Bodin, Jean

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Bodin, Jean

Diego Quaglioni

L’opera del giurista e politique B. (Angers 1529 - Laon 1596) rappresenta, nella seconda metà del 16° sec., un capitolo tra i più importanti di quella che è stata chiamata la «fortuna attiva» o la «portata dinamica» del pensiero di M. (Battista 1972).

La lettura machiavelliana di B. può anzi essere individuata come la spia di un mutamento di temperie culturale e politica nella Francia di fine Cinquecento. Nel 1566, pubblicando la Methodus ad facilem historiarum cognitionem, B. aveva ricordato enfaticamente M. come colui che

primus quidem, ut opinor, post annos mille circiter ac ducentos quam barbaries omnia cumularat, de Republica scripsit quae ore omnium circumferuntur: nec dubium est quin multo plura verius ac melius scripturus fuerit si veterum philosophorum et historicorum scripta cum usu coniunxisset

fu, come credo, il primo che dopo quasi mille e duecento anni di barbarie scrisse dello Stato cose che vanno sulla bocca di tutti; e non c’è dubbio che molte più cose le avrebbe scritte meglio e in modo più veritiero se all’esperienza avesse unito gli insegnamenti degli antichi filosofi e storici (OEuvres philosophiques, éd. P. Mesnard, 1951, p. 167).

Si deve subito notare che l’elogio di B., nell’attribuire a M. il primato nella rinnovazione della politica dopo uno iato più che millenario, lo riconosce sì in maniera netta e inequivocabile come maestro d’esperienza (l’usus), ma gli nega, con un’attenuazione del giudizio che sembra preludere a più tarde censure e che risente già della malignità degli Elogia di Paolo Giovio, quella dottrina storico-filosofica che M. avrebbe pur dovuto acquistare entrando «nelle antique corti degli antiqui uomini». Deve poi notarsi, elemento forse ancor più rimarchevole, che B. palesemente si riferisce, come a scritto che correva sulla bocca di tutti, solamente ai Discorsi («de Republica scripsit»). Il Principe non era ancora al centro del panorama dottrinale e letterario del giurista angevino.

Proprio nel mutare di questo giudizio, con la celebre invettiva di B. contro M. contenuta nella dedicatoria della prima edizione francese della République (1576), indirizzata a Guy du Faur, signore di Pibrac, si è voluto vedere un trapasso verso l’antimachiavellismo di fine secolo, nato, cresciuto e «battezzato in terra di Francia, in odio a chi un giorno aveva detto che i Francesi non s’intendevano dello stato» (Ridolfi 1954, 19787, p. 393), facendo così della Francia un campione indicativo dell’effettivo potere innovatore insito nella problematica machiavelliana. Se a molti è parso inspiegabile il diverso atteggiamento assunto dal grande giurista francese nei confronti di M. nelle sue due opere più note, si potrà forse dire che l’atteggiamento «pacato ed imparziale» assunto da B. nella Methodus induca a pensare che all’epoca della sua stesura

egli non avesse ancora percepito la potenzialità di incidenza attiva dell’opera machiavelliana nella storia di Francia, tanto che di tale opera egli parla con la stessa obiettività e distacco con cui egli giudicava altri trattati di scienza politica (Battista 1972, p. 45).

Obiettività e imparzialità non sono forse i termini più appropriati sotto i quali disporre l’ambiguo giudizio sull’opera di M. dato da B. nella Methodus. Non si può fare a meno di riconoscere, tuttavia, che lo scarto tra gli stilemi di derivazione gioviana – M. stimato in nulla vel certe mediocri latinarum litterarum cognitione («punto o assai poco erudito nelle lettere latine») degli Elogia (1546) – e la condanna senza possibilità di remissione nella lettera al Pibrac – M. in voga «entre les couratiers des tyrans», tanto «atheiste» quanto «ignorant des bonnes lettres» (Les six livres de la République, 1583, f. ā3v) – sono di tanto momento da far pensare a una già compiuta usura, all’indomani della strage di san Bartolomeo, degli schemi con i quali l’opera di M. era stata accolta e naturalizzata in Francia grazie alle traduzioni di Guillaume Cappel (1553), di Gaspard d’Auvergne (1553) e di Jacques Gohory (1571), così come in virtù dell’uso che lo stesso Loys Le Roy ne aveva fatto nei Politiques d’Aristote (1568), offrendo una lettura di M. in chiave aristotelizzante (Quaglioni 1992).

