ITALIA

Enciclopedia Italiana - II Appendice (1949)

ITALIA

Roberto Almagià
Giovanni Tommasini
Lazzaro Dessy
Vincenzo Longo
Gino Ducci
Giuseppe Santoro
Roberto Tremelloni
Luigi Bernabò-Brea
Luigi Salvatorelli
Mario Torsiello
Aldo Garosci
Arnaldo Bocelli
Giovanni Becatti
Giulio Carlo Argan
Corrado Maltese
Emilio Lavagnino

(XIX, p. 693; App. I, p. 742).

Sommario. - Geografia: Confini (p. 72); Territorio e popolazione (p. 73); Agricoltura (p. 73); Industria (p. 74); Trasporti (p. 75). - Ordinamento: Ordinamento politico e amministrativo (p. 75); La nuova costituzione (p. 75); Emblema e insegna dello stato (p. 82); Forze armate (p. 82). - Economia e Finanze (p. 83). - Dominî coloniali (p. 87). - Preistoria (p. 87). - Storia (p. 91); Legislature del Parlamento (p. 106); Elenco dei ministeri (p. 106). - Operazioni belliche durante la seconda Guerra mondiale (p. 107). - L'Italia occupata (p. 114). - L'emigrazione politica italiana durante il fascismo (p. 114). - Letteratura (p. 116). - Archeologia (p. 118). - Arti figurative: Architettura moderna (p. 118); Pittura e scultura (p. 119); Danni di guerra ai monumenti e alle opere d'arte (p. 120). - Musica (p. 120).

Geografia.

Confini (XIX, p. 696). - In forza del trattato di pace (10 febbraio 1947) l'Italia ha dovuto cedere alla Francia alcune zone lungo le Alpi Occidentali, e cioè una piccola area presso il Colle del Piccolo S. Bernardo col celebre Ospizio, la regione circostante al passo del Moncenisio, la cosiddetta Valle Stretta che si apre sotto il M. Tabor ad ovest di Bardonecchia, i territorî di testata dei fiumi Tinea e Vesubia, noti col nome di "territorî di caccia" e quelli dell'alta e media val Roja (comuni di Briga, Tenda e parte di Olivetta S. Michele), in tutto circa 710 kmq. Più gravi sacrifizî ha dovuto fare l'Italia al confine orientale rinunziando a favore della Iugoslavia a tutta l'Istria, col Carso, a parte dell'alta e media valle dell'Isonzo e consentendo alla creazione del Territorio libero di Trieste. Il confine con la Iugoslavia risulta in tal modo quanto mai irregolare e irrazionale, con una serie di salienti soprattutto nella regione di Gorizia, dove il centro urbano in senso stretto è rimasto all'Italia, ma gli immediati sobborghi orientali sono passati in territorio iugoslavo. La perdita è di 7390 kmq. a favore della Iugoslavia e di 783 kmq. costituenti il Territorio libero di Trieste.

L'area della repubblica italiana entro i confini attuali è stata perciò calcolata in kmq. 301.020.

Territorio e popolazione (XIX, p. 740; App. I, p. 742). - L'Istituto centrale di statistica ha tenuto una stima demografica al 31 dicembre 1947, alla quale data la popolazione italiana, entro i nuovi confini, risultava di 46.821.970 ab. I dati statistici fondamentali sono riportati nel prospetto.

Circa il movimento della popolazione è da osservare che l'eccedenza dei nati sui morti - di 10,9‰ all'anno nella media 1926-30, ridotta a 9,4‰ nella media 1936-40 - è stata di 5,2‰ nel quinquennio bellico 1941-45 (con un minimo del 3,4‰ nel 1944), ma si è subito rialzata al 10,5‰ negli anni 1946-47.

Agricoltura (XIX, p. 747). - Sull'area totale della Repubblica (301.020 kmq.), soltanto 23.446 kmq. circa sono considerati improduttivi. Il rimanente si ripartisce come segue: seminativi, 129.541; prati e pascoli 54.044; colture legnose specializzate 23.290; boschi 55.032; incolto produttivo 15.667 kmq.

L'agricoltura occupa di fatto poco meno del 50% della popolazione attiva; più del 33% lavora nelle industrie (compresi i trasporti e le comunicazioni), poco meno del 12% nel commercio (comprese le banche, ecc.), il resto svolge attività e arti libere, è occupato nelle pubbliche amministrazioni, ecc.

L'economia agricola italiana ha notoriamente subìto gravi colpi in seguito all'ultimo conflitto mondiale; ma essa è in via di rapida ripresa come è dimostrato dalle due tabelle in fondo a questa pagina.

Si deve osservare che l'annata 1947 fu particolarmente sfavorevole per quasi tutte le coltivazioni; i dati che si posseggono per il 1948 indicano un ulteriore progresso per quasi tutti i prodotti.

Le colture legnose hanno subìto per la guerra assai minori falcidie; anche i temuti danni agli oliveti sono stati in realtà limitati; la produzione è anzi in aumento.

I danni, molto gravi in talune zone, al patrimonio zootecnico, vanno pure attenuandosi con rapidità maggiore di quanto forse fosse lecito prevedere. La seguente tabella mette a confronto i dati dei censimenti del bestiame 1930 (19 marzo) e 1941 (30 giugno) con quelli di una provvisoria, ma attendibile valutazione fatta nel 1947.

Per quanto riguarda la pesca, il censimento del 1937 dava un totale di 34.548 navi impiegate per una stazza complessiva di 104.561 t. e 79.574 addetti (di cui 339 tra piroscafi, motonavi e motovelieri per una stazza di 21.680 t. e 2176 addetti). Non si hanno ancora dati sulla consistenza del naviglio peschereccio attivo dopo la guerra. Si hanno invece alcuni dati sui prodotti della pesca nel 1947. Da essi si ricava che furono pescati circa 23.300 tonni per un peso complessivo di q. 21.776 (in confronto a q. 27.230 nel 1936) e 1.215.805 q. di altro pesce (tra cui oltre 503.000 rappresentato da alici, sarde e sgombri).

Industria. - Dal censimento industriale del 1937-39 risultavano 1.071.272 esercizî con 4.469.502 persone addette, tra imprenditori ed impiegati (27%) ed operai (73%). Tra le classi prevalenti, le industrie alimentari erano 299.719 (con 574.473 addetti), quelle dell'abbigliamento 169.098 (con 308.723 addetti), quelle del cuoio e delle pelli 124.183 (con 215.528 addetti), quelle del legno 123.663 (con 283.576 addetti), quelle meccaniche 104.430 (con 846.750 addetti), le edilizie 68.110 e le tessili 37.449. Ma tra i dati ora riferiti le cifre del personale impiegato sono poco significative, e in ogni caso si tratta di dati del tutto superati per effetto del conflitto mondiale. Esso ha colpito molto gravemente l'industria italiana, non solamente nell'entità della produzione, ma nelle stesse sue caratteristiche; ed è prematuro prevedere quali saranno i futuri orientamenti.

Per alcuni prodotti minerali la tabella alla pag. seg. mette a confronto i dati del 1940 con quelli del 1946 e 1947. Se ne ricava che maggiormente colpita è la produzione di minerali metalliferi, mentre per altri si può segnalare una ripresa; notevole è questa per i combustibili, e rilevante il movimento ascensionale della produzione di metano ed altri idrocarburi.

Per l'energia elettrica, la produzione, che era nel 1940 di circa 19,5 miliardi di kWh (di cui 17,9 di origine idroelettrica), è risultata di circa 17,5 nel 1946 (16,6 idroel.) ed è salita a oltre 20,5 nel 1947 (18,9 idroel.). L'incremento della produttività degl'impianti, in gran parte idroelettrici, dovrebbe raggiungere, in base al programma di nuove costruzioni predisposto fin dal 1946, circa 32 miliardi di kWh nel 1951. Nuovi grandi bacini idroelettrici sono in costruzione nell'Italia settentrionale e centrale.

