla fine della vita del sito (IV sec. a.C.) compaiono tombe scavate frettolosamente tra le rovine stesse del villaggio, le necropoli sono localizzate fuori dell'abitato. Le sepolture, scavate lungo i pendii delle colline, sono di norma rettangolari, prive di semata, ovvero segnali visibili in superficie, anche se non è escluso che ve ne fossero originariamente di legno. Il racconto di Curzio Rufo (VIII, X) sull'incendio di tombe lignee presso le quali era accampato l'esercito di Alessandro potrebbe riferirsi non già a Nisa, localizzazione che nel contesto appare incongrua, ma ad una zona dello Swat o prossima ad esso; ancor oggi, del resto, i Kafiri, popolazione geograficamente e culturalmente più segregata, mantengono in Chitral l'uso di semata lignei sulle tombe o di veri e propri sarcofagi in legno per l'esposizione all'aperto del cadavere. Le tombe dello Swat consistono di due cavità sovrapposte, separate da lastre di scisto; quella inferiore, in cui sono contenuti i resti del defunto e la maggior parte del corredo funebre, è di minori dimensioni e può avere le pareti rivestite da muretti a secco e il fondo pavimentato da una o più lastre di scisto. Sono attestate tre diverse pratiche funerarie, in uso contemporaneamente e talora compresenti all'interno di una stessa sepoltura: cremazione, deposizione secondaria e inumazione, rispettivamente prevalenti l'una sulle altre nei tre diversi periodi culturali in cui è stata divisa la vita delle necropoli (Early Period, XIV-IX sec. a.C.; Middle Period, VIII-V sec. a.C.; Late Period, IV sec. a.C.). I resti parzialmente cremati erano contenuti entro grandi giare, spesso con decorazione antropomorfa; nelle deposizioni secondarie le ossa erano invece raccolte con cura sul pavimento in un mucchio in cima al quale era solitamente deposto il cranio; le inumazioni, singole, doppie o multiple, prevedevano la deposizione del cadavere in posizione flessa, volto indifferentemente a destra o a sinistra. Mentre la provata presenza del cavallo, che si ritiene importato in India dalle popolazioni indo-arie (ad es., i resti ossei di due esemplari nella necropoli di Katelai I, altri nell'abitato di Bir-kot-ghwandai, oltre a diverse attestazioni iconografiche), costituisce un altro elemento di identificazione culturale, la frequenza di tombe multiple (dove non è escluso che le deposizioni secondarie, o alcune di esse, fossero in realtà il risultato dell'accantonamento di ossa per far spazio a nuove sepolture) è indicativa di una struttura sociale incentrata sulla famiglia o sul clan. Tratti peculiari delle necropoli dello Swat sono la prossimità di corsi d'acqua e un allineamento delle tombe subordinato non già ai punti cardinali ma alla direzione della montagna, verso la quale i defunti dovevano volgere la testa. Fa eccezione la necropoli di Kherai, nella valle del Gorband (II millennio a.C.), dove le tombe, a cista, sono allineate ad angolo retto con il pendio del colle e i defunti sono invariabilmente volti sul fianco destro. Confronti con le necropoli dello Swat sono offerti dalla necropoli di Timargarha, nella valle del Panjkora, in Dir (assegnata dagli scopritori ad un contesto impropriamente definito Gandhara Grave Culture), che rivela una maggiore varietà tipologica, per la presenza di circoli di pietre attorno alla cavità superiore e una certa incidenza di tombe a cista. Nonostante la variabilità dei costumi funerari, le necropoli dello Swat possiedono caratteri comuni, da cui si distaccano però sensibilmente le sepolture rinvenute nei livelli sottostanti l'area sacra buddhistica di Saidu Sharif. La necropoli, solo parzialmente indagata per la presenza delle strutture sovrastanti che la ricoprono quasi interamente, disturbandone o addirittura distruggendone la superficie, consta di tombe a fossa di forma rettangolare con angoli stondati o approssimativamente ellittica. I dati raccolti sono ovviamente parziali, tuttavia sembra che le aperture fossero chiuse da lastre di pietra disposte in maniera non sistematica (in due casi lastre infisse verticalmente al centro attestano la presenza di semata) e che la posizione dei cadaveri variasse in base al sesso: supina per gli uomini, sul fianco destro per le donne. Le braccia erano distese lungo il corpo o, occasionalmente, la