L'archeologia del Vicino Oriente antico. Iran sud-occidentale e area del Golfo

Il Mondo dell'Archeologia (2005)

L'archeologia del Vicino Oriente antico. Iran sud-occidentale e area del Golfo

Enrico Ascalone
Luca Peyronel
Alessandro de Maigret
Jean-François Salles
Francesca Baffi
Pierre Amiet
Fiorella Scagliarini
Nicolò Marchetti

Iran sud-occidentale e area del golfo

di Enrico Ascalone

Le regioni dell'Iran sud-occidentale, del Golfo Persico e dell'Arabia meridionale hanno sviluppato culture con caratteristiche originali, causate soprattutto dalla configurazione geografica del loro territorio. Per quanto riguarda le prime due aree, molto importanti sono stati nel corso della loro storia i contatti commerciali stabiliti con l'alluvio mesopotamico, verso il quale svolgevano fin dal II millennio a.C. il ruolo di mediatori dei traffici con la valle dell'Indo o di esportatori di materiali assenti nella regione mesopotamica. Questa stessa funzione hanno svolto in seguito (VIII sec. a.C.) anche i regni sudarabici, relativamente al commercio dell'incenso e dei profumi, affacciatisi più tardi sullo scenario commerciale.

Iran sud-occidentale

di Enrico Ascalone

Calcolitico antico-tardo (susa i-ii)

Il periodo calcolitico dell'Iran sud-occidentale è decisamente meglio conosciuto nelle fasi archeologiche di Susa, che mostrano una sequenza occupazionale ininterrotta fino alle soglie del periodo urbano; in quest'epoca Susa (periodo di Susa I, ca. 4000-3500 a.C.) doveva occupare un'area di 15-18 ha e rappresentare il centro maggiore della piana del Khuzistan. La fondazione del centro, approssimativamente circoscritta al 4000 a.C., e il suo repentino sviluppo occupazionale sono verosimilmente da mettere in relazione al forte regresso insediamentale della regione, che con i primi anni del IV millennio a.C. vede un generale spopolamento dei centri sviluppatisi nelle fasi immediatamente precedenti. La fine di Susa I è conosciuta anche da nuove gerarchie insediamentali interne alla Susiana. Con l'inizio del nuovo periodo (Susa II) la dimensione complessiva del centro susiano oscilla intorno ai 5 ha; il lento, ma non totale, abbandono di Susa s'inserisce in un nuovo processo di crescita insediamentale di tutta la regione, che ha in Abu Fanduweh e Deh-e Now due nuovi centri comparabili, per estensione, all'abitato susiano.

Una ricrescita dell'estensione occupazionale di Susa si ha solo con il periodo medio di Uruk, quando un generale aumento della popolazione sembra coinvolgere tutta la regione: Susa arriva a 25 ha, documentando una più complessa articolazione topografica del suo insediamento che si sviluppa ora tra la città bassa e l'acropoli, ovvero l'apadāna; nuove complessità urbanistiche sembrano essere conosciute anche a Choga Mish e Abu Fanduweh, integrate in un nuovo modello insediamentale che sembra organizzarsi intorno a un'occupazione centrale, attraverso una fitta rete relazionale gestita da precise gerarchie insediamentali con differenziazioni funzionali interne ai siti minori. Il II periodo di Susa (ca. 3500-3000 a.C.) mostra nuove complessità socioeconomiche intra ed extra situ, che trovano parallela e ampia documentazione in Bassa Mesopotamia quando, in termini generali, nuove tecnologie agricole, un più articolato uso amministrativo, nuove forme di controllo del territorio e una complessiva gerarchizzazione delle singole componenti sociali interne al sito documentano un intenso processo di trasformazione urbana.

Solo con Susa III si assiste a un forte processo di regionalizzazione che si riconosce, in Iran sud-occidentale, principalmente nelle fasi protoelamite del primo quarto del III millennio a.C.; l'occupazione di Susa è ora solo circoscritta all'acropoli, mentre una nuova e forte rottura nell'orizzonte materiale del centro sembra principalmente mostrata da un cambio generale di tutte le manifestazioni artistiche susiane. Questo periodo, definito ambiguamente protoelamita per l'ampia presenza di testi in protoelamico, rinvenuti e nominati per la prima volta da V. Scheil nel 1900, sembra mostrare un forte e nuovo orientamento culturale verso le esperienze artistiche e linguistiche conosciute sul plateau iraniano (Tall-i Malyan, Tepe Yahya, Shahr-i Sokhta, Tepe Siyalk, Godin Tepe, Shahdad).

Uno spartiacque negli studi dell'Iran sud-occidentale è certamente costituito dalla ripresa dell'attività archeologica a Susa avvenuta nel 1967. Nel 1971, A. Le Brun pubblicò i primi risultati ottenuti nelle campagne svolte tra il 1969 e il 1971 sul cantiere dell'acropoli, già precedentemente oggetto delle attenzioni di J. de Morgan (trincea) e di R. de Mecquenem (sondaggio 2). I nuovi scavi dell'acropoli si concentreranno, successivamente, presso la Haute Terrasse, oggetto di preliminari cure durante gli scavi di de Morgan, che rinvenne sporadiche strutture monumentali definite come "…la base d'un rempart". D. Canal identificò 11 distinte sequenze archeologiche (che raggruppavano 47 strati geoarcheologici), appartenenti ai primi due periodi occupazionali della città: il periodo di Susa I era conosciuto nei livelli 7-11, mentre la seconda facies culturale del centro (Susa II) era ampiamente attestata nei livelli 6-1. Nuove indagini si concentrarono anche presso la Ville Royale, dove E. Carter restituì ampie e dettagliate informazioni sui periodi circoscritti tra l'inizio del III e i primissimi anni del II millennio a.C. (Susa III-V).

Bronzo antico (susa iii-v)

Riferimenti allo Stato di Elam ovvero ad Awan sono conosciuti in testi della fine del Protodinastico II - inizio del Protodinastico III (corrispondente a Susa III), quando la Lista Reale sumerica fa esplicito riferimento a tre scontri tra Enmebaragesi e l'Elam, tra i sovrani della I Dinastia di Ur e Awan e tra la città di Kish e nuovamente Awan. Sembra verosimile che i rapporti tra i regni di Mesopotamia e le alte terre di Elam siano stati condizionati da un'endemica belligeranza ampiamente documentata anche nei testi presargonici di Lagash, e in particolare di Eannatum (ca. 2460 a.C.), che a più riprese ricorderà le sue incursioni contro Uruaza, Arawa, Mishime ed Elam (Susa IVA). Ampia, numerosa e, per certi versi, ripetitiva è la documentazione dei sovrani accadici che a partire da Sargon (ca. 2330 a.C.) ricorderanno le umiliazioni inflitte ai regni del plateau iraniano e al centro di Susa, distrutta una seconda volta da Rimush intorno al 2275 a.C. (Susa IVB); l'Iran sud-occidentale subisce la politica aggressiva della sovranità accadica che con Sargon, nell'ultimo quarto del XXIII sec. a.C., distrusse Susa e attaccò le regioni di Awan, Barakshum, Elam e parte di Simashki. Dopo una parentesi significativa sotto Puzur-Inshushinak, definitosi re di Awan e probabilmente originario della stessa Susa di cui si proclama governatore, la Susiana, il Fars e la costa iraniana vengono nuovamente assoggettati da una dinastia originaria di Ur (Susa V). Shulgi e Amar-Zuen, in particolare, estenderanno il loro dominio fino alle regioni prossime del Fars, meno probabilmente fino ad Anshan (ora identificata con Tall-i Malyan), prima di accusare una perdita totale dei territori elamiti e della Susiana già con l'ultimo quarto del XXI secolo (ca. 2028-2004 a.C.). Tra il III e il II millennio a.C. una nuova dinastia indigena (Simashki), conosciuta già nei testi neosumerici di Shu-Sin datati tra il 2037 e il 2029 a.C., seppe ereditare l'ampio territorio elamita, prima controllato dai sovrani della III Dinastia di Ur, tramite un'accorta politica di alleanze con la città di Isin e a seguito del devastante intervento militare di Kindattu contro il centro di Ur, distrutto e raso al suolo dalla furia elamita (2004 a.C.).

La metallurgia dell'Iran sud-occidentale mostra sensibili evoluzioni tra la fase di Susa IVA (Protodinastico IIIa-b), IVB (Accad) e V (Ur III), tanto da non mostrare continuità tipologiche all'interno dell'arte toreutica prodotta principalmente nella piana del Khuzistan; in Susa IVA il vasellame di bronzo è principalmente conosciuto per ben specifiche morfologie, che si riconoscono in vasi con lungo becco di più antica tradizione, in esemplari privi di base piatta, in vasi con cordonatura al di sotto dell'orlo, in bicchieri con base costituita da un alto piede assai esile e infine in olle con lungo collo e dall'alta carenatura; con il periodo accadico (Susa IVB) gran parte delle morfologie del periodo precedente si perde per lasciare spazio a larghe ciotole, a bicchieri dal piede più consistente e a vasi decorati con striature modellate sulla superficie esterna; tipologie comuni ai due periodi si riconoscono principalmente in grandi calderoni ad alta carenatura e in vasi piriformi ad alto collo provvisti di una doppia cordonatura. Con il periodo accadico e neosumerico appare evidente una più avanzata elaborazione delle forme, che mostrano maggiore complessità di lavorazione soprattutto nelle asce di Susa IVB e V, che sono ora arricchite da non sporadici elementi decorativi sulla lama e sulla parte posteriore che deve ospitare il supporto. La metallurgia dell'Iran sud-occidentale, come documentata a Susa, subisce due distinte influenze provenienti rispettivamente dalla Mesopotamia e dal Luristan, mentre sporadiche sono le "interferenze" dell'Iran orientale e della valle del fiume Indo.

La coroplastica dell'Iran sud-occidentale mostra decisive evoluzioni morfologiche e decorative che definiscono i tratti essenziali delle singole produzioni; durante la prima metà del III millennio a.C. le figurine fittili appaiono sommarie, prive di spunti mirati a rendere i particolari anatomici e perlopiù prive di proporzionalità; con il periodo accadico solo parziali incisioni ovvero applicazioni rendono più articolata una produzione che, tuttavia, appare ancora priva del dinamismo conosciuto nei primi secoli del II millennio a.C.; ogni singola figurina rimane inespressa a causa di una stilizzazione accentuata che lascia spoglie le forme rappresentate. Solo con il periodo neosumerico si ha un più ricercato plasticismo che si manifesta nella sinuosità delle figure, nelle più ampie e minuziosamente decorate capigliature che si conoscono su corpose figure femminili dalle braccia aperte, ora anche munite di pesanti collane e cinture.

La glittica del III millennio a.C. dell'Iran sud-occidentale è conosciuta principalmente per quanto è stato rinvenuto a Susa; il corpus di sigilli raccolti rappresenta la più ampia e significativa evidenza dei percorsi culturali del Khuzistan, che dopo una fase cosiddetta "protoelamita" mostra adesione alla sfragistica della Mesopotamia. Il Bronzo Antico coinvolge aspetti decisivi dell'arte glittica dell'Iran sud-occidentale, determinando fasi artistiche e culturali complesse e non sempre di facile comprensione; il numero assai elevato di esemplari prossimi alle esperienze d'intaglio alluvionali e le pressoché totali analogie espressive con quanto conosciuto nei centri della Mesopotamia durante il III millennio a.C. rendono impossibile, se non in sporadici casi, riconoscere una produzione indigena da una più genericamente mesopotamica.

Bronzo medio (sukkalmakh)

Il sorgere della dinastia Sukkalmakh verso l'inizio del II millennio a.C. altera gli equilibri politici e commerciali tra l'Elam e i dinasti mesopotamici; la caduta del regno di Ur verso la fine del III millennio a.C., unita all'ascesa di una nuova casa regnante in Iran sud-occidentale, determinerà nuovi rapporti di forza tra l'Elam, Susa e i regni di Mesopotamia. Sukkalmakh è un titolo in uso già nei testi presargonici di Girsu, quando viene espressamente usato in un'iscrizione di Urukagina per indicare la carica di "primo ministro" ovvero di "gran visir", mentre una sua più ampia diffusione è conosciuta con il periodo neosumerico presso i dinasti/governatori di Lagash. A Susa il primo re sukkalmakh è Kuk-Kirmash, sebbene sia generalmente attribuita a Shilhaha, figlio di Ebarat II, la fondazione della nuova dinastia, che sembra avere una sovranità su tutto l'Iran sud-occidentale tra il 1900 e il 1600 a.C. circa; il controllo del vasto territorio, come ampiamente accertato dalla titolatura dei sovrani che si riconoscono ripetutamente sukkalmakh di Susa, Elam e Simashki, sembra gravare su tre nuclei politici principali, che dovettero rappresentare una divisione del potere elamita esercitato sulla regione.

Susa ha in questo periodo un'estensione complessiva di circa 85 ha, mentre non capillare sembra l'occupazione della sua regione che, piane del Ram Hormuz e dell'Izeh comprese, mostra una presenza sparsa di insediamenti del periodo Sukkalmakh; nuove fondazioni ovvero rioccupazioni sono conosciute nel Deh Luran e presso i passi pedemontani più settentrionali. Il periodo Sukkalmakh è documentato a Susa sull'apadāna e, soprattutto, sulla Ville Royale (livelli 3-1 di Carter) che, nei livelli XV-XII del Chantier A, ha restituito un'ampia documentazione architettonica pubblica e domestica unita a significative evidenze epigrafiche, che registravano i nomi di alcuni sovrani elamiti (Temti-halki, Kuk-nashur, Tan-Uli, Kudu-zulush, Kidinu). L'evidenza senz'altro più completa, unita all'area industriale del livello XIII-XII, è stata raccolta presso la cosiddetta Casa di Rabibi scavata da R. Ghirshman sulla Ville Royale, nel livello XIV. Sporadiche evidenze costruttive sono documentate anche a Choga Pahan (Khuzistan), dove il nome del sovrano elamita Temti-Agun è stato rinvenuto su frammentari e non contestualizzati mattoni iscritti, trovati nel corso di surveys svolte nella regione; nuove iscrizioni che fanno riferimento ad attività edilizie dei re sukkalmakh sono state rinvenute anche a Malyan durante il periodo Kaftari (Siwe-palar-huppak) e presso l'antica Liyan (Simut-wartash).

La cultura materiale è contraddistinta principalmente da numerosi vasi di bitume antropomorfi che mostrano maggiore cura nell'esecuzione, almeno più di quanto conosciuto durante il periodo precedente; l'arte toreutica mostra dissimili e numerose tipologie funzionali, che attestano una certa omogeneità dalla fine del periodo neosumerico al regno di Attahushu, periodo conosciuto sulla Ville Royale I, livelli 4-3, e presso il Chantier B, negli strati VII-V. Le asce di bronzo hanno forti analogie con quanto conosciuto nel Luristan e si caratterizzano per avere una lama bombata, generalmente inserita sul supporto a metà del collo con una curvatura lungo il profilo posteriore che prolunga il manico. Più in generale, le forme appaiono essere nuove espressioni di un'arte toreutica meno conosciuta del periodo precedente; sono ora documentati vasi di bronzo dalle forme piane, mentre contenitori stretti e alti con imbocco non largo e pentole con carenatura posta presso la metà inferiore del vaso rappresentano alcuni aspetti distintivi della produzione toreutica di Susa, durante i primi tre secoli del II millennio a.C.

La glittica segue un duplice percorso che mostra da una parte, adesione pressoché totale ai canoni espressivi conosciuti nella glittica paleobabilonese, con qualche sporadica variabile regionale, e, dall'altra, l'elaborazione di nuovi percorsi artistici che sfociano in una nuova produzione del sigillo a cilindro, per lo più conosciuta in esemplari di Aushan intagliati nel mastice di bitume. La glittica anshanita, che prende il nome dal centro che costituì verosimilmente l'epicentro politico dello Stato elamita forse da identificare con Tall-i Malyan, mostra tratti stilistici fortemente originali, ampiamente dissimili dalle coeve produzioni di Mesopotamia. Le più ampie evidenze stilistiche sono riconoscibili in un allungamento assai pronunciato delle figure rappresentate, in una pressoché totale e generica eliminazione dei dettagli, in un trattamento sommario, grossolano che sfocia in una più accentuata stilizzazione figurativa, in una spigolosità delle icone rappresentate che trova confronti nella contemporanea glittica di Cappadocia e paleoassira e, infine, in una forte standardizzazione delle formule epigrafiche che si semplificano in schemi scarni e ripetitivi.

La coroplastica è principalmente caratterizzata dalla presenza di figurine femminili nude con mani giunte sul ventre (un solo esemplare poggia le mani sui seni), da oranti nudi con braccia sollevate, da figure femminili nude poste su un letto, da donne che indossano il kaunakes, da uomini generalmente vestiti, da musicisti, dal cosiddetto Khumbaba e da scene erotiche; sebbene la fattura e la resa complessiva dello stile cambino in funzione della rappresentazione, particolarmente ben modellate ed espresse nei singoli dettagli anatomici appaiono soprattutto le figurine che esprimono gli aspetti fertili della natura.

Bronzo tardo (medioelamita i-iii)

Al periodo Sukkalmakh succede il periodo medioelamita anche detto "dei re di Susa e Anshan", generalmente circoscritto tra il 1500 e il 1100 a.C., diviso in tre sottoperiodi che definiscono reggenze dinastiche diverse: quella dei Kidinuidi (Medioelamita I, ca. 1500-1400 a.C.), degli Igihalkidi (Medioelamita II, ca. 1400-1200 a.C.) e infine degli Shutrukidi (Medioelamita III, ca. 1200-1100 a.C.).

Il periodo medioelamita I, assai poco conosciuto, inizia con Kidinu, primo "re di Susa e Anshan", che, sebbene s'inserisca subito dopo la dinastia Sukkalmakh senza apparenti rotture dinastiche, sembra rappresentare, principalmente per la nuova titolatura regia adottata, il primo sovrano di una nuova dinastia che dovette essere approssimativamente contemporanea a Shaushshatar di Mitanni. Questo circoscritto e assai limitato periodo sembra essere documentato anche a Farukhabad, nella piana del Deh Luran, dove, dopo il periodo Sukkalmakh, l'occupazione del sito sembra essere confermata dai confronti ceramici con quanto rinvenuto a Susa sulla Ville Royale, livelli XIII-XI, e a Haft Tepe; non ampi sondaggi svolti nel Khuzistan hanno confermato un regresso insediamentale durante la metà del II millennio a.C., che sembra colpire gran parte dei principali centri del secondo quarto del II millennio a eccezione di Tepe Sharafabad (Deh Luran), Tepe Bormi, Tal-i Ghazir, Tepe Goughan, Tepe Patak e alcuni centri della piana dell'Izeh.

Il periodo successivo (Medioelamita II) è sconosciuto a Susa che, dopo il livello XI della Ville Royale A, mostra uno iato occupazionale che finisce con il Medioelamita III (1200-1100/1000 a.C.). Il principale centro della regione sembra ora essere Kabnak (Haft Tepe), mentre iscrizioni di sovrani Igihalkidi sono state rinvenute a Deh-e Now (Igi-halki) e a Bushire (Humban-numena). Untash Napirisha (ca. 1340-1300 a.C.) fonda Choga Zanbil, che diverrà il centro cerimoniale e religioso del nuovo regno elamita, che sembra particolarmente incentrato sulla Susiana piuttosto che sulle alte terre del Fars, forse anche a causa delle ottime relazioni con i dinasti cassiti, con i quali si imposta una nuova politica matrimoniale mirata a stabili e duraturi rapporti di reciproca convenienza.

L'ascesa degli Shutrukidi, nel Medioelamita III, è segnata da una nuova ampia attività edilizia che si concentra nuovamente su Susa, Deh-e Now e Choga Pahan, proprio quando un articolato complesso palaziale viene costruito a Tall-i Malyan; altre evidenze dei sovrani shutrukidi sono attestate nei rilievi rupestri di Kul-e Farah e Shikaft-e Salman, che furono realizzati da un certo Hanni, figlio di Tahhi, governatore locale vissuto al tempo di Shutruk-Nakhunte I (1190-1155 a.C.). L'ultima fase del periodo medioelamita è segnata dall'invasione di Babilonia da parte di Shutruk-Nakhunte nel 1158 a.C. e da un nuovo e diffuso stato di belligeranza con le città mesopotamiche, nuovamente invase con Kutir-Nakhunte e Shilkak-in-Shushinak prima della definitiva distruzione di Choga Zanbil e dell'invasione di tutta la Susiana da parte di Nabucodonosor I (1104 a.C.).

L'architettura del periodo medioelamita è meglio nota di quanto non sia quella dei periodi precedenti: Susa, Choga Zanbil, Tall-i Malyan e Haft Tepe hanno permesso di conoscere aspetti essenziali delle fabbriche palatine e sacre dell'Elam della seconda metà del II millennio a.C.; a Susa, presso la Ville Royale A, livello XI (periodo medioelamita I), un articolato complesso domestico, chiamato Edificio T, fu rinvenuto durante gli scavi di Ghirshman. L'attività edilizia dei maggiori sovrani medioelamiti si è concentrata principalmente a Choga Zanbil, l'antica Dur-Untash, fondata da Untash-Napirisha nella seconda metà del XIV sec. a.C.

Con la seconda metà del II millennio a.C. una nuova, più complessa, arte toreutica condiziona le espressioni artistiche: la lavorazione del bronzo raggiunge livelli di altissima qualità espressi principalmente nella statua di Napirasu, moglie del re Untash-Napirisha e figlia del re cassita Burna-Buriash, rinvenuta a Susa e ora conservata al Louvre: la statua, acefala, è alta 1,29 m e fu rinvenuta in una stanza del tempio di Ninkhursag fondato sull'acropoli da Shulgi. Il peso della statua è di 1750 kg e sembra verosimile che la sua superficie fosse ricoperta da oro e argento. La regina è rappresentata con le mani giunte sul ventre e una lunga gonna a campana ricca di frange rese tramite incisione e rilievo, e porta due scarni braccialetti e una veste, priva di orpelli, che ne copre il busto.