Per quanto concerne le industrie in senso stretto, nel campo metallurgico si può segnalare una sensibile ripresa della fabbricazione dell'acciaio e prodotti similari, e delle ferroleghe, nel campo meccanico la vivace ripresa della fabbricazione di autoveicoli, di aeroplani, di materiale ferroviario, ecc. Sono in vigorosa ripresa anche molti rami di industrie tessili, per i quali mancano statistiche; invece le industrie chimiche non sono ancora uscite, in massima parte, dalla stasi postbellica (v. anche industria, in questa App.).

Trasporti. - Circa i trasporti, sono ben noti i gravissimi danni arrecati dalla guerra alla rete delle comunicazioni ferroviarie e alla relativa attrezzatura; ma lo sforzo di ricostruzione è stato veramente poderoso (v. ferrovia, in questa App.). La rete delle ferrovie statali, che nel 1942 assommava a 17.028 km. (dei quali 5174 elettrificati), era stata alla fine del 1947 ripristinata su 15.791 km. (dei quali 4727 elettrificati); ora sono superati i 16.000 km. Per le ferrovie e tramvie extraurbane esercite da società private, la ricostruzione supera ormai i quattro quinti delle linee. Alla temporanea interruzione di molti importanti servizî ferroviarî si provvide in un primo tempo con servizî automobilistici; ora questi, nonostante il ripristino delle ferrovie, sono in gran parte sopravvissuti (oltre 87.000 km. di servizî pubblici extraurbani alla fine del 1945, oltre 100.000 alla fine del 1947, in confronto a 73.000 nel 1941 e a 116.600 nel 1938), anzi tendono ad aumentare, perché permangono favorevoli possibilità di concorrenza alla ferrovia, specie su percorsi non molto lunghi e con traffico di mole modesta. Vedi anche marina mercantile, in questa App.

Roberto Almagià

Bibl.: A cura della Società Geografica Italiana ha continuato a pubblicarsi regolarmente la Bibliografia geografica della regione italiana, per opera di E. Migliorini, di cui fino ad ora è uscito il ventesimo fascicolo (1944). Opere geografiche sull'Italia: A. Mori, L'Italia, caratteri generali, Milano 1936 (con la collaborazione di F. Vercelli, M. Gortani, A. R. Toniolo, L. De Marchi, G. Negri, A. Ghigi, S. Sergi, C. Merlo, L. F. De Magistris, U. Giusti e F. Virgili). Da consultare molto utilmente l'Atlante fisico-economico d'Italia edito a cura del Touring Club Italiano sotto la direzione di G. Dainelli, Milano 1940, con note illustrative (a parte) di Aldo Sestini. Per il materiale statistico, l'Istituto Centrale di Statistica ha pubblicato annualmente, dal 1927 al 1942 compreso un Compendio statistico italiano. La pubblicazione, interrotta durante la guerra, è stata ripresa nel 1946. Lo stesso Istituto ha edito anche un Atlante dei Comuni del Regno d'Italia, Roma 1938, e un Sommario statistico delle Regioni d'Italia, Roma 1947.

Per la storia della cartografia: Catalogo delle carte esistenti nella Cartoteca dell'Istituto Geografico Militare di Firenze, Firenze 1932-34, specialmente la parte II (Italia e Colonie). Per i confini: M. Longhena, Il trattato di pace e i nostri confini, in L'Universo, 1948. Per le condizioni sismiche: la nuova edizione del volume di M. Baratta, I terremoti in Italia, Firenze 1936; A. Cavasino, I terremoti d'Italia nel trentacinquennio 1899-33, Roma 1935; P. Caloi, Attività sismica in Italia nel decennio 1930-39, Firenze 1942. Per il clima: F. Eredia, Distribuzione della temperatura in Italia, Roma 1942; E. Monterin, Il clima delle Alpi ha mutato in epoca storica?, Bologna 1937. Per l'idrografia: Ministero dei lavori pubblici, Dati caratteristici dei corsi d'acqua italiani, Roma 1934; id., Piene dei corsi d'acqua italiani, ivi 1939; id., Le acque sotterranee in Italia, ivi 1938. Per le coste e per le correnti litorali: A. D'Arrigo, Ricerche sul regime dei litorali nel Mediterraneo, Roma 1936; D. Albani, Indagine preventiva sulle recenti variazioni della linea di spiaggia delle coste italiane, ivi 1933, cui hanno fatto seguito varî studî monografici regionali sopra le coste liguri (a cura di M. Ascari, L. Baccino, G. Sanguineti, Roma 1937), sopra quelle toscane (a cura di D. Albani, A. Griselli, A. Mori, Roma 1940), quelle padane (M. Visentini e G. Borghi, Roma 1938), e quelle marchigiano-abruzzesi (M. Ortolani e U. Buli, Roma 1947). Per una suddivisione della penisola in regioni fisiche: A. Sestini, Delimitazioni delle grandi regioni orografico-morfologiche dell'Italia, in Riv. geografica ital., 1944, e B. Nice, Dati areometrici sulle grandi regioni geografico-morfologiche dell'Italia, ibid., 1944. Per la vegetazione: A. De Philippis, Classificazioni ed indici del clima in rapporto alla vegetazione forestale italiana, Bologna 1937; A. Giacobbe, Schema di una teoria ecologica per la classificazione della vegetazione italiana, ivi 1938.

Sopra l'insediamento rurale, e la casa in particolare, è in corso di pubblicazione una collezione di volumi a cura del Comitato nazionale per la geografia: ne sono usciti fino ad ora cinque (sulla casa rurale toscana, di R. Biasutti; su quella istriana di B. Nice; su quella friulana, di E. Scarin; su quella lucana, di L. Franciosa; e su quella delle Marche settentrionali di A. Mori). Un importante quadro dello sviluppo demografico economico e sociale della popolazione italiana negli ultimi cento anni è contenuto nel volume di U. Giusti, Caratteristiche ambientali italiane, agrarie, sociali e demografiche: 1815-1942, Roma 1943.

Per le condizioni economico-demografiche delle regioni montane l'Istituto nazionale di economia agraria e il Comitato nazionale per la geografia hanno curato la pubblicazione di studî monografici, Roma 1932-38, su Lo spopolamento montano in Italia. Ne sono usciti 7 volumi (I, Le Alpi Liguro-Piemontesi, 1932, in due fascicoli, con un supplemento per la provincia di Novara, 1934; II, Le Alpi Lombarde, 1935; III, Le Alpi Trentine, 1935, in due fascicoli; IV, Le Alpi Venete, 1938; V, Le Alpi Giulie, 1937; VI, L'Appennino emiliano-tosco-romagnolo, 1934; VII, L'Appennino abruzzese-laziale, 1937) e una Relazione generale, 1938.

Per le condizioni agricole: G. Marlini, Le regioni agrarie in Italia, Bologna 1948. Per i prodotti del suolo e l'allevamento: Annuario statistico dell'Agricoltura italiana, a cura dell'Istituto centrale di statistica, di cui sono usciti fino ad ora due volumi, uno per il triennio 1936-38, Roma 1940, e l'altro per il quadriennio 1939-42, Roma 1946. Lo stesso Istituto dopo aver ultimato la pubblicazione dei fascicoli (uno per provincia) coi risultati del catasto agrario del 1929, ne ha dato una Relazione generale (Roma 1939), ed ha intrapreso l'edizione di analoghi fascicoli provinciali coi risultati del catasto forestale (di cui si iniziarono, nel 1938, i rilevamenti). Di utile consultazione, anche A. Marescalchi e L. Visintin, Atlante agricolo dell'Italia, Novara 1935; L. Perdisa, La bietola da zucchero nell'economia italiana, Faenza 1937; L. Franciosa, L'olivo nell'economia italiana, Roma 1940; G. Proni, La canapicoltura italiana, Roma 1939. Per le condizioni economico-sociali dell'agricoltura: D. Gribaudi, Ambiente fisiogeografico ed ampiezza della proprietà terriera con particolare riguardo all'Italia, Torino 1939. L'Istituto nazionale di economia agraria ha pubblicato (Roma 1947-48, in 13 fascicoli) studî relativi a tutte le regioni, su La distribuzione della proprietà fondiaria in Italia.

