Jazz

Enciclopedia del Novecento (1978)

Jazz

DDiego Carpitella

di Diego Carpitella

Jazz

sommario: 1. Problemi di definizione. 2. I precedenti del blues. 3. Il blues. 4. Excursus storico. 5. Il modello e le repliche. □ Bibliografia.

1. Problemi di definizione

La definizione della musica jazz può essere così formulata: musica di tradizione e mentalità orale, sorta dal sincretismo tra modelli musicali africani ed euroamericani, configuratasi come tale nel processo di urbanizzazione avvenuto, nel sud degli Stati Uniti, agli inizi del Novecento. Ammesso che questa possa essere una definizione esaustiva, è d'obbligo sottolineare la complessità di questo avvenimento etnico-musicale di cui, ormai da decenni, si occupano musicisti e musicologi, letterati e sociologi, politici e storici: si può dire che in quest'ultimo mezzo secolo non vi sia stato fenomeno musicale che abbia destato un interesse così vasto e plurimo.

Se da questa definizione si passa a una prima analisi, bisognerà allora decidere a quali parametri interpretativi - etnologico o economico, musicale o sociologico, storico o politico - dare la precedenza. Privilegiare il parametro musicologico è certo arbitrario, anche se può sembrare un modo specifico di affrontare il jazz, dato che in definitiva si tratta di un fatto musicale. Dal punto di vista etnologico, cosiddetto razziale, la prima contrapposizione è quella di neri e bianchi. Infatti non si può non considerare che, a parte una presunta subalternità ‛naturale' dei neri, sfoderata dalla letteratura colonialistica, tutto il movimento schiavistico instaurato dai bianchi, dal 1619 in poi, ha avuto di mira l'Africa, intesa, appunto, come serbatoio di manodopera, di forza-lavoro; nel nostro caso particolare, l'Africa occidentale e centroccidentale. I mercanti di manodopera nera sbarcavano nel Dahomey, Costa d'Avorio, Guinea, ecc. e reclutavano uomini poveri, che dall'interno dei loro villaggi si erano diretti verso il mare, la costa, in cerca di fortuna e con la speranza di sfamarsi e anche con la curiosità di provare una vita diversa. Essi venivano poi ammassati nella stiva delle navi e dopo circa tre mesi di navigazione (un viaggio traumatico) sbarcavano nelle Americhe, ove venivano subito convogliati nelle farms dei bianchi per faticare e dare profitti ai padroni.

Ora, sia pure schematicamente, non si può non accennare a questo fenomeno di emigrazione umana e culturale quando si voglia, sia pur con la maggiore approssimazione, dare una definizione del jazz. Senza questi presupposti antropologici ed economici, il jazz non avrebbe avuto il terreno, il tessuto sociale adatto per manifestarsi. Infatti la musica degli schiavi neri, che è il precedente storico, ancestrale del jazz, non era che uno degli aspetti di un patrimonio culturale ‛sradicato' che quegli uomini si portavano dietro insieme a pratiche magiche, tecniche di lavoro, alimentazione, abbigliamento, ecc. Una musica che naturalmente era strettamente collegata alle altre norme di vita e che pertanto aveva funzioni, significati e valori sociali diversi da quella ‛bianca' della terra di immigrazione: i suoni e gli strumenti erano infatti i protagonisti delle tecniche magiche di rassicurazione esistenziale (danze e canti rituali); la musica aveva una funzione ‛pratica', come segnale e forma di comunicazione significativa, e una funzione euritmica ed eufonica per e durante i lavori; gli strumenti musicali venivano costruiti da sé, in rapporto alla cultura materiale; la creatività era un fatto collettivo, nel senso di una censura preventiva sociale, tipica delle culture di tradizione e mentalità orale. Delle dimensioni e funzioni sociali della musica non si può non tener conto nella storia del jazz e spesso esse affioreranno, in quanto uno degli aspetti tipici di questa musica afroamericana è appunto quello di essere costantemente collegata ai diversi momenti sociali, alle diverse situazioni esistenziali in cui emergevano le sue funzioni rassicuranti, contestative, sentimentali, psicologiche, ecc. La radice di questa chiave sociologica nell'interpretazione storica del jazz sta appunto nei suoi precedenti africani, si potrebbe dire più che per i tratti stilistici per le funzioni antropologiche. In altri termini, i neri sbarcati nelle Americhe si portavano dietro norme, simboli, modelli, comportamenti nel cui ambito la musica aveva un ruolo predominante, tipico di tutte le culture di tradizione e mentalità orale, al punto di essere la base, come notava il Mauss, della nascita dei miti e dei riti e quindi degli atteggiamenti mentali.

Non si può prescindere da queste riflessioni antropologiche e sociologiche che stanno a monte dei precedenti del jazz, non per un compiacimento arcaicizzante o primitivistico, ma perché se sono chiari la funzione, la norma e il valore sociale della musica nelle culture africane (o in altre cosiddette etnologiche o foldoriche) allora si potranno capire meglio gli stessi sincretismi stilistici, avvenuti a livelli musicali: la presenza degli shouts o degli hollers, per esempio, è incomprensibile se non si tiene conto della funzione euritmica ed eufonica della musica come sussidio materiale e psicologico del lavoro, e come segnale pratico di comunicazione; il fatto che questi shouts e questi hollers (insieme ai coon-songs ecc.) siano perdurati dopo lo sradicamento dal continente africano, non è soltanto frutto di uno spleen collettivo, ma è anche la continuità di un riflesso condizionato, nell'ambito di una condizione schiavistica, entro cui i neri replicavano i loro antichi modelli: una replica da contestualizzare sia nella fase precedente al blues che in quella successiva, propriamente detta del jazz. Infatti seguendo lo sviluppo storico di questa musica afroamericana ci si troverà spesso dinanzi a una sequela di revivals, che spesso non sono che repliche di un modello considerato originario o per lo meno il più funzionale alla definizione d'‛identità' dei neri del Nordamerica.

Va aggiunto che la contrapposizione neri-bianchi, nel delineare i precedenti storici del jazz, corrisponde anche alla precisazione di ordine antropologico-culturale del ‛negro come non americano' e perciò con una diversa concezione non soltanto della musica, come si è visto, ma anche del mondo delle cose. In tal senso si potrà meglio valutare che cosa si debba intendere per ‛sradicamento', ‛segregazione', ‛adattamento', ‛liberazione', ‛emancipazione', ‛contestazione', concetti questi che riaffiorano lungo tutta la storia del jazz, dalle origini fino ai giorni nostri, e che trovano una loro formalizzazione con i suoni: si potrebbe obiettare, non diversamente da altre culture musicali. Ma nel jazz questo nesso tra il concepire le cose e la formalizzazione musicale è molto spiccato, perché al sottofondo del fenomeno vi è un sostanzioso scontro e incontro di culture, dovuto, appunto, a un diverso modo di concepire la creatività, e quindi la musica.

Seguire nelle diverse pieghe queste concettualizzazioni che accompagnano la storia del jazz e vederne la formalizzazione sonora è senza dubbio un'esperienza notevole, e il grandissimo interesse verso questa musica è dipeso in gran parte dal fascino reale o presunto di questi nessi. Prendiamo ad esempio il concetto di sradicamento. Esso è strettamente connesso al momento reale della trasmigrazione schiavistica. Qual è una delle conseguenze più immediate a livello di creatività? Nelle culture originarie africane, come in tutte le culture orali, l'assenso collettivo e la socializzazione del momento creativo (dovuta peraltro alla comunicazione orale, che è condivisa oppure decade, non essendovi il fissaggio della scrittura) porta a una esaltazione della langue rispetto alla parole, tanto per applicare le formulazioni del Circolo di Praga (Bogatyrëv-Jakobson, ecc.) sulla creatività foldorica, mutuate da Saussure. Ora ciò significa che la struttura portante di una langue, vitale, variante e variabile, è possibile soltanto con un tessuto sociale omogeneo, continuo, per molti versi organico. Cioè quel tessuto che i neri schiavi avevano lasciato nei loro villaggi, prima di cadere in uno stato di segregazione, esistenziale e razziale, prima nelle farms e quindi nelle città e nelle metropoli degli Stati Uniti. Cioè lo sradicamento e la segregazione sono elementi corrosivi al fine della conservazione di un patrimonio, anche se si ritiene, ma non senza astrazioni, che il patrimonio culturale originario rafforzi nella coscienza la propria identità, quando ci si allontani dai luoghi di nascita. Dipende però da come ci si colloca e quale ruolo sociale si ha quando si emigra: e negli Stati Uniti altro fu il ruolo degli Irlandesi e ben altro quello dei Negri, dei Portoricani o degli Ebrei. Nel primo caso ci troviamo dinanzi a dei ‛blasoni' d'identità che rientrano più nell'araldica che nella realtà vissuta; nel secondo caso, invece, si hanno una serie di adattamenti e disadattamenti, che nei casi positivi portano alla nascita di una nuova musica com'è appunto il jazz, mentre in quelli negativi si ha un disfacimento o un'obsolescenza del patrimonio originario (il caso, per es., del folclore delle comunità italiane di New York o Chicago). L'adattamento del patrimonio africano originario è avvenuto in maniera sofferta e laboriosa per i neri degli Stati Uniti, sia prima che dopo la liberazione, l'emancipazione, la contestazione. Se questo processo di acculturazione e inculturazione ha portato al jazz, ciò è dovuto, drammaticamente, alla rigorosità puritana, protestante e manichea dei bianchi, e a una presenza numericamente forte dei negri. In altri termini il jazz nasce anche da questa contraddizione. Che le leggi dell'adattamento abbiano delle conseguenze immediate, sociologiche, nello stile, anzi negli stili del jazz, è mostrato chiaramente nella storia di questa musica. Ad esempio tutta la ‛messa a fuoco' con le forme musicali della Chiesa protestante, soprattutto battista ed evangelica: i gospels e gli spirituals sono appunto gli esiti musicali di questo adattamento. La ‛lettura' cantata dei salmi - formalizzata dalla struttura dei versetti - cerca di formalizzare, in modo ‛bianco', i timbri di voce, il ritmo, il tipo di emissione ‛neri', dando luogo, come alternativa all'omofona innodia protestante, a un'eterofonia, di tipo responsoriale, scandita dagli shouts e dall'off-beat del battito delle mani e dal suono strisciante dei piedi. Ma il capitolo più affascinante di questa messa a fuoco culturale è senza dubbio la formalizzazione del blues, le sue dodici battute (4 + 4 + 4) corrispondenti ai suoi tre versi (A-A-B), e tutto questo dopo aver fatto il ricalco delle chansons e dei songs (bianchi) di New Orleans e altre località.