La sfragistica del periodo medioelamita in Iran sud-occidentale è circoscritta a un numero non ampio di sigilli a cilindro, che mostrano specifiche caratteristiche iconografiche e una decisa personalità culturale, che è principalmente conosciuta a Susa e soprattutto a Choga Zanbil; a iconografie geometriche racchiuse da fregi orizzontali, che definiscono e limitano il campo metopale, si aggiungono più complesse tematiche, per lo più rappresentanti figure stanti abbinate a un vasto apparato epigrafico. Nell'ampia documentazione raccolta nell'antica Dur-Untash si possono riconoscere 12 gruppi di sigilli medioelamiti, che sono stati identificati per tematiche affrontate e stile adottato: il tipo pseudocassita (gruppo I), molto prossimo alle esperienze d'intaglio conosciute in Mesopotamia con i Cassiti tra il 1420 (Kurigalzu I) e il 1280 a.C. (Kadashman-Turgu); il tipo elamita elaborato (gruppo II), condizionato dalla produzione cassita ma con variabili non insignificanti tipicamente elamite; sigilli di pasta vitrea rappresentanti divinità (gruppo III); sigilli di pasta vitrea rappresentanti arcieri ed eroi (gruppo IV); sigilli di pasta vitrea e bitume rappresentanti demoni leontocefali (gruppo V); sigilli con capridi e alberi stilizzati (gruppo VI); sigilli di pasta vitrea rappresentanti banchetti (gruppo VII); sigilli di pasta vitrea rappresentanti sfingi speculari e capridi con testa riversa (gruppo VIII); sigilli di pasta vitrea rappresentanti animali generici e uccelli (gruppo IX); sigilli importati (gruppo X); sigilli a decorazioni geometriche (gruppo XIII); sigilli a stampo (gruppo XV).

Anche la coroplastica assume nuovi significati e si arricchisce di nuovi spunti per lo più fatti conoscere dagli scavi di Susa, Choga Zanbil e Haft Tepe: le statuine di argilla mostrano grande accuratezza di esecuzione, che bene spiega la resa dettagliata degli aspetti anatomici della figurina e i suoi particolari decorativi; la rappresentazione di figure femminili (generalmente con mani giunte sul ventre o che sorreggono i seni, meno spesso nell'atto di allattare un bambino) ovvero mostruose (Khumbaba) sono ora permeate da attenzione maniacale verso i dettagli, verso gli aspetti descrittivi; in particolare le figurine femminili sono riprodotte con numerosi e vari elementi decorativi (collane, bracciali e complesse acconciature/copricapi), con assai pronunciati e modellati fianchi e infine con un vistoso organo sessuale.

Età del ferro e periodo persiano

Periodo neoelamita - Il periodo neoelamita è generalmente circoscritto tra il 1000 e il 539 a.C., anno dell'entrata in Babilonia di Ciro il Grande; questo periodo è diviso in tre principali fasi storiche, che sono in gran parte caratterizzate dai tormentati rapporti che l'entroterra iranico ebbe con i sovrani neoassiri. Il primo periodo (Neoelamita I, ca. 1000-744 a.C.) è principalmente conosciuto presso l'apadāna e la Ville Royale di Susa: frammenti di mattoni e un'omogenea produzione vascolare sono decisivi per supporre una continuità insediamentale sulle due principali colline di Susa tra la fine del II e l'inizio del I millennio a.C. Nel Fars sporadiche evidenze occupazionali caratterizzano la regione, ora contraddistinta dalla presenza di assai numerose sepolture solo marginalmente e non esaurientemente indagate; l'unico centro che ha restituito evidenze certe da datare al Neoelamita I è Tal-e Kabud, non lontano da Shiraz, dalla cui superficie provengono numerosi frammenti ceramici indubbiamente da datare al primo quarto del I millennio a.C. Nessuna informazione testuale ci è pervenuta, l'unico sovrano (?) che viene ricordato è un certo Mar-biti-apla-usur, che in contemporanee liste dinastiche mesopotamiche è indicato come un remoto discendente di Elam.

La seconda fase del periodo neoelamita (periodo II, ca. 743-646 a.C.) è ampiamente documentata da una storiografia assira non parca di informazioni e dettagli sugli scontri di natura militare con il regno di Elam e da una ripresa delle iscrizioni reali elamite, tutte provenienti da Susa; il centro del Khuzistan sembra riacquistare nuova importanza e svolgere un doppio ruolo cerimoniale e politico, che aveva parzialmente perso ed evidentemente ridotto con la seconda metà del II millennio a.C. Il III periodo neoelamita (647-539 a.C.) è ormai principalmente segnato dalla scomparsa delle dinastie elamite a vantaggio di un nuovo emergente potere rappresentato dai Medi e dai Persiani; Susa viene liberata dalla dominazione assira a seguito della distruzione di Ninive (612 a.C.) e della contemporanea ascesa dei dinasti neobabilonesi, mentre un ultimo sovrano elamita (Shutur-Nakhunte), conosciuto in testi provenienti da Susa, prova a riallacciarsi alla tradizione dei "re di Anshan e Susa" senza tuttavia riuscirci.

Scarsa è la documentazione inerente la cultura materiale del periodo neoelamita, che è soprattutto conosciuto per l'abbondanza di testi e iscrizioni reali rinvenute e meno per le evidenze archeologiche raccolte. Cercando evidenze specificamente elamite ed escludendo quanto conosciuto, non troppo per la verità, sulle nuove formazioni etniche/statali/tribali del I millennio a.C. iranico (Mannei, Cimmeri, Medi e i primi Persiani), la glittica sembra rappresentare la classe meglio indagata per poter definire tratti specifici e distintivi di una singola produzione artistica. Gran parte dei sigilli è realizzata con pasta vitrea assai granulosa e friabile; lo stile è generalmente grossolano con richiami al periodo precedente. I temi trattati sono geometrici o, più diffusamente, rappresentano capridi stanti sulle sole zampe posteriori ai lati di una pianta stilizzata dai grossi frutti. Il campo scenico del sigillo è spesso definito da linee semplici o da (doppie) bande dentellate che racchiudono la rappresentazione; arcieri, geni alati che combattono con leoni androcefali provvisti di ali e scene diffuse di caccia sono gli aspetti iconografici, anche formulati dalle coeve botteghe assire, che avranno più ampia diffusione anche nella più tarda sfragistica achemenide.

Periodo achemenide - La conquista di Babilonia da parte di Ciro (539 a.C.) rappresenta un evento determinante, non solo per l'Iran sud-occidentale, ma anche per tutto il Vicino Oriente. L'attività edilizia e un nuovo programma figurativo e linguistico si affermano con la reggenza achemenide: con la soppressione dei primi movimenti ostili ai nuovi dinasti di Parsumah, Dario si mostra particolarmente attivo in nuovi programmi edili che ebbero ampio sfogo nei centri storici di Susa e Babilonia e nella fondazione di Persepoli. Susa, in particolare, tornò a essere un centro cerimoniale, politico, amministrativo e religioso di straordinaria importanza che, pari a Babilonia, dovette costituire una città rappresentativa della regalità achemenide. Più dettagliati riscontri stratigrafici e archeologici, anche semplicemente mirati alla ricostruzione dell'orizzonte vascolare, sebbene privi di evidenze architettoniche, si hanno sulla Ville Royale, cantieri II (livelli 4-5), A (livello VIII) e apadāna (livello 6), a Donjon (livelli III-II) e presso la base occidentale del tappeh (collina) nel livello 3b.

L'architettura persiana mostra a Susa, ancora in forme embrionali e certo sperimentali, aspetti caratteristici di una nuova ricerca spaziale che avranno definitiva affermazione nei complessi palaziali di Persepoli; lo spazio dilatato in una singola aula ipostila quadrata centrale con vani minori laterali e il porticato colonnato a due file di colonne sembrano avere specifici richiami nei codici planimetrici dei palazzi faraonici conosciuti, solo marginalmente, a Menfi e Medinet Habu e sembrano integrarsi a singoli elementi delle culture dell'Iran nord-occidentale (appare verosimile anche la conoscenza diretta dei santuari urartei), dove le più antiche sperimentazioni di sale colonnate sono ampiamente attestate nelle fabbriche palaziali di Hasanlu, Tepe Nush-i Jan e Godin Tepe.

Se la scultura ovvero il rilievo su pietra sono per lo più sconosciuti a Susa e ampiamente e maestosamente documentati a Persepoli, i resti di documenti pittorici provengono tutti dal centro susiano. Le pitture di Susa riproducono le tecniche conosciute sui mattoni smaltati di Babilonia, che dovette aver custodito l'arte delle antiche botteghe pittoriche del tempo di Nabucodonosor II e successivamente e in qualche modo averle trasmesse al patrimonio figurativo achemenide. Le decorazioni dipinte dovevano certamente arredare il complesso palaziale di Dario presso l'apadāna, con una funzione ornamentale che doveva essere assai prossima a quella dei rilievi marmorei della terrazza di Persepoli; tra i gruppi più significativi è quello che riproduce una processione di guardie reali rese secondo una policromia che privilegia il giallo dei vestiti, il verde dei drappi finemente rappresentati, il marrone della faretra posta sulle spalle di coloro che incedono, il bluastro delle barbe, il turchese e il rosso chiaro per le decorazioni che definiscono il campo scenico all'interno del quale le figure si muovono.

La produzione eburnea achemenide è conosciuta a Susa per avori numerosi e assai curati, che mostrano dissimili esperienze lavorative e una base produttiva non omogenea: gli avori achemenidi di Susa si dividono in una serie siro-fenicia e in una specificamente achemenide. La serie condizionata dalle più arcaiche sperimentazioni del I millennio a.C. in Siria si riconosce nella cosiddetta "donna alla finestra" (ampiamente conosciuta a Samaria, Arslan Tash, Nimrud e Khorsabad) e nella rappresentazione di capitelli dalle ampie volute; il gruppo d'ispirazione achemenide è ampiamente documentato da singole statuette, da generici pannelli, da placchette lavorate a rilievo e placchette "a giorno".

I sigilli achemenidi rinvenuti in Iran sud-occidentale sono pochi (non oltre trenta), dallo stile sommario, poco ricercato, poco accurato e, a eccezione di un esemplare, anepigrafi; compaiono, a fianco della morfologia cilindrica, i primi esemplari a stampo circolari con tematiche assai ridotte per l'angusto spazio che se ne ricava. Il sigillo cilindrico mostra iconografie che trovano chiari spunti nel patrimonio antico di Elam e privilegia soprattutto tematiche di grande diffusione e di arcaica derivazione, come l'eroe con lunga veste, munito di tiara, che soggioga capridi ovvero leoni alati posti ai suoi lati; il tema e l'impianto stilistico in generale hanno decisi richiami alla produzione elamita di più arcaica memoria, sebbene singoli dettagli siano di sicura fattura achemenide. La serie dei sigilli a stampo circolari rappresenta, sia per l'impianto iconografico sia per gli aspetti morfologici, una più chiara espressione della nuova arte achemenide, che tratta più limitati e ripetitivi argomenti, ora in gran parte incentrati sulla rappresentazione di sfingi alate ovvero capridi accovacciati dalle lunghe corna.

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Area del golfo

di Luca Peyronel

Il Golfo Persico si estende per circa 800 km dallo Shatt al-Arab sino allo Stretto di Hormuz, con una larghezza massima di 350 km. Le coste orientali risultano poco articolate e senza insenature o isole di particolare rilevanza; al contrario, i margini occidentali si presentano maggiormente frastagliati con un susseguirsi di piccole isole, che hanno rappresentato nel corso dei millenni luoghi privilegiati per gli spostamenti marittimi nell'area: oltre a costituire degli approdi naturali, possedevano infatti notevoli riserve di acqua dolce, grazie a un sistema di risorgive ovvero di pozzi artesiani. La penisola omanita (Emirati Arabi Uniti e Sultanato dell'Oman) costituisce invece il limite nord-orientale del Golfo, "cerniera" tra le isole e la fascia costiera arabica e il Mare Arabico, fungendo da collegamento con la regione costiera di Makran prima e con la valle dell'Indo subito dopo. La ricchezza maggiore del territorio omanita va individuata nelle risorse minerarie: le catene montuose interne sono infatti caratterizzate dalla presenza di giacimenti di rame, che mostrano inequivocabili segni di uno sfruttamento sistematico che affonda le sue radici nel III millennio a.C. Il rame costituì infatti, almeno sino alle soglie del Bronzo Tardo, il bene primario dei commerci nel Golfo Persico, esportato in Mesopotamia in cambio di argento e/o tessuti, all'interno di un complesso meccanismo economico di scambi a lunga distanza tra le città della Bassa Mesopotamia (Ur in primo luogo), il paese di Dilmun (corrispondente alle isole di Failaka, Bahrain, Tarut e alla fascia costiera arabica), il paese di Magan (corrispondente appunto alla penisola omanita) e infine il paese di Melukhkha (ovvero le città harappane della valle dell'Indo). Inoltre, prospettive di vita sedentaria legata ad attività di sfruttamento agricolo del territorio sono garantite nell'Oman da una serie di oasi che caratterizzano la fascia montuosa interna, abitate dall'inizio del III millennio a.C. in modo continuativo da comunità riferibili alle tre facies culturali principali dell'età del Bronzo omanita.

Kuwait, provincia orientale dell’arabia saudita, bahrain

È solo a partire dalla fine degli anni Cinquanta del Novecento, grazie alle ricerche condotte dall'équipe danese diretta da T.G. Bibby e da P.V. Glob nelle isole di Failaka, Bahrain e Tarut, che vengono gettate le basi dell'archeologia del Golfo Persico, con la scoperta di insediamenti databili a un periodo compreso tra la fine del Bronzo Antico (ca. 2300/2200 a.C.) e il Bronzo Medio (ca. 2000-1600 a.C.), con lo scavo sistematico delle estesissime necropoli presenti sull'isola di Bahrain e con l'identificazione di una cultura materiale altamente specifica, tanto nelle produzioni vascolari quanto nella sfragistica. Tali scoperte permisero la localizzazione del cosiddetto "paese di Dilmun", documentato nelle fonti epigrafiche mesopotamiche soprattutto grazie ai testi di Ur del periodo di Isin e Larsa (ca. 2000-1800 a.C.), ma attestato in documenti cuneiformi sin dall'epoca di Gemdet Nasr (ca. 3100-2900 a.C.). In realtà, le prime evidenze di contatti tra la Mesopotamia e il Golfo Persico sono rappresentate da materiali ceramici del periodo Ubaid rinvenuti in siti del Kuwait e della provincia orientale dell'Arabia Saudita.

Le informazioni più interessanti provengono dai recenti scavi britannici di as-Sabiyah nel Kuwait, dove è stata evidenziata un'occupazione stabile con ceramica dipinta e incisa di tipo Ubaid, vasellame non decorato, abbondante industria microlitica; diversi frammenti di bitume indicano l'utilizzo del materiale per l'impermeabilizzazione delle imbarcazioni e rappresentano le più antiche evidenze archeologiche di navigazione nel Golfo. La documentazione dell'Arabia Saudita nord-orientale risulta piuttosto ampia con quasi 50 siti con materiale ceramico Ubaid, di cui almeno 3 sono di una certa estensione con strutture abitative di mattoni crudi e, in un caso, con un muro di recinzione ellittico. Nell'isola di Bahrain è conosciuto un solo sito con materiali Ubaid, localizzato sulla costa e strettamente legato allo sfruttamento delle risorse marine. Nel suo insieme tutta la fascia costiera orientale dell'Arabia Saudita e del Kuwait appare caratterizzata da un'occupazione dispersa con piccoli insediamenti monofase, relativi ad accampamenti per lo più temporanei, intervallati da centri di maggiori dimensioni, caratterizzati da una frequentazione più duratura nel tempo. In generale la dislocazione ai margini delle sabkhas costiere suggerisce un'originaria posizione sull'antica linea del litorale e una forte dipendenza dalle attività legate allo sfruttamento delle risorse marine. È inoltre assai probabile che anche i siti più interni fossero ubicati nelle vicinanze di lagune e in posizioni strategiche rispetto alle falde acquifere e ai widyān che permettevano di raggiungere la costa con relativa facilità.

Dopo le occupazioni tardo-Ubaid si registra un sostanziale vuoto documentario per tutto il IV millennio a.C., dovuto a due fattori naturali concomitanti: da un lato il sopraggiungere di una fase sostanzialmente arida, dall'altro l'abbassamento delle acque del Golfo e il conseguente arretramento della linea costiera. L'occupazione comincia a essere di nuovo consistente a partire dal periodo protodinastico I (ca. 3000/2900-2700 a.C.). Le testimonianze più significative provengono ancora dalle regioni costiere dell'Arabia e dall'immediato entroterra (ad es., Umm an-Nussi nell'oasi di Yabrin, Umm ar-Ramadh nell'oasi di Qofuf, e la necropoli di Sabkha Hammam). L'isola di Tarut sembra aver rivestito un ruolo decisivo in questo periodo: ceramica di tipo mesopotamico e soprattutto una vasta produzione di oggetti di steatite/clorite dimostrano contatti con la Mesopotamia e l'Iran e insieme l'alto grado di sviluppo raggiunto dagli insediamenti dell'isola nel periodo attorno alla metà del III millennio a.C. Nel Bronzo Antico sembrano dunque svilupparsi delle società complesse strettamente collegate: da un lato gli insediamenti agricoli nelle principali oasi dell'immediato entroterra, dall'altro dei nuclei costieri, che si trasformano da villaggi legati soprattutto alla pesca in piccoli centri protourbani dediti ad attività commerciali e produzioni specializzate (vasi di steatite).

Alla fine del III millennio a.C. si data l'occupazione di Bahrain. Sebbene i centri costieri continuino a prosperare, è proprio sull'isola che va situato il baricentro politico-economico di Dilmun, mentre un'espansione di poco successiva (inizi del II millennio a.C.) si registra sull'isola di Failaka, che assume un ruolo chiave nella gestione dei traffici commerciali verso l'alluvio mesopotamico, situata come è proprio ai limiti dello Shatt al-Arab. Il Bronzo Medio e Tardo del Golfo settentrionale vengono solitamente denominati periodo antico dilmunita (ca. 2100-1600 a.C.) e periodo medio dilmunita (1600-1200 a.C.). Tra il 2000 e il 1800 a.C. (periodo di Isin e Larsa in Mesopotamia) si colloca l'apogeo dilmunita, quando il paese diviene il referente unico delle città del Sud sumerico nei traffici commerciali che si svolgono via mare lungo le coste del Golfo Persico e che collegano l'alluvio mesopotamico ai paesi di Magan e di Melukhkha, come ampiamente testimoniato soprattutto dagli archivi privati dei mercanti di Ur degli inizi del II millennio a.C. Se il periodo antico dilmunita costituisce la fase di massimo splendore, sembra altresì assodato che il Golfo Persico non cessò mai completamente, nonostante il sicuro ridimensionamento dei traffici commerciali, di rappresentare il tramite tra mondo babilonese e terre orientali ricche di beni preziosi (metalli, pietre dure, essenze, legname, ecc.), del tutto assenti in area mesopotamica. Durante l'epoca cassita i territori dilmuniti vennero annessi al regno mesopotamico dopo la conquista del "paese del mare", intorno al 1500 a.C., e trasformati in un'amministrazione provinciale retta da un governatore.

Le indagini archeologiche tanto a Failaka quanto a Bahrain hanno portato alla luce diversi insediamenti di periodo dilmunita maturo. Il centro maggiore dell'isola di Bahrain, Qalat al-Bahrain, può essere considerato una sorta di "capitale" del paese di Dilmun, sebbene la presenza di forti sovrapposizioni successive abbia impedito di individuare gli edifici pubblici e di ricostruirne l'assetto urbanistico. Oltre a produzioni ceramiche locali altamente specifiche ("esportate" anche in siti omaniti), come le giare ovoidali di tipo Dilmun (tipiche dei corredi funerari) e la ceramica Chain-ridged e Red-ridged, è sicuramente nella glittica a stampo che meglio si può individuare il complesso gioco di influenze, rielaborazioni e innovazioni che gli artisti e gli artigiani dilmuniti operarono su un assai ampio repertorio di motivi iconografici. Sono state pubblicate diverse centinaia di sigilli provenienti dagli insediamenti di Failaka e Bahrain e dalle necropoli di Bahrain, altamente standardizzati nella morfologia (forma circolare con calotta decorata mediante linee incise e cerchi puntinati) e nel materiale (steatite/clorite), con un ricco e variato repertorio iconografico con scene a valenza certamente rituale in cui figure umane, animali (soprattutto antilopi, gazzelle, tori, ma anche serpenti, scimmie e uccelli), simboli e arredi cultuali si combinano raggiungendo spesso una sorprendente armonia compositiva.

Le testimonianze architettoniche più rilevanti dell'epoca cassita provengono da Bahrain, dove a Qalat al-Bahrain è stato riportato alla luce un edificio pubblico, che era probabilmente la residenza del governatore. Alla fase del Dilmunita medio sono ascrivibili anche numerose sepolture caratterizzate da inumazioni collettive in ciste rettangolari di pietra, con corredi costituiti soprattutto da vasellame ceramico associato a rari sigilli cilindrici o a stampo, ornamenti personali e contenitori di steatite. Sull'isola di Failaka è possibile osservare una maggiore continuità tra la fase paleobabilonese e quella cassita. La ceramica mostra un impasto marroncino e tipologie direttamente desunte dall'area mesopotamica, mentre compaiono sigilli cilindrici di tipo mitannico, cassita, pseudocassita. La glittica a stampo, pur continuando a essere attestata, ora anche con esemplari bifacciali, presenta sovente raffigurazioni direttamente desunte dall'ambiente mesopotamico.

Dopo il crollo del regno cassita a opera di Tukulti-Ninurta I alla fine del XIII sec. a.C., il paese di Dilmun riesce a ricostruire le basi di un'organizzazione politica ed economica autonoma, sebbene nel periodo neoassiro (ca. 900-612 a.C.) e in quello neobabilonese (612-539 a.C.) le fonti cuneiformi documentino l'esistenza di sovrani dilmuniti che offrono tributi, come vassalli, a quelli di Ninive e di Babilonia. Il periodo achemenide presenta invece un duplice ordine di problemi: in primo luogo, la documentazione scritta di periodo persiano non riporta mai toponimi riferibili a insediamenti o regioni del Golfo Persico (a eccezione del paese dei Maciya, probabilmente da identificarsi con l'Oman); inoltre, le evidenze archeologiche databili al V-IV sec. a.C. sono piuttosto ridotte e in alcuni casi difficilmente scindibili dal precedente periodo neobabilonese. Questa situazione potrebbe essere il riflesso di una tacita trasmissione del controllo effettivo sui traffici commerciali nell'area tra l'impero neobabilonese e quello persiano. Anche la situazione documentaria, con le nuove scoperte di Tell Khazneh a Failaka e con la messa a punto della periodizzazione dell'Arabia orientale e della penisola omanita nell'età del Ferro, comincia a modificarsi lentamente, riportando alla luce chiare testimonianze di un'occupazione stabile anche in età achemenide. In questo senso si potrebbe ritenere il settore settentrionale del Golfo come appartenente alla satrapia "centrale" della Persia, ancora ganglio vitale di smistamento dei traffici commerciali tra Vicino e Medio Oriente.