Per le miniere: G. Corsani, La produzione e il commercio dei marmi italiani, Sancasciano 1933; G. Ginori Conti, Utilizzazione dei soffioni boraciferi, Firenze 1936; A. Aldrighetti, La produzione e il commercio dello zolfo greggio italiano, Milano 1941.

Per le industrie, sono in corso di stampa, a cura dell'Istituto centrale di statistica, i volumi relativi al Censimento industriale e commerciale 1937-39; ne sono usciti fino ad ora 7. Si veda anche l'opera, a cui hanno collaborato varî autori, edita a cura del Comitato nazionale per la geografia, La localizzazione delle industrie in Italia, Roma 1937. Per il loro sviluppo storico: R. Tremelloni, Storia dell'industria italiana contemporanea, Roma 1947. Per le ferrovie: B. Castiglioni, la rete ferroviaria italiana e il movimento dei viaggiatori, Padova 1936; A. Crispo, Le ferrovie italiane: storia politica ed economica, Milano 1940; e v. ferrovia, in questa App.

Ordinamento (XIX, p. 774).

Ordinamento politico e amministrativo. - Il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 ha dato all'Italia un regime repubblicano definitivamente codificato nella costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948 (v. appresso). Il referendum, su un complesso di 23.437.143 voti validi (93,9% dei votanti) dette 12.718.641 voti (54,3%) favorevoli al regime repubblicano: la percentuale fu del 64,8% nell'Italia settentrionale, 63,5% nella centrale, 32,6% nella meridionale e 36% nella insulare.

La costituzione sancisce la ripartizione del territorio della repubblica in regioni, provincie e comuni (art. 114); le regioni sono indicate nell'art. 131 e corrispondono a quelle elencate nel prospetto a p. 73; esse sono costituite in enti autonomi con proprî poteri e funzioni e possono emanare norme legislative, nei limiti dei principî fondamentali stabiliti dalle leggi dello stato, su una serie di materie specificate negli articoli 117-19 della costituzione. Alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige, al Friuli-Venezia Giulia e alla Valle d'Aosta sono attribuite forme e condizioni particolari di autonomia secondo statuti speciali adottati con leggi costituzionali (art. 116).

La nuova costituzione. - La costituzione della repubblica italiana è un atto fondamentale elaborato e votato da un'Assemblea costituente, liberamente eletta, a tal fine, dal popolo italiano, nello stesso momento in cui esso mutava, col referendum, le proprie forme istituzionali.

La costituzione, prevista ed auspicata dai due decr. legisl. luog. 25 giugno 1944, n. 151 e 16 marzo 1946, n. 98, preceduta dai complessi lavori del Ministero per la costituente, è stata predisposta dalla commissione per la costituzione, nominata il 19 luglio 1946 in seno alla costituente, formata da 75 deputati e presieduta dall'on. M. Ruini. Tale commissione, dopo 362 sedute plenarie e di sottocommissioni, sezioni o comitati, ha presentato il 31 gennaio 1947 all'Assemblea costituente il progetto, seguìto da una dotta relazione dello stesso presidente Ruini. Iniziatone il 4 marzo 1947 l'esame, l'Assemblea costituente, sotto la presidenza di U. Terracini, dopo averlo discusso in 170 sedute, l'ha approvato il 22 dicembre 1947: la costituzione è entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Opera di un'assemblea politica e non di un ristretto comitato di giuristi, non è da stupire ch'essa rappresenti spesso una transazione tra idee e correnti diverse. Ciò spiega alcuni difetti, nonostante i quali però essa è giudicata, in complesso, una delle migliori carte costituzionali moderne.

La nuova costituzione non è flessibile, elastica, come era lo statuto, ma è rigida, perché non può essere modificata che mediante una speciale procedura di revisione ed è tutelata da un controllo di costituzionalità affidato alla Corte costituzionale.

Lo stato italiano, qual'è delineato nella costituzione, è una repubblica democratica "fondata sul lavoro"; respinta la formula "repubblica dei lavoratori", reputata eccessivamente classista, si è voluto proclamare che l'organizzazione dello stato italiano intende poggiare sul lavoro di tutti, non solo sul lavoro manuale ma sul lavoro in ogni forma e manifestazione. In esso poi "la sovranità appartiene al popolo"; titolare della sovranità è dunque il popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione, soprattutto mediante le elezioni ed il referendum. Con tale formula si è voluto sintetizzare l'essenza dello stato democratico, che dalla volontà popolare ripete tutti i suoi poteri.

La repubblica italiana, pur continuando ad essere unitaria ("una ed indivisibile") come il precedente stato monarchico, si differenzia da questo, ch'era fortemente accentrato, perché, basandosi su una ampia autonomia locale, è divisa in regioni (v. regione, in questa App.), le quali, pur non avendo fisionomia di stati e quindi non costituendo, nella loro unione, uno stato federale, hanno, ad imitazione dei Länder austriaci, potestà non solo amministrativa ma anche legislativa, sia pure nei limiti della legislazione della repubblica; perciò lo stato italiano si può ora definire uno stato regionale o stato ad autonomie regionali. Infine lo stato italiano è una repubblica parlamentare, non presidenziale, perché in essa è una netta accentuazione della preminente funzione del parlamento nei confronti del capo dello stato e del governo, e non viceversa.

La costituzione, composta di 139 articoli, seguìti da 18 disposizioni transitorie e finali, s'inizia coi "principî fondamentali" (articoli 1-12), cui seguono due parti: "Diritti e doveri dei cittadini" (articoli 13-54) e "Ordinamento della repubblica" (articoli 55-139). I principî fondamentali sono in gran parte norme non giuridiche e munite di azione, ma precetti astratti, che tuttavia rappresentano programmi, incitamenti o limiti; in essi sono, fra l'altro, solennemente affermati, accanto ai diritti inviolabili dell'uomo, i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale; accanto al diritto al lavoro per tutti, il dovere del lavoro; è proclamata l'eguaglianza tra tutti i cittadini.

Le relazioni tra Stato e Chiesa cattolica sono fondate sull'aconfessionalità dello stato; lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani; i loro rapporti sono regolati dai Patti lateranensi, i quali non possono essere modificati con leggi ordinarie tranne che in seguito ad accordi bilaterali, in mancanza dei quali sarebbe necessaria una revisione costituzionale. Anche per gli altri culti la costituzione prevede il regolamento bilaterale dei loro rapporti con lo stato.

Nel campo delle relazioni internazionali è, fra l'altro, proclamato il diritto d'asilo per lo straniero, cui nel suo paese siano negate le libertà democratiche garantite dalla costituzione italiana, ed è vietata l'estradizione dello straniero, come del cittadino, per reati politici; si afferma che l'Italia ripudia la guerra non difensiva e si dichiara pronta a consentire, in condizioni di parità, alle limitazioni di sovranità necessarie a far sorgere un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni.

La parte prima, "Diritti e doveri dei cittadini", è divisa in quattro titoli: rapporti civili, rapporti etico-sociali, rapporti economici, rapporti politici. Nel primo sono considerati soprattutto i diritti di libertà civile, la cui serie è completa e svolta incomparabilmente più che nello statuto albertino: dalle tre inviolabilità, della persona, del domicilio, della corrispondenza, che, insieme al diritto di credenza e confessione religiosa, di parola e di stampa, spettano a tutti, cittadini e stranieri, ai diritti di riunione e di associazione, di circolazione, soggiorno ed emigrazione, che spettano ai cittadini.

Nel campo dei rapporti etico-sociali, la famiglia è concepita come società naturale fondata sul matrimonio, in cui i coniugi sono eguali giuridicamente e moralmente, ma del quale però non è stata sancita espressamente l'indissolubilità, prevista nel progetto; sono riconosciuti i diritti dei figli nati fuori del matrimonio ed ammessa la ricerca della paternità. Quanto alla scuola, se ne afferma la libertà, insieme all'obbligatorietà dell'istruzione inferiore e dell'esame di stato ed alla necessità di facilitare ai non abbienti capaci e meritevoli l'accesso ai gradi più alti degli studî.