Sempre in questo nesso tra concettualizzazione (o idea) e forma, è altrettanto plausibile il legame tra emancipazione e jazz-bands, cioè tra l'urbanesimo e gli strumenti a fiato del primo New Orleans. Anche qui, in una prospettiva di servizio pubblico bianco (il trasporto funebre) si innesta un break magico-rituale di origine ‛pagana': anzitutto una intonazione diversa degli strumenti bandistici bianchi e quindi una funzione diversa dei suoni, cioè marcia-danza (o processionale) al ritorno dal cimitero. Eppure è da questo tipo di emancipazione musicale che nasce il jazz propriamente detto. Lo stesso si può dire delle big bands della swing-era o del suono del be-bop o del free jazz, corrispondenti anche questi a concettualizzazioni, a idee: nel caso della swing-era, nella misura in cui lo swing non divenne musica ‛commerciale', l'allargamento dell'organico orchestrale o l'uso di giri armonici che ricordano l'impressionismo pittorico sono connessi all'emancipazione verso un American way of life; nel caso del be-bop, con l'adozione delle sue asimmetrie ritmiche, vi è un nuovo revival nativistico. In questa prospettiva va visto anche il revival di integralismo africano, col rifiuto di tutti gli adattamenti jazz, enunciato e perseguito, durante la contestazione degli anni 1968-1969, in particolare dal Black power.

Si può dire che tutta la storia del jazz, dalle cosiddette origini fino allo stato attuale, sia permeata da questo nesso tra concettualizzazione e stili, tanto da far sorgere il dubbio se e fino a che punto sia valida l'utilizzazione di dati extramusicali nella contestualizzazione del jazz. Dubbio subito fugato, date le connotazioni del tipo di musica, non ‛pura', ma collegata ad altre norme di vita e sociali. Non sarebbe altrimenti comprensibile la riappropriazione di alcuni strumenti bianchi, il piano o il clarinetto, se non nella prospettiva dei fenomeni tipici di ‛irruzione etnografica' che hanno caratterizzato le osmosi culturali. Allo stesso modo non potrebbe essere altrimenti comprensibile il fatto che nelle Antille la musica africana è rimasta più tale, non per un maggior nativismo, ma perché lo scontro con la cultura dei conquistadores cattolici, grazie a una sua maggiore tolleranza, non fu così frontale come quello con le culture quacchera puritana, e non dette perciò luogo a drammatici sincretismi. Va inoltre tenuta presente la quantità numerica dei neri, l'urbanesimo conseguente all'industrializzazione, l'essere entrati dentro l'organizzazione delle Chiese battiste ed evangeliche, come diaconi e preti. Ora tutti questi dati extramusicali hanno una corrispondenza musicale: come forma, come strumenti, come intonazione, come ritmica, ecc. Lo stesso circuito di un mass medium come il disco determina sia lo stile musicale che il modo di fare musica, mediati dal mezzo meccanico di riproduzione e condizionati tra l'altro (almeno agli inizi) dai 3 minuti e mezzo dei dischi a 78 giri.

Ma si direbbe che l'utilizzazione di dati extramusicali di contestualizzazione è quanto mai opportuna per comprendere alcune questioni di fondo della storia del jazz, alle quali spesso gli appassionati, gli amatori, i cultori non danno eccessivo rilievo; la storia del jazz viene così ridotta a una cronologia di complessi e di storie di vita, che per quanto estrosa possa essere come aneddotica, si rivela, dopo un certo tempo, solo una sterile routine da collezionista.

Infatti l'utilizzazione di dati extramusicali serve tra l'altro a porre un quesito che, specie nelle vicende del jazz di questi ultimi anni, è divenuto sempre più pressante: cioè in che misura si debba parlare di mito o di artigianato del jazz. È un quesito al quale si potrà tentare di dare una risposta dopo che avremo percorso il cammino del jazz, calibrandolo continuamente con un'analisi formale-musicale. Quest'analisi e questo cammino, nel cui ambito le repliche del modello iniziale riappaiono e si configurano o come svolte stilistiche, anzi sociostilistiche, o come revivals, rivelano una ripetizione, una iterazione, che in alcuni momenti sembrano il reificarsi musicale di un mito di identità, etnica e culturale, mentre in altri casi si ha il senso di un artigianato ‛illuminato', entro cui vi sono delle costanti di identità (per es. l'asimmetria ritmica del be-bop o l'attacco ritardato del beat che può essere l'analogo della metrica ‛libera' del blues o dell'off-beat di New Orleans o dello swing). Ma perché questo quesito appaia nella sua effettiva sostanza rogatoria sarà bene, prima, affrontare l'esame storico di alcune forme.

2. I precedenti del blues

Tra queste forme, quelle che più ricorrono nel periodo precedente il blues, sono i work-songs, cioè i canti durante il lavoro sui quali, con atteggiamento pietistico, si è fatta molta retorica. Non vi è alcun dubbio che la situazione di lavoro che il nero schiavo si trovava ad affrontare e che era analoga in tutte le fattorie del sud degli Stati Uniti, provocasse un analogo riflesso condizionato: cioè ‛suoni', eufonici ed euritmici, che si cantavano anche nell'Africa centroccidentale. Ma giustamente, come osserva L. Jones, il canto di lavoro assunse una fisionomia precisa solo nel Nordamerica e ciò per molte ragioni. In primo luogo, anche se il canto che accompagnava il lavoro era cosa comune nell'Africa occidentale, è chiaro che lavorare nel proprio campo e nel proprio paese è ben diverso da un lavoro forzato in terra straniera e, pur rimanendo lo sforzo fisico che ispirava questo tipo di canto, ciò che era radicalmente mutato erano proprio le condizioni di lavoro. La maggior parte degli africani erano agricoltori e senza dubbio i canti ispirati dal lavoro nei campi avrebbero potuto essere cantati nel nuovo come nel vecchio paese. Ma lo slancio lirico di un canto che dice: ‟Dopo la semina, se Dio manda la pioggia/la mia famiglia, i miei antenati, che siano ricchi quanto belli", non ha senso in bocca a uno schiavo. In secondo luogo, i padroni bianchi proibirono ogni riferimento agli dei e alle religioni africane non appena capirono di cosa si trattava, e ciò non solo per un'inevitabile avversione nei confronti di una religione ‛barbara', ma anche perché si accorsero presto che ogni richiamo religioso ricordava la primitiva libertà perduta e manteneva vivo il desiderio della fuga. Anche l'uso di tamburi africani fu proibito, quando i padroni compresero che il tamburo, mentre accompagnava le danze, poteva parlare anche di rivolta (v. Jones, 1963). Erano canti per voce sola o più voci, canti di lavoro africani che nel Nordamerica presero il nome di hollers (field cries), street cries (richiami di venditori ambulanti) e sounding calls.