Qatar, emirati arabi uniti e sultanato dell’oman

Le ricerche archeologiche dell'ultimo decennio del XX secolo nel settore meridionale del Golfo hanno fornito importanti testimonianze di insediamenti databili tra il V e il IV millennio a.C., aprendo la strada a una più dettagliata comprensione dei rapporti intercorrenti tra le culture locali della penisola omanita e del Qatar.

Gli insediamenti principali del Qatar sono al-Daasa e Ras Abaruk, sul versante occidentale, e Khor, dove sono presenti anche sepolture, nella parte nord-orientale della penisola; essi sono interpretabili come accampamenti stagionali di comunità di cacciatori-pescatori che in-

trattenevano sporadici contatti marittimi con le aree settentrionali, evidenziati dalla ceramica di Ubaid. Gli scavi danesi prima e francesi poi hanno permesso l'elaborazione di una tipologia dello strumentario litico, con valenza cronologica e di riferimento per le altre aree del Golfo, sebbene le diverse tradizioni attestate siano considerate oggi in parte sovrapposte. Negli Emirati e in Oman ritroviamo ancora siti con materiali Ubaid: sulla piccola isola di Dalma, a circa 40 km dalla costa di Abu Dhabi, un insediamento stagionale era legato allo sfruttamento delle risorse marine. Indagini sistematiche condotte nei dintorni della grande laguna di Umm al-Qaiwain e a Hamriyah nell'Emirato di Sharjah hanno dimostrato l'esistenza di occupazioni del V millennio a.C., caratterizzate essenzialmente da chiocciolai associati a industria litica e ceramica Ubaid; le più antiche culture locali nel Sultanato dell'Oman sono state identificate nell'area intorno a Muscat, grazie alle pionieristiche ricerche di una missione italiana dell'IsMEO, e più di recente nell'area di Ras al-Hadd e Ras al-Jinz.

La scoperta di un'estesa area di sepolture individuali e multiple nel sito di Gebel al-Buhais 18, nella zona pedemontana della catena dell'Hajar, ha gettato luce sulle pratiche funerarie del V millennio a.C. nell'area omanita. In tutte le sepolture primarie sono presenti corredi costituiti da monili e ornamenti realizzati con perle e microperline di una sorprendente varietà di materiali (conchiglia, madreperla, corallo, selce, corniola, serpentino, agata, calcare). Le similarità riscontrate con le coeve sepolture di Khor e Umm al-Qaiwain e con materiali provenienti da insediamenti sia Ubaid-related sia aceramici suggeriscono l'esistenza di una rete di contatti, se non addirittura di una certa omogeneità "culturale", tra le comunità dell'interno, della costa occidentale e di quella orientale. L'elemento comune costituito dal mare fu verosimilmente responsabile di talune similarità, mentre altre comunanze si spiegano ipotizzando un certo livello di interazione, veicolato grazie alle vallate interne tramite una serie di passaggi concatenati da gruppo a gruppo.

Le culture che si sono sviluppate nel corso del III e del II millennio a.C. nella penisola omanita, ovvero nell'area geografica corrispondente al paese di Magan (attestato nei testi cuneiformi a partire dall'epoca accadica, quando i sovrani mesopotamici ricordano alcune campagne militari contro queste regioni), prendono nomi diversi in base a una successione sostanzialmente cronologica: cultura di Hafit (ca. 3000-2500 a.C.), di Umm an-Nar (ca. 2500-2000 a.C.) e infine di Wadi Suq (ca. 2000-1500/1300 a.C.). Le ultime due rappresentano il periodo di massimo sviluppo insediamentale e di maggiore articolazione socioeconomica della regione che, grazie allo sfruttamento delle sue risorse minerarie, riuscì a gestire, prima in maniera autonoma e dopo grazie al ruolo di intermediario privilegiato di Dilmun, i traffici commerciali del Golfo Persico.

Il materiale dell'inizio del III millennio a.C. proviene quasi esclusivamente da contesti funerari, ma la cronologia è comunque fissata in maniera molto precisa da una serie di datazioni al radiocarbonio e da manufatti connessi alla Mesopotamia del periodo di Gemdet Nasr e del Protodinastico I-II.

La cultura di Hafit ha preso il nome da alcune tombe scoperte sul pedemonte del Gebel Hafit, tra cui sono stati individuati cinque gruppi principali, ubicati tutti lungo le rotte strategiche che attraversano le montagne interne alla penisola, dove si trovano i principali giacimenti di rame. Il gruppo più importante è sicuramente quello del Gebel Hafit, con circa 70 tombe monumentali, nei cui corredi sono state rinvenute piccole olle biconiche a orlo estroflesso e collo cilindrico di importazione mesopotamica, evidenza di un contatto diretto tra Sumer e Magan, che per più di mille anni sarà la principale fonte di approvvigionamento di rame della Mesopotamia.

Durante la seconda metà del III millennio a.C. (periodo di Umm an-Nar) gli sviluppi culturali dell'Oman prenderanno una strada completamente diversa da quanto conosciuto nella parte settentrionale del Golfo, con l'affermazione di comunità probabilmente a base egalitaria con elementi emergenti di stratificazione interna, fortemente coese tra loro e altrettanto strettamente legate alle risorse ambientali offerte, da un lato, dalle fertili oasi dell'interno e, dall'altro, dalle risorse minerarie delle regioni montuose. Al contempo lo sfruttamento di queste ultime determinò lo sviluppo di centri costieri coinvolti nell'esportazione del minerale verso la Mesopotamia meridionale. Si passa, dunque, a un'occupazione sedentaria parzialmente isolata dalla Mesopotamia a causa del "filtro" operato dai centri dilmuniti del Golfo centro-settentrionale, ma aperta, soprattutto nelle regioni orientali, ai fecondi apporti della civilità harappana della valle dell'Indo. La cultura di Umm an-Nar si distingue per i particolari riti funerari con sepolture multiple entro gigantesche tombe monumentali di forma circolare, con partizione interna in più camere. Le più importanti testimonianze di tali tombe provengono dall'isola omonima e dall'oasi di Hili, ma esse sono diffuse su un'area geografica piuttosto estesa: dall'estremo Settentrione (penisola di Musandam) sino all'Oman sud-orientale.

Sono stati individuati inoltre diversi insediamenti in cui spesso compare, in zone mai periferiche, una struttura articolata di forma circolare costruita con mattoni crudi, una sorta di grande torre al cui interno potevano trovare rifugio molte persone. Pur mostrando notevoli tratti di similarità, l'orizzonte ceramico di questo periodo permette una fondamentale distinzione di tipo "regionale": da un lato sono le produzioni vascolari dell'area interna, caratterizzate da ceramica ingobbiata rossa con pitture geometriche in nero e da importazioni iraniche e harappane; dall'altro, le ceramiche dei siti costieri degli Emirati, con una netta prevalenza di forme e impasti di imitazione mesopotamica. Nelle tombe si registra, invece, una maggiore mescolanza con corredi ceramici costituiti da vasellame fine dipinto in nero su ingobbi rossi o grigi, ceramica incisa o a decorazione impressa. Una delle produzioni artigianali più distintive della cultura di Umm an-Nar è quella dei contenitori di steatite con decorazione geometrica a doppi cerchi puntinati, limitata a poche forme standardizzate, come le coppe emisferiche, i contenitori rettangolari, i vasi "a canestro" e i coperchi a presa centrale.

Nel periodo di Wadi Suq si verifica una progressiva diversificazione dei riti funerari: mentre infatti le sepolture collettive rimangono in uso, ma con tipologie architettoniche piuttosto variate (tombe sotterranee di forma allungata con lati brevi curvi, ovvero tombe di superficie di forma rettangolare o absidata con o senza partizioni interne, o ancora con recinto circolare esterno), compaiono anche sepolture singole, in ciste funerarie sotterranee o in vere e proprie tombe circolari. Sono stati indagati in maniera estensiva, fino a ora, solamente cinque insediamenti attribuibili a questo orizzonte culturale: in particolare, il sito di Tell Abraq ha restituito una sequenza stratigrafica che permette di tracciare delle linee di continuità, soprattutto nella cultura materiale, tra il III e il II millennio a.C., mentre a Hili 8 le ricerche francesi hanno restituito un quadro articolato dell'insediamento, tentando di ricostruire soprattutto le strutture economiche di base di queste comunità omanite dell'inizio del II millennio a.C.

La ceramica locale, inquadrata cronologicamente grazie alla sequenza di Abraq e Shimal, è caratterizzata da una maggiore varietà di impasti rispetto al periodo Umm an-Nar. Tra le forme diagnostiche si possono menzionare le olle con versatoio e i bicchieri a orlo svasato con pittura nera nella parte superiore. La produzione locale dei vasi di steatite prosegue anche nel II millennio a.C. con una decorazione incisa a linee orizzontali o intersecate e cerchi puntinati, che ora copre quasi tutta la superficie esterna.

L'età del Ferro (chiamata anche "periodo di Lizq" dal sito omonimo) nella penisola dell'Oman copre un lasso cronologico compreso tra il 1300 e il 300 a.C. Durante il periodo neoassiro e neobabilonese le culture omanite rimasero piuttosto isolate dalla Mesopotamia, mentre è con il periodo achemenide che troviamo queste regioni menzionate dai sovrani persiani e in relazione col paese di Maciya. Gli insediamenti più rilevanti dell'interno sono Hili 2 e Rumeilah, con ampie strutture abitative costruite con mattoni crudi, e Hili 14 che, con il suo muro di fortificazione quadrangolare, è stato paragonato a una sorta di caravanserraglio. Sulla costa degli Emirati si distinguono al-Qusais, Abraq, ed-Dur, Ghalilah, ognuno dei quali ha restituito una sequenza occupazionale che copre gran parte del periodo, mentre lungo la fascia costiera orientale nel sito di Qidfa sono stati riportati alla luce un insediamento articolato e diverse sepolture databili al tardo I millennio a.C.

L'orizzonte ceramico del Ferro omanita risulta assai omogeneo, con classi prevalenti di ceramica comune e incisa. La ceramica dipinta si limita a poche forme diagnostiche, come le coppe emisferiche e le coppe carenate a motivi ondulati o a zig-zag dipinti a fasce sotto l'orlo. In molte tipologie si riscontra una forte affinità con coeve produzioni iraniche. Anche nel I millennio a.C. la manifattura dei contenitori di steatite/clorite, ora realizzati anche con altri tipi di pietre, continua a rappresentare un artigianato molto fiorente. Le forme preferite sono le coppe a beccuccio, le giare biconiche, i vasi troncoconici, decorati con incisioni geometriche in schemi compositivi anche piuttosto variati, la cui origine va rintracciata nel periodo finale di Wadi Suq.

Uno degli aspetti più significativi dell'economia dei centri omaniti dell'età del Ferro è rappresentato dall'introduzione della tecnica di irrigazione con il sistema dei qanāt, secondo alcuni studiosi risalente alla fase achemenide, ma più verosimilmente utilizzato già dall'inizio del I millennio a.C. Tale sistema permise un'occupazione diffusa del territorio e, integrandosi alla tradizionale agricoltura nelle fertili oasi dell'entroterra, alla pesca lungo le coste e allo sfruttamento delle risorse minerarie delle montagne, garantì una nuova fase di prosperità per le comunità locali e un rinnovato interesse del grande impero achemenide.

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Penisola arabica meridionale

di Alessandro de Maigret

L'antica cultura sudarabica fiorì nel saliente meridionale della Penisola Arabica (Yemen) tra il 1200 circa a.C. e il 628 d.C. Limitata dal Mar Rosso e dall'Oceano Indiano, nonché dal grande deserto centrale arabico (Rub al-Khali), essa ha avuto nei tanti secoli della sua storia uno sviluppo generalmente isolato, tanto nelle vicende politiche e sociali che nelle manifestazioni del pensiero e dell'arte, anche se non vanno dimenticati i suoi legami di parentela (linguistici soprattutto) con le altre popolazioni semitiche del Vicino Oriente antico.

La famosa "carovaniera dell'incenso", che convogliando aromi e spezie dall'Arabia meridionale sino al Mediterraneo ne favorì sviluppo e ricchezza, rappresentò l'unico vero legame con l'esterno e determinò il motivo della celebrità dell'Arabia Felix nel mondo antico. Ma da quest'unica finestra (aperta, sembra, sino dal IX-VIII sec. a.C.) non entrarono sostanziali influenze dal Nord, se non a partire dall'era cristiana, quando la forza di coesione e il tradizionalismo locali cominciarono a vacillare. Lo sfruttamento delle risorse commerciali della via carovaniera non sarebbe stato possibile se i Sudarabici non fossero stati in possesso di speciali qualità di ingegneria idraulica, che permisero loro di fondare le loro grandi città nel deserto, laddove appunto transitavano le carovane, integrando il circuito economico della gestione commerciale con quello della produzione agricola.

Anche se piuttosto confuse e fantasiose, le prime notizie che in età classica abbiamo dell'Arabia meridionale sono quelle tramandate da Erodoto (ca. 484-425 a.C.): egli parla con dettagli favolosi delle spezie, dell'incenso, della mirra, della cassia, della cannella, del làdano confermando l'importanza che già alla sua epoca aveva assunto la carovaniera. Dopo altre testimonianze di Teofrasto (ca. 287 a.C.) sui Sabei e gli aromi d'Arabia e i riferimenti all'Arabia Felix di Eratostene di Cirene, si ricordano i cenni di Agatarchide di Cnido (ca. 150 a.C.) e di Diodoro Siculo (ca. 80-20 a.C.). Le informazioni riportate dal generale di Augusto Elio Gallo in seguito alla sua sfortunata spedizione del 24 a.C. contribuirono ad arricchire gli scritti dei due maggiori storici che in epoca imperiale fecero riferimento all'Arabia meridionale: Strabone e Plinio il Vecchio. Nella sua Geografia, Strabone di Amasia (ca. 60 a.C. - 20 d.C.) aggiunse alle notizie già note numerosi ragguagli, provenienti indubbiamente da fonti dirette. Anche Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nella sua Naturalis historia riportava sia notizie prese da Elio Gallo che da numerose altre fonti. In quello stesso periodo i commerci dell'Impero romano con il Mar Eritreo aumentarono d'intensità. Un testo anonimo della metà circa del I sec. d.C. esemplifica molto bene come questi percorsi dovessero essere divenuti consuetudinari. Si tratta del cosiddetto Periplo del Mare Eritreo, una guida preziosissima per i commercianti, che partendo dai porti egiziani sul Mar Rosso illustrava le tappe del lungo viaggio costiero verso l'India. Su documenti come il Periplo dovette basarsi Claudio Tolemeo per ricavare verso la metà del II sec. d.C. la sua famosa Introduzione geografica, che interessava anche l'Arabia. Quest'opera è l'ultima fonte di conoscenza dell'Arabia Felice nel mondo antico e, fino alla sua riscoperta nel Rinascimento, le uniche informazioni che si ebbero di essa furono i riferimenti alla Regina di Saba della Bibbia (I-IV Reg., I, 10, 1-13) e ai Sabei del Corano (XXXIV, 18-19).

A parte alcune avventurose incursioni di esploratori nel Settecento (il danese C. Niebuhr) e nell'Ottocento (l'inglese J.R. Wellsted, i francesi Th. Arnaud e J. Halévy, l'austriaco E. Glaser), soltanto nel 1928 si ebbe il primo scavo, condotto in un tempio a Huqqa, presso Sana, dai geologi tedeschi C. Rathjens e H. von Wissmann. La prima missione specialistica operò tuttavia nel 1938 a Hurayda (Hadramaut), dove l'archeologa inglese G. Caton Thompson mise in luce un importante tempio e alcune tombe. Lo Yemen del Sud, sotto protettorato inglese, rendeva allora più facili le iniziative e nel 1950 l'Americano W. Phillips poté iniziare scavi estensivi nel Wadi Bayhan: nella città e nella necropoli di Tamna (capitale del Qataban) e nel sito di Hajar Bin Humayd, dove si poterono ottenere le prime stratigrafie datate. Nel 1952 la stessa missione iniziò uno scavo a Marib (capitale di Saba) scoprendo tutto il peristilio d'entrata del grande tempio Awwam. Gravi controversie sorte tra l'équipe di Phillips e l'imam Ahmad bloccarono però bruscamente i lavori e, anche a causa della guerra civile (1962-70), si dovette attendere l'inizio degli anni Ottanta perché altre ricerche potessero ricominciare nello Yemen del Nord. Proprio nel 1980 furono intraprese le attività di ricognizione e scavo della Missione Archeologica Italiana diretta da A. de Maigret, alla quale si devono: la scoperta nel Khawlan at-Tiyal di un'età del Bronzo yemenita precedente il periodo sudarabico; la precisazione della cronologia sudarabica grazie alla scoperta del sito sabeo arcaico di Yala e al relativo scavo nella città di ad-Durayb; una prima conoscenza dei costumi funerari di nomadi e sedentari con gli scavi nelle necropoli di Makhdara e Waraqa; l'avvio di scavi estensivi nella città minea di Yathil (Baraqish) e a Tamna.

La creazione a Sanaa, a partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento, di centri permanenti di ricerca consentì ai Tedeschi di avviare ricerche nella diga e scavi nei templi di Marib, ai Francesi di mettere in luce un tempio presso as-Sawda nel Jawf e agli Americani di ricominciare alcuni scavi stratigrafici nella regione del Juba, a sud di Marib. La missione francese, in particolare, poté condurre dal 1975 importanti scavi a Shabwa, capitale del Hadramaut. Il regime filosovietico dello Yemen del Sud aveva infatti consentito con un certo anticipo rispetto al Nord l'apertura agli stranieri. Una missione sovietica stava, del resto, già lavorando a Raybun e Qani (Hadramaut) dall'inizio degli anni Ottanta. Con l'unificazione politica dei due Yemen (1990), il Paese si è definitivamente aperto alla ricerca e alla collaborazione scientifica internazionale.

Le scoperte di questi ultimi venticinque anni contribuiscono senz'altro a delineare un quadro nuovo e più preciso delle culture sudarabiche. Gli scavi condotti dalla missione italiana nel sito di Yala (poco a sud di Marib) hanno dimostrato che verso il 1200 a.C. alla cultura dell'età del Bronzo seguì una cultura "sudarabica" (con tale termine si è soliti indicare tradizionalmente la cultura degli Stati preislamici dell'Arabia meridionale), distinta da un'architettura in blocchi squadrati, dalla ceramica carenata con decorazione rossa lustrata e dalla comparsa di iscrizioni, così diversa da quella dell'età del Bronzo che non si può pensare a una sua evoluzione da quest'ultima. Da qui una teoria di provenienza esterna dei Sudarabici: si tratterebbe di nomadi semiti provenienti dal deserto centrale arabico sedentarizzatisi ai piedi delle montagne yemenite. Tale teoria, che riflette le ondate di sedentarizzazioni progressive avvenute nella Mezzaluna Fertile a nord, sembrerebbe confermata dalla posizione che Yala e altri siti a esso coevi, come Shabwa, Hajar Ibn Humayd, Hajar at-Tamra, hanno nel deserto ai piedi delle montagne (solo più tardi gli insediamenti sudarabici si estenderanno più a ovest, sulle catene montuose). Per questi centri così antichi, tuttavia, dobbiamo parlare ancora di "protostoria sudarabica".

Una "storia sudarabica" vera e propria comincia verso la fine dell'VIII sec. a.C., con la comparsa delle grandi iscrizioni monumentali (che includono anche testi storici), dell'imponente architettura civile e religiosa e della caratteristica scultura realizzata in pietra e in bronzo. Saba è già un regno potente in questo periodo, nominato tra il 744 e il 681 a.C. per ragioni politiche dai sovrani assiri Tiglatpileser III, Sargon II e Sennacherib. Come riferisce un re di Sukhu, sul medio Eufrate, verso il 750 a.C. carovane sabee di cammelli avevano già stabilito il loro commercio d'incenso, di mirra e di spezie con il Nord. Il culmine del potere sabeo è raggiunto col grande sovrano (mukarrib) Karibil Watar verso il 700 a.C. In una grande iscrizione rinvenuta a Sirwah, egli elenca le sue conquiste, dimostrando di dominare un vero e proprio impero che si estendeva a est sino all'Hadramaut e a nord sino all'Asir. È probabile che la sua influenza giungesse anche in Etiopia dove, nel Tigrai, sono state trovate iscrizioni, statue e templi sabei. Dopo Karibil Watar si assiste a un declino dell'egemonia sabea e al contemporaneo affacciarsi nello scenario politico ed economico dello Yemen antico di altri tre protagonisti: Qataban, Main e Hadramaut, che insieme a un ridimensionato regno di Saba rappresentano, con le loro lotte e alleanze per la supremazia politica e territoriale, la storia sudarabica tra il VI e il I sec. a.C. Qataban sembra essere, in questo periodo, il regno più potente e la sua capitale Tamna diventa il principale centro politico-commerciale di tutta l'Arabia meridionale. Particolarmente prospero è anche il regno di Main, dedicato com'è, più che a questioni di egemonia politica, al controllo e alla gestione della famosa carovaniera dell'incenso.