Giova perciò ricordare l’intera serie dei motivi presenti nella lunga e violenta invettiva della dedicatoria al Pibrac:

Ci sono poi di quelli che hanno scritto e parlato degli affari pubblici in maniera approssimativa e grossolana, senza conoscenza alcuna delle leggi né del diritto pubblico, lasciando anzi questo del tutto in secondo piano rispetto al privato, dal quale si può trarre maggior profitto; ora, io affermo che costoro hanno profanato i sacri misteri della filosofia politica, e ciò inoltre è stato causa di rovina per molti Stati illustri. Si veda per esempio il caso di un Machiavelli, scrittore che è stato in gran voga tra i parassiti dei tiranni, e che Paolo Giovio, pur annoverandolo fra gli uomini degni di nota, dichiara nientemeno che ateo e ignorante di belle lettere. Quanto all’ateismo è lui stesso a vantarsene nei suoi scritti; e quanto alla cultura, credo che tutti quelli che sono soliti dissertare dottamente intorno agli alti affari di Stato saranno facilmente concordi nel riconoscere ch’egli non ha mai realmente tentato il guado della scienza politica. Giacché essa non consiste in tutte quelle astuzie tiranniche da lui ricercate accuratamente in tutti gli angoli d’Italia e colate come dolce veleno nel suo Principe, ove innalza alle stelle e pone a paragone di tutti i re il più sleale figlio di ecclesiastico che mai vi sia stato. È poi da notare che costui, nonostante tutte le sue astuzie, fu alfine vergognosamente precipitato giù dall’alta e sdrucciolevole roccia della tirannide su cui si era annidato, ed esposto come un miserabile gaglioffo alla mercé e agli scherni dei nemici; e così è poi avvenuto anche ad altri prìncipi che hanno seguito le sue orme e messe in pratica le belle regole del Machiavelli.

Il Machiavelli ha posto a base dello Stato l’empietà e l’ingiustizia, biasimando la religione come contraria all’interesse dello Stato. E tuttavia vediamo come perfino Polibio, governatore e luogotenente di Scipione l’Africano, che fu considerato il più saggio politico dei suoi tempi, pur essendo completamente ateo, raccomandi sovra ogni altra cosa la religione come fondamento primo di ogni Stato [...]. E quanto alla giustizia, se il Machiavelli avesse dato appena di sfuggita uno sguardo a qualche buon autore, si sarebbe accorto che Platone intitola i suoi libri sullo Stato «libri sulla giustizia», proprio perché considerava questa uno dei più solidi pilastri di ogni Stato (I sei libri dello Stato, 1° vol., a cura di M. Isnardi Parente, 1964, pp. 136-37).

M. avrebbe pertanto commesso «un’incongruenza ben grave in materia politica, e gravida di pericolose conseguenze»: quella di aver tentato di fondare ciò che non può avere fondamento, cioè la «ingiustizia armata», insegnando ai principi «regole d’ingiustizia per affermare il loro potere in forma tirannica» (I sei libri dello Stato, 1° vol., cit., p. 138).

Poco meno violenta dell’invettiva del suo contemporaneo Innocent Gentillet, autore di un celebre Anti-Machiavel (Discours contre Nicolas Machiavel, 1576), la polemica di B. aveva già attratto l’interesse di Antonio Gramsci. In una delle sue Noterelle sulla politica del Machiavelli (1932-1934, in Id., Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, 3° vol., 1975, pp. 1573-74), il prigioniero di Turi, memore del saggio Del Principe di Niccolò Machiavelli di Federico Chabod (1925), richiama B. come esempio tipico degli «antimachiavellici», intesi come «politici che esprimono esigenze del tempo loro o di condizioni diverse da quelle che operavano sul Machiavelli». Di qui l’intuizione, secondo la quale in Francia «bisognava essere ‘polemicamente’ antimachiavellici, poiché colà il Machiavelli, esaltato come lo ‘scienziato della politica’ attuale in tutti i tempi, poteva servire a giustificare che si mantenesse perpetuamente il mondo ‘in culla’» (nel significato che a quell’espressione hegeliana aveva dato Bertrando Spaventa nei Princìpi di etica, 1904: se la servitù è la culla della libertà, la culla non è però la vita, e alcuni ci vorrebbero sempre in culla).