Nel campo dei rapporti economici e sindacali, le affermazioni più caratteristiche sono: il diritto dei lavoratori, oltre che ad una retribuzione adeguata, al riposo settimanale ed alle ferie annuali retribuite; il diritto di sciopero nell'ambito delle leggi che lo regolano; la libertà di organizzazione sindacale, senz'altri obblighi che quelli della registrazione e di un ordinamento interno democratico, col diritto ai sindacati registrati di stipulare contratti collettivi; il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende.

Nel campo dei rapporti politici, si affermano: il diritto di voto, eguale per tutti senza distinzione e con sole eccezioni per incapacità civile, per sentenza penale irrevocabile e per indegnità morale; il diritto di libera associazione in partiti (che può tuttavia essere limitato per determinate categorie di pubblici funzionarî); il diritto di petizione, non più ammesso come doglianza di carattere personale, ma solo come richiesta di provvedimenti legislativi od esposizione di pubbliche necessità. Sono sanciti i correlativi doveri di fedeltà alla repubblica, di difesa della patria con conseguente prestazione del servizio militare, del concorso alle spese pubbliche.

Nella seconda parte: "Ordinamento della repubblica", sono disciplinati gli organi costituzionali, gli organi supremi che non sono subordinati ma coordinati tra loro e reciprocamente indipendenti, anche se posti in un certo ordine d'importanza: il parlamento, il presidente della repubblica, il governo, la magistratura, le regioni, la Corte costituzionale.

Il parlamento, che nell'ordinamento fascista, data la prevalenza dell'esecutivo sul legislativo, era stato posposto al capo del governo ed al governo, rappresenta ora l'organo motore dello stato, pur nella sua funzione di equilibrio di fronte agli altri organi supremi. Oltre al compito tradizionale ed originario della formazione delle leggi, che ora però gli spetta da solo, il parlamento ha nella nuova costituzione il compito di concorrere alla formazione di tutti gli organi fondamentali dello stato, assicurando così a questo unità d'indirizzo politico.

Mantenuto il sistema bicamerale, entrambe le camere, Camera dei deputati (v. in questa App.) e Senato della repubblica (v. in questa App.), sono (tranne una parte del senato), elettive, sia pure su basi diverse, ed entrambe hanno carattere rappresentativo; entrambe hanno assoluta parità di poteri, essendo stata tolta la cosiddetta iniziativa finanziaria della camera, ed entrambe accordano o negano la fiducia al governo, con assoluta uguaglianza. La camera è eletta per 5 anni, il senato per 6; tale durata non può essere prorogata che per legge e solo in caso di guerra; entrambe le camere possono essere sciolte in anticipo. Per il nuovo importante istituto della prorogatio, i poteri delle camere sciolte sono prorogati fino a quando non siano riunite le nuove (meglio deve intendersi "elette", altrimenti si avrebbe contemporanea esistenza delle vecchie e delle nuove camere fino alla riunione di queste dopo le elezioni); tale proroga, come rileva la relazione Ruini, mira non a permettere alle camere sciolte l'esercizio normale dei loro poteri, ma solo una possibilità di controllo e di azione parlamentare, ove ciò sia necessario. È scomparso l'istituto della legislatura come periodo di lavoro legislativo corrente tra le elezioni e lo scioglimento della camera, che si applicava anche al senato e la cui chiusura aveva per effetto di annullare tutto il lavoro legislativo non condotto a termine. È stato adottato il sistema della convocazione di diritto, per cui le camere si riuniscono di diritto il primo giorno non festivo di febbraio e di ottobre; quando una camera sia convocata in via straordinaria, lo è anche l'altra. Le due camere, o una sola di esse, possono essere sciolte dal presidente della repubblica, sentiti i rispettivi presidenti. Respinta la proposta di creare un'Assemblea nazionale, supercamera permanente formata dall'unione delle due camere, si è adottata la procedura della riunione del parlamento in seduta comune delle due camere, sotto la presidenza del presidente della camera, in casi tassativamente previsti dalla costituzione. È stata rafforzata l'autonomia delle camere nel proprio funzionamento, essendo venuta meno l'ingerenza, introdotta dal fascismo, del capo del governo nel loro ordine del giorno e la sua facoltà di richiedere nuova votazione o riesame di disegni di legge respinti. L'istituto dell'autorizzazione a procedere è esteso anche ai senatori, per i quali è stato soppresso il privilegio di foro costituito dall'Alta corte di giustizia; è scomparso per i deputati e senatori l'obbligo del giuramento.

La precipua funzione del parlamento, quella legislativa, è ora esercitata collettivamente dalle due camere sole, mentre, secondo lo statuto, spettava collettivamente al capo dello stato ed al parlamento; al primo è stato tolto il diritto di sanzionare le leggi, nel che egli era partecipe del potere legislativo. L'iniziativa legislativa, prima spettante al capo dello stato, e per esso al governo ed ai membri delle camere, è estesa anche agli altri organi ed enti cui sia conferita da leggi costituzionali; la costituzione stessa la riconosce ai consigli regionali ed al consiglio nazionale dell'economia e del lavoro; è ammessa inoltre la iniziativa popolare, giacché 50.000 elettori almeno possono proporre progetti di legge, purché redatti in articoli. Quanto all'esame ed all'approvazione delle leggi sono previste: a) una procedura normale, in cui il disegno di legge è dapprima esaminato in ogni camera da una commissione e poi dalla camera stessa: questa era l'unica procedura prevista dallo statuto ed è ora obbligatoria per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale, di delega legislativa, di ratifica dei trattati, di bilanci e rendiconti statali; b) una procedura abbreviata per i disegni di legge di cui le camere abbiano dichiarata l'urgenza; c) una procedura per delega alle commissioni (sistema già adottato nella più recente legislazione fascista), nella quale non solo l'esame ma anche l'approvazione dei disegni di legge sono, nei casi e forme stabiliti dai regolamenti delle camere, e salva sempre la facoltà di tornare alla procedura normale in certe ipotesi, deferiti a commissioni, anche permanenti, formate in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari, cioè dei partiti. Approvata la legge dalle due camere, il presidente della repubblica deve promulgarla entro un mese, o entro il termine più breve che la legge stessa, se dichiarata d'urgenza, abbia stabilito; soltanto è conferito al capo dello stato un potere di veto sospensivo, perché egli può sospendere la promulgazione, chiedendo alle camere una nuova deliberazione: se le camere approvino nuovamente la legge, egli deve promulgarla. Le leggi sono pubblicate subito dopo la promulgazione ed entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo, salvo termine diverso stabilito dalla legge stessa.

Un istituto di democrazia diretta, che la costituzione ha accolto, è il referendum popolare, da indirsi con decreto del presidente della repubblica, tendente anzitutto a chiedere l'abrogazione totale o parziale di una legge vigente o di un atto avente forza di legge: non è ammesso referendum per le leggi tributarie o di bilancio, di amnistia o indulto e di ratifica di trattati. Altre applicazioni trova il referendum nell'ordinamento regionale e, con carattere di veto sospensivo, per le leggi di revisione costituzionale.

Il parlamento può delegare al governo la facoltà di emanare leggi delegate, cioè decreti legislativi, ma solo con determinazione di principî e criterî direttivi, per tempo limitato e per oggetti definiti: è esclusa quindi la concessione di pieni poteri.

Dopo lunghe discussioni, la costituente ha ammesso la facoltà del governo di legiferare per decreto-legge in casi straordinarî di necessità e urgenza; il decreto-legge dovrà però, lo stesso giorno della pubblicazione, essere presentato per la conversione in legge alle camere le quali, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si debbono riunire entro 5 giorni: se il decreto-legge non venga convertito in legge entro 60 giorni dalla pubblicazione (non più entro due anni come era stabilito dalla legge 31 gennaio 1926, n. 100), esso perde efficacia non ex nunc, come per detta legge del 1926, ma ex tunc, salvo a regolare con legge i rapporti giuridici che fossero sorti sulla sua base.