Verso il 110 a.C., alcune tribù dell'altopiano a sud di Dhamar si staccarono dal Qataban e formarono uno Stato indipendente, Himyar, che pian piano si affermò come erede del regno di Saba, adottandone anche la lingua. La sua capitale è stabilita a Zafar (130 km a sud di Sanaa), dove si trova il palazzo reale di Raydan. È la prima volta che il potere di uno Stato sudarabico si sposta sull'altopiano e questo va connesso con il declino delle vie carovaniere interne e la progressiva entrata in uso delle vie commerciali marittime, che aprirono anche a forti influenze greche e romane, visibili nella statuaria, nei rilievi e nei bronzi. Nel I sec. d.C., però, il regno sabeo era ancora vivo e potente: il tempio di Almaqa a Marib era ancora un'importante meta religiosa e la fondazione di Sana indica il consolidamento del potere sabeo sull'altopiano. Comincerà quindi un lungo periodo di lotte che terminerà solo alla fine del III sec. d.C. con la vittoria definitiva di Himyar. Il grande re Shammar Yuharish si annetterà allora, oltre a Saba, anche l'Hadramaut e riuscirà a cacciare dallo Yemen gli Abissini, stabilitisi da oltre settant'anni lungo le coste del Mar Rosso. Dal 384 d.C. si consolida in Yemen un vero e proprio impero himyarita di fede monoteista (pare cristiana, anche se a titolo personale alcuni sovrani adotteranno il giudaismo) che giungerà, nel V secolo, a estendere il suo potere a nord sino al Najd e alla regione della Mecca. Nel secolo successivo, però, il crollo sarà improvviso. Il generale abissino Abraha, con la scusa di vendicare l'eccidio di cristiani compiuto a Najran dal re Dhu-Nuwas, di fede fanaticamente giudaica, conquisterà nel 528 tutto lo Yemen. A nulla servirà la richiesta di aiuto al re di Persia. Anzi, dal 570 d.C. l'Arabia meridionale diventerà una satrapia dell'impero sasanide, perdendo per la prima volta la sua autonomia e la sua identità culturale. Caratteri che saranno quasi del tutto dimenticati poco dopo (628), con l'ingresso dello Yemen nell'Islam.

Poiché il regno di Saba è stato sempre presente nella lunga vicenda storica dell'Arabia meridionale, si potrebbe cominciare a parlare di Sabei invece che del troppo generico Sudarabici e, forse, di "sabeologia" invece che di "sudarabistica".

La presenza di un'evoluta scrittura dimostra il raggiunto livello di "statalità" di questi regni. Di tipo alfabetico, essa deriva da una scrittura apparsa verso la metà del II millennio a.C. tra la Siria e il Sinai settentrionale, di cui s'ignora ancora la genesi, ma dalla quale presero origine altre scritture semitiche, come il fenicio e l'aramaico. I più antichi documenti scritti sinora conosciuti, risalenti a un periodo compreso tra il XII e il IX sec. a.C., sono rappresentati da alcuni caratteri dipinti su ceramica da Raybun (Hadramaut) e dai nomi di persona incisi sui cocci rinvenuti a Yala. Le prime grandi iscrizioni monumentali appaiono più tardi, verso la metà dell'VIII sec. a.C., nei templi, dove i dedicanti chiedevano alla divinità una ricompensa per la loro pietà; negli edifici civili, per commemorare le costruzioni e immortalare i nomi dei loro finanziatori; nelle tombe, dove i defunti intendevano garantirsi l'inalienabilità del luogo del loro riposo eterno. Alcuni documenti avevano scopi di tipo più istituzionale, come i decreti dei sovrani, quelli delle assemblee tribali (diritti di proprietà, d'irrigazione; regolamenti di mercato, di commerci, di matrimoni, ecc.) e quelli di emanazione divina (regolamentazione dei santuari). Altri, meno numerosi, documentavano eventi storici o fatti eccezionali, come spedizioni militari, rifondazione di confederazioni tribali, cacce reali, riti, ecc.

Ovviamente tutte queste iscrizioni, eseguite con grande maestria e cura su pietra o bronzo, dovevano richiedere notevoli impegni di denaro, quindi hanno un valore documentario di élite, rispecchiando quasi esclusivamente la vita di gente nobile, ricca e potente. Recentemente, tuttavia, si è venuti a conoscenza di un secondo tipo di iscrizioni che sembra riferirsi ad autori più popolari. Si tratta di piccoli cilindri di legno che recano i segni fitti di una scrittura corsiva (o minuscola) che, evidentemente, serviva a documentare cose di natura più corrente e quotidiana, come contratti, transazioni, inventari, lettere, ecc. Sono questi i "testi economici" della letteratura sudarabica. L'alfabeto sudarabico conta 29 caratteri; prima dell'era cristiana fu completato da 7 simboli numerici, sostituiti in seguito dai numeri scritti in lettere. Il sudarabico si scrive da destra a sinistra, ma in epoca arcaica i testi potevano cambiare direzione di riga in riga (bustrophedòn).

Nello Yemen antico si parlavano cinque lingue, di cui quattro sono chiamate "sudarabiche": il mineo, il sabeo, il qatabanico e l'hadramitico. Il sabeo è molto vicino all'arabo e all'etiopico classico. Una quinta lingua, l'arabo antico, è attestata solo ai confini settentrionali dello Yemen. Il mineo cadde in disuso verso il II sec. a.C., mentre il qatabanico e l'hadramitico sparirono rispettivamente nel II e nel III sec. d.C. Soltanto il sabeo, adottato dai Himyariti, continuò a essere scritto sino alla fine della civiltà sudarabica. Le lingue sudarabiche appartengono alla famiglia delle lingue semitiche, come l'accadico, l'ebraico, l'arabo e l'etiopico classico.

Il pensiero religioso dimostra uno spiccato carattere di originalità. A parte Athtar, comune a tutta l'Arabia meridionale, e Wadd e Dhat-Himyam, venerate in più posti, la maggioranza delle divinità sudarabiche era specifica di una tribù, di una città o, addirittura, di una famiglia. Nonostante questo Pantheon numeroso e spesso oscuro, la religione ebbe un ruolo assai importante nell'organizzazione dei regni, che spesso trovarono una coesione politica proprio grazie al riconoscimento di culti comuni.

Ogni Stato aveva le sue divinità, che nelle iscrizioni conservano un preciso ordine protocollare di elencazione. A Saba, ad esempio, abbiamo Athtar, Hawbas, Almaqa, Dhat-Himyam, Dhat-Badan. Anche se elencato al terzo posto, Almaqa, essendo il dio patrono dello Stato, era la divinità più importante e venerata di Saba: a esso erano dedicati i più grandi templi di Marib e di Sirwah. Gli dei più importanti di Main erano Wadd ("amore"), Nakrah (il dio delle confessioni pubbliche) e alcune forme locali di Athtar. Il dio patrono del Qataban era Amm ("lo zio paterno"), spesso affiancato ad Anbay, e il dio nazionale di Hadramaut era Sayyin, il dio solare. I riti più comuni erano il pellegrinaggio sacro, il banchetto collettivo, la caccia rituale, la confessione pubblica, le fumigazioni con incenso e mirra, le offerte di persone (spesso rappresentate da statuette sostitutive) e di prodotti agricoli.

Nell'arte e nell'architettura le divinità sudarabiche sono rappresentate per simboli (toro, stambecco, aquila, ecc.), ciò che dimostra il loro carattere essenzialmente astratto. Il sentimento religioso era un concetto personale, intimo, che riguardava soprattutto l'uomo nel suo rapporto con il dio, un sentimento esclusivo, che non lasciava spazio a una sfera separata e indipendente degli dei. Da qui la mancanza di teogonie e mitologie ufficiali e l'affermarsi, invece, di un sentimento individuale e, quindi, astratto del divino, che si ritrova, invero, in tutta la Penisola Arabica d'età preislamica e che sarà ben vivo al momento della nascita dell'Islam.

La grande maestria degli architetti sudarabici è dimostrata dalle bellissime opere difensive delle città, dall'armonica proporzione delle tante strutture templari, dall'elegante, tipica verticalizzazione delle case private (antecedenti dirette delle attuali "case-torri"). Le cinte murarie con profili regolarmente bastionati ed elaborate porte urbiche diventano comuni a partire dall'VIII sec. a.C. (ad es., a Main/Qarnaw, Baraqish/Yathil, al-Bayda/Nashq, Kharibat Saud/Kutal, Marib, Yala/Hafary, Hajar Kuhlan/Tamna). La "città interna" di Hafary dimostra che prima di questa data le difese erano costituite dal semplice raccordo delle case perimetrali dell'abitato. Con l'avvento di Himyar, le belle cinte turrite scompaiono e le opere difensive si limitano al solo palazzo reale (ad es., a Zafar, Nait, Ghayman, Shibam, al-Misal).

Nei templi notiamo due principali tipologie: quella sabea con corte e cella (ad es., templi di Waddum dhu Masmaim e Al-Masajid presso Marib, tempio di Athtar a Nashan/as-Sawda) e quella mineo-hadramita con semplice sala ipostila (ad es., templi di ash-Shaqab e di Nakrah a Baraqish, templi di Raybun, Husn al-Qays e al-Hajra in Hadramaut). La prima, in cui prevale un asse direzionale che conduce il devoto ad avvicinarsi progressivamente alla divinità, sembra d'ispirazione siro-palestinese; la seconda, dove il fedele, entrato in una sala quadrata invasa da pilastri, sembra lasciato solo nella sua personale capacità di percepire il divino, è del tutto locale.

Il dato del sentimento religioso personale e soggettivo si percepisce anche nelle altre manifestazioni artistiche, come, soprattutto, la scultura realizzata in alabastro. Destinati sia a perpetuare nelle tombe la presenza del defunto sia a rappresentare la devozione dei vivi nei templi, le tante statuette antropomorfe, i busti, le teste, oltre alle stele e ai rilievi di vario genere (opere provenienti in gran parte da Tamna e da Marib, abbondanti soprattutto a partire dal IV-III sec. a.C.) appaiono come l'obiettivazione simbolica del sentimento individuale e soggettivo del sacro. Oltre che per la statuaria, l'alabastro era impiegato per molti altri oggetti, come iscrizioni, arredi cultuali, fregi e vasellame, presente, quest'ultimo, soprattutto in forma miniaturistica, nei corredi funerari. Accanto a una produzione tipicamente locale, molto conservativa, per lo più funeraria ed eseguita in pietra, in Arabia meridionale compaiono opere di bronzo in epoca relativamente antica (VI-V sec. a.C.), che, sebbene prodotte localmente (forse con il concorso di artisti greci), risentono chiaramente di influenze mediterranee. Esempi tipici sono le statue rinvenute nel tempio Awwam di Marib, in particolare quella del famoso Madikarib. In epoca ellenistica l'influsso del mondo classico si accentua, come appare dalle statue rinvenute a Tamna (ad es., i putti che cavalcano i leoni, la statuetta di Dioniso Sabazio, la cosiddetta "dama Barat"). Molte opere realizzate in bronzo, inoltre, vengono direttamente importate, come dimostrano le recenti scoperte sul Gebel al-Awd, "sudarabizzate" solo dalle iscrizioni.

In un'epoca di grandi traffici commerciali tra l'Oceano Indiano e il Mediterraneo, circolavano nella Penisola Arabica non solo opere, ma anche tecnici; la presenza di statue come quelle reali scoperte sul Gebel Kanin (Nakhlat al-Hamra), in cui compaiono le firme di un artista greco (Phokas) e di uno sudarabico (Lahayamm), fa supporre che si fosse formata una scuola locale di bronzisti, seguita da artisti greci itineranti, che lavoravano anche fuori dai confini dell'impero. È attraverso la romanizzazione dell'Asia anteriore che si diffonde l'ellenismo anche in quelle regioni periferiche, come l'Arabia meridionale, che non furono direttamente investite dal dominio romano. In Yemen è da Alessandria e dalla Siria che giunge la nuova corrente culturale e nei bronzi sudarabici, in seguito alla conquista dell'Hadramaut e della costa dell'Oceano Indiano da parte dei re di Himyar, si colgono anche influssi dell'ellenismo partico. Tuttavia, anche se si parla di imprestiti, l'impronta sudarabica resta pur sempre chiarissima nello stile che resterà tale sino all'avvento dell'Islam.

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Bahrain

di Jean-François Salles

Arcipelago adiacente alla costa nord-orientale della Penisola Arabica nel Golfo Persico, a nord-ovest della penisola di Qatar.

Il B. era conosciuto con il nome di Dilmun nei testi mesopotamici dell'epoca di Ur III (fine del III millennio a.C.) e talvolta assimilato al paradiso sumerico in alcuni miti più antichi. L'isola principale (44 × 17 km ca.), che dà il nome all'arcipelago, è totalmente desertica nella sua metà meridionale ed è occupata al centro da un tavolato poco elevato, fiancheggiato da una stretta fascia costiera a ovest e da una larga pianura a nord, zone fertili e coltivate, dove si sono sviluppati i centri della civiltà di Dilmun a partire dal 2500/2400 a.C.

Una piccola comunità di pescatori-cacciatori e forse allevatori è stata scoperta ad al-Markh ed è stata datata al periodo Ubaid (4500-3500 a.C.) sulla base di frammenti dell'omonima ceramica. La sensibile variazione del livello del mare, avvenuta fra il 6000 e il 3000 a.C., e il progressivo insabbiamento delle mangrovie devono aver modificato le componenti dell'ambiente, che si sono stabilizzate solo nelle epoche successive. Il considerevole sviluppo di Dilmun a partire dalla metà del III millennio a.C., nel momento in cui si intensificarono gli scambi con la Mesopotamia, con la penisola omanita (Magan) e con la valle dell'Indo (Melukhkha), evidenzia il ruolo essenziale svolto dall'isola di B., che divenne una tappa "obbligata" della navigazione nel Golfo Persico. Questa situazione portò verosimilmente Dilmun a sviluppare un controllo amministrativo e fiscale sui circuiti marittimi regionali. Il benessere di Dilmun in questa fase doveva inoltre basarsi su un'intensa attività agricola e artigianale, ben documentata dall'officina di rame scoperta vicino a Karzakkan.

I mercanti dovevano avere la loro capitale e i loro magazzini a Qalat al-Bahrain. La Città I, un piccolo villaggio caratterizzato dalla presenza di Chain-Ridged Ware associata a ceramiche dipinte del tipo Umm an-Nar, potrebbe essere stata fondata verso il 2400 a.C. La Città II (2100-1750 a.C. ca.) è delimitata da un massiccio bastione e si estende su una ventina di ettari; dagli strati relativi a questa fase provengono ceramiche del tipo Barbar e vasellame a ingubbiatura rossa con decorazione dipinta. Sono stati inoltre rinvenuti pesi cubici dell'Indo e alcuni sigilli cilindrici mesopotamici. I "sigilli del Golfo" costituiscono la produzione più tipica di B.: si tratta di piccoli sigilli a dorso arrotondato con una grande varietà di temi iconografici, talvolta ispirati da influenze esterne, che testimoniano l'originale carattere di Dilmun.

Un altro centro urbano è stato recentemente scoperto a Sar, dove alloggi composti da una o due stanze aperte su una corte si allineano lungo vie perpendicolari e dove un tempio con altari a forma di corna si innalza nel punto più elevato. Un altro santuario costruito su una terrazza, associato a un pozzo e a canalizzazioni sotterranee, è stato scavato a Barbar, mentre un luogo sacro potrebbe essere esistito anche vicino al pozzo di Umm al-Sujjur. Particolarmente interessante a B./Dilmun è la presenza d'immense necropoli raggruppate nei "campi di tumuli" del tavolato interno. Si stima a più di 100.000 il numero di queste tombe, visibili vicino ai siti di Sar, di Ali, di Dumistan, di Karzakkan, di Malikiyah e di Umm Jidr. Si tratta generalmente di camere funerarie individuali, costruite nel sottosuolo, chiuse da lastre di pietra, recintate da un muro circolare di terrazzamento e coperte da un terrapieno di altezza variabile dai 2 ai 20 m. Le tombe possono essere provviste di camere secondarie addossate al corpo centrale. Un altro tipo di architettura funeraria è stato individuato a Sar, dove più di 800 tombe sono accostate le une alle altre sotto un unico monticolo. Infine, semplici fosse scavate nella roccia sono state trovate presso Karranah. Gli oggetti di corredo consistono in ceramiche, fra cui un tipo di giara specificatamente funeraria, vasellame di pietra, sigilli cilindrici, perle, manufatti di bronzo e cesti coperti di bitume. Queste costruzioni funerarie subirono nel corso del tempo solo piccole modifiche fino alla fine del I millennio a.C. Numerosi tumuli antichi sono stati riutilizzati nelle epoche seguenti fino all'avvento dell'Islam.

Intorno al 1800-1750 a.C. si data la fine della civiltà di Dilmun, avvenuta certamente in seguito al crollo del paese di Sumer e dei grandi centri dell'Indo. La crisi ebbe termine solo verso il XV-XIV sec. a.C., a cui data la Città III di Qalat al-Bahrain caratterizzata da un grande edificio le cui funzioni sono ancora da stabilire, forse un magazzino per i datteri o un palazzo. Numerose tombe di quest'epoca contenevano gli stessi tipi ceramici e i cilindri di stile mitannico (XIV-XIII sec. a.C.). Tale documentazione dimostra l'esistenza di intensi scambi con la Mesopotamia meridionale; l'isola di B. era infatti passata sotto la dominazione dei nuovi signori cassiti di Babilonia. A partire dall'inizio del I millennio a.C., l'impero neoassiro riallacciò i contatti con l'Oman, con l'Iran orientale e con l'India e B. riacquistò il ruolo d'intermediario negli scambi commerciali, divenendo anche un importante centro politico. I testi neoassiri menzionano numerosi governatori o re di Dilmun; una grande residenza relativa alla Città IV di Qalat al-Bahrain è stata attribuita a uno di questi importanti personaggi, Uperi. Le tombe di quest'epoca, individuate ad al-Hajjar e ad Ali, contengono sepolture collettive; esse sono poco numerose, ma ricche di materiale.

B./Dilmun, secondo la documentazione storica, risulta una "provincia" dell'impero neobabilonese e poi di quello achemenide. Dopo il crollo della dinastia dei Seleucidi, nel II sec. a.C., B./Tylos (nome dell'isola in epoca classica) passò alle dipendenze del regno di Caracene e successivamente sotto la dominazione sasanide. La Città V di Qalat al-Bahrain ha messo in evidenza tracce di contatti con il Mediterraneo orientale. Gli scavi hanno interessato alcune abitazioni e una parte del bastione del III e del II sec. a.C., mentre i livelli del I sec. a.C. risultano ben documentati in altri punti del tell. Nel II sec. d.C., una fortezza venne eretta sul lato nord di Qalat al-Bahrain, vicino alla costa; essa è stata totalmente rimaneggiata in epoca islamica, per cui le fasi più antiche sono poco conosciute.

Bibliografia

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Baraqish

di Alessandro de Maigret

Città, identificata con l'antica Yathil, situata nella valle del Jawf (Yemen settentrionale), circa 15 km a sud dell'odierna cittadina di Hazm. Dopo la capitale Qarnaw, Yathil fu la città più importante di Main, il regno dei Minei.

Il suo nome è menzionato da Strabone sotto la forma ʹΑθϱουλα, tra le città che il generale di Augusto, Elio Gallo, conquistò nella sua spedizione contro l'Arabia Felice nel 24 a.C. Ma a quell'epoca Yathil era già in declino. Passata, sembra, sotto il controllo degli Arabi nomadi, era giunta al termine di un periodo di opulenza e di splendore iniziato intorno al VII-VI sec. a.C. Una missione archeologica dell'IsMEO di Roma, che dal 1986 conduce ricerche sul sito, ha potuto tuttavia dimostrare che l'inizio di Yathil risale a un periodo ancora più antico, grazie ad alcuni carotaggi meccanici effettuati in profondità, che hanno permesso il recupero di frammenti ceramici simili a quelli provenienti dal sito sabeo arcaico di Yala, risalenti all'inizio del I millennio a.C., se non prima. L'ipotesi di un'origine sabea di B. è confermata da un'iscrizione storica (RES 3946/1), in cui il grande sovrano sabeo Karibil Watar ricorda la costruzione (o la ricostruzione) delle mura urbiche avvenuta circa nel 700 a.C., e da alcune iscrizioni sabee rinvenute nella stessa città. Il felice stato di conservazione delle sue mura di cinta e la posizione maestosamente isolata della sua rovina nel deserto fanno di questa città una delle meraviglie archeologiche non solo dello Yemen, ma di tutto il Vicino Oriente.

Le mura, lunghe 766 m, circondano una superficie semicircolare di circa 7,25 ha (276 × 188 m). La parte superiore della cinta fu ricostruita, più o meno accuratamente, dagli occupanti di periodo islamico, ma la base minea resta visibile lungo quasi tutto il perimetro, dove, con i suoi grandi blocchi perfettamente squadrati, levigati e decorati a bocciardatura incorniciata, essa dimostra l'eccezionale qualità delle tecniche architettoniche impiegate in quel periodo. L'altezza media della cinta minea doveva aggirarsi sui 14 m, come sembra provare uno dei bastioni meridionali restato fino a oggi miracolosamente intatto sino al suo coronamento decorato a dentelli. Le datazioni al 14C ottenute negli scavi provano che Yathil fu distrutta nel II sec. a.C. Dopo una frequentazione sporadica, che si protrasse sino all'epoca di Cristo, la città restò in stato di abbandono per più di un millennio sino al XII sec. d.C., quando l'imam al-Mansur Bi-(A)llah Abd-Allah ibn Hamza la scelse come base strategica per una riscossa della comunità zaidita contro gli invasori ayyubidi di Siria e d'Egitto. La cinta di B. fu ricostruita in quel periodo per proteggere una popolazione numerosa e stabile. L'occupazione islamica, che continuò, sebbene in modo meno importante (nessuna fonte araba parla più di B. dopo il XIII sec. d.C.), sino al XVIII sec. d.C., è segnata nella città da uno spesso livello di 3-4 m, che nasconde sigillandoli i sottostanti strati minei. Nel mare di pietrame e di fango che resta dell'occupazione medievale, si può solo avere una testimonianza di B. minea dalle molte pietre reimpiegate con decorazioni e con iscrizioni, dalla robusta e perfetta base originale delle mura e dai pilastri di alcuni templi che, data la loro altezza, riescono ancora a emergere in parte dalle sovrapposizioni più tarde.

La Missione Archeologica Italiana con due campagne di scavo condotte nel 1990 e nel 1992 ha sino a oggi messo in luce nella parte meridionale della città, presso le mura, un tempio (Tempio A), riconosciuto dalle iscrizioni come edificio sacro al dio patrono e guaritore Nakrah. Prima di giungere ai livelli minei, lo scavo ha permesso di stabilire la stratigrafia dell'occupazione islamica del sito, confermandone l'arco di tempo compreso tra il XII e il XVIII sec. d.C. Si è riscontrato prima un livello contemporaneo dell'imam al-Mansur Bi-(A)llah Abd-Allah ibn Hamza (livello Isl. D), quindi, dopo una distruzione, un insediamento di età rasulide-tahiride (livello Isl. C), poi uno strato relativo alla prima occupazione turca dello Yemen (livello Isl. B) e, infine, un livello superficiale che non dovrebbe oltrepassare la fine del 1700 d.C. (Isl. A).