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In essi vi sono già alcune connotazioni etniche che si ritroveranno nel blues e nella ballad, sulla cui forma molti worksongs, più tardi, si modellarono. Formalmente lo shout e lo holler è un monostico libero, e di eguale struttura era la forma musicale, con alcuni tratti stilistici particolari: cadenze gridate, frammenti melodici ‛a picco', cioè con improvvise cadute; emissione vibrata e ingolata della voce; andamento melodico su una, due o tre note; impianto scalare del tutto diverso dalle scale dei bianchi. Si aggiunga la continua ‛iterazione', con o senza microvarianti, e una forma domanda-risposta, di tipo responsoriale, cioè tra una e altre voci, e qualche volta anche di tipo antifonale. Un altro tratto stilistico tipico dei work-songs era l'attacco in anacrusi: cioè il suono del primo beat non è mai netto, ma è sempre preceduto da un'acciaccatura o da un'appoggiatura (nei termini del lessico musicale colto, naturalmente), cosa questa che portava a un leggero sfasamento del beat, che prende appunto il nome di off-beat, un elemento decisivo per comprendere lo specifico del jazz. Quindi una libertà ritmica dovuta alla libertà metrica della melodia di frase monostica e un attacco del suono preceduto da sottili anacrusi o da continui infissi di suoni intervallari molto piccoli. Anche il testo dei work-songs è molto interessante, nonostante che si sia fatta a questo proposito molta retorica, insistendo sul frequente nonsense. Invece la questione è molto più sottile, perché già nei testi verbali dei work-songs si rilevano dei tratti linguistici transculturali; si tratta cioè di una lingua, un lessico misto, metà di origine africana e metà europea (francese o inglese, per es.). Questa commistione è interessante perché alcuni sostengono che nella stabilizzazione della forma blues (A-A-B), e soprattutto nella iterazione del primo verso, si debba vedere una difficoltà di ‛trovare' le parole nella nuova lingua. Può essere che vi sia anche questo motivo, ma poiché il blues non è una poesia ma una riflessione cantata, non si può escludere che la ripetizione sia una conseguenza del ricercare lessicale e non della non padronanza della lingua. Si veda il testo verbale di un canto di questo tipo, metà africano e metà francese: Ouendé, ouendé, macaya! / Mo pas barrasse, macaya! / Ouendé ouendé, macaya! / Mo bois bon divin, macaya! / Mo mange bon poulet, macaya! Il testo, è riportato da un bianco e non si può escludere che nella trascrizione vi sia stato un intervento, in quanto la sregolatezza e la crapula sono in lingua negra, mentre le ‛buone maniere' del mangiare sono in lingua bianca. Ma a parte quest'alterazione filologica, i documenti di questo tipo sono interessanti perché rivelano uno stato transculturale del linguaggio.

Accanto a questa tradizione profana si va configurando, soprattutto dopo il 1818, cioè dopo la chiusura ufficiale della tratta degli schiavi, un nuovo sincretismo musicale afro-americano: gli spirituals, i gospels, e altri generi connessi. Anche qui si può comprendere la genesi di queste nuove forme musicali ricorrendo a elementi sociologici e antropologici. Si è già visto che lo scontro tra la tradizione magica pagana nera e la tradizione quacchera puritana bianca era stato molto forte e drammatico, a causa appunto della intolleranza della Chiesa protestante. In altre parti delle Americhe vicine a quella del Nord, ad esempio nelle Antille o nei Caraibi, la tolleranza del cattolicesimo aveva avuto due esiti: o i neri avevano conservato pressoché intatti i loro riti animistici (sempre nei limiti dello sradicamento) oppure si era avuta gradualmente la sostituzione dei loa africani (gli spiriti evocati) con simboli e immagini della costellazione cristiano-cattolica, di cui cerimonie rituali del tipo vudù o candomblé (in Brasile) sono appunto un'ampia testimonianza. Ora in questa soluzione cattolica la musica, e quindi la radice del rito, rimase sostanzialmente la stessa, secondo quanto ritengono alcuni etnologi (per es. Mauss); nel caso protestante l'etnolisi si ha anche nella musica, avendo come effetto il configurarsi di nuove forme musicali, nuovi sincretismi.

E così si assiste al passaggio dai loa dell'africano a The Holy Ghost, lo Spirito Santo, del nero americano. Ciò fu dovuto, appunto, ai movimenti missionari evangelici del XIX secolo, promossi soprattutto dai quaccheri i quali compresero, forse, che solo la conversione avrebbe potuto far accettare lo stato di schiavitù. Solo i battisti e i metodisti riuscirono però ad avere successo; i battisti perché cominciarono a nominare ministri e diaconi neri, contrariamente alla Chiesa episcopale e presbiteriana. Ma vi sono anche degli aspetti cerimoniali, magico-religiosi, che colpirono la fantasia dei nuovi credenti: ad esempio che la conversione avvenisse con l'immersione catartica nell'acqua, una modalità che ricordava le antiche cerimonie acquatiche della lontana Africa. E in quest'ambito sono interessanti tutte le trasposizioni di luoghi, immagini e simboli utilizzati in orizzonte cristiano. Una delle più frequenti, per analogia, è quella che trasforma la biblica ‛terra promessa' e il Giordano in ‛Africa promessa', trasferendo così lo stato di schiavitù dell'antico popolo ebraico alla propria condizione di schiavitù: immagini che perdurano nei blues e nel jazz vocale.

Vi è inoltre da osservare che le Chiese cristiane negre furono per molto tempo, nel ‛profondo Sud', l'unico punto d'incontro della vita sociale: le veglie e le preghiere collettive furono un modo di stare insieme e di acculturarsi anche musicalmente, dando luogo, in termini musicali, agli spirituals.

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Il concetto e il termine erano già noti, nel XVIII secolo, tra i coloni americani, soprattutto del New England; erano infatti così definiti i canti dei primi periodi della colonizzazione. Nei secoli precedenti vi erano stati canti religiosi negri dovuti a una rielaborazione in senso cristiano della musica rituale africana, che conservava però gli originali tratti africani: si trattò cioè di un adattamento del patrimonio musicale africano a concetti ‛bianchi'. Gli spirituals, invece, nascono in maniera opposta: i concetti dell'innodia evangelica vengono applicati alla concreta e reale vita quotidiana. Musicalmente si ha un sincretismo mediante l'assimilazione dell'innodia eurobianca da parte dei neri, che dà luogo a componimenti più chiaramente formalizzati e a scale armoniche semplicissime: con delle cadenze che anticipano il giro armonico del blues (comprensivo della ‛terza' e della ‛settima' blues). Entro queste cadenze la voce si articola sia come a solo che come forma responsoriale e overlapping. Vi è poi un altro tipo di spirituals, ed è quello in cui gli inni cristiani vengono interpretati direttamente da una o più voci, dando luogo a variazioni improvvisate, secondo una polivocalità eterofona. Naturalmente questo secondo tipo di spirituals è quello che più interessa per la storia del jazz. Infatti è in questa forma che si avevano i ring shouts e gli shuffle shouts: tra l'altro era un modo per far entrare la danza in una chiesa cristiana, ‛strisciando in circolo' (ring shouts). Il passo strisciato era un modo per non urtare le autorità cristiane e per rifare tecniche coreutiche africane originarie. Per un periodo di tempo ciò avvenne anche con l'accompagnamento di tamburi e tamburelli, ma anche questi a un certo punto furono espulsi dal tempio. Riffs, breaks, rags, blue notes, stop time erano altri tratti stilistici dello spiritual di questo tipo (di cui peraltro vi sono scarse incisioni: per lo più sono materiale di archivio), la cui importanza per la storia del jazz sta nelle forme melodiche chiuse, nell'adozione di scale melodiche secondo un determinato giro armonico (in parte quello del blues), nella adozione di forme polivocali eterofone e infine nell'accompagnamento con il battito delle mani e dei piedi, che delinea già la distinzione tra sezione ritmica e sezione melodica, cioè tra beat e off-beat. A proposito di quest'ultimo sarà opportuno esaminare questa tecnica esecutiva più da vicino, anche perché si tratta di uno dei tratti stilistici più tipici della musica jazz. La definizione non è facile. Secondo Longstreet e Dauer, ‟si tratta di un fatto musicale e psicologico che raggiunge il suo effetto soltanto quando è possibile trasferire con immediatezza tale fenomeno musicale in una sfera psicofisica; cosa questa che non ha niente in comune con la tradizionale sensibilità musicale dell'Occidente. Gli accenti melodici e metrici disposti ‛staticamente' uno accanto all'altro, vengono dissociati ‛dinamicamente' in maniera tale che ne scaturisca letteralmente uno stato di ‛estasi' (frenesia, esaltazione), che si manifesta come stato di tensione psichica in cerca di equilibrio nella dinamica del corpo [...]. Musicalmente va inteso come una sovrastruttura al metro di base (beat), e come base sensibile (focus) di un secondo piano ritmico di natura diversa, i cui accenti cadono ‛tra' quelli del metro di base corrispondente. L'off-beat è quindi sostanzialmente diverso dal sincopato, il quale altro non è che uno spostamento ritmico lineare. L'off-beat per essere efficace deve abbracciare più piani, attraverso i quali determinate emozioni interne si polarizzano in determinate parti del corpo (braccia, piedi, busto, ecc.) indirizzandosi nel frattempo verso una delle diverse sorgenti ritmiche (beat o off-beat)" (v. Longstreet e Dauer, 1957; tr. it., p. 368). Ora l'off-beat affiora in maniera spiccata non solo negli spirituals, nei gospels o nei sermons religiosi cultuali, ma anche nei work-songs e quindi in maniera incisiva nei blues. L'off-beat è una connotazione decisiva per comprendere la musica jazz: anzitutto perché è un tratto stilistico di una musica funzionale e non pura, in senso occidentale. Non a caso nella definizione di off-beat si ricorre a una terminologia psicologica e rituale (stato di estasi) e si connette il ritmo al linguaggio del corpo, all'espressione cinesica. Inoltre l'off-beat scopre il riduzionismo eurocentrico delle definizioni e delle trascrizioni musicali: infatti, sommariamente, l'off-beat è diventato ‛sincopato', cioè una grezza trasposizione lineare del beat più forte al beat più debole, mentre l'off-beat è qualcosa che sta tra il beat di base e il beat sovrapposto. Ora nelle repliche storiche e mitiche che si sono avute lungo la storia del jazz, l'off-beat è stato variamente definito, ed è proprio in base a queste diverse definizioni che si stabilisce se una musica possa o non possa essere considerata jazz. Ed è una tale connotazione di diversità dalla musica colta euroccidentale che diventa una discriminante musicale, in quanto vi sono bravi musicisti eurocolti che non hanno il senso dell'off-beat (o anche si dice mancanza di swing) e pertanto non sanno eseguire la musica jazz. E direi che l'off-beat è uno degli aspetti che più hanno alimentato il mito del jazz tra i bianchi.