mano destra era posta all'altezza del pube. L'orientamento delle tombe, con una sola eccezione, segue un allineamento est-ovest. La generale uniformità delle sepolture, tutte prive di corredo, ne suggerisce l'attribuzione ad un gruppo socialmente ed etnicamente omogeneo. La datazione della necropoli permane incerta, anche se la relazione stratigrafica con l'area sacra, fondata nel I sec. a.C., fornisce un terminus post quem non datur. Il solo termine di confronto possibile è costituito dalla necropoli di Sarai Khola, presso Taxila (Panjab), datata tra il V e il I sec. a.C., dove significative affinità si riscontrano nella semplicità delle tombe prive di corredo, nell'allineamento e nella posizione dei defunti, nella presenza di semata, qui costituiti invero da due lastre infisse verticalmente alle estremità della tomba; l'unico tratto di distinzione rispetto alla necropoli di Saidu Sharif, la deposizione in file separate a seconda del sesso, scompare dopo le fasi più antiche. L'analisi dei resti scheletrici, che ha evidenziato affinità morfologiche con popolazioni di origine occidentale, ha fatto congetturare un possibile collegamento della necropoli di Sarai Khola con l'occupazione greca di Taxila a seguito della campagna di Alessandro Magno o con il successivo dominio greco-battriano. La sovrapposizione dell'area sacra buddhistica di Saidu Sharif ad una necropoli preesistente non costituisce un caso isolato, essendo documentati altrove, e non solo nello Swat, esempi analoghi; si tratterebbe dunque di un atto di deliberata noncuranza, con cui la nuova fede rende visibile la sua supremazia sul vecchio mondo religioso, per il quale le necropoli dovevano costituire un riferimento essenziale. Non è escluso, del resto, che le necropoli protostoriche dello Swat sorgessero in prossimità di luoghi sacri; lo spiazzo naturale in cima al colle che domina la necropoli di Loebanr I, ad esempio, potrebbe ben essere stato, come pensava G. Tucci (1977), un'area sacrificale. Un diverso complesso culturale, denominato Neolitico-calcolitico, si evidenzia in una vasta area dell'India centro-meridionale, comprendente il Karnataka, l'Andhra Pradesh, il Malwa, il bacino della Narmada-Tapti e il Deccan. Anche in questo contesto si distinguono diversi tipi di sepolture, spesso incluse negli abitati, con una netta distinzione tra adulti e bambini. Gli individui adulti venivano adagiati direttamente sulla superficie e ricoperti di terra, o all'interno di fosse poco profonde. Deposizioni secondarie in falsa connessione anatomica testimoniano, accanto all'inumazione, la pratica dell'esposizione dei cadaveri. Neonati e bambini potevano essere inumati in posizione flessa entro tombe a fossa o esposti; in tal caso le ossa frazionate potevano essere a loro volta inumate, ma il tratto distintivo delle sepolture infantili è la deposizione, entro fosse poco profonde, sia all'interno di una giara, in posizione fetale, sia in due o più giare (da tre a sette) poste a terra orizzontalmente, bocca contro bocca o, nel caso di giare multiple, con il fondo asportato in modo da formare un lungo cilindro. Ciò ha fatto supporre che i cadaveri di bambini potessero essere non solo esposti, ma sezionati dopo essere stati cosparsi di letame bovino e oli. Sugli altipiani e lungo le pianure costiere del Baluchistan numerose sepolture, segnate da tumuli di pietre (cairn) di forma generalmente circolare, raramente rettangolare, costituiscono la traccia più consistente lasciata da popolazioni che abitarono la regione nel corso del I millennio a.C.; il materiale proveniente dalle tombe attesta che esse conoscevano il ferro, praticavano l'allevamento e utilizzavano il cavallo come animale da trasporto. I tumuli, a volte semplici cenotafi, coprono fosse di piccole dimensioni, poco profonde. I resti ossei e il vasellame di corredo al loro interno attestano una marcata differenziazione tra il Baluchistan settentrionale, in cui domina la pratica della cremazione e il vasellame è modellato a mano e privo di decorazione, e le coste del Makran, dove sembra praticata invece l'esposizione dei cadaveri, mentre la ceramica, modellata a mano o al tornio, è caratterizzata da decorazioni dipinte; proprio quest'ultima ha suggerito confronti con la necropoli