Circa la funzione ispettiva delle camere, innovazioni interessanti sono quella per cui l'esercizio provvisorio può essere concesso solo per complessivi quattro mesi, e l'altra per cui le commissioni parlamentari d'inchiesta debbono essere formate in modo da assicurare la rappresentanza proporzionale dei gruppi parlamentari e debbono essere dotate degli stessi poteri dell'autorità giudiziaria, di cui mancavano in passato.

Il presidente della repubblica, capo dello stato, rappresenta l'unità nazionale, la forza permanente dello stato al disopra delle mutevoli maggioranze. Esso è un organo costituzionale elettivo e temporaneo, mentre nell'ordinamento precedente era ereditario ed a vita; ha però, in complesso, funzioni meno preminenti di quelle che spettavano al monarca; sfornito (v. sopra) della sanzione, non fa più parte del potere legislativo, né è più, come il sovrano, dichiarato espressamente detentore del potere esecutivo, che spetta piuttosto al governo, nonostante che in varî articoli della costituzione l'espressione governo si identifichi con quella di presidente della repubblica. A lui tuttavia spettano, sia nell'ambito della rappresentanza esterna dello stato sia in quello delle funzioni legislativa, esecutiva e giudiziaria, svariate attribuzioni che ne fanno formalmente l'organo costituzionale più rappresentativo, anche se, di fatto, i suoi poteri sono meno decisivi per la vita dello stato di quelli del parlamento e del governo. Egli è il massimo coordinatore dei poteri e delle attività costituzionali dello stato e degli organi che le esplicano; egli è il vigile custode del loro delicato equilibrio, sia quando interpreta la volontà del parlamento designando o revocando il presidente del consiglio dei ministri, sia quando esercita il summum ius di sciogliere le camere.

Egli è eletto per sette anni, a scrutinio segreto e a maggioranza di due terzi (dopo il terzo scrutinio basta la maggioranza assoluta) dal parlamento in seduta comune, cui si aggiungono, in rappresentanza più che altro simbolica, tre delegati per ogni regione, eccetto la Val d'Aosta, che ne invia uno solo. Deve essere cittadino italiano e avere 50 anni compiuti; non occorre sia membro del parlamento; deve prestare giuramento innanzi alle camere riunite; la sua carica è incompatibile con qualsiasi altra; può essere rieletto. In caso di sua mancanza, ne fa le veci il presidente del senato. Il presidente della repubblica, pur non protetto dalla inviolabilità prima spettante al re, gode di prerogative, la principale delle quali è l'irresponsabilità di cui godeva anche il monarca; egli non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato, cioè violazione dolosa, alla costituzione, nei quali casi è posto in stato d'accusa dal parlamento in seduta comune e giudicato dalla Corte costituzionale, integrata, a tale scopo, da 16 membri elettivi nominati dal parlamento in seduta comune dopo ogni elezione politica. All'irresponsabilità del presidente fa riscontro e riparo la responsabilità ministeriale, per cui ogni suo atto, anche discrezionale, dev'essere, a pena d'invalidità, controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità. Gli atti aventi valore legislativo ed altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal presidente del consiglio.

Il governo della repubblica, organo complesso, è formato dal presidente del consiglio e dai ministri: il primo è nominato dal presidente della repubblica ed a sua volta gli propone i nomi dei ministri; insieme costituiscono il consiglio dei ministri. Il silenzio della costituzione sui sottosegretarî non deve tuttavia far ritenere che essi non facciano parte del govemo, almeno in senso lato.

Il presidente del consiglio, non più chiamato capo del governo, ha funzione di direzione e di guida della politica generale del governo, di cui è responsabile soprattutto di fronte al parlamento; egli mantiene l'unità d'indirizzo politico ed amministrativo, ma non è più quello che era, nell'ordinamento fascista, il capo del governo, arbitro e dominatore non solo del potere esecutivo ma anche del potere legislativo, nei cui riguardi aveva diritti d'intervento varî e decisivi, e ch'era responsabile solo verso il re e non verso le camere, mentre i ministri erano responsabili verso il re e verso di lui.

Il governo entra in funzione col giuramento, ma è sottoposto ad una condizione sospensiva, quella di corrispondere alla volontà della maggioranza parlamentare in ogni camera: deve cioè avere la fiducia delle camere, cui è tenuto a chiederla entro dieci giorni dalla sua formazione. Ciascuna camera accorda o revoca la fiducia su mozione motivata e votata per appello nominale. La mozione di sfiducia dev'essere firmata da almeno un decimo dei componenti la camera; non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione. Il voto contrario di una o di entrambe le camere su una proposta del governo non importa obbligo di dimissioni, ma il governo potrà sempre porre la questione di fiducia.

I ministri, in via politica, sono responsabili collegialmente degli atti del consiglio dei ministri e individualmente di quelli dei loro dicasteri. I membri del governo sono poi responsabili personalmente per reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, ed in tal caso sono posti in stato d'accusa dal parlamento in seduta comune e giudicati dalla Corte costituzionale, integrata come si è detto per i giudizî contro il presidente della repubblica. Secondo lo statuto spettava invece alla camera la messa in stato d'accusa ed al senato, costituito in Alta corte di giustizia, il giudizio.

Organi ausiliarî del governo sono, secondo la costituzione, il già citato consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, di nuova istituzione, formato di esperti e di rappresentanti delle categorie produttrici, organo di consulenza tecnica delle camere e del governo, fornito di iniziativa legislativa; il Consiglio di stato e la Corte dei conti, confermati costituzionalmente nelle loro rispettive funzioni, giurisdizionali, di consulenza giuridico-amministrativa e di controllo (v. consiglio; corte, in questa App.).

Particolare rilievo hanno nella costituzione le norme sull'ordinamento giurisdizionale (v. giudiziario, ordinamento, in questa App.) e sulla giurisdizione. In riconoscimento dell'altissima importanza, nello stato moderno democratico, delle guarentigie giurisdizionali, viene sancito il carattere costituzionale della magistratura, ponendola come ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere. Tale carattere costituzionale è stato accentuato con l'affidare al presidente della repubblica la presidenza del consiglio superiore della magistratura (composto per due terzi da magistrati e per un terzo da membri eletti dal parlamento a camere riunite), cui spettano le assunzioni, assegnazioni, promozioni, disciplina e trasferimenti d'ufficio dei magistrati, mentre al ministro di Grazia e giustizia compete quanto attiene all'organizzazione e funzionamento dei servizî giudiziarî.

La regione (v. in questa App.), istituita come ente costituzionale, rappresenta la più rilevante e discussa delle riforme attuate dalla costituzione: essa vuol essere il massimo riconoscimento dell'autonomia locale e tende, come nota la relazione Ruini, a porre gli amministrati nel governo di sé medesimi: è una forma di autogoverno. Le 19 regioni, configurate quasi del tutto in conformità delle ripartizioni e denominazioni tradizionali, si pongono di fronte agli organi costituzionali dello stato come enti costituzionali locali prevalentemente amministrativi, del tutto sottratti ad ogni dipendenza dal governo centrale tranne per talune funzioni delegate, quantunque sottoposti a varî controlli dello stato. La manifestazione più tipica dell'autonomia regionale è la potestà della regione di darsi un proprio statuto (che per alcune regioni: Sicilia, Sardegna, Trentino-Alto Adige, Val d'Aosta, e, in seguito, anche Friuli-Venezia Giulia, ha carattere speciale ed è adottata con legge costituzionale): potestà che è però limitata in quanto lo statuto deve essere approvato con legge della repubblica, ed è la costituzione a determinare quali sono gli organi della regione: consiglio regionale, giunta, presidente della giunta. Il consiglio regionale esercita le potestà legislative e regolamentari attribuite alla regione, delibera lo statuto, propone leggi al parlamento ed esercita le altre funzioni conferitegli dalla costituzione e dalle leggi; elegge la giunta regionale ed il suo presidente, cui è affidato il governo regionale.