In tal senso il celebre saggio di antimachiavellismo di B. forma ancora un problema «già più volte trattato e studiato ma ancora da riprendersi e da esaminarsi più intrinsecamente» (Isnardi Parente 1964, p. 69), poiché è fuor di dubbio che B. deve tuttavia alla riflessione di M. alcuni dei suoi presupposti e dei suoi temi centrali. È stato osservato che B. evita di nominare M. benché ne faccia un uso frequente della sua opera, «parce qu’il juge qu’il a trop mauvaise réputation» (Weber 1985, p. 576). Dunque l’invettiva bodiniana mira forse più in là, verso chi, come il ligueur Cappel, «presentando il Principe come un massimario di regole pratiche, non soltanto ne immiseriva la portata ideale, ma contribuiva a creare quella leggenda che, più tardi, vedrà nel Machiavelli il responsabile di ogni eccesso della politica regia» (Battista 1960, p. 28).

Anche altri hanno notato che soprattutto nel libro IV della République di B. (il libro machiavelliano per eccellenza) si può scorgere un pensiero soggiacente che non è mai esplicitato, ma che rimanda a Machiavelli.

Ciò è vero soprattutto per il libro V della République, dove l’uso dei Discorsi in tema di diritto di guerra e dell’osservanza dei patti giurati è larghissimo, e dove è possibile riscontrare una costante lettura di Livio per il tramite di M. (cfr. I sei libri dello Stato, a cura di M. Isnardi Parente, D. Quaglioni, 3° vol., 1997; Quaglioni 1997). Ciò non è stato negato neppure da Margherita Isnardi Parente, che ha notato come il problema di un’influenza dei Discorsi su B., per certe nozioni di popolo, di tradizione politica ecc., sia ancora lungi dall’esser posto in termini sufficientemente chiari; al tempo stesso, seguendo una linea interpretativa già adottata nella sua introduzione all’edizione italiana del capolavoro di B., la studiosa confermava la sua propensione a non vedere una relazione diretta fra il M. del Principe e B., la teoria della sovranità non consistendo nel ricorso alla concezione machiavelliana del potere, ma esplicandosi attraverso una lunga e del tutto differente tradizione giuridica. Alla Isnardi Parente il problema risultava nelle sue linee essenziali fondato in maniera definitiva, «o per lo meno da segnare una linea maestra», da Chabod, con la contrapposizione della costruzione razionalistica di M. «al tradizionalismo bodiniano che affonda solidamente le sue radici in una situazione storica avente origine nel Medioevo».

In tal senso il mutuare da M. «spunti adattabili alla propria opera, inserendoli in un ambito di pensiero così diverso da quello originario dal quale sono avulsi da renderli anche, sostanzialmente, altri», è ben altra cosa dal supposto influsso immaginato in lontani studi come quello di Guillaume Cardascia (1943), incline a «iscrivere sotto l’insegna del machiavellismo spunti e motivi che in realtà sono rettamente comprensibili solo se ricondotti nell’ambito di una tradizione del tutto diversa» (Isnardi Parente 1964, pp. 69-70). In realtà il giudizio di B. su M., lungi dall’essere la pura e semplice riproduzione di modelli polemici di matrice italiana o francese, è parte integrante di un atteggiamento critico del giurista francese verso la cultura politica dell’Umanesimo italiano, osservata e giudicata in relazione alla situazione di generale conflittualità che caratterizza l’evoluzione storico-costituzionale delle città italiane e di Firenze in particolare.

Al di là dell’invettiva nella dedicatoria della République e della stessa denunzia degli errori di M. nella descrizione delle istituzioni politiche e della stessa natura dei francesi, presente già nella Methodus, M. può aver costituito per B. «un incentivo a trovare a sua volta un suo modo peculiare di elevare a sistema e a norma alcuni tratti della politica realistica del suo tempo, inserendoli in una vasta giustificazione universalistica» (Isnardi Parente 1964, p. 70).