B di Siyalk, in Iran, e una datazione attorno al 1000-800 a.C. per le sepolture più antiche, mentre la maggior parte di esse, sulla base dei materiali rinvenuti (monete, vetri, ceramica invetriata) sembra databile piuttosto ai primi secoli dell'era cristiana. Il confronto più stretto con questa tipologia sepolcrale, a parte alcuni tumuli segnalati nel Sind, è offerto dai cairn del Makran e del Kirman iraniani, delle isole del Golfo Persico e dell'Arabia meridionale, area quest'ultima indicata da vari studiosi come luogo di origine di genti che si sarebbero gradualmente spostate verso est. Altre aree di concentrazione di cairn sono presenti nell'India settentrionale, sia pure con notevoli variazioni regionali nel corredo di accompagno, negli orientamenti e nelle tipologie: si segnalano ad esempio gli anelli di pietre, singoli o multipli, che circondano i cairn del Saurashtra, o la particolare tipologia delle fosse sottostanti i tumuli nella zona dei monti Vindhya, rettangolari, con delimitazione di pietre, a cista o scavate nella roccia. Assai differenziata e complessa appare un'altra importante tipologia sepolcrale, rappresentata dalle tombe megalitiche; pur se attestate in buona parte del Subcontinente, è nell'India meridionale che se ne registra l'incidenza di gran lunga più significativa. In massima parte si tratta di tombe collettive, che ospitano deposizioni secondarie di cadaveri precedentemente esposti o cremati, più raramente deposizioni primarie (ad es., a Maski, in Karnataka, o a Mahurjhari, in Maharashtra); le necropoli occupano solitamente aree non coltivabili, spesso tuttavia in prossimità di bacini artificiali, di vallate fluviali o di zone di sfruttamento agricolo. Nonostante i tratti comuni di molte tombe megalitiche, tra cui l'uso di grandi blocchi o lastre di pietra più o meno squadrati e una certa omogeneità nei corredi (la caratteristica ceramica black-and-red, gli oggetti in ferro, la foggia comune delle armi), la casistica e il grado di complessità strutturale sono estremamente vari; la definizione abbraccia camere funerarie vere e proprie, ipogee, semipogee o di superficie (con la presenza eventuale di circoli o tumuli di pietre), tombe ipogee scavate nella roccia, ciste di vario tipo, circondate da uno o più muretti di pietra a secco, tumuli di terra e pietrame, fino ai soli circoli megalitici, più o meno ampi, eretti intorno a semplici tombe a fossa. Nel ricco novero delle tombe megalitiche si segnalano, per la loro singolarità, le tombe del Kerala, con coperture monolitiche "a cappuccio" poggiate a terra o "a ombrello" su quattro clinostati, e le chambered tombs del Karnataka, ciste a forma di croce greca o latina. Alla categoria delle tombe megalitiche si assegnano anche i menhir, monumenti largamente diffusi anche in Kashmir, spesso semplici cenotafi, e, solo per l'analogia dei corredi, urne piriformi interrate, prive di qualunque rivestimento o sema litico, comuni nel distretto di Tirunelveli. I resti ossei e le ceneri potevano essere poggiati semplicemente a terra o racchiusi entro urne funerarie, la cui tipologia varia dalle giare ai sarcofagi, litici o, più frequentemente, di terracotta; questi ultimi, di modeste dimensioni nelle fasi più antiche documentate in Kerala, assumono, specialmente in Tamilnadu, forme via via più complesse, fino ad assumere aspetto zoomorfo. L'origine delle tombe megalitiche, sia cronologica sia culturale, resta un problema aperto, che si inserisce peraltro nel più generale dibattito sull'introduzione del ferro nel Subcontinente; mentre G.R. Sharma, il portavoce più autorevole di una teoria invero obsoleta, data al 1500 a.C. i più antichi complessi megalitici, sostenendone un'origine autoctona, la maggior parte degli studiosi sembra orientarsi verso un quadro cronologico compreso tra l'800 a.C. e il 100 d.C. e, soprattutto, verso teorie "poligenetiche", che ne spiegherebbero il carattere composito. In particolare l'attenzione si concentra sull'arrivo di popolazioni allogene, sia dal mare, lungo le rotte costiere meridionali, sia dalle vie di terra settentrionali, probabilmente in ondate successive. Questa "colonizzazione megalitica" avrebbe tuttavia subito un rapido processo di ibridazione nel contatto con le culture locali. L'analisi