La ricostruzione di una stratigrafia anche per le sottostanti strutture minee ha consentito di stabilire quali furono le fasi costruttive del periodo, compreso all'incirca tra il VII e il II sec. a.C., e di conoscere la storia dell'architettura del tempio. Alla fase più antica (livello Min. C) risale, innanzitutto, la costruzione della grande sala ipostila. Essa è costituita da un edificio quadrangolare chiuso, diviso all'interno in cinque navate da quattro file di tre pilastri, che conducono a cinque piccole celle rilevate disposte sul fondo, e da un prostilo d'entrata con quattro grandi pilastri. Una porta secondaria era nel lato occidentale del tempio. Le mura della città esistevano già in questa fase e una piccola apertura, ricavata nell'angolo di un bastione, consentiva l'accesso al tempio dall'esterno per mezzo di una scala.

In un periodo successivo (livello Min. B) lo stilobate con i quattro pilastri situati davanti alla sala ipostila fu inglobato in un ampio avancorpo che, attraverso una pedana gradinata su tre lati e un piano più alto terrazzato ai lati del prostilo, conferiva una nuova, maestosa monumentalità all'accesso templare. Per creare lo spazio necessario alla nuova costruzione fu ridotta la dimensione del prospiciente torrione sulle mura. È probabilmente in questa fase che si ristrutturò l'interno della sala ipostila costruendo nelle navate laterali tre "cenacoli", accentrati su grandi mense monolitiche decorate. Nella fase finale (livello Min. A) fu edificato un ambiente a due piani a ridosso del muro occidentale della sala ipostila ("sacrestia"), nel quale si sono rinvenuti una decina di testine umane di gesso, numerosi frammenti di vasi cultuali con decorazioni plastiche animalistiche, iscrizioni e abbondante ceramica.

Per costruire la sacrestia si dovette, probabilmente, ridurre la dimensione anche del torrione meridionale, così da lasciare un passaggio tra il nuovo ambiente e le mura. Diversi secoli erano passati dal primo impianto del tempio e il piano di calpestio esterno all'edificio si era ormai innalzato di circa 1 m, nascondendo la pedana a gradini sull'avancorpo del tempio. Dai dati sinora disponibili la fase più antica dovrebbe risalire all'inizio della fioritura del regno mineo e cioè, forse, al VII-VI sec. a.C. La fase seguente, in cui si aggiungono al tempio elementi, come la scala monumentale dell'avancorpo, che richiamano idee e influenze del mondo classico, dovrebbe porsi intorno al V-IV sec. a.C. La fase finale potrebbe essere invece datata dallo stile ellenizzante delle testine di gesso al III-II sec. a.C.

Bibliografia

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Bushir

di Enrico Ascalone

B. sorge sulla costa iraniana del Golfo Persico tra le province del Khuzistan (a nord) e dell'Hormozgan (a sud).

Gli scavi presso il sito antico, conosciuto con il nome di Liyan nei testi paleobabilonesi e da un mattone inscritto rinvenuto a seguito degli scavi della Mission Archéologique de Perse, furono condotti da M. Pézard a partire dal 1913. Lo scavo si concentrò presso Tepe Sabzabad con una grande trincea, unita a una simile ma di assai minori dimensioni, lunga 30 m e larga 5 m, lungo l'asse sud-nord dell'insediamento; si arrivò a una profondità approssimativa di 30 m fino a documentare, sebbene in modo assai incerto e privo di ogni referenza stratigrafica, le fasi occupazionali formative approssimativamente da cercare intorno alla fine del V millennio a.C. La non ampia documentazione archeologica pubblicata permette di ipotizzare una prima occupazione da fare risalire almeno alla prima metà del IV millennio a.C., documentata dal rinvenimento di frammenti di ceramica distintiva dell'orizzonte vascolare di Susa I; il sito sembra avere avuto un'occupazione continua almeno dalla seconda metà del IV a tutto il III millennio a.C. per la presenza di ceramica Uruk, policroma e monocroma come conosciuta in Susiana tra il Protodinastico II e III di Mesopotamia e infine per la significativa presenza di forme mesopotamiche conosciute tra il periodo accadico e quello neosumerico. La missione francese pubblicò altro materiale, all'epoca non semplice da comprendere se inserito in più ampio quadro che provasse a fornire sequenze cronologiche, che, alla luce dei lavori tipologici svolti sui vasi di clorite della metà del III e dell'inizio del II millennio a.C., è oggi perlopiù decisivo per riconoscere un'occupazione di B. che continua con il primo quarto del II millennio a.C. e per documentare legami con le comunità sviluppatesi sulla costa occidentale del Golfo Persico. Numerosi vasi di clorite, decorati diffusamente con cerchi concentrici come quelli di B., verosimilmente realizzati nelle botteghe delle regioni arabiche che si affacciano sul Golfo Persico (Oman in particolare), sono stati rinvenuti anche a Susa.

B. mostra una documentazione epigrafica non insignificante, se confrontata alla limitatezza del sondaggio, che ci permette di riconoscere in alcune iscrizioni non pochi riferimenti a sovrani elamiti che durante il II millennio a.C. dovettero esercitare un controllo sulle vie marittime verso l'alluvio mesopotamico; le iscrizioni ricordano perlopiù sovrani del regno medioelamita, Khumban Numena (1350-1340 a.C.), Shutruk Nakhunte (1190-1155 a.C.), Kutir Nakhunte (1155-1140 a.C.), Shilkhak in Shushinak (1140-1120 a.C.), mentre un frammento di alabastro reca il nome di un alto ufficiale sukkhalmakh, Simut-wartash, contemporaneo di Kuk Nashur II che ha sincronismi attestati con il primo anno di regno di Ammisaduqa di Babilonia (1645 a.C.). A conferma della assidua presenza elamita nella regione vi sono le iscrizioni che ricordano l'attività edilizia dei sovrani elamiti a Liyan e in particolare il restauro operato da Kutir Nakhunte alla fabbrica sacra del dio Kiririsha, costruita originariamente da Khumban Numena, per onorare la vita di Kutir Nakhunte e di sua moglie (o sorella) Nakhunte Utu. La scarsezza documentaria, il limitato intervento di scavo e le metodologie di indagine non permettono una più approfondita analisi sull'antico porto elamita di Liyan, che tuttavia per le sporadiche evidenze rinvenute sembra avere un'occupazione ininterrotta dalla prima metà del IV alla fine del II millennio a.C.

Bibliografia

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Choga mish

di Francesca Baffi

Ch.M. si trova nel Khuzistan, regione sud-occidentale dell'Iran, nel bacino del fiume Ad-e-Diz. Il sito è stato esplorato dalla missione congiunta dell'Oriental Institute di Chicago e dell'Università della California di Los Angeles tra il 1961 e il 1978.

La cultura susiana è ben documentata nelle fasi Archaic I-III (8000-7000 a.C.), Early (7000-6500 a.C.), Middle 1-3 (6500-6100 a.C.) e Late (6100-5700 a.C.), che testimoniano in una serie di sondaggi la sequenza stratigrafica dell'insediamento. Il periodo più antico (Archaic Susiana I) ha restituito modesti resti architettonici e ceramica, all'interno della quale sono state individuate tre classi: una prima chiara, grossolana, con sgrassanti vegetali; una seconda a cui, sul medesimo fondo, è stata applicata la decorazione dipinta bruna; una terza, ingobbiata rossa lisciata, la cui forma più attestata è la scodella ad alta parete. Il periodo Archaic Susiana II ha manifestazioni del tutto analoghe, mentre la fase che comprende Archaic Susiana III, Early Susiana e Middle Susiana I vede un considerevole ampliamento della superficie occupata, che passa da 0,5 a 4 ha, con vere e proprie strutture abitative costruite con mattoni crudi, a pianta rettangolare e con vani caratterizzati dalla presenza di forni con copertura a volta, focolari e silos per granaglie. Sono state individuate anche piattaforme di lavoro del tipo noto a Choga Sefid, villaggio pedemontano negli Zagros iraniani, la cui cultura ebbe diversi punti di contatto con quella di Ch.M. La ceramica è di tipo più fine, con sgrassanti minerali e superfici dipinte e non; in alcuni casi ha pareti a "guscio d'uovo"; le figurine fittili a soggetto femminile seduto, in miniatura (alt. 2-4 cm), dell'Early Susiana, sono eseguite molto accuratamente. Il periodo successivo, Middle Susiana 2-3, è quello di maggiore floridezza economica, che si materializza in una grande espansione dell'insediamento (18 ha) e in un evidente ruolo egemone rispetto agli altri centri della regione. L'importanza di C.M. scema poi progressivamente a partire dalla fine del VII millennio a.C. (Late Susiana), ma non subisce interruzioni nell'insediamento, in cui sono stati trovati frammenti di ceramica del tipo di transizione Samarra-Ubaid.

L'occupazione del Protoliterate (IV millennio a.C.) è documentata nell'area orientale del sito, con case formate da piccoli vani che si dispongono a lato di una stretta viuzza attraversata da un canale di drenaggio di mattoni cotti; è singolare la presenza di un forno a pianta rotonda con alla base una separazione di mattoni radiali. Da uno dei vani provengono impronte di sigilli, anche diverse, apposte su sfere d'argilla. L'uso del pisé è attestato sul pendio adiacente all'area orientale del settore abitativo. Dopo due lunghe fasi di abbandono, il sito è occupato nuovamente nei periodi elamita e achemenide; nella prima delle due epoche citate, Ch.M. era abitata solo per un terzo della sua superficie complessiva, sull'acropoli. Mancano completamente resti del periodo medioelamita, ben noto da Choga Zanbil, mentre se ne hanno della prima parte del II millennio a.C.; di particolare interesse è stato il ritrovamento, nel 1975, di una coppa quasi cilindrica, alla cui parete verticale esterna è attaccato il corpo di un capride a tutto tondo, in funzione di ansa, realizzato in pietra bituminosa. Oggetti di raffinata fattura testimoniano la presenza a Ch.M. di un artigianato altamente qualificato. Della fase achemenide è stata individuata parte del ridotto insediamento, tra cui un forno che conteneva in abbondanza la ceramica tipica del periodo.

Bibliografia

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Choga zanbil

di Pierre Amiet

Il sito di Ch.Z. domina la riva occidentale del fiume Diz, 40 km a sud-est di Susa, nella provincia iranica del Khuzistan. Scoperto nel 1935 da alcuni geologi, è stato esplorato, tra il 1936 e il 1939, da R. de Mecquenem e poi, dal 1951 al 1962, da R. Ghirshman, direttore della Délégation Archéologique Française en Iran.

Nelle iscrizioni cuneiformi scoperte nel sito, il re d'Elam Untash-Napirisha (seconda metà del XIV sec. a.C.) dichiara di aver costruito la città che porta il suo nome, Al-Untash-Napirisha, come luogo santo per eccellenza, siyan-kuk. In un primo momento venne eretto un tempio dedicato soltanto a Inshushinak, dio patrono di Susa, di 100 m circa per lato, che racchiudeva una corte a cielo aperto e che aveva una porta al centro di ciascun lato. L'edificio non era destinato esclusivamente al culto, ma era utilizzato anche come grande deposito. Due piccoli santuari furono disposti ai lati della porta di sud-est, uno aperto sulla corte interna, l'altro sul sagrato esterno, mentre tutti gli altri locali servivano da magazzini. La presenza di due santuari fa pensare a un doppio culto: il primo tempio era probabilmente associato a un culto celebrato nella corte. In un secondo momento, il complesso venne trasformato in una ziqqurrat a tre piani, con alla sommità un tempio consacrato agli dei Napirisha di Anzan e Inshushinak di Susa, cui si accedeva tramite una scala interna. Successivamente, le camere del pianterreno, diventato il piano inferiore, furono murate tutte a eccezione del santuario che dava sull'esterno, mentre la facciata originaria venne mascherata da un rivestimento con lesene che portava su ogni undicesima fila di mattoni un'iscrizione con la dedica del santuario a Inshushinak. L'edificio misurava 105 m di lato e, presumibilmente, era alto oltre 50 m; attualmente rimangono i due piani inferiori e resti del terzo.

Nel periodo iniziale furono edificati nella parte nord-occidentale i templi di due divinità secondarie: la dea Kirisisha, sposa di Napirisha, e il dio Ishnikarab. Un tempio isolato, a nord, era dedicato a Napirisha. Questi templi erano organizzati in modo da essere simili più ad abitazioni che a luoghi di culto, tanto che i loro santuari non avevano forme specifiche. Al tempio di Kirisha erano annessi ateliers per la fabbricazione di oggetti votivi e di faïence: figurine di uomini e di animali. Nel secondo periodo, il tempio di Ishnikarab venne rimaneggiato e fu addossata alla sua facciata una nuova cappella dedicata a Kiririsha, ove si rinvenne oltre un centinaio di armi e di asce di argento e di bronzo. Risale probabilmente a questo periodo una cinta di 210 × 175 m che delimitava il piano pavimentato con le sue strutture cultuali a cielo aperto e in cui furono inserite cappelle, dove i fedeli lasciarono in voto più di un centinaio di sigilli cilindrici di vetro e faïence di stile babilonese, spesso con un'iscrizione sumerica.

Una seconda cinta trapezoidale, di 470 × 380 m, delimitava un temenos, all'interno del quale furono costruiti due gruppi di templi posti in fila, dedicati a divinità secondarie. Quattro di loro hanno un'analoga struttura: una corte in cui si trova una cappella quadrata isolata, con cella addossata a una sacrestia. Si tratta di un'architettura tipicamente cultuale, che si rifà a una tradizione iniziata dai re neosumeri di Ur, ma che appare legata anche a quella dei santuari semitici, isolati come i più tardi templi di Salomone e la Qaaba de La Mecca al centro di un haram (santuario). Tale analogia concorda con la semplicità della cappella, che si trova anche nei templi di Palestina e Siria, in particolare a Ebla. La terza cinta, di 1250 × 850 m, avrebbe dovuto accogliere una città di un centinaio di ettari ma che non fu mai costruita, a eccezione di un palazzo funerario e di palazzi residenziali articolati in ambienti disposti intorno a corti e situati in prossimità della porta principale della città, chiamata Porta dell'Equità, cioè il luogo dove il re amministrava la giustizia.

Il palazzo funerario comprendeva diversi ambienti costruiti sopra cinque cripte voltate, dove il re e i suoi familiari furono deposti dopo la cremazione, secondo un rito derivato verosimilmente dai Hurriti. Leggermente in disparte, ma probabilmente in relazione con questo rito, si ergeva un tempio consacrato a Nusku, personificazione del fuoco. Con la sua grande cella a cielo aperto aveva le caratteristiche di un tempio del fuoco; di qui il problema se questo culto tipico della religione iranica sia stato preso dagli immigrati iranici agli Elamiti autoctoni, che lo hanno anche rappresentato sui loro sigilli cilindrici. La questione rimane aperta. La città di Untash-Napirisha sembra, dunque, essenzialmente il "luogo santo" destinato a onorare gli dei patroni della comunità elamita per assicurarne la coesione.

Bibliografia

R. de Mecquenem - J. Michalon, Recherches à Chogha Zembil, Paris 1953; M. Rutten, Les documents épigraphiques de Chogha Zembil, Paris 1953; R. Ghirshman, Tchoga Zanbil (Dur Untash), I. La Ziqqurrat, Paris 1966; Id., Tchoga Zanbil (Dur Untash), II. Temenos, Temples, Palais, Tombes, Paris 1968; M.-J. Steve, Tchoga Zanbil (Dur Untash), III. Textes élamites et accadiens de Tchoga Zanbil, Paris 1969; E. Porada, Tchoga Zanbil (Dur-Untash), IV. La glyptique, Paris 1970; C. Roche, Les ziggurats de Tchogha Zanbil, in F. Vallat (ed.), Contribution à l'histoire de l'Iran. Mélanges offerts à J. Perrot, Paris 1990, pp. 191-97.

Dedan

di Fiorella Scagliarini

D. nell'oasi di al-Ula (al-Khuraybah) è situata a nord della città moderna di al-Ula, al km 973 della linea ferroviaria del Hijaz che collega Damasco con Medina. L'identificazione di al-Khuraybah con la D. che le fonti bibliche consideravano l'ultimo avamposto di Edom è stata proposta da E. Glaser nel 1890 e poi accettata dalla totalità degli studiosi.

L'esistenza del regno di D. nel VI sec. a.C. è testimoniata da documenti relativi a Nabonedo. In seguito la città divenne un'importante stazione commerciale per i mercanti minei, che si muovevano tra l'Arabia del Sud e il centro del regno di Liyan, sostituitosi nel frattempo a D. nella titolatura dei re dell'oasi e probabilmente fiorente tra il V e il I sec. a.C. Il declino dell'oasi ha inizio con la fine del I sec. a.C., quando l'Arabia nord-occidentale divenne parte dal regno nabateo e la città più importante della regione fu stabilita a Madain Salih, l'antica Hegra, 25 km a nord di al-Ula. Ad al-Khuraybah non è stato effettuato un vero scavo archeologico e le informazioni sul sito si devono ad A. Jaussen e R. Savignac. I resti dell'antico insediamento sono limitati alla necropoli rupestre, da cui provengono numerose iscrizioni tombali, e a resti di murature pertinenti a un'area interpretata come santuario dove sono state rinvenute alcune statue e basi di statue iscritte. Nel 1968 un'équipe dell'Università di Londra, impegnata in una spedizione in Arabia, durante una ricognizione di due soli giorni identificò ad al-Khuraybah i resti di possibili difese fortificate e frammenti ceramici di superficie databili tra VI e I sec. a.C.

Bibliografia

A Jaussen - R. Savignac, Mission archéologique en Arabie, I-II. Atlas, Paris 1909-14; P.J. Parr - G.L. Harding - J.E. Dayton, Preliminary Survey in North West Arabia, 1968, in BALond, 8-9 (1968-69), pp. 193-242; N.A. Abdallah, Al-'Ula: an Historical and Archaeological Survey with Special Reference to its Irrigation System, Riyadh 1988.

Failaka

di Luca Peyronel

Isola nella baia di Kuwait, 20 km a est di Kuwait City, estesa su 24 km2.

Una missione archeologica danese negli anni 1958-62 riportò alla luce l'insediamento dilmunita del Bronzo Medio e diversi edifici di epoca persiano-ellenistica. Nel 1973-74 furono compiuti sondaggi da parte di una spedizione della Johns Hopkins University, mentre le ricerche più recenti datano tra il 1983 e il 1989 a opera di una missione francese della Maison de l'Orient di Lione.

La prima occupazione dell'isola risale all'inizio del II millennio a.C., a opera probabilmente di genti provenienti da Bahrain, spinte da esigenze commerciali, legate al controllo della zona settentrionale del Golfo Persico da parte del paese di Dilmun, gestore dei traffici mercantili con le città dell'alluvio basso-mesopotamico. Nel settore sud-occidentale dell'isola, sono stati individuati due siti (F3 e F6) con una sequenza occupazionale dal 2000 al 1200 a.C. Il sito F3 ha restituito numerose abitazioni e luoghi di attività artigianali (produzione metallurgica e ceramica), oltre a una terrazza sacra su basamento quadrangolare di pietra, di cui sono note tre fasi architettoniche databili tra il XVI e il XIII sec. a.C. In F6 sono stati scoperti due edifici pubblici, oltre a case private. Il cosiddetto "palazzo", databile tra il Paleobabilonese e il periodo cassita, consta di due blocchi distinti: un settore settentrionale, con vani articolati intorno a una corte colonnata, e uno meridionale diviso in due ali da un largo corridoio. Nella parte orientale del tell è stata rinvenuta una piattaforma templare, databile tra il 1950 e il 1600 a.C, che nella fase più antica (1950-1800 a.C.), conservata solo al livello delle fondazioni di pietra, ha forma quadrata ed è circondata da un piccolo muro di recinzione. Nel livello successivo (1800-1600 a.C.) l'esterno viene modificato con la realizzazione di imponenti contrafforti addossati ai paramenti esterni dei muri perimetrali.

Datano al periodo dilmunita le centinaia di sigilli a stampo monofacciali o bifacciali di steatite/clorite, in stile figurativo locale, e alcune decine di sigilli cilindrici di origine mesopotamica. Numerosi frammenti di contenitori di steatite decorati a intaglio figurativo oppure a incisioni geometriche testimoniano un'ampia attività legata alla circolazione di tali manufatti e al loro riciclaggio. Iscrizioni, molto brevi e databili tra l'epoca paleobabilonese e il periodo tardo cassita, sui sigilli a stampo o sui frammenti di vasi di pietra forniscono sia nomi di templi indigeni che riferimenti a divinità dilmunite o legate a Dilmun dalla mitologia sumero-babilonese.

Per le fasi neoassira e neobabilonese (IX-VI sec. a.C.) solamente alcune iscrizioni e materiali ceramici testimoniano l'occupazione di F., ipotizzabile a causa del controllo di Bahrain da parte dei due imperi. Analoga è la situazione per il periodo persiano (V-IV sec. a.C.) quando F. dovette fare parte della provincia "interna" della Persia e garantire i traffici commerciali nel Golfo. La data del primo insediamento di periodo ellenistico su F., in greco Ikaros, va collocata tra il 324 e il 323 a.C., a seguito della spedizione di Nearco o degli ammiragli di Alessandro Magno nel Golfo Persico. Durante il regno dei Seleucidi, F. divenne sede di una piccola guarnigione militare stanziata all'interno di una fortezza (tell F5) in uso sino agli inizi del II sec. a.C., in cui erano ubicati anche due templi di tipo greco.