Oltre agli spirituals, fanno parte del repertorio religioso afrocristiano i gospels, i jubilees e i sermons (v. Courlander, 1963). Il gospel, a una o più voci, utilizza ampiamente la forma domanda-risposta, dando luogo a una polivocalità eterofona (anche qui overlapping). Ma l'aspetto più interessante dei gospels è la tecnica del lining out, introdotta nei secc. XVI e XVII dai colonizzatori dell'occidente europeo. Il ministro officiante espone il testo biblico, riga per riga

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(lining), e i fedeli rispondono ripetendo le singole righe, con abbellimenti, dando così luogo a un unisono sociale eterofono. Analoghi sono i jubilees e i sermons. I jubilees, diversamente dagli autentici spirituali che sono improvvisati, si basano su un inno religioso: ciascuna strofa dell'inno subisce, nel corso delle ripetizioni, continue variazioni, generando una polivocalità spontanea, eterofona e responsoriale. Anche nei jubilees vi sono momenti ‛estatici', dovuti al fraseggio-beat, al battito delle mani e dei piedi, ad alcuni effetti vocali. Quanto al sermon, è la lettura ritmata e intonata del sermone biblico da parte del predicatore battista o metodista; una lettura drammatizzata basata dapprima sull'accentuazione del testo e recitata secondo alcuni principi espressionistici della Sprach-Melodie.

3. Il blues

È in questo clima che si arriva al blues, vale a dire un tipo di canto popolare profano, afroamericano del Nordamerica, che tanta importanza ha avuto nella storia del jazz. ‟In un certo senso, il blues deve le sue origini alla guerra civile: l'emancipazione rese possibile agli schiavi un'esistenza più umana, inimmaginabile ai tempi della schiavitù. Naturalmente, se si prende a modello il tenore di vita dell'americano medio, l'esistenza del negro non usciva dallo squallore e dalla miseria. Ma egli capì per la prima volta che cosa significasse poter disporre di sé. Il tempo libero di cui potevano godere i negri, anche nella più desolata baracca dei campi del Mississippi, era una straordinaria novità; da questa nuova dimensione anche il blues doveva ricevere impulso, avviarsi verso nuove forme [...]. Nelle fattorie più piccole, con meno schiavi, le tradizioni africane erano scomparse più in fretta, e spesso si udiva, accanto agli shouts, un nuovo tipo di canto a otto e a sedici battute, il ballit, che imitava le canzoni dei padroni bianchi, ma probabilmente con parole che lo schiavo non osava pronunciare davanti a essi. Dopo l'emancipazione, nelle piccole fattorie e nei poderi a mezzadria, prese forma un tipo di canto o di shout non necessariamente legato al lavoro. Ciascuno aveva una voce e un modo di gridare particolari, la propria vita da cantare [...]. All'inizio il blues non aveva la forma ‛classica' di dodici battute divise in tre frasi sullo schema A-A-B. Per un certo periodo [...] canti analoghi al blues avevano utilizzato la struttura delle antiche ballate inglesi, e potevano essere di otto, dieci e sedici battute. Lo shout, i canti africani a domanda e risposta e lo spiritual sono le fonti del blues. Dallo shout deriva la struttura a tre versi: i primi due venivano ripetuti, probabilmente per dare tempo di inventare il terzo, oppure, caratteristica degli shouts e degli hollers, un unico verso veniva ripetuto più e più volte, o perché piaceva particolarmente al cantante, o perché questi, molto più semplicemente, non riusciva a trovarne un altro. Anche nel jazz strumentale troviamo la frase ripetuta: il riff (v. Jones, 1963; tr. it., pp. 66-68).

Anche in questa fase vi è un profondo legame tra le vicende sociali e la connotazione stilistica: l'importanza del blues è nell'essere un simbolo, un segno, specifico del negro americano nella fase della liberazione, in un contesto nel quale gli africanismi più espliciti e cerimoniali andavano scomparendo (anche perché non sostenuti da un tessuto sociale ampio, quale il piccolo nucleo familiare a mezzadria); l'essenza dell'antico nativismo tuttavia sopravviveva e, anche se subiva un'ulteriore metamorfosi, manteneva, nel profondo, dei tratti specifici. Dal punto di vista musicale e verbale è interessante questo stabilizzarsi della forma blues su tre segmenti A-A-B, dopo avere oscillato tra le otto, le dieci e, addirittura, le sedici battute: è quasi una messa a fuoco della propria identità musicale.

La formula del blues musicalmente si presenta così:

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vale a dire una canzone generalmente di 12 battute, divisa in tre frasi ciascuna di 4 battute (4 + 4 + 4). La successione delle frasi è secondo lo schema A-A-B. La prima frase è alla tonica con una cadenza orientata alla settima di dominante (1(7)) che introduce alla sottodominante (IV) della seconda frase, la cui cadenza alla tonica prepara alla settima di dominante (V (7)) per poi concludere alla tonica. Questo giro armonico si chiama formula-blues:

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Per molto tempo si è data molta importanza a questa formula-blues armonica, ritenendo, tra l'altro, che questa fosse la caratteristica propria del blues. Successivamente si è invece potuto stabilire che questo giro armonico non è poi così importante. Anzitutto perché queste formule armoniche esistevano già in altre forme precedenti della musica afroamericana (tipo spirituals o gospels); e poi perché gli esempi più antichi di blues non presentano questi giri armonici, mentre invece evidenziano un altro tratto particolare di questo tipo di canto, ritenuto per molto tempo secondario: la struttura domanda-risposta della melodia, intesa come una contrazione monodica di un modello originariamente responsoriale (domanda solo; risposta = coro). Cosicché nel blues a 12 battute, secondo lo schema A-A-B, le domande sono A-A, mentre la risposta è B. Nel caso di blues a otto battute, secondo lo schema A-B, è evidente che A domanda e B = risposta. In questa prospettiva l'interpretazione del secondo A come incerto ricercare lessicale appare più debole e appare invece come un'iterazione-enfasi rogatoria. Infatti negli esempi più antichi la seconda domanda (cioè la seconda A) è alla tonica, come la prima, rilevando così il carattere di ripetizione. Tuttavia lo sviluppo del blues dimostra in che modo la sottodominante sia stata introdotta al posto della tonica; all'origine c'è l'‛enfasi'. Quanto alla risposta, nel blues essa è alla dominante: fatto questo di estremo rilievo storico e stilistico, perché il ciclo della quinta (la ‛dominante') rappresenta un'uscita dal folclore originario africano. La struttura per ‛cadenze' del blues è un avvenimento stilistico di rilievo nella storia della musica afroamericana: infatti i punti di riferimento delle cadenze danno la possibilità d'inventare o, come si dice, di improvvisare, senza ricorrere automaticamente alla iterazione-variante. Prima di approdare a questa forma vi era stato un tipo di blues cosiddetto ‛arcaico' (o anche country blues, di campagna, contadino), che storicamente risalirebbe ai primi decenni del secolo scorso. Voce sola, senza accompagnamento, successione lineare domanda-risposta, nell'ambito della pentatonia, con toni intermedi di passaggio, vaghi, strascicati, d'intonazione neutra. L'andamento melodico era prevalentemente discendente e la lunghezza delle frasi irregolare. Attraverso uno stile parlato (analogo a quello dei sermons) i neri riescono a inserire nelle frasi musicali testi sproporzionatamente lunghi, cosicché si ha un sopravanzo del parlato sul cantato. Un passo più avanti di questa forma country è la risposta ‛alla sottodominante', mentre le altre caratteristiche rimangono invariate. L'accompagnamento strumentale porterà a un radicale mutamento; banjo, chitarra, kazoo (canna di bambù chiusa da una parte con una membrana, mentre dall'altra si canta e si soffia), armonica.