dei materiali scheletrici sembrerebbe confermare una mescolanza di tipi fisici autoctoni e asiatico-occidentali, questi ultimi identificati da diversi studiosi come scito-iranici, sulla base di affinità con i tipi fisici della necropoli B di Siyalk. Sfuggono alle indagini archeologiche le pratiche funerarie di stretta osservanza vedica, che, a parte poche eccezioni, prevedono la cremazione e la dispersione di ceneri e resti ossei in corsi d'acqua o il seppellimento in luoghi desertici. Questa pratica sembra tuttavia affermarsi come tendenzialmente esclusiva solo intorno all'era cristiana, dal momento che la letteratura, e in particolare quella religiosa, contiene espliciti riferimenti all'inumazione e all'esposizione dei cadaveri nelle epoche precedenti; le necropoli protostoriche dello Swat, se l'interpretazione corrente del loro contesto culturale è esatta, costituirebbero un riscontro archeologico in tal senso. Gli individui esclusi dalla cremazione (i bambini che non avessero completato il ciclo della dentizione, le donne incinte, le vittime di morte violenta o malattie che avessero compromesso l'integrità del corpo, gli asceti) venivano di regola inumati in luoghi lontani dagli abitati e, in particolare per gli asceti, solitamente sepolti presso le rive di corsi d'acqua, era prevista sulla sepoltura l'erezione facoltativa di un tumulo, o smaśāna, termine assunto in seguito come sinonimo di luogo di cremazione. Oltre all'inumazione, alla cremazione e alla dispersione dei resti, i testi (Ayurveda, XVIII, 2, 34) fanno specifico riferimento alla deposizione dei cadaveri "in luoghi alti", intendendo forse cime o caverne, ma anche, come è noto per alcune antiche tribù dell'India, quali i Licchavi, la sospensione ai rami degli alberi. La cremazione è di regola, in passato come nel presente, anche nel costume funerario buddhistico, che ha lasciato tuttavia tracce assai più consistenti, non soltanto per l'uso di erigere stūpa funerari (per le reliquie corporali di santi, sulla scia della tradizione inaugurata per il Buddha) o commemorativi, ma anche per una particolare forma di devozione (spinta talora al limite del superstizioso), che si esprime nell'aspirazione verso la sepoltura in luoghi toccati dalla persona fisica del Buddha, per la presenza nello stūpa delle sue reliquie o di un legame con la sua biografia; tra i monumenti minori che affollano molte delle aree sacre indagate, ve ne sono infatti numerosi che ospitavano al loro interno depositi di ceneri e resti ossei, evidentemente appartenenti a devoti che, forse in virtù di particolari meriti o privilegi, beneficiavano dell'ambita sepoltura ad sanctos.

I corredi e i riti

Allo stato attuale delle ricerche la varietà dei costumi funerari non trova schemi di riferimento sicuri, se non per particolari contesti. In linea generale si può asserire che, per quanto ne conosciamo sotto il profilo archeologico, fra le sepolture individuali sin qui rinvenute mancano, a parte le eccezioni costituite, in epoca storica, dagli stūpa buddhistici o dai chāyāstambha (pilastri commemorativi dedicati agli eroi), quei caratteri di monumentalità e opulenza cui solitamente è affidato il ricordo perenne di vite eccezionali. Unici indizi di differenziazione sociale sono variazioni quantitative più o meno consistenti nei corredi o una frequenza occasionale di sacrifici rituali. Monili di osso e conchiglia, ma anche di pietre dure quali lapislazuli e turchese, ornano talvolta a Mehrgarh anche individui di età infantile, forse titolari di uno status sociale già ereditario. Anche il rinvenimento, in alcune tombe, di lame di selce insieme con i nuclei di distacco, che qualificano evidentemente il mestiere del defunto, riflette una riconoscibilità sociale basata già su parametri di riferimento ben individuati. Offerte rituali di cibo sono testimoniate dalla presenza di vasellame di argilla cruda; in alcuni casi sono documentati sacrifici di capretti domestici, che venivano deposti generalmente presso i piedi del defunto. Le varianti che si produrranno in relazione ai diversi contesti cronologici e culturali alterano di poco lo schema del corredo di accompagno, che continuerà in linea di massima a comprendere vasellame, ornamenti, strumenti che identificano la