La potestà legislativa della regione riguarda materie d'interesse puramente amministrativo o tecnico-economico della regione stessa nonché l'attuazione delle leggi della repubblica, quando queste la deleghino alla regione. Tale legislazione però non può essere in contrasto con la costituzione né con l'interesse nazionale o di altre regioni: inoltre occorre che sulle materie di legislazione regionale siano state già emanate leggi nazionali e che queste fissino soltanto i principî fondamentali, che le leggi regionali dovranno adattare alle necessità locali. Nelle stesse materie spettano alla regione funzioni amministrative interessanti il suo territorio. Le regioni sono dotate di autonomia finanziaria. Le provincie ed i comuni rimangono come enti autonomi locali e come circoscrizioni di decentramento statale e regionale.

La costituzione prevede tutta una serie di controlli dello stato (rappresentato in ogni regione da un commissario del governo), che possono portare al rinvio della legge regionale al consiglio regionale per incompetenza o per contrasto d'interessi o al ricorso di legittimità davanti alla Corte costituzionale o di merito davanti alle camere, o addirittura allo scioglimento del consiglio regionale, con decreto del presidente della repubblica, sentita una commissione di deputati e senatori, nei casi stabiliti dalla costituzione.

Istituti nuovi nel nostro ordinamento costituzionale, e tante volte invocati, sono le garanzie costituzionali. Scartata l'idea di affidare il controllo di costituzionalità, che è giurisdizionale ma su materie anche politiche, alla magistratura ordinaria, è sembrato preferibile istituire un organo speciale, la Corte costituzionale (v. corte, in questa App.), che giudica sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, dello stato, e delle leggi regionali; quando la Corte dichiara, con decisione che non è impugnabile, la incostituzionalità di una di tali norme, questa cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, che ha quindi effetto solo ex nunc: le camere ed i consigli regionali hanno facoltà di colmare, ove lo ritengano necessario, la lacuna giuridica che così si crea. Per la legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, emanata per stabilire le condizioni ed i termini di proponibilità dei giudizî di legittimità costituzionale, la questione d'incostituzionalità può essere proposta solo dallo stato o dalle regioni: non è stata accolta la tesi di riconoscere tale diritto anche alle persone fisiche e giuridiche. Sono poi di competenza della Corte i conflitti di attribuzione (già in gran parte di competenza della Cassazione a sezioni unite) fra i poteri dello stato, nonché quelli tra lo stato e le regioni e tra le regioni. Infine è di competenza della Corte la giurisdizione penale per i giudizî contro il presidente della repubblica ed i ministri, di cui si è già parlato.

Altra garanzia costituzionale è data dalla rigida fissazione nella carta costituzionale delle norme per la sua revisione, e per la revisione delle leggi costituzionali, giacché non tutto l'ordinamento costituzionale dello stato si esaurisce nella costituzione.

Le leggi di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali (cioè quelle che sono così qualificate nella stessa costituzione o che attengono direttamente a materie in essa disciplinate) debbono essere deliberate due volte da ciascuna camera ad intervallo non minore di tre mesi, e nella seconda votazione di ciascuna camera debbono aver riportato la maggioranza assoluta. Tranne il caso che in tale seconda votazione ciascuna camera abbia approvato la legge a maggioranza di due terzi, può essere chiesto su di essa il referendum popolare sospensivo se, entro tre mesi dalla sua pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. Tali leggi, per eccezione, sono pubblicate prima di essere promulgate e vengono promulgate solo dopo scaduto il termine di tre mesi o dopo l'esito, favorevole alla legge, del referendum.

La costituzione, infine, dichiara che la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale; con ciò la Costituente ha voluto sancire solennemente l'immutabilità della forma repubblicana data all'Italia dal referendum del 2 giugno 1946 ed escludere la possibilità di un ritorno legale della monarchia.

Bibl.: Ministero per la costituente, commissione per studî attinenti alla riorganizzazione dello stato, Relazione all'Assemblea Costituente, voll. 3, Roma 1946; Assemblea costituente, commissione per la costituzione, Resoconti sommari dell'adunanza plenaria e delle sottocommissioni, ivi 1946; id., Progetto di Costituzione della Repubblica italiana e Relazione del presidente della commissione sul progetto stesso, ivi 1947; Resoconti dell'Assemblea Costituente, ivi 1946-48; U. Tupini, La nuova Costituzione, presupposti, lineamenti, garanzia, ivi 1946; G. Balladore Pallieri, La nuova Costituzione italiana, Milano 1948; V. Carullo, La Costituzione della Repubblica italiana, I, Bologna 1948; V. Falzone, Costituzione della Repubblica italiana, Roma 1948; V. Falzone, F. Palermo, F. Cosentino, La costituzione della Repubblica italiana, ivi 1948.

Emblema e insegna dello Stato. - Con decreto legislativo 5 maggio 1948 n. 535 del presidente della repubblica è stato approvato l'emblema della Repubblica Italiana in base alla relativa deliberazione dell'Assemblea costituente in data 31 gennaio 1948. L'emblema è composto di una stella a cinque raggi di bianco, bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota di acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro di rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale "Repubblica Italiana". Il disegno dell'emblema è opera di Paolo Paschetto.

L'articolo 12 della costituzione promulgata il 1° gennaio 1948 stabilisce che "la bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni". Il 4 novembre 1947 tutti i corpi e reparti dell'esercito e dell'aeronautica hanno ricevuto in forma solenne le nuove bandiere; ad esse sono state trasferite tutte le ricompense al V. M. che già fregiavano le vecchie. Queste ultime sono attualmente custodite nel Museo del Risorgimento italiano in Roma. Per la marina militare è stato stabilito che lo stemma consiste in uno scudo, formato con gli antichi emblemi (inquartati) delle repubbliche marinare di Venezia, Genova, Amalfi e Pisa, sormontato da una corona turrita con un'ancora nel mezzo. Le dimensioni delle nuove bandiere regolamentari per la marina militare variano a seconda dell'unità. Le bandiere sono riprodotte nella tavola illustrante la voce bandiera in questa App. Rimane ancora da definirsi lo stemma della bandiera della marina mercantile, necessario per evitare la possibilità di equivoci con bandiere di stati esteri analoghe (Messico) o simili (Irlanda) a quella italiana, ma che non può identificarsi con la bandiera della marina militare.

Forze armate. - Esercito. - La legge 9 maggio 1940, n. 368, apportò modificazioni al precedente ordinamento dell'esercito. L'esercito metropolitano, che venne a comprendere anche le unità dislocate in Albania e in colonia, escluse quelle di reclutamento coloniale, risultò così costituito: stato maggiore, istituti militari, arma dei carabinieri reali, arma di fanteria, arma di cavalleria, arma di artiglieria e servizio tecnico delle armi e delle munizioni, arma del genio e servizio studî ed esperienze del genio, guardia alla frontiera, corpo automobilistico e servizio tecnico automobilistico, servizio chimico, servizio sanitario, servizio di commissariato, servizio di amministrazione, servizio veterinario, servizio dei centri di rifornimento quadrupedi, servizio dei depositi cavalli stalloni, servizio geografico, distretti militari, tribunale supremo militare, tribunali militari, reparti di correzione e stabilimenti militari di pena, enti varî.

L'ordinamento dell'esercito metropolitano fu il seguente: un comando del corpo di stato maggiore, sei comandi di armata, diciotto corpi d'armata, un corpo d'armata autotrasportabile, un corpo d'armata corazzato, un corpo d'armata celere, un comando superiore delle truppe alpine, cinquantaquattro divisioni di fanteria, due divisioni motorizzate, tre divisioni corazzate, cinque divisioni alpine, tre divisioni celeri, un comando truppe di Zara con deposito misto, un comando truppe dell'Elba con deposito misto, sedici comandi di difesa territoriale, ventotto comandi di zona militare.

Si registrano qui di seguito soltanto le altre principali varianti rispetto all'ordinamento del 1934 (App. I, pag. 745): Fanteria: 106 reggimenti, 4 reggimenti di fanteria motorizzata, 6 reggimenti di fanteria carrista, un battaglione "guardia reale albanese"; Artiglieria: 54 reggimenti divisionali, 3 reggimenti di divisione corazzata, 18 reggimenti di corpo d'armata, 5 reggimenti di armata; Genio: 18 reggimenti di corpo d'armata; Guardia alla frontiera: 11 comandi di guardia alla frontiera, un reggimento di fanteria, 9 reggimenti e un gruppo autonomo di artiglieria; Corpo automobilistico: 18 centri automobilistici. Nell'inverno 1938-39 le divisioni di fanteria furono progressivamente trasformate da ternarie in binarie (v. fanteria, in questa App.).