È importante osservare che il giudizio sulla dottrina di M. si confonde, in B., con quello sull’esperienza storica della città-Stato fiorentina e in particolare con la storia dell’ascesa al potere dei Medici: l’esperienza storica e politica di Firenze, la sua storia costituzionale, ricostruita attraverso le narrazioni dei grandi umanisti fiorentini, tende a diventare, tanto nella Methodus quanto nella République, un modello assoluto, un paradigma dello Stato popolare in chiave fortemente negativa. È già nella Methodus che «con riferimento proprio al suo elogio del ‘populare imperium’, Machiavelli è ritenuto incoerente e poco perspicace» (Lazzarino Del Grosso 2004, p. 41): Ac nescio cur Maciavellus, homo Florentinus, populare imperium tantopere laudet, cum ex eius historia perspicuum sit, rerum omnium publicarum, nullam Florentia, quandiu fuit popularis, calamitosiorem extitisse («Non comprendo perché Machiavelli, che era fiorentino, elogi tanto lo Stato popolare, dal momento che è chiaro dalla sua storia che Firenze subì calamità peggiori di qualsiasi altro Stato nel periodo in cui ebbe un regime popolare», OEuvres philosophiques, cit., p. 215).

La storia dei mutamenti costituzionali di Firenze è infatti il primo esempio addotto da B. a sostegno del suo insegnamento, per il quale il cambiamento dello Stato equivale al cambiamento di regime. B. precisa che il cambiamento di leggi, consuetudini, religione, non è altro che semplice «alterazione», se non muta anche la forma di sovranità; da ciò consegue che può avvenire che uno Stato muti di regime pur restando intatte leggi e consuetudini, tutto quanto tranne la forma della sovranità. Il giurista francese afferma che ciò è avvenuto quando il regime di Firenze, che era popolare, fu mutato in monarchia.

In République IV 1, trattando delle conversiones Rerumpublicarum, B. pone l’esempio di Firenze nella trattazione di un tema cruciale, quello delle congiure e degli attentati alla vita dei tiranni. La congiura dei Pazzi e l’assassinio di Alessandro de’ Medici sono illustrati come paradigmatici, nella prospettiva della disposizione costituzionale delle democrazie (e della democrazia fiorentina in particolare) alle sedizioni e agli attentati alla vita del principe, quand’anche questi, com’è il caso di Cosimo, sia dotato di tutte le virtù morali e politiche. Scrive B.:

Il successore Cosimo, impadronitosi del potere per via di forza e violenza, benché avesse voce di essere uno dei principi più saggi del suo tempo e anche dei tempi precedenti, poiché puniva con grande rigore la bestemmia, la sodomia, l’assassinio, ed era retto e integro in fatto di giustizia [...], tuttavia ha corso cento volte anch’egli pericolo di vita, per via delle congiure fatte dai sudditi contro di lui, giacché essi non potevano tollerare un padrone per quanto giusto e virtuoso (I sei libri dello Stato, 2° vol., a cura di M. Isnardi Parente, D. Quaglioni, 1988, p. 361).

Il giudizio di B. sull’indole maligna dei fiorentini e sulla loro irriducibile ostilità verso ogni governo di tipo monarchico dipende indubbiamente dalla Historia sui temporis di Giovio, ma la lezione di M. vi ha un peso determinante. I fiorentini sono descritti da B. come soggetti «di umore così bizzarro» che è quasi impossibile mantenerli in un determinato regime senza che questo venga presto loro a noia:

Questa è una malattia che spesso si attacca ai regimi democratici, nei quali i sudditi hanno troppa vivacità di spirito, e ciascuno ritiene di essere degno di comandare; mentre là dove i sudditi sono più ottusi essi sopportano molto più facilmente la signoria altrui; e sono anche più capaci di prendere decisioni che non quelli che sottilizzano talmente sulle ragioni da farle andare in fumo, non volendo mai, per ambizione, cedere gli uni agli altri; cosa, questa, che fa andare gli Stati in rovina (I sei libri dello Stato, 2° vol., cit., p. 374).