professione svolta in vita dal defunto. L'aspetto più interessante dei depositi funerari è, in certi casi, la possibilità che essi offrono di formulare ipotesi o stabilire connessioni, soprattutto se si considera che la storia del Subcontinente è conosciuta in maniera assai lacunosa. Appaiono significativi, ad esempio, certi elementi di corredo nelle necropoli protostoriche dello Swat, in primo luogo alcuni motivi iconografici dipinti sulla ceramica (talora rinvenuta anche in frammenti dai bordi accuratamente levigati, a testimonianza dell'importanza annessa a tali motivi), che illustrano scene e figure simboliche, ricondotte ad un ambito religioso prevedico e avvicinate alle decorazioni della ceramica del cosiddetto Cimitero H di Harappa. Allo stesso modo, libagioni rituali testimoniate dalle cosiddette brandy bowls sembrano adombrare l'uso di bevande inebrianti, forse precorritrici del soma vedico. Alla produzione di essenze è stata invece ricollegata la presenza, in alcuni corredi, di vasi in miniatura, anch'essi eventuali indicatori professionali, al pari di fuseruole, bulini, arpioni, asce, coltelli, punte di freccia di rame o ferro, ecc., che ricorrono tuttavia con bassa frequenza. Analogamente, le tombe megalitiche, pur se mal conosciute e mal indagate, ci offrono attraverso i loro corredi l'unico ritratto di genti alle quali l'archeologia non è riuscita ad attribuire che scarsissime tracce insediamentali. Oltre al vasto campionario di oggetti di rame, di varia tipologia, di armi, ornamenti e ceramica, è la frequenza di attrezzi di ferro, quali zappe, falcetti, vomeri, ecc., a fornire il quadro di una società fondamentalmente agricola, fortemente legata ai cicli di lavoro stagionale, ai quali evidentemente subordinava le pratiche funerarie; la prevalenza di deposizioni secondarie in tombe collettive, spesso non praticabili, indica che le tumulazioni avvenivano, di certo accompagnate da rituali di carattere sociale, a scadenze periodiche, scelte probabilmente sulla base del calendario agricolo. Pur nella diversità delle pratiche funerarie, si può cogliere qua e là un tratto comune e perdurante nelle diverse culture del Subcontinente, che si esprime in un atteggiamento ambiguo nei confronti della morte. L'onore e il rispetto di cui si circondano i defunti appaiono accompagnati dal timore che essi possano tornare tra i vivi. Tratto peculiare e ricorrente delle inumazioni nel complesso culturale Neolitico-calcolitico dell'India centro-meridionale, ad esempio, è la mancanza di resti ossei al di sotto della caviglia; con questo espediente i morti, sepolti all'interno dell'abitato per una forma di amorevole venerazione o di appropriazione superstiziosa del loro "soffio" magico, venivano prudentemente privati della possibilità di camminare e tenuti imprigionati nelle loro tombe. Analogamente si è ipotizzato che la posizione fortemente contratta dei cadaveri nelle necropoli dello Swat, ottenuta sicuramente tramite legatura, non fosse un semplice richiamo alla posizione fetale, ma un mezzo per impedire loro di uscire dalle proprie tombe fintanto che non fossero definitivamente passati nell'aldilà. Mentre la permanenza forzata nella tomba era alleviata dalle offerte alimentari, da oggetti quotidiani e, forse, anche apotropaici, come figurine femminili o simboli solari (tra cui non è escluso che si possano annoverare certe punte di freccia), il viaggio verso la dimora archetipica degli antenati, la montagna, era facilitato dall'orientamento del corpo, che veniva deposto con la testa volta in direzione della vetta. Lo stesso timore si ravvisa nei complessi rituali vedici, che, pur se non documentabili archeologicamente, ci sono noti dalla vasta letteratura brahmanica (inni vedici, Brāhmaṇa, Kalpasūtra, Dharmasūtra, Dharmaśāstra), di cui costituiscono un'importante parte normativa. I riti, che possono essere quotidiani, periodici o occasionali, domestici o solenni, sembrano destinati essenzialmente ad allontanare i morti dal mondo dei vivi, assicurandone nel contempo la trasformazione dallo stato potenzialmente pericoloso di trapassati ( preta) in quello benigno di antenati ( pitṛ). È dunque necessaria una corretta esecuzione dei rituali, che prevedono in prima istanza che i cadaveri siano lavati e cosparsi