Parlando del blues non si può fare a meno di parlare della tonalità blues, alla quale è stato dato grande rilievo e che è stata interpretata come una concettualizzazione del ‛diverso' musicale. Si tratta di una scala di otto suoni (cioè di ottava) in cui il terzo grado e il settimo appaiono come degli intervalli diminuiti, cioè al di sotto del semitono: in altri termini un quarto di tono. Ora, la teorizzazione della scala-blues è una tipica concettualizzazione etnocentrica: infatti il carattere diminuito o neutro al terzo o al settimo intervallo è anomalo se si considera la scala temperata colta europea. Se invece si usa un altro criterio scalare, e quello africano è diverso, allora la terza o settima blues non appariranno più come anomale, ma rientrano nella logica dell'insieme scalare. Secondo questa elementare osservazione etnomusicologica le note blues non sono più strane. Ma probabilmente l'importanza che è stata attribuita alla scala-blues è dovuta al fatto che i musicisti neri volevano ottenerla da strumenti europei, e per ricavare il suono (di quarto di tono) dovevano ricorrere a espedienti vari. Non è un caso che sia stata la scala-blues al pianoforte quella che più ha colpito, in quanto gli esecutori nelle barrel houses di New Orleans ‛pestavano' insieme il terzo e il secondo grado, cioè creavano un urto di seconda per ottenere dalla sommatoria un infisso di un quarto di tono. La prova che la denominazione di note neutre nell'ambito della scala di ottava eurocolta sia del tutto etnocentrica è data, tra l'altro, dal fatto che questa tonalità cosiddetta blues si trova anche negli shouted blues, cioè una trasposizione nel canto blues dello stile shout dei neri. Ma dato il carattere conciso degli shouts, l'ambito tonale in cui appare l'intervallo neutro non è più l'ottava bensì un tetracordo, entro cui la voce oscilla tra la prima e la terza nota.

I più antichi blues erano per voce sola senza accompagnamento, e pertanto la dimensione melodica era prevalente. Poi interverrà l'elemento armonico non solo come caratterizzante della dialettica domanda-risposta, ma anche come rappresentazione dell'accompagnamento musicale affidato a uno o più strumenti, che hanno perlomeno tre funzioni: dare il beat; armonizzare le cadenze dei tre incisi (A-A-B); dialogare e commentare la voce del cantante. Si può dire che questi tre aspetti siano presenti lungo tutta la storia del jazz. Le combinazioni strumentali di accompagnamento possono essere molteplici: dagli strumenti originari africani - kazoo, tub, jug (giara dal collo stretto), washboard (tavola da lavare), raganelle, bull-fiddle (basso a una corda), scrapers (mandibola d'animale) ecc. - fino alla chitarra, il piano, l'armonica, ecc. Nell'accompagnamento strumentale la voce esegue solo la prima metà delle singole frasi (prima e seconda battuta, quando sono quattro), mentre lo strumento ne esegue la seconda metà, rispondendo e commentando. Da questa versione vocale-strumentale nascono poi le versioni blues guitar, barrel house piano, boogie-woogie ecc.

Ma veniamo al testo verbale del blues, che senza dubbio è stato il più ampiamente trattato nella letteratura. Infatti i testi musicali dei blues sono pochi e poco significativi, in quanto vi sono nei suoni della forma blues un'infinità di segni connotativi che è impossibile trasferire nel pentagramma e che pertanto rendono la trascrizione solo un pallido riflesso della realtà. I testi verbali dei blues, invece, hanno suscitato interesse a diversi livelli: letterario, sociologico, etnologico, ecc. Formalmente questo testo segue lo svolgersi delle frasi melodiche che coincidono con le frasi verbali. Oltre alla forma A-A-B, valida sia per il testo verbale che per quello musicale, vi possono essere anche blues a più parti: ma quella che rimane sempre chiara è la demarcazione tra domanda e risposta. Da un punto di vista letterario sono frequenti le parafrasi e le metafore, frequenti, d'altronde, nelle formule e nelle stereotipie delle culture orali, comprese quelle africane. Bisogna anzitutto precisare che ci sono diversi tipi di blues (da quello country a quello più commerciale), e poi il testo del blues va considerato e valutato come un testo orale. In tal senso esso è un insieme formulare e modulare, come tutta la poesia di tradizione orale. Ciò vuol dire che il blues ha delle immagini stereotipe, corrispondenti alla ricorrenza di motivi, entro le quali si inseriscono, secondo i casi e le circostanze, fatti di cronaca, di vita vissuta ecc. Non bisogna dimenticare una frase ricorrente tra i protagonisti del blues: ‟Mi sono svegliato con i blues", oppure ‟avere i blues" oppure ‟essere ossessionato dai blues", ecc. Ciò vuol dire che il blues è una categoria esistenziale che non può restringersi al testo verbale trascritto o letterario. I temi ricorrenti sono: la donna (con il conseguente amore/tradimento); il carcere (indice di uno stato di emarginazione, per cui naturalmente le carceri del Sud erano piene soprattutto di neri); l'eros, inteso non soltanto come rifugio compensatorio ma anche come contestazione del bianco, ritenuto inferiore nelle prestazioni amorose. Sarà opportuno fare qualche esempio di queste tematiche.

See, see, rider, see what you done done, / Lord, see, see, rider, see what you done done, / See, see, rider, see what you done done, / Hey, hey, hey, hey, // You made me love you, now your man done come, / Lord, made me love you, now your man done come, / Made me love you, now your man done come, / Hey, hey, hey, hey, // I was looking right out-a, when the sun went down, / Lord, looking right out-a, when the sun went down, / Looking right out-a, when the sun went down. / Hey, hey, hey, hey. // She was standing in the kitchen in her morning gown, / Stinding in the kitchen in her morning gown, / Standing in the kitchen in her morning gown, / Hey, hey, hey, hey. // Let me be your typewright till your man done come, / Baby, be your typewright till your man done come, / Be your typewright till your man done come, / Hey, hey, hey, hey.

I stayed in jail and worked for thirty long days, / I stayed in jail and worked for thirty long days, / And that woman said she loved me, I could not see her face. // I looked out the window, saw the long chain man, / I looked out the window, saw the long chain man, / Oh, he's coming to call us, boys, name by name. // He's gon' take me from here to Nashville, Tennessee, / He's gon' take me from here to Nashville, Tennessee, / He's gon' take me right back, boys, where I used to be. // I got a letter from home, reckon how it read? / I got a letter from home, reckon how it read? / It read ‛Son, come home to your mama, she's sick and nearly dead'. / I sat down and cried and I screamed and squalled, / I sat down and cried and I screamed and squalled / Said I cannot come home, mama, I'm behind these walls. // Every morning 'bout four or it might be half past, / Every morning 'bout four or it might be half past, / You oughta see me down the foundry trying fo do my task. // Oh, the judge he sentenced me, boys, from five to ten, / 'Cause the judge he sentenced me, boys, from five to ten, / I get out, I'm going fo that woman, I'll be right back again.

E anche quando il blues riflette l'urbanesimo e l'industrializzazione, sempre sotto traccia risuonano gli stessi motivi, le stesse stereotipie che ognuno ritiene personali, come spesso capita nella poesia popolare:

Say, I'm goin' to get me a job now, workin' in Mr Ford's place / Say, I'm goin' to get me a job now, workin' in Mr Ford's place / Say, that woman tol' me last night, ‟Say, you cannot even stand / Mr Ford's ways".

Oppure questo testo che rivela quello stato di fuga, di ‛braccamento' psicologico che è sempre presente nel blues: Hangman's rope, honey, is sure something strong. / Oh, the hangman's rope is sure something strong. / They gonna hang me because I did something wrong. // I wanna tell you gallis, Lord, is a fearful sight. / I wanna tell you gallis, Lord, is a fearful sight. / Hang me in the morning and cut me down at night. // Oh, the mean ol' hangman, he's waiting to tighten up that noose. / Oh, the mean ol' hangman waiting to tighten up that noose, / Lord, I'm so scared I am trembling in my shoes. // Jurymen heard my case and they said my hands was red. / Jurymen heard my case and they said my hands was red. / And the judge he sentenced me they'd hang me till I'm dead // The crowd round the court-house and the time is growing fast. / Ah, the crowd round the court-house and the time is growing fast. / Well, a good-for-nothing killer is going to breathe his last. // Lord, I'm almost dying gasping for my breath. / I'm almost dying, gasping for my breath. / And a trilling woman waiting to celebrate my death.

Ricorre nel blues un cupio dissolvi che sovente si trova nell'ambito della conflittualità popolare, in una prospettiva magica di deliri, di allucinazioni, di visioni perseguitanti. E il blues è uno di questi fantasmi:

And the blues grabbed mama' child, tore it all upside down. / Blues grabbed mama' child, and they tore me all upside down. // Travel on, poor boy, just can't turn you 'round.

4. Excursus storico

Non che i precedenti del blues e lo stesso blues non siano periodizzabili, ma in effetti la loro definizione è più interessante come descrizione strutturale che come successione cronologica, ai fini della definizione di un ‛modello', quello del jazz. Ciò non vuol dire che la periodizzazione sia automaticamente una rassegna delle repliche stilistiche di questo modello, vuol dire soltanto che da un punto di vista pratico è opportuno seguire con più ordine questo succedersi delle repliche, al fine di poterlo poi valutare criticamente, senza l'automatismo di una semplice rassegna di dati.