Il ricordo della lezione machiavelliana è presente soprattutto là dove B. tratta delle conversiones dello Stato fiorentino. M. è espressamente richiamato in una nota marginale al passaggio del testo che più direttamente allude alle rivoluzioni che portarono al ritorno dei Medici al potere:

E così ricominciarono a passare di regime in regime, inventando sempre nomi nuovi per ufficiali e magistrati; e non cessavano di far cambiamenti, come un malato che si faccia portare da un letto all’altro credendo così di sfuggire a quel male che ha dentro le viscere. Infatti la malattia dell’ambizione e della sedizione non ha mai cessato di tormentarli fino a che non hanno trovato un medico che li ha guariti da tutti questi mali stabilendo una monarchia con tre fortezze nella città e solide guarnigioni; e in tale maniera è già riuscito da quarant’anni a tenerli a freno. Ecco in breve la storia dei cambiamenti avvenuti a Firenze, che non sarebbero affatto credibili, se i Fiorentini stessi non li avessero messi per iscritto (I sei libri dello Stato, 2° vol., cit., p. 375).

Insieme a M. sono citati sant’Antonino da Firenze e Poggio Bracciolini. La citazione di M. deve probabilmente essere riferita alle Istorie fiorentine, anche se si è tentati di mettere in rapporto la severa analisi bodiniana delle cose di Firenze con il Discursus Florentinarum rerum, il controverso scritto indirizzato tra il 1519 e il 1520 a Leone X: scritto di fondamentale importanza (Sasso 1993, 1° vol., p. 566, e 2° vol., pp. 200-04), che ripercorre la storia fiorentina di un secolo e mezzo e valuta le ragioni delle conversiones della Repubblica, in una maniera che B. sembra ricalcare.

B. si misura con M. e con la tradizione umanistica, nel tramonto della Florentina libertas, che il giurista francese giudica con la severità sprezzante del politico fautore della puissance absolue et perpetuelle.

B. intende mostrare i limiti storici e dottrinali di un’esperienza alla quale egli contrappone l’ordine superiore della monarchie royale. È in tal senso che l’opera di B. si presenta come il risultato di una continua meditazione di M. in quanto sintesi della tradizione politica italiana.

Bibliografia: OEuvres philosophiques, éd. P. Mesnard, Paris 1951; I sei libri dello Stato, a cura di M. Isnardi Parente, D. Quaglioni, 3 voll., Torino 1964-1997.

Per gli studi critici si vedano: F. Chabod, Del Principe di Niccolò Machiavelli, «Nuova rivista storica», 1925, 9, pp. 35-71, 189-216, 437-73 (poi in Id., Scritti su Machiavelli, Torino 1964, pp. 29-135); G. Cardascia, Machiavel et Jean Bodin, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 1943, 3, pp. 129-67; R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 19787; A.M. Battista, La penetrazione del Machiavelli in Francia nel secolo XVI, «Rassegna di politica e storia», 1960, pp. 18-32; M. Isnardi Parente, introduzione a J. Bodin, I sei libri dello Stato, 1° vol., Torino 1964, pp. 11-100; A.M. Battista, Direzioni di ricerca per una storia di Machiavelli in Francia, in Il pensiero politico di Machiavelli e la sua fortuna nel mondo, Atti del Convegno internazionale per il V centenario della nascita di Machiavelli, San Casciano-Firenze 28-29 settembre 1969, Firenze 1972, pp. 36-66; H. Weber, Jean Bodin et Machiavel, in Jean Bodin, Actes du Colloque interdisciplinaire, Angers 24-27 mai 1984, éd. G. Cesbron, Angers 1985, pp. 231-40, discussione pp. 574-76; D. Quaglioni, I limiti della sovranità. Il pensiero di Jean Bodin nella cultura politica e giuridica dell’età moderna, Padova 1992; G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, 2 voll., ed. accresciuta Bologna 1993 (1ª ed. 1958); D. Quaglioni, Per il testo critico della République, in Jean Bodin a 400 anni dalla morte. Bilancio storiografico e prospettive di ricerca, a cura di A.E. Baldini, «Il pensiero politico», 1997, 30, pp. 355-58; M.-D. Couzinet, Jean Bodin, Paris-Roma 2001; A.M. Lazzarino Del Grosso, Bodin e la critica della democrazia, Napoli 2004.

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