Bibliografia

Th. Howard-Carter, The Johns Hopkins University Reconnaissance Expedition to the Arab-Iranian Gulf, in BASOR, 207 (1972), pp. 6-40; H.E. Mathiesen, Ikaros. The Hellenistic Settlements, I. The Terracotta Figurines, Copenhagen 1982; L. Hannestad, Ikaros. The Hellenistic Settlements, II. The Hellenistic Pottery, Aarhus 1983; P. Kjaerum, Failaka/Dilmun: The Second Millennium Settlements, I. The Stamp and Cylinder Seals, Aarhus 1983; S. Patitucci - C. Uggeri, Failakah. Insediamenti medievali islamici. Ricerche e scavi nel Kuwait, Roma 1984; J.-F. Salles, Failaka. Fouilles Françaises 1983, Lyon 1984; Y. Calvet - J.-F. Salles (edd.), Failaka. Fouilles Françaises 1984-1985, Lyon 1986; F. Højlund, Failaka/Dilmun: The Second Millennium Settlements, II. The Bronze Age Pottery, Aarhus 1987; K. Jeppesen, Ikaros. The Hellenistic Settlements, III. The Sacred Enclosure in the Early Hellenistic Period, Moesgård 1989; Y. Calvet - J. Gachet (edd.), Failaka. Fouilles Françaises 1986-1988, Lyon 1990.

Giaffarabad tepe

di Enrico Ascalone

G.T. è ubicato 7 km a nord di Susa, nella piana del Khuzistan che rappresenta l'appendice alluvionale sud-occidentale al plateau iraniano, in prossimità del Golfo Persico e subito a ridosso degli Zagros. L'antico sito, approssimativamente circolare per una dimensione complessiva di 40 × 50 m, si eleva 7 m sulla piana desertica circostante in prossimità del corso del fiume Chaour, affluente del Kerkha, fiume principale della regione.

G.T. è stato indagato ampiamente dalla Délégation Archéologique Française en Iran aiutata dal Centre National de la Recherche Scientifique dal 1969 al 1974, contribuendo a una meno approssimativa conoscenza del sito antico già precedentemente oggetto dell'interesse di R. de Mecquenem e L. Le Breton che, principalmente su quanto rinvenuto nei limitati sondaggi svolti nel 1930 e 1934, avevano riconosciuto sequenze archeologiche ininterrotte sulla base di una rigorosa classificazione tipologica del materiale ceramico. La nuova ricerca, iniziata nel 1969 sotto la direzione di G. Dollfus, indagò un'area complessiva di 650 m2 localizzata nella terrazza naturale nord-orientale che si affaccia sul Chaour e in una trincea di sviluppo sud-ovest/nord-est di 70 m di lunghezza × 5 di larghezza. Gli scavi più recenti permisero di raccordare quanto scavato nel periodo più prossimo con le fasi insediamentali della regione, consentendo di definire in modo più ampio e dettagliato gli aspetti essenziali della cultura materiale del centro perlopiù contrassegnata da fusaiole, figurine fittili umane e animali, utensili di pietra, impronte e sigilli circolari a stampo.

G.T. fu fondata verosimilmente tra la fine del VI e l'inizio del V millennio a.C. quando un'ampia occupazione del territorio sembra coprire circa 2000 m2, estensione che documenta un parziale processo di sedentarizzazione diffusamente conosciuto anche in altri centri della provincia di Ahwaz. Le evidenze raccolte dagli scavi hanno permesso di ipotizzare un'economia principalmente basata sull'allevamento di montoni, cervi e bovini e sulla coltivazione estensiva di orzo, grano, piselli e lenticchie, resa possibile dallo sfruttamento dei teorici 300 mm di piovosità annua. Con il periodo II, intorno alla metà del V millennio a.C., G.T. muta drasticamente le proprie caratteristiche mostrando le prime embrionali forme di diversificazione e specializzazione lavorativa per la presenza di botteghe specializzate atte alla produzione di vasi; le implicazioni socioeconomiche intra situ appaiono decisive per supporre nuove complessità sociali di tipo organizzativo che forse coinvolgono e al contempo sono coinvolte dalla non casuale crescita, nella regione, di più strutturati e articolati centri (Chogha Mish) che introducono nuove gerarchie insediamentali.

Con l'inizio del IV millennio a.C. (periodo III) un'alta densità insediamentale caratterizza la regione in cui sorge G.T.; verso la fine di questo periodo la costruzione della Haute Terrasse e una nuova forte crescita demografica a Susa sembrano documentare un parziale processo di accentramento delle risorse umane nell'insediamento susiano. Giaffarabad sembra essere del tutto abbandonata verso la metà del IV millennio a.C., quando le prime organizzazioni urbane mostrano adesione a nuovi modelli di sviluppo economico ampiamente documentati anche in Bassa Mesopotamia.

Bibliografia

L. Le Breton, Note sur la céramique peinte aux environs de Suse (Tépé Djaffarabad, Tépé Djowi, Tépé Bendebal) et à Suse, in MDAFI, 30 (1947), pp. 124-46; G. Dollfus, Les fouilles à Djaffarabad de 1969 à 1971, in Cahiers de la Délégation Archéologique Française en Iran, 1 (1971), pp. 17-161; Id., Les fouilles à Djaffarabad de 1972 à 1974, Djaffarabad périodes I et II, ibid., 5 (1975), pp. 11-220; G. Dollfus - A. Hesse, Les structures de combustion de Djaffarabad périodes I à III, ibid., 7 (1977), pp. 11-48; G. Dollfus, Djaffarabad, Djowi, Bendebal: Contribution à l'étude de la Susiane au Ve millénaire et au début du IVe millénaire, in Paléorient, 4 (1978), pp. 141-67; Id., L'occupation de la Susiane au Ve millénaire et au début du IVe millénaire J.C., ibid., 11, 2 (1985), pp. 11-20.

Haft tepe

di Enrico Ascalone

H.T. sorge nella piana del Khuzistan tra i fiumi Karkheh e Dez, a circa 100 km dal capoluogo della regione Ahwaz, 50 km da Susa e 10 km da Andimeshk; il sito antico sorge all'interno di un'area assai ridotta di circa 950.000 m2, all'interno della quale sono stati identificati almeno altri 14 insediamenti contemporanei all'occupazione di H.T. Le evidenze strutturali, ancora perlopiù coperte dalla formazione collinare del sito, all'epoca chiamato Haft Shogal, furono per la prima volta studiate e identificate da J. de Morgan nel 1908. Un'ampia attività d'indagine archeologica sul campo iniziò, tuttavia, solo nel 1965 sotto la direzione di E.O. Negahban, che fino al 1978 svolse ininterrotte campagne di scavo che permisero di riconoscere una principale occupazione circoscritta alla metà del II millennio a.C.

La documentazione architettonica rinvenuta comprende una tomba reale (ambiguamente definita, da chi scavò, "funerary temple"), un complesso templare circondato da un ampio e spesso muro di mattoni cotti al sole e un quartiere artigianale organizzato intorno a una larga corte centrale. L'area religiosa era cinta da un possente muro conosciuto solo per 60 m di estensione est-ovest, che doveva cingere un'alta terrazza di 40 × 44 m e circa 14 m di altezza.

L'orizzonte ceramico è perlopiù ripetitivo e privilegia morfologie piane non dipinte con colore dell'impasto chiaro; quasi del tutto assente è la ceramica grigia rappresentata in pochi e sporadici esemplari e quella decorata conosciuta in cinque limitati frammenti; la coroplastica del centro è rappresentata da figure femminili, raffiguranti la grande dea Ishtar, che sorreggono i propri seni, ornate da ampie e ricche collane che scendono fin sul petto; i loro capelli sono contenuti da una fascia che presenta decorazioni circolari in rilievo, mentre i loro grandi occhi, ben trattati, distinguono l'iride dalla pupilla. L'industria litica del sito ha restituito numerosi pesi (ovoidali e sferici), tre teste di mazza, in un solo caso con decorazioni di linee verticali e parallele tra loro, due vasi di alabastro a forma chiusa e aperta e infine un singolare vaso di steatite/clorite, che sembra trovare i più stretti confronti con la produzione ben più arcaica della provincia di Kerman (in particolare Yahya e Jiroft) conosciuta anche in Mesopotamia a partire dal secondo quarto del III millennio a.C.

La glittica è ampiamente documentata dal rinvenimento di 216 sigilli e loro impronte che bene s'inseriscono nella sfragistica medioelamita conosciuta intorno alla metà del II millennio a.C.: in particolare le iconografie sembrano rielaborare temi e stili conosciuti già con la seconda metà del periodo paleobabilonese, aderendo tuttavia a canoni di espressione di sicura origine locale. In generale lo stile non è curato, ma certo anch'esso trova più ampi richiami nella glittica paleobabilonese tarda piuttosto che in quella anshanita di origini più orientali. I testi di H.T. e un sigillo iscritto, oltre a permettere di identificare in Tepti-ahar, sovrano elamita conosciuto con il doppio titolo di "re di Susa e Anshan", forse contemporaneo del re cassita Kadashman-Enlil I, il fondatore dell'antico centro di H.T., aiutano a riconoscere nelle rovine del sito l'antica città di Kabnak, anche conosciuta con il nome di Kabinat nei testi neoassiri di Assurbanipal.

Bibliografia

P. Herrero, Tablettes administratives de Haft Tépé, in Cahiers de la Délégation Archéologique Française en Iran, 6 (1976), pp. 93-116; E.O. Negahban, Architecture of Haft Tepe, in AMI, 6 (1979), pp. 9-29; P. Herrero - J.J. Glassner, Haft Tepe: Choix de textes I, in IranAnt, 26 (1991), pp. 39-80; E.O. Negahban, Excavations at Haft Tepe, Iran, Philadephia 1991; P. Amiet, Observations sur les sceaux de Haft Tépé (Kabnak), in RAssyr, 90 (1996), pp. 135-43; D.T. Potts, The Archaeology of Elam, Formation and Transformation of an Ancient Iranian State, Cambridge 1999, pp. 196-205.

Hili

di Luca Peyronel

Sito archeologico nell'oasi di al-Ain (Emirati Arabi Uniti)/Buraimi (Sultanato dell'Oman), in una posizione strategica al centro della penisola omanita, lungo la via di comunicazione che unisce la costa orientale con quella occidentale, attraversando le montagne interne ricche di minerali e rocce lavorabili (soprattutto rame, clorite e steatite).

Le prime ricerche nella zona risalgono agli inizi degli anni Sessanta del Novecento, a opera della missione archeologica danese diretta da T.G. Bibby, mentre scavi archeologici sistematici furono condotti tra il 1976 e il 1984 da una équipe francese diretta da S. Cleuziou, dalla Direzione delle Antichità di al-Ain nel corso degli anni Ottanta e Novanta e, infine, da una missione congiunta arabo-francese a partire dal 1995.

Con il nome di H. si indicano in realtà diversi insediamenti e zone funerarie all'interno dell'oasi, che attestano una occupazione stabile a partire dal III millennio a.C. fino all'età del Ferro. Il sito più importante dell'età del Bronzo è sicuramente Hili 8, dove una grande costruzione quadrangolare ad angoli stondati del diametro di 17 m (che diviene circolare attraverso successive modifiche) ha fornito una sequenza di tre fasi architettoniche databili all'incirca tra il 3000 a.C. e gli inizi del II millennio a.C., consentendo una prima periodizzazione della cultura dell'età del Bronzo dell'Oman interno raffrontabile con quella di Umm an-Nar. L'edificio centrale, completamente costruito con mattoni crudi, presenta nella fase iniziale una partizione interna in camere rettangolari disposte ai lati di un pozzo centrale, successivamente spostato all'esterno, dove sono state individuate anche altre strutture architettoniche e dei fossati. Questa grande torre doveva in origine essere alta oltre 10 m ed è tipologicamente raffrontabile agli edifici di Hili 1, 4 e 11, ma anche alle torri di Tell Abraq, Bat, Bidya, Khutm, Dariz, Wadi Bahla, Amlah, Maysar, Khasbah, dimostrando un'ampia diffusione sia costiera sia interna. La loro interpretazione è controversa, ma è verosimile che si tratti di strutture difensive entro le quali la maggiore parte della popolazione dell'insediamento poteva trovare rifugio, sebbene sia stata anche avanzata l'ipotesi di edifici residenziali per le famiglie ai vertici della gerarchia sociale della comunità.

Contemporanee alla fase più antica di Hili 8 (periodo di Hafit; ca. 3100-2700 a.C.) sono le tombe collettive in cista di pietra, ubicate sempre al di fuori dell'oasi lungo le creste montuose che la circondano. Nel corredo si trovano soltanto vasi di ceramica dipinta policroma importati dalla Mesopotamia, che rappresentano evidenze sicure di contatti tra Sumer e le regioni che nei testi cuneiformi vengono indicate con il toponimo Magan/Makkan.

Con l'inizio del periodo detto di Umm an-Nar (ca. 2700/2600-2000 a.C.) si registra un cambiamento importante nel costume funerario: le sepolture sono poste in prossimità dell'abitato, divengono costruzioni monumentali di blocchi di pietra, contengono corredi più ricchi e, soprattutto nelle fasi tarde, un gran numero di inumazioni. Sparse nell'oasi di al-Ain si trovano diverse tombe collettive, la più grande delle quali (diam. 12 m) è stata ricostruita all'interno del giardino pubblico cittadino; essa ha la particolarità di presentare alcuni blocchi di calcare scolpiti a bassorilievo con figure di esseri umani e animali. Nella tomba A di H. Nord, sebbene in parte saccheggiata, sono stati rinvenuti i resti di oltre 100 individui e di 400 vasi ceramici; la tomba N ha restituito, invece, circa 240 scheletri di inumati e più di 300 vasi, oltre a decine di oggetti di pietra e metalli. In generale, i corredi comprendevano decine di vasi di ceramica comune o dipinta, con presenza di importazioni dall'Iran sud-orientale e dalla valle dell'Indo, nonché imitazioni locali, oggetti di rame, contenitori di steatite con decorazione a cerchi puntinati, ornamenti di pietre semipreziose, tra cui perle di corniola a decorazione impressa a fuoco, tipiche della cultura harappana.

L'oasi di al-Ain ha avuto un ruolo decisivo per lo sviluppo della cultura omanita del III millennio a.C., permettendo una forma di economia sedentaria basata su uno sfruttamento agricolo intensivo in zone protette non distanti dai giacimenti metalliferi delle montagne dello Hajar. Le analisi bioarcheologiche hanno dimostrato una economia primaria basata soprattutto sull'allevamento di caprovini e sulla coltivazione di grano, orzo e sorgo, nonché sullo sfruttamento della palma da datteri. La produzione agricola era assicurata dallo sfruttamento della falda acquifera dell'oasi e da un sistema complesso di irrigazione, che prefigura quello dei falaj impiegato nelle oasi arabe a partire dal I millennio a.C.

Per una serie di concause ambientali e socioeconomiche, l'occupazione stabile nell'oasi si interrompe intorno al 1700/1600 a.C. e riprende soltanto nell'età del Ferro intorno al 1000 a.C., quando sono documentati diversi insediamenti. Tra questi si distinguono Hili 2 e Rumeilah (periodi I e II), dove è stata riportata alla luce una serie di unità abitative costruite con mattoni crudi, con materiale ben stratificato associato ai piani pavimentali, e Hili 14, dove è stata individuata una struttura fortificata quadrangolare, interpretata come una sorta di caravanserraglio. L'edificio misura circa 55 m di lato ed è racchiuso da un muro di cinta provvisto di contrafforti; l'ingresso si trova nell'angolo nord-ovest e immette, tramite un largo corridoio, nello spazio interno nel quale sono presenti sia strutture indipendenti sia ambienti collegati alla recinzione. Tra questi spicca un edificio trapezoidale (11 × 6 m), adiacente al muro meridionale, costituito da quattro piccoli ambienti nella parte sud e da un unico ampio vano rettangolare a nord con quattro coppie di contrafforti interni.

La produzione ceramica mostra una forte omogeneità: ceramiche comuni, ingobbiate, dipinte e incise a morfologie aperte (coppe profonde a orlo naturale, bacini) o chiuse (ollette a orlo svasato con versatoio, giare globulari a base piana e orlo estroflesso), che presentano strette affinità con la ceramica iraniana meridionale databile tra l'epoca achemenide e il periodo partico. Tipica di questa fase è la manifattura di contenitori di steatite/clorite (olle biconiche, coppe aperte o carenate con o senza versatoio, vasi a compartimenti) decorati da motivi geometrici incisi sulle pareti esterne, che prosegue la tradizione omanita della lavorazione di questa pietra saponaria, attestata fin dal periodo di Umm an-Nar. La toreutica si distingue per una produzione variata soprattutto di oggetti di bronzo martellato (calderoni, coppe carenate con versatoio, anelli, numerose tipologie di armi), rinvenuti quasi sempre in sepolture, mentre l'impiego del ferro è quasi del tutto assente.

Bibliografia

In generale:

S. Cleuziou, Économie et société de la péninsule d'Oman au IIIe millénaire: le rôle des analogies interculturelles, in T. Barrelet (ed.), L'archéologie de l'Iraq, Paris 1980, pp. 343-59; Id., Hili and the Beginnings of Oasis Life in Eastern Arabia, in PSAS, 12 (1982), pp. 15-22; Id., The Chronology of Protohistoric Oman as Seen from Hili, in P. Costa - M. Tosi (edd.), Oman Studies, Rome 1989, pp. 47-78; Id., The Emergence of Oases and Towns in Eastern and Southern Arabia, in G. Afanas'ev et al. (edd.), The Prehistory of Asia and Oceania. XIII International Congress of Prehistoric and Protohistoric Sciences (Forlì, 8-14 September 1996), Forlì 1996, pp. 159-65; Id., The Foundation of Early Bronze Age Oases in the Oman Peninsula, in M. Pearce - M. Tosi (edd.), Papers from the EAA Third Annual Meeting at Ravenna 1997, I. Pre- and Protohistory, Oxford 1998, pp. 59-70.

Rapporti di scavo:

S. Cleuziou, Three Seasons at Hili: towards a Chronology of the Oman Peninsula in the 3rd Millennium B.C., in PSAS, 10 (1980), pp. 19-32; Id., The Second and Third Seasons of Excavations at Hili 8, in Archaeology in the United Arab Emirates, 2 (1980), pp. 30-69; R. Boucharlat - P. Lombard, L'Âge du Fer dans l'oasis d'al-Aïn. Deux saisons de fouille à Rumeilah, in PSAS, 13 (1983), pp. 3-17; S. Cleuziou - B. Vogt, Umm an-Nar Burial Customs. New Evidence from Tomb A at Hili North, ibid., pp. 37-52; R. Boucharlat - P. Lombard, The Oasis of al-Aïn in the Iron Age. Excavations at Rumeilah 1981-1984, Excavations at Hili 14, in Archaeology in the United Arab Emirates, 4 (1985), pp. 44-73; S. Cleuziou - B. Vogt, Tomb A at Hili North (United Arab Emirates) and its Material Connections to Southeast Iran and the Greater Indus Valley, in SAA 1983, pp. 249-77; S. Cleuziou, Excavations at Hili 8. A Preliminary Report on the 4th to 7th Campaigns, in Archaeology in the United Arab Emirates, 5 (1989), pp. 61-87; M.M. Al-Haddu, Preliminary Report on the Excavation in Tomb N at Hili, ibid., pp. 55-71; W.I. Al-Tikriti - S. Méry, Tomb N at Hili and the Question of the Subterranean Graves during the Umm an-Nar Period, in PSAS, 30 (2000), pp. 205-18; S. Méry et al., Re-Excavation of the EBA Collective Hili N Pit-Grave (Emirate of Abu Dhabi, UAE): Results of the First Two Campaigns of Emirati-French Project, ibid., 31 (2001), pp. 161-78. Ceramica: J. Blackman et al., Production and Exchange of Ceramics on the Oman Peninsula from the Perspective of Hili, in Journal of Field Archaeology, 16 (1989), pp. 61-77; S. Méry, A Funerary Assemblage from the Umm an-Nar Period: the Ceramics from Tomb A at Hili North, UAE, in PSAS, 27 (1997), pp. 171-91. Oggetti di steatite: H. David, Soft-stone Vessels from Umm an-Nar Tombs at Hili (UAE): A Comparison, in PSAS, 32 (2002), pp. 175-85.

Marib

di Alessandro de Maigret

La grandezza e la prosperità di M. (antica Maryab), capitale del regno di Saba, derivarono, oltre che dalla potenza politica del celebre Salhin (il suo palazzo reale), dalla poderosa diga e dalle altre opere idrauliche che, a partire dal X sec. a.C., garantirono per oltre 1500 anni il rigoglio di una delle più vaste oasi dell'Arabia antica. Furono, infatti, i suoi sterminati "giardini" (circa 10.000 ha) che consentirono ai Sabei di mantenere la loro presenza in una zona così avanzata nel deserto e, quindi, di intercettare la ricca via carovaniera che congiungeva il mondo del Mar Eritreo (Oceano Indiano) con quello del Mediterraneo.

L'antica città, con i suoi 120 ha, si presenta come la più grande città fortificata d'Arabia. La cinta, con un andamento triangolare, seguiva il profilo di un ampio pianoro rilevato sui campi circostanti. Contrafforti rettangolari sporgevano a distanze regolari dal muro e davano a M. l'aspetto di una grande città turrita. Ancora oggi si può vedere la porta occidentale della città, difesa da due bastioni, e, nella "piazza" a ovest, i contorni di parecchi ampi complessi strutturali. A est svetta l'acropoli, dove probabilmente era il palazzo Salhin e su cui oggi si vede ancora impostato il villaggio medievale di M. Non lontano, incorporati nella moschea, detta Masjid Sulayman, restano i pilastri di un tempio.

A sud della città, oltre il Wadi Dhana, si trovano due grandi templi detti dai locali Mahram Bilqis e Al-Amaid. Il primo, l'antico Awwam sacro al dio Almaqah, si articola in una vasta area ovale scoperta (100 × 75 m), cinta da un poderoso muro, a cui si accede attraverso un'elaborata sala di entrata rettangolare, delimitata da un portico monumentale e preceduta da una fila di otto pilastri monolitici, che fu messa in luce all'inizio degli anni Cinquanta del Novecento dalla missione dell'American Foundation for the Study of Man diretta da W. Phillips. Dopo un'interruzione di circa 50 anni, gli scavi sono oggi ripresi sotto la direzione di M. Phillips, nel settore a ovest della sala. L'importanza del tempio, quale meta di importanti pellegrinaggi religiosi, è ben nota e comprovata dagli scavi, che stanno svelando strutture di straordinaria monumentalità, resti di imponenti statue di bronzo, innumerevoli iscrizioni di ogni periodo. Ma il ruolo di eminente centro religioso è dimostrato anche dalla ricca e raffinata necropoli esplorata dalla missione del Deutsches Archäologisches Institut nell'area esterna a est del muro ovale: qui, nei molteplici mausolei, riposavano i membri delle più ricche famiglie di M.