Abbiamo visto come il blues rifletta non solo una situazione storica ma una condizione esistenziale e psicologica dei neri, con le sue formule, le sue immagini, le sue stereotipie, entro cui si stagliano dei motivi costanti (eros, donna, carcere) le cui radici, per quanto formali, non sono proprio di ordine estetico-letterario. Ora l'urbanesimo coincide con una coagulazione di tutti questi tratti afroamericani del Nord, con una loro particolare contestualizzazione cittadina, sociale e commerciale. Il momento dell'urbanesimo, infatti, coincide con un uso ‛pubblico' della musica dei neri, dalle marching bands sino alle barrel house piano, dai locali del red light district di Storyville sino ai complessi barbershops. Consideriamo, appunto, questo momento di consumo del fare musica afroamericano: i barbershops erano appunto le botteghe dei barbieri dove la gente si ritrovava, perché vi si trovava, secondo una tradizione anche europea, una mescita di alcool, un piccolo banco di mercerie e di tabacchi e spesso nel retrobottega vi era una sala dove la gente, seduta o in piedi, chiacchierava, si faceva fare la barba, fumava, cantava. E, generalmente, si cantava: uno faceva la ‛voce' mentre gli altri facevano i ‛suoni' (l'armonia). Nacquero così dei veri e propri complessi, che suonavano sia verticale (armonia) che parallelo (sovrapposizione lineare). Lo stile di questi complessi è alle origini della swing big band.

Quanto poi alle barrel house piano (bettole), da cui venne fuori il primo blues e jazz piano, esse cominciarono ad avere importanza nella storia del jazz verso la seconda metà del secolo scorso, perché vi si ritrovavano dei pianisti neri che facevano musica. Come dice il Ramsey (v. Ramsey e Smith, 1939) erano locali ‟da sbronza", lunghi, stretti, entro cui erano allineati da una parte le botti e dall'altra gli avventori, seduti dinanzi a boccali di birra e grandi brocche di terracotta. C'era buio di giorno e di notte, puzzo di alcool e di tabacco. ‟La maggior parte di queste taverne vendevano birra, ma alcune anche brandy, whisky, vini e liquori, e avevano i nomi più inverosimili e artificiosi. Naturalmente in questo clima si poteva tener testa a tutto quel fracasso solo suonando con grande violenza. La maggior parte dei clienti di questi locali erano neri o bianchi di infimo rango; anche i pianisti erano per lo più neri, veri pionieri dello stile pianistico nero, il cui repertorio comprendeva molti blues, rags, stomps e altre danze popolari afroamericane" (v. Longstreet e Dauer, 1957; tr. it., p. 37). Al piano si univano spesso il canto e altri strumenti (chitarra, mandolino, contrabbasso a plettro, batteria; strumenti popolari come kazoo, jug, pettine e armonica a bocca). Spesso si mette sulle corde del piano un foglio di carta per ottenere una sonorità ‛africaneggiante' considerando che il piano-barrel house è soprattutto uno stile perrcussivo, con un attacco robusto. Non si fa uso del pedale, vi è un'accentuazione uniforme dei 4 beat della mano sinistra (1° e 3° all'ottava bassa, 2° e 4° con accordo ribattuto); quanto alla mano destra esegue frasi staccate, con trilli, tremolii, note ribattute. L'off-beat è molto accentuato. Alla base della melodia vi è la melodia blues che si svolge ciclicamente per block-chords.

È in questo clima di consumo della musica afroamericana che si arriva a New Orleans, intesa più come simbolo che come entità topografica: infatti tutti i precedenti del jazz prendono forma in luoghi diversi, centri commerciali, piccole città, ecc., e tutti avrebbero ugualmente diritto a essere citati come culle del jazz. ‟Sebbene New Orleans non sia storicamente il ‛luogo di nascita del jazz', tuttavia molti elementi concorrono a indicarla come un buon punto di partenza per risalire alle origini del jazz. Inoltre si possono anche prendere in considerazione i vari effetti che suscitò fra i negri il diffondersi del jazz in questa zona, e stabilire interessanti analogie" (v. Jones, 1963; tr. it., pp. 75-76).

Per poter comprendere la collocazione delle marching (o brass) bands di New Orleans, che è d'obbligo citare quando si parla del primo periodo del jazz, è opportuno ricordare un brano, anch'esso divenuto classico, di quanto scrive Marshall Stearns (The story of jazz), riferendo la parole di un visitatore che era stato a Congo Square (New Orleans) nel 1819: ‟La musica era prodotta da due tamburi e da uno strumento a corda. Un vecchio sedeva a cavalcioni di un tamburo cilindrico di circa un piede di diametro, che batteva a velocità incredibile con il palmo della mano e la punta delle dita. L'altro tamburo era un oggetto aperto di sopra, tenuto fra le ginocchia e percosso allo stesso modo [...]. Lo strumento più curioso, comunque, era quello a corda, senza dubbio importato dall'Africa. Da sopra il manico emergeva la rozza figura di un uomo seduto, dietro di lui c'erano due pioli, ai quali erano fissate le corde. La cassa dello strumento era costituita da una zucca [...]. Un altro strumento, che dal colore del legno sembrava nuovo, consisteva in un pezzo tagliato come una sorta di mazza da cricket, con una lunga e profonda mortasa nel centro, su cui si batteva vigorosamente da un lato con un corto bastone. Della stessa orchestra faceva parte anche un tamburo quadrato che sembrava uno sgabello [...]; c'era anche una zucca, con un foro dall'orlo guarnito di chiodi d'ottone, su cui batteva una donna con due bastoncini" (v. Stearns, 1956; tr. it., p. 43).

È attraverso questa tradizione che i negri di New Orleans, dopo i più liberi creoli, approdarono alle brass bands. Ve ne erano due tipi ben distinti: quelle creole ben addestrate, e quelle imberbi, elementari della Uptown, abitata dai ‛negri più neri' di New Orleans.

‟Un esempio di come i negri riuscirono a utilizzare i ritmi della musica europea, fondendoli con quelli dell'Africa occidentale, ci è dato dai cortei funebri: la marcia verso il cimitero aveva una cadenza lenta, da canto funebre in 4/4. Di solito si suonava uno spiritual, che diventava, però, una sorta di marcia napoleonica, rozza e melanconica. La banda era seguita dal corteo dei piangenti: parenti, amici, membri della confraternita o della società segreta alla quale apparteneva il morto. (La notte precedente la sepoltura - o tutte le notti che intercorrevano fra la morte e la sepoltura - parenti e amici si radunavano nella casa del morto per piangerlo, gemendo o baciando il suo corpo. Poi di solito queste veglie si trasformavano in rinfreschi). Dopo la sepoltura, a una certa distanza dal cimitero, la banda rompeva in un ritmo veloce, più o meno il tempo di 2/4 della quadriglia. Didn't he ramble? e When the saints go marchin' in erano due fra i motivi più frequenti, entrambi trasformazioni di canti religiosi. In questa musica da marcia il blues si fece sentire soprattutto nelle brass bands ‛più nere', quelle della Uptown [...]. Dal tempo in cui i primi gruppi strumentali orientati verso il blues, cioè le bande jazz o dirty (sporche), incominciarono a diffondersi, la strumentazione risultò una specie di pastiche fra bande di ottoni e i complessi di quadriglia. Nel 1897, il gruppo di Buddy Bolden era composto da cornetta, trombone, clarinetto (i primi strumenti a fiato che i negri incominciarono a suonare con una certa frequenza), violino, chitarra, contrabbasso (già un'innovazione nei confronti della tuba, il primo strumento ‛a tempo' di queste bande), e i tamburi" (v. Jones, 1963; tr. it., pp. 78-80).

È questo il periodo in cui i musicisti neri delle brass bands cominciarono a suonare la loro musica ‛sporca' (dirty) in saloni e sale da ballo, in feste e ritrovi, cioè in tutti quei posti dove avevano suonato le marching bands di tipo europeo. Ma era un diverso modo di suonare: non più il 4/4 di marcia ma un tempo rag di 2/4; i timbri e i suoni erano diversi; gli strumenti a fiato - gli stessi introdotti dal gruppo di Buddy Bolden - erano trattati in modo più vocale. ‟Anche se i primi musicisti negri che si servirono di strumenti europei dovettero imparare a usarli sul modello delle marce europee, il timbro e lo spirito del blues passarono incontaminati nel jazz. [...] La purezza di tono che i trombettisti europei andavano cercando era aborrita dai trombettisti negri, alla ricerca, invece, di un suono più espressivo e più vicino alla voce umana; anche il suono degli ottoni che entrò nei blues ormai non ricordava più la sua origine europea. Il suono aspro e crudo, che il negro traeva da questi strumenti, era un suono che egli aveva coltivato per duecento anni, era un suono americano, cresciuto e nutrito di cultura afroamericana" (ibid., p. 83).

È così che dall'adattamento si passa all'assimilazione o, come si dice, alla riappropriazione, momento che per molti coincide con l'inizio della storia del jazz, a cui vengono date diverse denominazioni a seconda dei vari periodi, mentre tutto quello che è precedente al 1900 viene considerato come un periodo ‛propedeutico'. Ma è un criterio, questo, estremamente discutibile, e anzi per molti versi non valido. Infatti il periodo precedente all'assimilazione o riappropriazione dei brass europei, è il periodo in cui sono già definiti tutti i tratti strutturali del ‛modello' jazz; dopo la riappropriazione dei brass, invece, ha inizio un periodo che arriva sino ai nostri giorni, di ‛replica' del modello: replica non vuol dire grigio automatismo, vuol dire re-interpretazione del modello di cui vengono conservati alcuni tratti strutturali profondi, venendo a mancare i quali viene a mancare la fisionomia stessa del jazz. Ma per fini pratici seguiremo la periodizzazione corrente, sulla quale sono d'accordo quasi tutti i compilatori di manuali, storie ed enciclopedie del jazz.