Il trattato di pace concluso fra l'Italia e gli Alleati alla fine della seconda Guerra mondiale consente all'Italia di tenere un esercito della forza di 185.000 uomini e 65.000 carabinieri. L'uno o l'altro di questi due elementi potrà variare di 10.000 uomini, purché non sia superata la forza globale di 250.000 uomini.

Da notizie di stampa autorevoli risulta che fino al novembre 1948 la costituzione provvisoria di pace dell'esercito comprende: 11 comandi militari territoriali (Torino, Genova, Milano, Bolzano, Udine, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli, Palermo) e 7 divisioni di fanteria ("Granatieri", "Aosta", "Cremona", "Legnano", "Friuli", "Mantova", "Folgore"). La divisione di fanteria è prevista come ternaria.

Marina da guerra. - Tra la guerra d'Etiopia e la seconda Guerra mondiale la marina da guerra ebbe uno sviluppo senza precedenti nella nostra recente storia. Vennero impostate altre due corazzate da 35.000 t. Roma ed Impero e fu iniziata la trasformazione delle altre due vecchie corazzate Doria e Duilio. In tal modo entro l'anno 1940 si contava di avere 8 corazzate, delle quali 4 con cannoni da 381 mm. e 4 con cannoni da 320. Nello stesso tempo fu dato grandissimo impulso alla flotta subacquea, ma con minor vigore si pensò alle unità antisommergibili (la Francia nel 1939 possedeva ben 97 sommergibili e la Gran Bretagna 71). In questo grandioso programma navale non entrarono a far parte della flotta navi portaerei per inesplicabile opposizione di Mussolini alla costruzione di questo tipo di navi. Quando (giugno 1940) l'Italia entrò in guerra, la marina italiana si componeva di: 2 vecchie corazzate rimodernate, 7 incrociatori pesanti (cioè con cannoni da 203 mm.), 12 incrociatori leggeri (cioè con cannoni da 152 mm.), 54 cacciatorpediniere, 68 torpediniere, 113 sommergibili oltre naviglio minore, con un tonnellaggio complessivo sulle 500.000 t. di dislocamento. In agosto del 1940 entrarono in servizio le due corazzate Littorio e Vittorio Veneto e le rimodernate Doria e Duilio. Nel 1942 entrò in servizio la Roma e sul 1943 tre incrociatori leggeri tipo Attilio Regolo.

L'organizzazione della flotta all'inizio della guerra fu la seguente:

La prima squadra navale (amm. Campioni) comprendeva: una divisione corazzate e due divisioni d'incrociatori leggeri, ogni divisione con la propria squadriglia di cacciatorpediniere. La seconda squadra navale (amm. Paladini) comprendeva: due divisioni d'incrociatori pesanti e di due divisioni di incrociatori leggeri con le relative squadriglie di cacciatorpediniere. Le forze navali subacquee erano costituite in gruppi formanti la "Squadra sommergibili" (amm. Falangola) con sede del comando a Roma. I tre ammiragli comandanti di squadra dipendevano direttamente dall'"Alto comando navale" (comandante il capo di stato maggiore amm. Cavagnari) detto "Supermarina", che impartiva le direttive generali per l'impiego delle forze navali ed aveva per compito la coordinazione strategica delle operazioni, designando il comandante superiore in mare per il comando tattico dell'operazione. Durante il suo svolgimento Supermarina in massima comunicava per radio solo notizie di orientamento nei riguardi del nemico e si riservava di trasmettere ordini a modifica delle direttive impartite. Un primo cambiamento a questa organizzazione si ebbe l'8 dicembre del 1940 quando furono riunite in una sola le due squadre. Il cambiamento si rese indispensabile per la impellente necessità di adibire le divisioni di incrociatori leggeri alla difesa del traffico alla diretta dipendenza del ministero. La flotta navale venne formata su sei divisioni con la nave ammiraglia Vittorio Veneto indipendente: una delle due divisioni di corazzate era in lavori dopo l'attacco aerosilurante di Taranto. Durante la guerra per far fronte alla guerra antisommergibile e alle gravi perdite di naviglio silurante e subacqueo furono costruiti ed entrarono in servizio 5 caccia, 16 torpediniere, 29 corvette, 50 vedette VAS, 36 MAS, 95 motozattere. Nel primo semestre 1943 si ebbero nuovamente due squadre. La prima a La Spezia con le 3 corazzate moderne, 5 incrociatori tipo Garibaldi e un tipo Regolo con solo 8 caccia moderni, la seconda a Taranto con i due Doria (i due Cesare erano a Trieste in lavori), due incrociatori leggeri e un tipo Scipione Africano e tre caccia antiquati. La squadra sommergibili era su 54 sommergibili superstiti, di cui solo 23 erano in condizioni di operare e 6 in Atlantico per i traffici con l'Estremo Oriente.

Ai termini dell'armistizio la flotta italiana superstite si consegnò agli Angloamericani; alcune unità si autoaffondarono; la corazzata Roma fu affondata da aerei tedeschi durante la navigazione per trasferirsi a Malta. Per l'accordo di Taranto del 23 settembre 1943 fra l'ammiraglio Cunningham comandante in capo delle forze navali inglesi del Mediterraneo e il ministro della Marina italiana ammiraglio R. De Courten, collaborarono con la flotta degli Alleati, ma alla diretta dipendenza del comando italiano, le seguenti unità: 9 incrociatori, 10 cacciatorpediniere, 23 torpediniere, 19 corvette, 36 sommergibili, 16 mas, 14 motosiluranti e circa 400 unità minori. Due incrociatori si trasferirono in Atlantico con sede a Freetown, 8 sommergibili alle Bermude, 2 nell'Oceano Indiano 14 fra Mar Rosso e Mediterraneo. I mezzi speciali eseguirono, in collaborazione con le forze alleate, centinaia di missioni.

In base all'art. 56 del trattato di pace del 10 febbraio 1947 e al protocollo navale dell'8 febbraio 1947 la flotta italiana è stata ridotta alle seguenti unità: navi di linea: Andrea Doria e Duilio; incrociatori. Abruzzi, Garibaldi, Montecuccoli, Cadorna; cacciatorpediniere: Carabiniere, Granatiere, Grecale, Da Recco; e inoltre: 15 torpediniere, 20 corvette, 27 unità minori, 77 unità ausiliarie.

Sempre a termini del trattato di pace, l'Italia non potrà costruire, comperare o sostituire alcuna nave di linea, portaerei, sommergibili, vedette, mezzi d'assalto; il totale dei dislocamenti tipo delle navi da combattimento della flotta italiana, diverse dalle navi di linea, non dovrà oltrepassare le 67.500 t.; l'Italia non comprerà o intraprenderà la costruzione di alcuna nave da guerra prima del 1° gennaio 1950, salvo per rimpiazzare una unità diversa da una nave di linea persa accidentalmente.

L'effettivo totale della marina italiana, escluso il personale dell'aviazione di marina non dovrà oltrepassare i 25.000 uomini. Un certo numero di navi da guerra (fra le quali 3 corazzate e 5 incrociatori) dovevano dalla Italia essere messe a disposizione degli Stati Uniti, Regno Unito, URSS e Francia; tutte le altre unità dovevano essere affondate. Quest'ultima clausola fu successivamente modificata consentendosi la distruzione a galla e il recupero dei materiali.