Circa 1 km a ovest dell'Awwam si trova il secondo tempio, l'antico Baran, sacro ad Almaqah, di cui erano visibili, prima dei recenti scavi, solo i sei pilastri del propileo d'entrata. Una monumentale scalinata, posta in una corte porticata quadrangolare, consentiva di salire al tempio. Tutto il santuario era circondato da uno spesso muro di mattoni con torri, costruito per arginare i banchi di sedimenti accumulatisi nei secoli con l'irrigazione dell'oasi.

La diga, costruita in epoca assai antica e sita 6 km a sud-ovest della città, dove il Wadi Dhana sbocca da una gola del Jabal Balaq, consisteva di un grandioso terrapieno lungo circa 700 m ricoperto di materiale cementizio e lastre di pietra, che si estendeva tra due complessi sistemi di chiuse, uno a nord e uno a sud, costruiti in blocchi di pietra accuratamente squadrati e levigati. La funzione della diga era quella di raccogliere le acque alluvionali portate dal wādī e condurle, attraverso le due chiuse e un sistema di canali via via sempre più frazionato, verso la piana per irrigare i campi, situati a nord e a sud della città. Le iscrizioni scolpite nei blocchi delle chiuse ci informano che tre diverse fasi costruttive interessarono la diga. L'ultima e definitiva distruzione, avvenuta nel V sec. d.C., è ricordata dal Corano (XXXIV, 14-20).

Bibliografia

H. von Wissmann, Die Mauer der Sabäerhauptstadt Maryab. Abessinien als sabäische Staatskolonie im 6. Jh. v.Chr., Istanbul - Leuven 1976; U. Brunner, Die Erforschung der antiken Oase von Mārib mit Hilfe geomorphologischer Untersuchungsmethoden, Mainz a.Rh. 1983; B. Finster, Die Stadtmauer von Marib, in Archäologische Berichte aus dem Yemen, III, Mainz a.Rh. 1988, pp. 73-95.

Mussian tepe

di Enrico Ascalone

M.T. sorge ai piedi degli Zagros nella porzione nord-occidentale della piana del Deh Luran, a circa 90 km da Susa e lungo la strada che collega la Susiana alla provincia di Kermanshah; la regione è segnata dai due fiumi principali, il Tib e il Dueridji, che dal Gebel Hamrin scendono fin nella piana di Mussian.

Insieme ad altri centri della regione (Tepe Ali Abad, Tepe Mohr, Tepe Mohammad Jaffar, Tepe Muradabad, Tepe Khazineh e Tepe Fakhrabad) M.T. fu indagato, per conto della Delegazione Francese, da J.E. Gautier e G. Lampre a partire dal 1903 e successivamente ristudiato nel corso delle prospezioni di superficie svolte nella regione da E. Carter e J. Neely. M.T. ha una forma quadrangolare irregolare che misura approssimativamente 450 × 300 m, con un'altezza massima sul piano semidesertico circostante di 17-18 m. Le indagini francesi si sono concentrate su cinque aree distinte, localizzate approssimativamente in settori centrali (aree A, C e D) e periferici (aree B ed E) del tepe, che mostra una sua prima occupazione durante la prima metà del IV millennio a.C., contemporanea a Susa A (Susa I).

Sembra verosimile che Mussian abbia avuto una prima occupazione da circoscrivere all'ultimo secolo del VI millennio, poi interrotta intorno alla metà del IV millennio a.C., quando in Bassa Mesopotamia e Susiana novità socioeconomiche e tecnologiche si sperimentano e nuovi modelli insediamentali s'impongono. Questa lunga prima fase occupazionale (ca. 5000-3500 a.C.) mostra un'orizzonte vascolare ampiamente inserito nei contesti regionali del Deh Luran e forti adesioni ai percorsi culturali conosciuti, in una seconda fase, in Susa A. La ceramica è chiara a decorazione nera ovvero marrone con motivi geometrici preferiti, nelle fasi più arcaiche, alle stilizzazioni animalistiche più frequenti con la prima metà del IV millennio a.C.

Dopo un periodo di abbandono, supposto per la totale assenza di elementi distintivi della fase urukita e protoelamita, M.T. sembra essere nuovamente occupata con le prime fasi del periodo protodinastico quando nuova ceramica policroma, prima, e monocroma, dopo, trova decisi confronti nel II stile dipinto di Susa: la ceramica policroma ha confronti con la Susiana (a Susa sulla Ville Royale livelli 12-9 e sull'Acropole livelli 4-3) e con i centri del Gebel Hamrin, mentre i vasi monocromi trovano non sporadiche attestazioni nelle necropoli del Luristan occidentale. Sembra verosimile poter correlare le evidenze di Susa Dc con la ceramica policroma di Mussian (Protodinastico II), conosciuta assai diffusamente anche dalle tombe più arcaiche di Donjon trovate a una profondità oscillante tra i −12 e −9,75 m.

Non numerose evidenze sono state raccolte dell'ultimo quarto del III e la prima metà del II millennio a.C., quando la regione dovette entrare nell'orbita politica dei dinasti di Accad e Ur, prima (ca. 2300-2050 a.C.), e di Simashki e Sukkalmakh (ca. 2050-1700 a.C.), dopo. Carter identifica M.T. con la storica Urua/Arawa ampiamente citata nei testi di epoca accadica e neosumerica come centro elamita sottoposto alle pressioni militari esercitate dai sovrani mesopotamici. Le ampie e numerose iscrizioni dei dinasti neosumerici (dal 18° anno di regno di Shulgi al 24° di Ibbi-Sin) mostrano un controllo pressoché diretto su Susa, la sua regione, il Deh Luran e le "alte terre" di Elam almeno a partire dal 34° anno di regno di Shulgi, quando una nuova e intensa attività militare segna i territori di Anshan e le province di Kimash.

Bibliografia

J.-E. Gautier - G. Lampre, Fouilles de Moussian, in MDP, 8 (1905), pp. 59-149; M. Pézard - E. Pottier, Catalogue des Antiquités de la Susiane (Mission J. de Morgan), Paris 1926, p. 17; F. Hole, Archaeology of the Village Period, in F. Hole (ed.), The Archaeology of Western Iran. Settlement and Society from Prehistory to the Islamic Conquest, Washington (D.C.) 1987, pp. 29-78.

Shabwa

di Alessandro de Maigret

Gli autori classici parlano di S. (antica Shabwat) sin dal IV sec. a.C. È la splendida "Sabota dai sessanta templi", come la definisce Plinio, dove affluiva l'incenso prodotto nel Dhufar e destinato ad arrivare sino al Mediterraneo. In essa risiedeva il re dell'Hadramaut, un regno che fiorì tra il VI sec. a.C e il IV sec. d.C. nelle valli del wādī omonimo. La capitale S. però era situata nel deserto del Ramlat as-Sabatayn, in posizione eccentrica rispetto all'estensione geografica del regno; ciò evidentemente sia per il suo ruolo d'importante nodo carovaniero, sia, probabilmente, per l'esigenza politica di restare in diretto contatto con le capitali degli altri Stati sudarabici.

Le sue rovine, visitate per la prima volta nel 1936 dall'esploratore inglese H.St.J.B. Philby, sono protette da un duplice sistema difensivo: il primo, rettilineo, munito a intervalli regolari di torri, circoscrive la città vera e propria; il secondo, ad andamento irregolare, segue la linea di alcune lontane creste rocciose. La depressione di As-Sabkha, compresa tra le due cinte e dagli accessi ben difesi, serviva ad accogliere e proteggere le carovane. Un profondo sondaggio, eseguito nella zona sud-est della città, ha rivelato la lunga storia del sito: un primo insediamento, associato probabilmente a una pratica dell'agricoltura su terreni irrigui, si sviluppò qui a partire dall'inizio del II millennio a.C.; dopo una fase di declino tra il XV-XIV e il IX sec. a.C., si ebbe un periodo di intensa ricostruzione a partire dall'VIII-VII sec. a.C. Le strutture sono costruite in mattoni crudi, ma, a partire dal IV sec. a.C., si cominciano a erigere le tipiche case con gli alti basamenti di pietra. La città di S. fornisce un prezioso esempio di urbanizzazione sud-arabica: essa conta infatti quasi 120 basamenti rettangolari di pietra (10 × 12 m), alti da 1 a 3 m, indagati, a partire dal 1974, dalla Missione Archeologica Francese diretta prima da J. Perenne e poi da J.-F. Breton, che ne ha spiegato la funzione di fondazioni sopraelevate, suddivise all'interno da muri che delimitavano piccoli ambienti-magazzini e determinavano la pianta dei piani superiori degli edifici. Le sovrastrutture erano montate in scheletri di legno portanti, come mostrano resti di muri ritrovati intatti, con assemblaggi regolari di travi lignee riempiti di mattoni crudi saldati con malta di terra. Tale tecnica costruttiva è tipicamente sud-arabica e riguarda sia l'architettura privata che quella religiosa.

A nord è conservata una grande porta in blocchi ben tagliati e levigati, da cui si diparte verso sud una strada dritta, che taglia la città in due parti approssimativamente uguali e conduce di fronte a quello che Philby battezzò Tempio di Astarte, con una scalinata monumentale di pietra (larga ca. 10 m) fiancheggiata da due enormi plinti rettangolari, su cui sono gli incavi per l'alloggiamento di statue (forse stambecchi di bronzo). Una fila di quattro basi rettangolari, per altrettante statue, occupa i gradini superiori. L'esigua profondità dell'edificio, in contrasto con la sua scenografica facciata, farebbe pensare, più che a un uso religioso, a una funzione cerimoniale e rappresentativa dell'edificio. Gli scavi della Missione Francese hanno inoltre messo in luce, presso la porta nord, un vasto edificio (39 × 57 m), identificabile forse con il famoso Shaqir, ossia il palazzo reale. La massiccia costruzione (che, sebbene in scala maggiore, conserva la stessa planimetria delle case private) era fronteggiata da un'ampia corte con portico su tre lati sostenuto da colonne. Distrutto verso il 230 d.C., l'insieme venne ricostruito subito dopo. Fu modificata solo la corte, e l'edificio che la cingeva venne sopraelevato di un piano con una galleria coperta da un soffitto a cassettoni e ampie finestre sorrette da un pilastro centrale coronato da un doppio capitello ornato di un grifone con testa di leone con corna. Sembra lecito supporre (data anche la ricchezza delle case) che la città ospitasse solo l'élite di una comunità che certo, almeno in alcune sue componenti (contadini, artigiani, carovanieri, ecc.), doveva essere insediata al di fuori delle mura.

Bibliografia

J. Pirenne, Les témoins écrits de la région de Shabwa et l'histoire. Fouilles de Shabwa, I, Paris 1990; J.-F. Breton (ed.), Fouilles de Shabwa, II. Rapports Préliminaires, Paris 1992; Ch. Darles, Le haut lieu des Shabwa, Paris 1995.

Susa

di Nicolò Marchetti

Il sito di S. (Shush) si trova alle pendici degli Zagros, ai margini della piana della Susiana nel Khuzistan. Ai piedi dell'acropoli scorre il fiume Shaur. Il sito è composto da tre monticoli per complessivi 100 ha: quello detto dell'apadāna, su cui si trovava il palazzo di Dario I, l'acropoli e la cosiddetta Città Reale di cui fa parte il Donjon. Più a est ancora si trova la cosiddetta Città degli Artigiani.

Gli scavi sono stati inizialmente condotti da W.K. Loftus (1850-53) e dai coniugi J. e M.A. Dieulafoy (1884-86) e poi sistematicamente da J. de Morgan (1897-1908), R. de Mecquenem (1909-39), R. Ghirshmann (1946-67) e J. Perrot (1968-79), quando sono stati interrotti dalla guerra irano-irachena. L'occupazione di S. è continuata più o meno ininterrotta dal 4000 a.C. al XIV sec. d.C. Per i periodi più antichi si è adottata una periodizzazione archeologica: Susa I viene datata all'incirca tra 4200 e 3900 a.C. (corrispondente alla fase di Ubaid terminale); Susa II corrisponde a Uruk Eanna XIV-IV; Susa III al periodo protoelamita maturo. Il periodo coevo al Protodinastico di Mesopotamia (Susa IVA) è mal noto e quasi solo rappresentato da oggetti e glittica. L'epoca elamita è suddivisa in paleo- (2050-1500 a.C.), medio- (1500-1100 a.C.) e neoelamita (1100-540 a.C.), cui seguono poi i periodi achemenide, partico, sasanide e islamico.

È stato ipotizzato che la fondazione e la crescita di Susa I fossero dovute alla sua importanza religiosa. A tale periodo datano infatti il Massif Funeraire (una bassa piattaforma su cui era impostata una necropoli con oltre 2000 sepolture) e la Haute Terrasse (una piattaforma in origine alta 20 m e di oltre 50 m di lato, probabilmente articolata su tre gradoni con edifici sulla sommità e nella cui facciata erano inserite file di grandi coni imbutiformi), quest'ultima rimasta in uso fino a Susa II. La cultura materiale di Susa I è connessa agli altopiani iranici. Per il periodo di Susa II alcuni elementi attestano un certo grado di continuità culturale. Nella sequenza stratigrafica ‒ fondamentale non solo per S. ma per la comprensione di avvenimenti basilari dell'epoca protostorica ‒ ottenuta nel sondaggio detto Acropoli I, nel livello 20 compare il sigillo cilindrico, nel livello 19 i primi documenti di contabilità, inizialmente contrassegni e bulle sferiche cave che li contengono; poi, nel livello 18, queste presentano anche impronte e segni numerici all'esterno e compaiono anche irregolari tavolette arrotondate con solo segni numerici, che nel livello 17 assumeranno una forma rettangolare o a cuscino.

L'epoca protoelamita, Susa III, è caratterizzata dalla comparsa di un originale sistema grafico, forse ancora pittografico, tuttora indecifrato, denominato Protoelamico A, probabilmente connesso alla lingua elamita e diffuso fino a Shahr-i Sokhta I nel Sistan. Permangono oscuri gli inizi del periodo e la sua fine. In questa epoca, in cui il sito si estendeva per circa 10-21 ha, viene a crearsi l'interazione tra Susiana e altipiani che caratterizzerà l'Elam di età storica. Caratteristica è la glittica che presenta una serie protoelamita (naturalistica) in sigilli spesso di eulandite con motivi di animali in atteggiamenti umani e creature fantastiche, accanto alla serie di sigilli di steatite invetriata (più propriamente riscaldata). In età accadica S. era sede di un governatore nominato dai re di Accad. Successivamente fu sede di una dinastia locale: il re Kutik-Inshushinak, contemporaneo di Ur-Namma di Ur, dedicò numerosi monumenti. In tale periodo compare una scrittura locale peculiare, denominata Protoelamico B. Estese aree di scavo riguardano la S. dei sukkalmakh nella Città Reale A e B. Qui sono state messe in luce vaste abitazioni, apparentemente a un solo piano, con decine di stanze, articolate su corti quadrate, con indizi di attività amministrative. Interessanti i camini a tromba nello spessore del muro. Splendidi pezzi di artigianato sono i vasi figurati a bassorilievo di pietra bituminosa.

In epoca medioelamita venne raggiunto l'apice della potenza, sotto i re di Anshan e S. Una completa mancanza di documenti da S. interessa il XV e anche il XIV sec. a.C., in connessione con uno spopolamento della regione. Con Untash-Napirisha (1340-1300 a.C.) si assiste a un tentativo di spostare il centro religioso e politico nel sito di nuova fondazione Al-Untash-Napirisha (Choga Zanbil), abbandonato poco dopo la morte del fondatore. Nel XII sec. a.C. Shutruk-Nakhunte, Kutir-Nakhunte e Shilkhak-Inshushinak estesero l'impero, saccheggiarono la Mesopotamia e abbellirono S., ricostruendo l'acropoli con mattoni cotti e smaltati. Dell'intensa attività di Untash-Napirisha rimane poco, mentre meglio note sono le costruzioni dei grandi re del XII sec. a.C. Ai due lati del complesso della ziqqurrat si trovavano i templi di Ninkhursag (in cui erano la statua di Napir-Asu, moglie di Untash-Napirisha, e il sit šamši, una tavola bronzea del XII sec. a.C. rappresentante appunto un'"alba" secondo l'iscrizione: compaiono due uomini accucciati in atto di libare tra varie installazioni, apparentemente all'aperto) e quello, principale, di Inshushinak (in cui tra l'altro erano conservate alcune prede mesopotamiche, quali la Stele di Naram-Sin o il Codice di Hammurabi, e la Stele di Untash-Napirisha, portatavi dalla sua effimera capitale). Entrambi gli edifici erano stati originariamente fondati da Shulgi, ma vennero ampliati e abbelliti in quest'epoca. La decorazione del secondo edificio, costruito con mattoni iscritti, consisteva di pomelli da muro smaltati e intarsiati, mattoni a rilievo smaltati accanto ai portali, leoni di terracotta smaltata, kudurru e colonne iscritte. Numerosi sacelli, recinti e ambienti sotterranei (connessi ai culti ipogei di Inshushinak, al pari forse di alcune ricche tombe sotterranee) si trovavano nelle vicinanze. Sul tell dell'apadāna sono stati identificati resti di un secondo tempio dedicato a Inshushinak.

L'epoca neoelamita è caratterizzata da un netto declino insediamentale ed economico con un aumento della popolazione pastorale, che aiuta a collocare la sconfitta elamita da parte assira nella corretta prospettiva storica. In ogni caso la potenza del regno conobbe una ripresa dalla fine dell'VIII sec. a.C. al 646 (quando Assurbanipal la distrusse, lasciandone un vivido ricordo nei rilievi e soprattutto nei testi), per poi continuare, sotto la dominazione meda, fino alla conquista persiana. S. restò sempre il centro cerimoniale, ma le basi operative del regno erano in altre due città, ancora non identificate. La sequenza archeologica più completa è stata individuata nel sondaggio Città Reale II. Gli abbondanti materiali provengono soprattutto da tombe e da case. Il materiale ceramico neoelamita mostra una fondamentale continuità con il repertorio del II millennio a.C., anche se è ben suddivisibile in due fasi (nella seconda alcune forme mostrano un'influenza neoassira).

La ceramica achemenide segna invece una netta rottura con il periodo neoelamita. S., dopo la conquista persiana, divenne una delle tre capitali dell'impero insieme a Pasargade e Persepoli. I sovrani che operarono principalmente a S. furono Dario I (522-486 a.C.) e Artaserse II (424-404 a.C.), mentre di altri si hanno solo scarsi indizi. Il palazzo di Dario I (restaurato poi da Artaserse II) era costruito su una terrazza artificiale sul tell detto appunto dell'apadāna. Tramite un ponte, preceduto da propilei monumentali, il quale metteva in comunicazione i due tell, Ville Royale e apadāna, separati da un fossato, si giungeva, attraverso il portale monumentale (uno spazio centrale articolato da contrafforti interni con quattro pilastri), alla spianata antistante il palazzo. Accanto al portale vi era la statua di Dario ricoperta di geroglifici ed eseguita nello stile della XXVI Dinastia. L'edificio si componeva del palazzo e dell'annesso apadāna, la sala quadrata colonnata di rappresentanza porticata su tre lati (109 × 109 m), le cui colonne scanalate di pietra sorreggevano capitelli a doppia protome taurina. Il palazzo (246 × 155 m) era articolato su tre corti quadrate successive pavimentate con cotto, decrescenti per dimensioni e su un unico asse. È un caso unico dell'architettura achemenide, in quanto la sua planimetria si ispira a quella dei palazzi neoassiri e neobabilonesi. Il palazzo in particolare presentava una ricca decorazione di mattoni a rilievo e non, smaltati con vivaci colori, tra cui il celeberrimo fregio degli arcieri. Artaserse II si costruì un palazzo sulla riva opposta dello Shaur, più modesto e con le colonne dell'apadāna lignee anziché di pietra, ornato però da rilievi di pietra raffiguranti servitori. Importante, per il ricchissimo corredo, costituito da due vasi di alabastro, una coppa baccellata d'argento e soprattutto moltissimi gioielli, è una sepoltura persiana entro un sarcofago bronzeo della fine del IV sec. a.C. sull'acropoli.

S. rimase fiorente fino a tutto il periodo seleucide e partico, conoscendo poi una decadenza sotto i Sasanidi. In epoca antico-islamica vi fu invece un nuovo sviluppo: si conoscono case, un ḥammām e soprattutto una moschea il cui nucleo iniziale risale all'VIII sec. d.C., su un'altura subito a est del sito antico. Nel XIII sec. d.C. S. fu abbandonata.

Bibliografia

Rapporti preliminari in Mémoires de la Délégation en Perse (poi MDP), Paris dal 1900 e in Cahiers de la DAFI dal 1971; P. Amiet, Suse. 6000 ans d'histoire, Paris 1988; Suse. Dernières découvertes, Fontaine-les-Dijon 1989; P.O. Harper - J. Aruz - F. Tallon (edd.), The Royal City of Susa. Ancient Near Eastern Treasures in the Louvre, New York 1992.

Tamna

di Alessandro de Maigret

Le rovine di T., chiamate Hajar Kuhlan dal nome del piccolo villaggio che le sovrasta, formano un pianoro ovale di circa 30 ha.

Nel 1950-52 una missione archeologica americana guidata da W. Phillips vi condusse una serie di scavi mettendo in luce alcune case private presso la Porta Sud, un grande edificio (tempio o palazzo?) al centro della città e numerose tombe nella vicina necropoli di Hayd ibn Aqil. Nel 1999, una missione archeologica italo-francese (A. de Maigret; Ch. Robin) ha ripreso scavi regolari, concentrati soprattutto in due settori della città: su una collinetta sul ciglio nord-occidentale del pianoro, subito a sud della Porta Nord (settore A), e nella cosiddetta Piazza del Mercato, situata nel centro della città (settore B). Nel corso della campagna 2003 uno scavo ha interessato anche la necropoli della città.

Dopo Marib, capitale dei Sabei, T. fu certamente la più grande e celebre città dell'antica Arabia Felix (Yemen). Capitale dei Qatabaniti (ca. 700 a.C. - II sec. d.C.), Tomna ‒ come la chiamava Plinio ‒ fu nota soprattutto per il suo ruolo commerciale: da essa partiva, infatti, la famosa carovaniera dell'incenso che portava fino al Mediterraneo le numerose e preziose risorse dell'Oceano Indiano. La città godette di particolare floridezza tra il VI e il I sec. a.C., quando, dopo l'offuscamento dell'egemonia sabea, il Qataban assunse un ruolo di primaria importanza in Arabia del Sud.