Il jazz cosiddetto primitivo o arcaico (1900-1917). - È difficile documentare questo periodo non esistendo alcuna registrazione anteriore al 1917 e, dato che il jazz appartiene alla musica di tradizione e mentalità orale, il disco non è solo un sussidio sonoro bensì una sostanziale (e insostituibile) documentazione. Tuttavia dalle testimonianze raccolte tra veterani e pionieri (registrazioni di ‛storie di vita' come quelle realizzate da John e Alan Lomax) il jazz di questo periodo si colloca nel quadro di New Orleans, dove Buddy Bolden dirigeva agli inizi del Novecento le prime orchestre jazz (il momento della riappropriazione dei brass delle bands bianche), a cui fecero seguito, non senza concorrenza, John Robichaux, Clarence Williams, Manuel Perez. È l'epoca dei ‛pionieri' Bunk Johnson, Freddy Keppard, Alphonse Picou, Richard M. Jones, Kid Ory

Il jazz antico o dello ‛stile evoluto New Orleans' (1917-1926). - Questo periodo è caratterizzato dall'esodo dei musicisti da New Orleans già iniziato intorno al 1910, quando i musicisti neri si allontanavano dalla città per formare complessi che suonavano, tra l'altro, sui battelli del Mississippi e che accompagnavano le compagnie di Minstrels (complessi musicali bianchi o misti, che imitavano i complessi neri), da cui derivò il movimento della Minstrelsy, cioè l'imitazione bianca delle forme musicali negre. La città alla foce del Mississippi fu definitivamente abbandonata perché, nel 1917, fu chiuso Storyville, ‛il quartiere dalle luci rosse' (red light district). In cerca di scritture, i musicisti si riunirono a Chicago dove s'imbatterono in altre forme di musica, popular barrel house, boogie-woogie primitivo, alcune forme vocali e strumentali del blues. Incomincia il periodo dei race-records, dischi così denominati in quanto questo nuovo mass medium, il disco a 78 giri della durata di 3 minuti, era prodotto da piccole case commerciali di neri a esclusivo consumo dei neri. I dischi riflettevano fedelmente lo stile dell'epoca, che perfeziona sempre più la costruzione polifonica, riallacciandosi, appunto, al periodo primitivo. È il regno del contrappunto a tre voci (cornetta, clarinetto, trombone), mentre la percussione è ormai affidata a un solo esecutore. Inoltre avviene un altro fatto di grande rilievo stilistico: mentre l'esecuzione collettiva arriva a punte di perfezione, si va sempre più evidenziando l'individualità dell'esecutore: Louis Armstrong riesce a mettere insieme, ai tempi della King Oliver's Creole Jazz Band, i capolavori degli Hot Five e degli Hot Seven che aprono, si può dire, l'era dei solisti. Alcuni di questi, come Jelly Roll Morton e i suoi Red Hot Peppers, Johnny Dodds e i New Orleans Wanderers, Clarence Williams e i Blue Five, Jimmie Noone e Sidney Bechet, continueranno la tradizione. Ma altri, come Fletcher Henderson, partono per New York con un nuovo progetto strumentale: la grande orchestra.

Il jazz cosiddetto pre-classico (1927-1934). - Questo periodo, durante il quale l'esecuzione collettiva, ereditata da New Orleans, fa posto a nuovi modelli individuali di espressione, rappresenterebbe un'ulteriore evoluzione. Dopo Armstrong appaiono altri grandi solisti, come Earl Hines al piano, e come Coleman Hawkins al sax-tenore. La grande orchestra soppianta poco a poco il piccolo complesso. Dopo Fletcher Henderson e Don Redman, Duke Ellington perfeziona gli arrangiamenti servendosi di solisti eccezionali: Bubber Miley e Cootie Williams (trombe); ‛Tricky Sam' Nanton (trombone); Barney Bigard (clarinetto); Johnny Hodges (sax-alto). New York diventa il centro del jazz, mentre a Chicago rimangono ancora Jelly Roll Morton e Jimmie Noone, con il loro ‛stile New Orleans', fino a quando appare, tra il 1925 e il 1930, la seconda scuola bianca dello ‛stile Chicago' (la prima era stata quella del cosiddetto Dixieland che si formò negli anni 1895-1917 intorno al tamburo di Jack Lame) di cui la tromba di Bix Beiderbecke e il sax-alto di Frank Teschemacher sono i rappresentanti più brillanti.

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Il jazz cosiddetto classico (1935-1945). - È il periodo che da alcuni è considerato la sintesi dell'esperienza jazz, è l'epoca dello swing o swing-era. Il personaggio emblematico di questo periodo è Count Basie, che si fece conoscere per la semplicità e il dinamismo delle sue formule orchestrali. Si giunge a una ritmica eccezionale che è arrivata a vette quasi insuperate (Harry Edison e Buck Clayton; Hershell Evans e Lester Young; Dickie Wells). Jimmie Lunceford, come Count Basie, punta allo swing d'insieme, ma la ricerca di atmosfera lo riallaccia a Duke Ellington, che dal 1940 produrrà una serie di lavori singolari.

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Di questo periodo sono i complessi di Chick Webb, che rivela Ella Fitzgerald, e, tra i bianchi, di Benny Goodman. Ma non bisogna credere che questo sia stato un periodo che ha dato vita solo a grandi orchestre: vi sono stati anche grandi solisti. Armstrong adotta uno stile più spoglio ed essenziale; si afferma Roy Eldrige, dopo essere stato con Fletcher Henderson. È il periodo della rivelazione del prestigioso pianoforte di Art Tatum e della fioritura di piccole formazioni come quella di Fats Waller col suo famoso sestetto, di Teddy Wilson, Lionel Hampton e di altri musicisti come Lester Young e Billie Holiday, Johnny Hodges, Benny Carter ecc.

Nello scorcio di questo periodo cosiddetto ‛classico', tra il 1938 e il 1940, vi è un ritorno ‛alle origini', provocato da alcune registrazioni realizzate negli Stati Uniti dal critico Hugues Panassié, con la partecipazione di musicisti caduti in oblio come Tommy Ladnier e Sidney Bechet, e di un ‛vecchio di Chicago', Milton ‛Mezz Mezzrow', fervente sostenitore del jazz nero tradizionale, che rinnovano un nuovo interesse per lo stile New Orleans. È un revival che farà riapparire negli studi di registrazione o nei concerti il pianista Jelly Roll Morton, il trombettista Bunk Johnson, il trombone Kid Ory, e altri veterani dei primi periodi del jazz. Lo stesso Armstrong, sotto l'influenza di questo movimento, si rinnoverà con la formula del piccolo complesso Hot Five. Ma insieme a questo revival il jazz classico continua una sua strada. Coleman Hawkins, rientrato negli Stati Uniti, nel 1940 realizza le sue migliori registrazioni; Count Basie ingaggia nuovi solisti di gran talento, come Don Byas e Illinois Jacquet; Lionel Hampton, dopo aver scoperto Nat ‛King' Cole, costituisce una big band.

Ma intorno al 1943 il jazz prende una nuova strada. Lester Young, che dal 1941 aveva lasciato la grande orchestra di Basie, costituirà una nuova orchestra, analoga a quella di Hawkins: sonorità détachée e arditezza delle combinazioni ritmiche e melodiche, alle quali si ispirano la famosa cantante Billie Holiday e gran parte dei sex-tenore, determinano un'evoluzione verso forme che sono considerate le più moderne.

L'altro avvenimento, che inizia sempre nel 1943, è quanto avviene al Minton's Playhouse di New York, un cabaret della 52nd Street. Un gruppo di giovani musicisti - Charlie Parker (sax-alto), Dizzy Gillespie (tromba), Charlie Christian (chitarra), Thelonious Monk (piano), Kenny Clarke (batteria) - elabora in interminabili jam-sessions un nuovo stile, quello che dal 1945 sarà denominato ‛jazz-moderno'. Nato sotto il segno del be-bop (o solo bop), questo stile viene considerato da alcuni come la logica conseguenza dello swing del periodo classico.