di essenze oleose e letame bovino prima di essere avviati al luogo dell'inumazione o della cremazione, quest'ultima talora reiterata al fine di consumare completamente le spoglie. Il fuoco crematorio deve essere necessariamente acceso dal focolare domestico, che, essendo divenuto nefasto, viene spento e reimpiantato dopo la cerimonia funebre; perché esso consumi senza distruggere ciò che va preservato, la sua voracità viene nutrita con l'immolazione di un capro e con le sostanze di cui è cosparso il cadavere. Il ritorno del corteo funebre al villaggio è accolto da riti apotropaici, che servono ad allontanare la morte dal mondo dei vivi e persino dai loro sogni. I morti perdono il loro potenziale minaccioso solo dopo un congruo lasso di tempo, quando abbiano completamente superato la loro passata identità e, oramai senza volto e senza nome, si possano ascrivere alla categoria indefinita di antenati. Anche le ceneri, poste entro un'urna, possono essere ad esempio interrate e ricoperte da un tumulo, ma solo dopo che i vivi abbiano perso memoria della data della morte. Solo dagli asceti (saṃnyāsin), che in vita rinunciano al mondo ed estinguono con la morte il debito della rinascita, il mondo indiano non teme pericolose incursioni dall'aldilà, avendo essi completamente dissolto il proprio destino individuale (karman). Essi vengono sepolti con grandi onori in posizione verticale, seduti nella posa yogica della meditazione; dalla buca, accuratamente riempita, deve però fuoriuscire il capo, perché si possa fracassare il cranio. Questo atto apparentemente cruento è in realtà concepito come un omaggio al loro percorso spirituale, di cui si vuole facilitare l'atto supremo: è attraverso il foro sulla sommità craniale che, nella psicofisiologia dello yoga, l'anima dell'individuo oramai liberato s'innalza infatti per ricongiungersi al brahman, l'indiviso principio universale, per mai più ritornare sulla terra.

Bibliografia

A.H. Dani, Timargarha and Gandhara Grave Culture, in AncPak, 3 (1967), pp. 1-55; M.A. Halim, Excavations at Sarai Khola-Part I, in PakA, 7 (1970-71), pp. 23-89; S.P. Gupta, Disposal of the Dead and Physical Types in Ancient India, Delhi 1972; B.K. Gururaja Rao, Megalithic Culture in South India, Mysore 1972; M.A. Halim, Excavations at Sarai Khola- Part II, in PakA, 8 (1972), pp. 3-112; Ch. Silvi Antonini - G. Stacul, The Proto-historic Graveyards of Swāt (Pakistan), I-II, Rome 1972; A. Parpola, Arguments for an Aryan Origin of the South Indian Megaliths, Madras 1973; L.S. Leshnik, South Indian "Megalithic" Burials. The Pandukal Complex, Wiesbaden 1974; G. Tucci, On Swāt. The Dards and Connected Problems, in EastWest, 27, 1-4 (1977), pp. 9-85, 94-103; J.N. Tiwari, Disposal of the Dead in the Mahābhārata. A Study in the Funeral Custom in Ancient India, Benares 1979; A.H. Dani, Northwest Frontier Burial Rites in their Wider Archaeological Setting, in H.H.E. Loofs-Wissowa (ed.), The Diffusion of Material, Manoa 1980, pp. 121-37; Ch. Malamoud, Les morts sans visage. Remarques sur l'idéologie funéraire dans le Brâhmanisme, in Gh. Gnoli - J.P. Vernant (edd.), La mort, les morts dans les sociétés anciennes, Cambridge 1982, pp. 441-53; Ch. Silvi Antonini, Pratiche funerarie nelle regioni del Nord-Ovest dell'India. Le necropoli del Pakistan settentrionale, ibid., pp. 467-81; S.B. Deo, The Megalithic Problem: a Review, in V.N. Mishra - P. Bellwood (edd.), Recent Advances in Indo-Pacific Prehistory. Proceedings of the International Symposium Held at Poona, 1978, New Delhi - Bombay - Calcutta 1985, pp. 447-53; G.R. Sharma, Megalithic Culture of the Northern Vindhyas, ibid., pp. 477-80; G. Schopen, Burial "ad sanctos" and the Physical Presence of the Buddha in Early Indian Buddhism, in Religion, 17 (1987), pp. 193-225; A. Ghosh (ed.), An Encyclopaedia of Indian Archaeology, I-II, Leiden 1990; A. Sundara - K.G. Batsoori (edd.), Archaeology in Karnataka. Papers Presented at the National Seminar on Archaeology, 1985, Mysore 1990; G. Schopen, An Old Inscription from Amaravati and the Cult of the Local Monastic Dead in Indian Buddhist Monasteries, in JBuddhistSt, 14, 2 (1991), pp. 281-329; F. Noci - R. Macchiarelli - D. Faccenna, Saidu Sharif I (Swāt, Pakistan), III. The Graveyard, Rome 1997.

CATEGORIE