Nel settore A si è messo in luce il basamento di un grande tempio chiamato nelle iscrizioni Tempio Yashhal e dedicato alla dea Athirat. Sulla vasta piattaforma rettangolare, contenuta da un muro in opera ciclopica, si ergeva un edificio ipetrale di cui restano solo le fondazioni degli ambienti perimetrali. L'originaria maestosità del santuario è testimoniata dai perfetti blocchi di granito, con facce a leggero bugnato, rinvenuti a sud, e dal complesso e articolato sistema d'entrata, a est, costituito da un'ampia pedana gradinata, sovrastata da un portico a pilastri e fiancheggiata da due scale laterali piegate a gomito. Una ben rifinita fonte in calcare, a pianta circolare, rinvenuta sotto il crollo della scala di sinistra, serviva ad abbellire la bocca di un profondo pozzo, consentendovi l'accesso tramite due brevi rampe di scale. Tre vasche, ai lati di queste, erano contenute dal muretto di facciata circolare e l'acqua in esse versata dal pozzo scorreva all'esterno tramite colatoi a testa di toro. Un'iscrizione parla di un "pozzo del Tempio Yashhal" che, forse, potremmo identificare in quest'antica fonte, databile al V-IV sec. a.C. grazie alla paleografia di un'iscrizione su uno dei suoi blocchi. Il tempio, invece, deve essere stato in uso più tardi e cioè, sulla base di analisi al 14C, tra il III e il I sec. a.C., quando fu incendiato e distrutto. Un sondaggio eseguito nella corte del tempio ha rivelato l'esistenza a T. di un livello profondo, con strutture di mattoni crudi e ceramica del tipo cosiddetto "carenato", attribuibile ai secoli VIII-VII a.C.

Nel settore B si è messo in luce tutto l'emiciclo orientale di case private che circondavano la cosiddetta Piazza del Mercato. Il quartiere orbita intorno al famoso "obelisco iscritto", una grande stele di granito con il codice di leggi emanato dal re, che regolava il mercato internazionale di T. Delle case restano solo i colossali, massicci basamenti di pietra, ma, da quanto si può capire dai crolli, su di essi poggiavano uno o due piani fatti con moduli di mattoni crudi contenuti da complesse e accurate tralicciature lignee. Le iscrizioni monumentali rinvenute sulle facciate di tre edifici ricordano i nomi delle case e quelli dei loro nobili proprietari. L'aspetto planimetrico e strutturale di tali basamenti rettangolari di pietra è caratteristico: alti 2 m e più e privi di porte e finestre, essi constano di un robusto muro perimetrale, con un reticolo interno di muri ortogonali disposti secondo una pianta che tripartisce longitudinalmente l'area della casa e delimita un ambiente trasversale nel fondo. L'accesso alla casa avveniva per mezzo di una scala esterna che saliva lungo uno dei lati corti. Tutte le case furono distrutte e incendiate nel I-II sec. d.C; alcuni carboni delle travi degli alzati, analizzati al 14C, datano la loro costruzione in un periodo compreso tra il III e il I sec. a.C., data che la paleografia delle iscrizioni inaugurali sembrerebbe confermare.

Bibliografia

S. Antonini - M. Arbach - A.V. Sedov (edd.), Collezioni sudarabiche inedite: gli oggetti acquisiti dalla missione archeologica italo-francese a Tamna' (Yemen) (1999-2000), Napoli 2002.

Tarut

di Luca Peyronel

Isola approssimativamente circolare con diametro di 4 km, situata nella baia di Qatif a 3 km dalla costa orientale dell'Arabia Saudita. Le indagini archeologiche a T. risalgono agli anni Sessanta e Settanta del Novecento, mentre numerosi reperti provengono da ritrovamenti fortuiti.

L'occupazione più antica risulta simile a quella delle oasi dell'immediato entroterra: a una fase con comunità a economia primaria basata sulla caccia e pesca e su una domesticazione incipiente (V-IV millennio a.C.), segue una progressiva affermazione di modelli di aggregazione di società complesse che arrivano a un coagulo politico nel corso della seconda metà del III millennio a.C., quando la regione araba costiera e T. dovevano corrispondere al "paese di Dilmun" delle fonti mesopotamiche. Il sito più importante è T., nel centro dell'isola, con un tell dell'età del Bronzo di almeno 50 m di diametro, su cui insistono le rovine di un castello islamico del Cinquecento. Sondaggi nella zona del forte hanno rivelato almeno quattro livelli occupazionali, il primo dei quali con selci e scarti litici insieme a ceramica Ubaid, gli altri con materiali ceramici Umm an-Nar e Dilmun (dalla seconda metà del III millennio ai primi secoli del II millennio a.C.). Al-Rafiah si trova 1,5 km a est di T., con un'occupazione databile al Protodinastico II-III e una necropoli di epoca ellenistica con tombe a cista. Analoga è la situazione a Fariq al-Akhrash, ubicata 1,5 km a nord di T., con sepolture seleucidi sovrapposte a una fase preclassica.

L'isola di T. aveva un ruolo decisivo durante i secoli centrali del III millennio a.C. per la produzione di contenitori di steatite/clorite intagliati con figure mitologiche, elementi decorativi simbolici e animali. Questa particolare produzione, diffusa dalla Siria - Mesopotamia all'Iran orientale e alla valle dell'Indo, si data tra il Protodinastico II e la fine del regno accadico, con centri di produzione diversificati, dall'Iran sud-orientale al Golfo Persico. è stato notato come un gruppo di manufatti dell'Arabia orientale sia molto simile per composizione a esemplari da Failaka, Mari e Bismaya, mentre un altro sia accostabile a reperti di Ur, Kish, Nippur e Khafagia, probabilmente perché il minerale utilizzato proveniva da un'unica fonte: forse la produzione avveniva nei siti stessi di T., sfruttando vene di minerali presenti nell'entroterra arabo.

Tre ritrovamenti testimoniano i collegamenti tra T. e la Mesopotamia meridionale durante il Protodinastico, indicati anche dalla presenza nell'isola e sulla costa prospiciente di ceramiche di origine o influsso mesopotamico: una figurina umana di lapislazzuli richiama da vicino la statuaria maggiore di pietra della Diyala; una statua di calcare alta oltre 1 m rappresenta un orante calvo e nudo con le mani unite e trova confronti a Eshnunna in statue databili al Protodinastico II; una piccola testa taurina di rame è invece accostabile a esemplari rinvenuti a Ur, Khafagia, Ubaid e Tello, databili tra il Protodinastico II e III, e potrebbe appartenere alla decorazione di una lira, come negli esemplari del Cimitero Reale di Ur.

Bibliografia

S.A. Rashid, Eine Frühdynastische Statue von der Insel Tarut im Persischen Golf, in O. Edzard (ed.), Gesellschaftsklassen im Alten Zweistromland und in den angrenzenden Gebieten. XVIII. Rencontre assyriologique internationale (München, 29. Juni bis 3. Juli 1970), München 1972, pp. 159-64; T.G. Bibby, Preliminary Survey in East Arabia 1968, Copenaghen 1973; J. Zarins, Typological Studies in Saudi Arabian Archaeology: Steatite Vessels in the Riyadh Museums, in Atlal, 2 (1978), pp. 65-93; Ph.L. Kohl, The Lands of Dilmun: Changing Cultural and Economic Relations during the Third to Early Second Millennia BC, in S.H.A. Al-Khalifa - M. Rice (edd.), Bahrain through the Ages, London 1986, pp. 367-75; S. Cleuziou, Dilmoun-Arabie (en merge de C.M. Piesinger: "The Legacy of Dilmun"), in J.-F. Salles (ed.), L'Arabie et ses mers bordières, I. Itinéraires et voisinages, Lyon 1988, pp. 38-58; A.H. Masry, Prehistory of Northeastern Arabia: The Problem of Interregional Interaction, London - New York 1997.

Tayma

di Fiorella Scagliarini

T. è una delle grandi oasi della Penisola Arabica nord-occidentale, a nord della strada da Medina a Tabuk (200 km ca. a sud-est di Tabuk e 50 km a nord-ovest di al-Ula).

La città è citata per la prima volta negli annali di Tiglatpileser III (744-727 a.C.) come tributaria del grande sovrano assiro. Nel periodo neobabilonese divenne la residenza di Nabonedo (555-539 a.C.), che vi si stabilì dopo aver lasciato Babilonia e aver spodestato il sovrano locale. Nei periodi successivi l'unica menzione della città si ha a proposito di una campagna che il sovrano achemenide Ciro aveva sferrato nei territori dell'Arabia del Nord dopo la caduta di Babilonia del 539 a.C. Fonti bibliche citano T. come parte del territorio edomita nel VI sec. a.C.

Le più importanti spedizioni archeologiche nell'Arabia nord-occidentale sono quelle degli anni 1907, 1909 e 1910 di A. Jaussen e R. Savignac; al 1962 risale, invece, la ricognizione di superficie svolta da F.V. Winnett e W.L. Reed. L'identificazione del sito più importante dell'area è del 1979, quando un'équipe del Dipartimento delle Antichità dell'Arabia Saudita, dopo una accurata ricognizione, iniziò lo scavo all'estremo nord-occidentale delle mura di T., su una collina chiamata Qasr al-Hamra. Nel palazzo di al-Hamra sono state distinte tre fasi di occupazione. In quella più antica (VI-V sec. a.C.), il complesso era organizzato in due aree separate da un ampio cortile; nella parte orientale si trovavano gli ambienti destinati alle attività quotidiane, mentre quella occidentale doveva essere destinata allo svolgimento di pratiche cultuali: al suo interno furono trovati una stele iscritta in aramaico e manufatti di pietra, di cui uno cubico con incisi simboli astrali e un altro interpretato come tavola offertoria. Inizialmente la costruzione del santuario è stata posta in relazione alla presenza a T. di Nabonedo, ma le datazioni proposte in base alle analisi al 14C suggeriscono di spostarla a età persiana.

In una seconda fase fu apportata una serie di modifiche che compresero il ridimensionamento di alcune stanze, la tamponatura di porte e finestre e la distinzione dell'area sacra attraverso la costruzione di murature. Ricollegabile a questa seconda fase è l'ambiente portato alla luce tra 1984 e 1985 nell'ala ovest del palazzo, dal quale provengono diversi oggetti di pietra probabilmente utilizzati nei rituali religiosi, tra cui un incensiere di forma rettangolare e una tavola sacrificale. La terza fase fu quella che seguì alla distruzione di alcune parti del palazzo, tra le quali gli ambienti di culto, che ora furono ricostruiti nella zona sud del complesso, in connessione con vani d'uso residenziale. Il rinvenimento all'interno dell'area di alcune monete del periodo ellenistico consente di datare la stanza al II-I sec. a.C. Questa fase dovette terminare in corrispondenza con la comparsa dell'Islam. La datazione dei successivi insediamenti del sito è di difficile definizione. La ceramica trovata negli ultimi scavi non ha rivelato particolari differenze con quella delle precedenti sessioni.

Bibliografia

A Jaussen - R. Savignac, Mission archéologique en Arabie, I-II. Atlas, Paris 1909-14; F.V. Winnett - W.L. Reed, Ancient Records from North Arabia, Toronto 1971; H. Abu Duruk - A.J. Murad, Preliminary Report on Qasr al-Hamra Excavations, Tayma'. The Second Season, 1404/1984, in Atlal, 9 (1985), pp. 55-64; H. Abu Duruk, Introduction to the Archaeology of Tayma', Riyadh 1986; H. Abu-Duruk - A.J. Murad, Preliminary Report on Qasr al-Hamra Excavations, Tayma'. Third Season, 1405/1985, in Atlal, 10 (1986), pp. 29-35; H.I. Abu Duruk, A Preliminary Report on the Industrial Site Excavation at Tayma. First Season, 1408/1987, ibid., 12 (1989), pp. 9-19; P.J. Parr, Aspects of the Archaeology of North-West Arabia in the First Millennium B.C., in T. Fahd (ed.), L'Arabie préislamique et son environnement historique et culturel, Leiden 1989, pp. 39-66; H.I. Abu Duruk, A Preliminary Report on the Industrial Site Excavation at Tayma. Third Season 1411 A.H.-1990 A.D., in Atlal, 14 (1996), pp. 11-24.

Umm an-nar

di Luca Peyronel

L'isola di U.an-N., lunga 3 km e larga poco meno di 2 km, appartiene all'arcipelago di Abu Dhabi situato lungo la costa occidentale della penisola omanita, nell'emirato di Abu Dhabi (Emirati Arabi Uniti).

L'esistenza di una facies culturale dell'età del Bronzo Antico nella penisola omanita venne qui per la prima volta identificata, grazie agli scavi danesi condotti tra il 1959 e il 1965, determinando la definizione dell'epoca compresa tra il 2700 e il 2000 a.C. come periodo di U.an-N., la cui cronologia si basa fondamentalmente sulle sequenze stratificate di Hili 8 nell'oasi di al-Ain/Buraimi, sebbene oggi siano conosciuti numerosi centri coevi tanto lungo la linea costiera occidentale, quanto nelle oasi e nelle vallate interne, che permettono la ricostruzione di questa cultura dell'età del Bronzo dell'Oman, il paese di Magan delle fonti cuneiformi mesopotamiche.

All'estremità nord-orientale dell'isola si trova l'insediamento con il porto antico, mentre la necropoli con decine di tombe monumentali risulta concentrata nella zona settentrionale. Delle 49 tombe identificate soltanto 7 sono state scavate dalla missione danese. Tutte risultano avere le stesse caratteristiche: si tratta di costruzioni a pianta circolare (diam. variabile tra 1,5 e 12 m) con alzato in pietra e divisione interna da 2 a un massimo di 10 camere funerarie. Sono tombe collettive (fino a 40 individui nelle tombe dell'isola, ma si sono scoperte sepolture U.an-N. con oltre 200 defunti), in cui gli inumati venivano deposti senza apparente distinzione tra individui di sesso ed età diversi. La tomba di maggiori dimensioni è il Cairn II con un diametro di 12 m e 10 camere funerarie separate, al cui interno sono stati trovati i resti di almeno 34 individui e la cui particolarità è quella di avere quattro blocchi del muro anulare esterno scolpiti a bassorilievo con figure di animali. I corredi funerari sono costituiti principalmente da vasi di ceramica locale o importata, sia di influsso iranico che mesopotamico, oltre a contenitori di steatite/clorite, oggetti di rame, soprattutto utensili ma anche armi, e manufatti di osso. Gli ornamenti personali erano quasi esclusivamente collane di perle o perline di pietre semipreziose, steatite/clorite, conchiglia.

Oltre a diverse unità abitative, è stato riportato alla luce, all'estremità meridionale del tell, un edificio a carattere polifunzionale denominato Warehouse 1013, con struttura quadrangolare di 300 m2, formata da almeno sette grandi vani rettangolari, la cui funzione era certamente legata all'attività commerciale e artigianale: le giare di probabile importazione mesopotamica insieme a una impronta di sigillo protosiriano sono forti indizi dei legami commerciali con l'alluvio basso-mesopotamico; utensili, scorie e alcuni lingotti di rame rappresentano chiare evidenze della lavorazione e dello stoccaggio del minerale, reperito nei ricchi giacimenti delle montagne omanite e probabilmente esportato insieme a manufatti e blocchetti di steatite/clorite verso le città protodinastiche sumeriche in cambio di bitume, tessuti e prodotti alimentari. La presenza di diversi pesi da bilancia fornisce infine un'ulteriore prova dello svolgimento di operazioni di scambio e di verifica all'interno del complesso.

La vita dell'insediamento copre un arco cronologico di alcuni secoli, dal 2700 al 2200 a.C., con diverse fasi architettoniche, mentre le tombe sono divisibili in un gruppo più antico (tombe IV, V e VII) e in un gruppo più tardo (tombe I, II e VI). Le ragioni dell'abbandono del sito non sono sicure, ma è possibile che esse siano state molteplici: da cause ambientali, con una fase di maggiore aridità che potrebbe aver reso impraticabile l'accesso all'isola, al fattore politico legato alla espansione accadica nel Golfo Persico e alle spedizioni militari di Manishtusu e Naram-Sin contro Magan, fino a motivazioni socio-economiche legate alla competizione con insediamenti costieri più settentrionali come Tell Abraq, che mostrano una continuità di occupazione tra il periodo U.an-N. e quello Wadi Suq.

Bibliografia

K. Thorvildsen, Burial Cairns on Umm an-Nar, in Kuml, 1962, pp. 190-219; K. Frifelt, The Island of Umm an-Nar, I-II, Aarhus 1991, 1995; K.W. Alt et al., Familienanalyse in kupferzeitlichen Kollektivgräbern aus Umm an-Nar, Abu Dhabi, in ArabAEpigr, 6 (1995), pp. 65-80.

Yala

di Alessandro de Maigret

Il sito sabeo arcaico di Y. fu scoperto nel 1985 dalla Missione Archeologica Italiana in Yemen dell'IsMEO in una zona inesplorata del Khawlan orientale, circa 40 km a sud-ovest di Marib.

Le rovine sono distribuite lungo il Wadi Y., uno degli ultimi adduttori di destra del Wadi Dhana. Per la sua antichità, il suo stato di conservazione e il carattere funzionale delle sue rovine, Y. può esser considerato, dopo Marib, il più importante giacimento sabeo sinora scoperto nello Yemen. Il sito si articola in tre gruppi di rovine: il complesso cultuale dello Shib al-Aql, il centro agricolo di al-Jafna e la città fortificata di Y./Ad-Durayb. Lo Shib al-Aql è una gola rocciosa dove, nel costone verticale che circonda una piscina naturale, furono rinvenute 28 iscrizioni rupestri, testimonianza dello svolgimento nella zona di una "caccia sacra" celebrata dai più antichi sovrani sabei conosciuti: i mukarrib Yathaamar Bayyin e Karibil Watar. Una graziosa piccola villa con scala monumentale e tre finestre in facciata, situata ai piedi della gola, doveva essere la residenza dei sovrani durante i periodi di caccia. In alto, invece, la gola sboccava in un ampio pianoro, al cui centro erano i resti di un santuario rupestre.

Il breve ma ricco torrente che scende lungo lo Shib al-Aql sbocca a nord nella vasta piana sedimentaria di al-Jafna. Qui i Sabei deviarono con una diga il suo corso naturale diretto a ovest (Wadi Qawqa) per farlo confluire a est verso il Wadi Y., costringendolo prima a irrigare un'estesa zona di campi. Le antiche aree coltivate sono documentate, oltre che da spessi banchi di limi, dalle rovine di numerose fattorie e case coloniche. Se lo Shib al-Aql era riservato alla sfera del culto e del rituale, la piana di al-Jafna era adibita alla produzione agricola e quindi al mantenimento della comunità. L'importanza economica del luogo sembra confermata dalla presenza di un paio di massicce roccaforti poste a protezione delle aree coltivate. Le acque deviate del Wadi Qawqa si riversavano poi nel Wadi Y., che raggiungeva dopo 1 km Y. Racchiusa da un'imponente cinta di mura di pietra con contrafforti e rientranze, la città, che misura 230 m (nord-sud) × 170 m, ha una superficie di circa 2,5 ha. Un'iscrizione riutilizzata su una torre medievale ce ne dà il nome antico: Hafary, già noto in diverse epigrafi sabee. La cinta, conservata per quasi 400 m, racchiude a sud una zona tondeggiante e più elevata di rovine, in cui la Missione Italiana compì un importante scavo. Fu messo in luce per intero un edificio di pietra con sei ambienti (Casa A), aperto su una strada e in cui una scala faceva supporre l'esistenza di un piano superiore. Le tracce di incendio e di crollo fecero pensare a una sua distruzione violenta, da collegarsi alla fase di abbandono della città. I lavori consentirono di ottenere un primo repertorio completo di ceramica e di oggetti, datati sulla base delle analisi al 14C all'VIII-VII sec. a.C.

Tanto la ceramica che la tecnica costruttiva delle strutture erano del tutto simili a quanto rinvenuto nello Shib al-Aql e ad al-Jafna, ciò che provava la contemporaneità di tutte le rovine. Anche i sovrani autori delle iscrizioni dovevano quindi risalire all'VIII-VII sec. a.C, informazione che risolveva la lunga diatriba cronologica dei sudarabisti e consentiva di identificare forse lo "Itaamar sabeo" citato negli annali assiri di Sargon II e il "Karibilu re di Saba" nominato in quelli di Sennacherib. Lo scavo sotto i pavimenti di alcuni ambienti della casa dimostrò che l'edificio era stato preceduto da altre due fasi costruttive che, grazie alle analisi al radiocarbonio, poterono essere datate con sicurezza tra il XII e il IX sec. a.C. In base alla tipologia, la ceramica della Casa A poté essere accostata a quella dei livelli N-K del centro qatabanita di Hajar Bin Humayd, confermando la correttezza della ricostruzione stratigrafica del sito, scavato da W. Phillips e G. Van Beek all'inizio degli anni Cinquanta del Novecento, e l'effettiva antichità dei livelli più profondi di Y. Oltre a un'interessante tavoletta di culto figurata di terracotta, il rinvenimento più importante è quello di un gruppo di iscrizioni in caratteri sudarabici graffite sulle pareti dei vasi. Si tratta di nomi di persona, che rappresentano le più antiche attestazioni di scrittura sinora rinvenute in Arabia meridionale poiché, provenendo dagli strati più antichi della Casa A, fanno arretrare l'inizio della scrittura sud-arabica al X o al IX sec. a.C.

Bibliografia

A. de Maigret (ed.), The Sabaean Archaeological Complex in the Wâdî Yalâ (Eastern Hawlân at-Tiyâl, Yemen Arab Republic): a Preliminary Report, Rome 1988; A. de Maigret - Ch. Robin, Les fouilles italiennes de Yalâ (Yémen du Nord): nouvelles données sur la chronologie de l'Arabie du Sud préislamique, in CRAI, 1989, pp. 255-91; A. de Maigret et al., The Bronze Age Culture of Hawlan at-Tiyāl and al-Hadāa (Republic of Yemen): a First General Report, Rome 1990.

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