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Una delle sue caratteristiche è, oltre alla perfezione della tecnica esecutiva, un certo avvicinamento alle esperienze della musica contemporanea colta, che viene, si potrebbe dire, ‛swingizzata'; una libertà armonica inusitata, fuori dallo schema del basso classico che portò al progressive jazz. Accordi complessi, estensione dello spazio sonoro, marcata orchestrazione di tipo sinfonico, entro cui il solista passa in secondo piano; nell'improvvisazione il procedimento ornamentale cede il posto alla variazione armonica (cioè, è il giro armonico che genera l'improvvisazione). La melodia ha un andamento legato regolare, con linee molto ampie ai registri alti dello spazio tonale, interrotte da abbellimenti ornamentali sporadici e da bruschi salti, con frasi ‛a cascata' (a picco), che non tengono conto delle cesure formali o delle cadenze della melodia. L'edificio ritmico è irregolare, e vi partecipano sia il gruppo melodico che quello propriamente ritmico. I componenti essenziali del beat sono i tamburi: essi stessi diventano componenti del fenomeno melodico. Solo il basso conserva i suoi quattro battiti regolari e sottolinea i punti ‛fissi' della battuta e dell'armonia. Il piano, la batteria e la chitarra intervengono spesso con accenti forzati e figure ritmiche inaspettate. Si ha un continuo senso di instabilità e irregolarità. Altre caratteristiche di questo stile, considerato da molti come una vera e propria rivoluzione nel jazz, sono: il tipo di intonazione (non vibrata, a-dinamica, e orientata verso il cool), particolare utilizzazione dell'off-beat; carattere fortemente lineare della polifonia, soprattutto nei piccoli complessi, e qualche ‛africanismo', ad esempio l'integrazione di ritmi afrocubani e l'invenzione di un particolare tipo di canto detto bop scat, che ha un carattere descrittivo. I musicisti più rappresentativi di questo stile be-bop sono: Thelonious Monk, Kenny Clarke, Charlie Christian, Charlie Parker e Dizzy Gillespie, che utilizza la big band. Una citazione a parte, in questo ambito, merita Miles Davis, il quale partecipa al movimento bop, registrando con Charlie Parker alcuni brani divenuti ormai classici: il suo stile (chiamato cool jazz) è sinuoso e delicato, con una sonorità filtrata dalla quale sparisce ogni traccia di vibrato e pur conservando alcune acquisizioni bop le amalgama con le concezioni ritmiche di Lester Young. Le sue incisioni del 1948 esercitarono un grande influsso su tutti i giovani musicisti moderni, soprattutto quelli della scuola ‛bianca' della West Coast, determinando una nuova tendenza che, attraverso Gerry Mulligan, reclama una concezione tradizionale del jazz.

Ma sia il bop che il successivo cool sono soltanto alcuni aspetti del jazz contemporaneo; tutti gli altri stili continuano a coesistere. Armstrong, per esempio, ha sempre dominato la scena con il suo jazz tradizionale; Count Basie e Duke Ellington perpetuano lo stile del periodo cosiddetto ‛classico', entro cui si stagliano solisti eccezionali come Errol Garner. Nella stessa prospettiva si debbono considerare le grandi orchestre di Hampton, i nuovi Hot Five di Armstrong, il Modem Jazz Quartet fondato da John L. Lewis e Milt Jackson, i Jazz Messengers di Art Blakey e molti altri.

Ma questa storia non è completa se non si aggiungono alcune considerazioni sul cool, sul rock'n'roll e sul rhythm and blues. ‟Il cool jazz non può essere considerato un semplice fenomeno di reazione, al pari del jazz progressivo e del Dixieland. Se ampliamo la definizione di questa musica includendo anche quegli innovatori che di solito non sono considerati membri della cool school, il cool, per molti aspetti, ci appare come autentico jazz" (v. Jones, 1963; tr. it., p. 206). Le altre connotazioni stilistiche del cool sono: intonazione fredda, abbandono della base armonica a favore dell'orizzontalismo lineare; utilizzazione dell'intervallo di seconda come veicolo essenziale dell'andamento melodico; ritardo dell'attacco dopo il beat (ma non secondo il fraseggio off-beat) detto hard-bop; assenza di cesure formali e di cadenze come punto di riposo dell'improvvisazione; impiego di principi atonali, politonali, dodecafonici (Lennie Tristano, Lee Konitz, Warne Marsh, John La Porta).

In questo clima si prepara una nuova reazione stilistica, quella dello hard-bop, detto anche ‛East coast': si ebbero nuovamente dei ritmi aspri, grezzi, come quelli del jazz delle origini (arcaico, primitivo). Le melodie erano molto elementari, basate su un riff di base e non articolate, quasi in opposizione alle fumoserie del cool. Comunque nelle intenzioni, l'hard-bop voleva essere un ritorno alle origini, un ennesimo revival nella storia del jazz, alla ricerca costante delle proprie origini e della propria identità, quella nero-africana. Questo movimento della soul music, nato intorno al 1955, voleva essere dunque rigenerativo, ma gli esiti furono quelli di un ennesimo revival, privo di qualsiasi originalità.

In effetti una svolta in questa recente ricerca della propria identità, fatta continuamente di revivals, si ha con il movimento del rhythm and blues che ha dato forse, negli ultimi tempi, il maggiore impulso alla rinascita della musica popolare.

Il rock ‛n ‛roll è il risultato di questo movimento, ed è indicativo che le fonti di questo nuovo stile siano proprio il blues urbano degli anni quaranta e i suoi ritmi spezzati ed eccitanti; si restaura così l'egemonia del blues come forma basica della musica afroamericana, nel cui ambito riemerge l'improvvisazione, mentre viene meno la manipolazione dell'arrangiamento sofisticato e commerciale. I protagonisti di questo ennesimo revival nella storia del jazz sono Coleman, Coltrane, Rollins.

5. Il modello e le repliche

Percorrendo i periodi del ‛concepimento' e della nascita del jazz, si ripropone immancabilmente la questione del modello e delle sue repliche, questione che ha particolare rilievo per una musica che, secondo l'ottica etnomusicologica, appartiene alla tradizione e mentalità orale. Il modello e le repliche assumono perciò un significato particolare, in quanto ci troviamo nell'ambito della recensio aperta, nel senso che l'oralità lascia dei margini, se non nel modello, certamente nella replica. Il modello (che si potrebbe definire etnico-musicale) è quello che si può sintetizzare, astrattamente, come la sommatoria di tutti quei tratti stilistici che abbiamo considerato nei capp. 1, 2 e 3; un modello cioè che pur ritenendo nei suoi tratti stilistici una matrice africana, si è andato configurando come afroamericano per un insieme di tratti musicali ed extramusicali e non solo per pura evoluzione o formalizzazione stilistica. Infatti tutti i presupposti del jazz derivano da un tipo di musica etnica e appartengono a un tipo di folclorica entro cui il fare musica è legato ad altre norme sociali: ecco perché l'integrazione interpretativa con elementi extramusicali appare quanto mai lecita, ed ecco perché il jazz ha avuto tanta eco nella sociologia della musica. Ai concetti di schiavitù, sradicamento, adattamento, liberazione, appropriazione, emancipazione, ecc., corrispondono altrettanti momenti stilistico-formali e musicali del jazz.

Ma è anche vero che, trattandosi in definitiva di musica, il modello dev'essere valutato specificamente, se non solamente, in termini musicali, o se si vuole etnomusicologici. Ora il modello, anche come ipotesi astratta, contiene una serie di tratti inconfondibili quali: il timbro e il tipo di emissione della voce; l'intonazione secondo un sistema di suoni (scale) diverse dalle intonazioni europee colte; una ritmica che ubbidisce a leggi diverse dal beat, che non ha corrispondenze nella ritmica eurobianca colta proprio perché la sua ‛funzione' (quella estatico-rituale, per es.) è completamente diversa da quella della musica colta dei colonizzatori; una polivocalità che non ha nulla a che vedere né con l'unisono nè con la polifonia, anch'esse eurocolte (infatti si tratta di un unisono sociale eterofono o di una sovrapposizione lineare di più linee vocali); la presenza di microtoni, al di fuori dello spazio sonoro eurocolto occidentale.

Ora tutti questi tratti stilistici sono presenti sia quando i presupposti del jazz si vanno sedimentando e adattando a delle forme bianche, sia nelle fasi più avanzate dell'appropriazione, quali possono essere quelle dello spiritual e quindi del blues, e soprattutto quella dell'appropriazione dei brass di New Orleans o di altri strumenti altrettanto importanti, quali la chitarra o il piano. Con il consumo di musica afroamericana nei locali di divertimento, del tipo New Orleans, in un certo senso il fissaggio del modello è avvenuto. Tutte le fasi successive del jazz sono delle repliche, definizione che non ha niente di limitativo ed è quanto mai pertinente a una musica che è rimasta, effettivamente, di tradizione orale, nell'ambito della quale pertanto ogni esecuzione-replica del modello può avere una validità in sé. Solo questo giustifica il fatto che i manuali, le storie e le enciclopedie del jazz siano un continuo sgranellare di nomi, di formazioni, di luoghi di esecuzione, di manager, di solisti, ecc. Poiché se non fosse così ci troveremmo dinanzi un puro collezionismo, sostanzialmente sterile.

Se invece si applica in modo pertinente il concetto di modello-replica al jazz, allora si potranno valutare nella loro essenza i diversi periodi stilistici, i continui revivals della ‛vera' tradizione, le repliche esterne al contesto storico (per es. tutti i jazz nazionali e continentali sparsi per il mondo). In questa chiave si profila una situazione ambigua, che è quella del rapporto fra ‛mito' e ‛artigianato', che sono i due poli fra i quali si svolge l'esperienza jazz. Il mito dà la possibilità di continue repliche, sempre che sia salvo il nocciolo del mito stesso (cioè alcuni tratti del modello). Quanto all'artigianato il rischio è quello di essere un esercizio sempre più puntuale tecnicamente ma alquanto alienante.

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