Stati Uniti (5 ottobre 1947) e Gran Bretagna (27-31 ottobre) hanno rinunciato a favore dell'Italia alla quota di naviglio italiano ad esse assegnato e che dovrà peraltro essere distrutto; la Francia (accordo del 14 luglio 1948) ha limitato le sue richieste, consentendo che le navi consegnate lo siano a titolo di "restituzione" per le unità incamerate dall'Italia durante la guerra e non a titolo di bottino di guerra; alla Grecia (accordo di San Remo del 5 novembre 1948) è stato consegnato un incrociatore, a titolo di restituzione dell'incrociatore Hellis affondato da sommergibili italiani prima dello scoppio delle ostilità. Con l'URSS non si è giunti ad un accordo analogo; anzi, il 14 luglio 1948 essa ha insistito per l'immediata consegna della parte della flotta ad esse spettante. Con l'accordo preliminare di Mosca del 6 novembre, l'Italia pertanto si è impegnata a consegnare le 33 navi, di cui alla dichiarazione Molotov del 4 ottobre 1948; la consegna delle navi ha avuto inizio nel gennaio 1948.

Circa gli organi centrali della marina, questi, dopo il quattro giugno 1948, ripresero la loro organizzazione anteriore alla guerra. L'unificazione dei 3 ministeri nell'unico Ministero della difesa ha messo alla testa dell'organizzazione interna il segretario generale e il capo di stato maggiore nelle persone di due ammiragli di squadra.

Aviazione. - Il trattato di pace del 10 febbraio 1947 ha limitato le forze dell'aviazione militare italiana a 200 velivoli da combattimento e da ricognizione ed a 150 velivoli da trasporto, da salvataggio e da scuola, ivi comprese le riserve. Non sono consentiti velivoli da bombardamento e, ad eccezione di quelli da combattimento e da ricognizione, tutti gli altri devono esser privi di qualsiasi armamento. L'organizzazione aeronautica, i cui effettivi sono limitati a 25.000 uomini, deve esser tale da assicurare esclusivamente le necessità di carattere interno e difensivo.

L'aviazione italiana pertanto, lasciando pressoché immutati i suoi organi centrali (ministero - stato maggiore) e la sua organizzazione territoriale (4 comandi di zona aerea territoriale e 2 comandi aeronautica delle isole) ha dovuto eliminare gran parte del personale ancora in servizio ed adeguare la propria struttura alle gravi limitazioni imposte.

Le caratteristiche principali di tale struttura, ancora in fase di evoluzione e di assestamento, sono, alla fine del 1948, le seguenti. Aboliti i comandi di grande unità aerea (squadre, divisioni, brigate), i reparti di volo dipendono direttamente per l'impiego e disciplinarmente dai comandi di ZAT nel cui territorio sono dislocati. I reparti di impiego consistono in 4 stormi da caccia e 2 stormi da trasporto, cui è stata conferita un'adeguata autonomia tecnica e logistica, che ne assicura la mobilità, indipendentemente dall'organizzazione territoriale. È stata costituita una "direzione del soccorso aereo" - che collabora con similari organismi internazionali - da cui dipendono "centri soccorso", dislocati in vari idroscali della penisola e delle isole e dotate di idrovolanti e di motoscafi d'alto mare.

Esistono, infine, l'Accademia aeronautica, per la formazione degli ufficiali piloti del servizio attivo, 3 scuole di pilotaggio e una scuola specialisti.

Giuseppe Santor

Economia e Finanze (XIX, p. 782, App. I, p. 747).

Due fasi, per molti aspetti difformi tra esse, ha attraversato la politica economica italiana nell'ultimo quindicennio. La prima, durata circa undici annî, può dirsi di economia di guerra, anche se la guerra guerreggiata si sia limitata complessivamente a sette anni (conflitto etiopico, intervento nella lotta civile spagnola, seconda Guerra mondiale); la seconda corre dal 1945 ad oggi ed è caratterizzata da una politica economica empirica, ma prevalentemente antiautarchica e orientata in senso cosmopolitico.

Il periodo prebellico. - Circa un decimo del reddito nazionale, non aumentato dopo la grande crisi in proporzione della popolazione (vedi ricchezza, in questa seconda App., II, p. 705) era speso ormai, dal 1935-36, annualmente per esigenze militari; le spese effettive dello stato, ordinarie e straordinarie, erano giunte sulla soglia dei 40 miliardi nel 1938-39, un'altra dozzina di miliardi erano spesi dai comuni e dalle provincie, cioè in complesso quasi metà del reddito complessivo netto, pari nel 1938 a circa 116 miliardi di lire. L'emigrazione era scesa nel 1934-38 a circa 60 mila unità annue, ciò che obbligava ad applicare la popolazione rimanente ad un lavoro con reddito sempre meno elevato per evitare il pericoloso ampliarsi della disoccupazione; così le disponibilità alimentari erano scese dal 1928 al 1938 da 2806 a 2723 calorie giornaliere pro-capite, i salarî medî orarî reali erano nel 1938 pari al 96% di quelli del 1928. L'attività agricola e quella industriale solo allora, dopo un decennio, erano riuscite a superare, e di poco, i livelli del 1928; e il traffico delle merci trasportate in ferrovia ne era ancora al disotto di 1/6, mentre il traffico marittimo lo aveva superato in peso solo di 1/10; gli scambî con l'estero si erano ridotti in valore a 2/3 e in volume ancor più.

La larga parte di reddito nazionale dedicata ai due conflitti armati, dal 1935 al 1937, agli investimenti in Africa e ai lavori pubblici all'interno del paese e il costo della trasformazione autarchica rendevano consapevoli dell'impossibilità finanziaria di affrontare una guerra mondiale nel 1939 - consapevolezza che cedette nel 1940 all'illusione di un conflitto di brevissima durata - e posero l'Italia in condizioni economiche di estrema debolezza nel periodo immediatamente successivo, quando si trattò di sperimentare concretamente i risultati della tentata politica di avviamento all'autarchia. La lunga condizione di squilibrio tra le possibilità offerte da un reddito nazionale suscettivo di scarso risparmio, per la rigidità di consumi non ulteriormente comprimibili, e le forti esigenze di investimenti pubblici avevano infatti già anemizzato il paese. E ciò prima ancora che le ingenti spese per un conflitto mondiale avessero inizio, sebbene la struttura statale e i congegni centralizzati della politica economica fossero già pronti - e vieppiù affinati dal 1934 al 1939 - come strumenti di un'economia di guerra, e indubbiamente le correnti commerciali avviate con la Germania facilitassero alcuni rifornimenti essenziali. La rete di interventi nell'economia del paese, sorretta dalle possibilità di un regime dittatoriale, era pressoché completa, risparmio e credito controllati e manovrati attraverso appositi organismi, scambî e sistema valutario interamente vincolati; impianti ed attività produttive dipendenti da una direzione delle iniziative e da limitazioni di ampliamenti; prezzi, salarî e consumi disciplinati anch'essi da un complesso di disposizioni, relativamente male osservate, ma in generale capaci di contenere spinte spontanee che avrebbero reso inefficiente l'intero sistema di regolazione.

L'esistenza di questi strumenti giuridici e amministrativi di regolazione permetteva di provvedere senza eccessive difficoltà al finanziamento delle opere pubbliche e della bonifica prima, a quello delle iniziative autarchiche poi e successivamente a quello delle industrie di guerra; non si pose quindi neppure l'alternativa di seguire invece la via di un'azione in profondità sui redditi, via, che, d'altra parte, avrebbe implicato una diversa impostazione politica. In sostanza quindi tutta la politica economica e finanziaria nel periodo prebellico e bellico ha operato attraverso la manovra del credito, affiancata solo raramente da provvedimenti particolari e tendente a incanalare il risparmio disponibile verso investimenti pubblici. L'autofinanziamento delle industrie e lo strumento fiscale in questo periodo sono apparsi come le leve sussidiarie di una politica di inflazione repressa.

Il primo periodo di guerra (1940-43). - Gli effetti dell'attività bellica si fanno rapidamente palesi, subito dopo il primo periodo di euforia. Anzitutto produzione e scambî si contraggono. La produzione industriale, che nel 1938 era superiore del 14,1% a quella del 1928, denota una riduzione graduale e arriva a raggiungere nell'anno 1943 un livello medio del 35%, inferiore a quello prebellico; la produzione agricola si contrae nel frattempo di un quinto. Gli scambî si affievoliscono: il volume delle importazioni nel 1942 scende al 78% e quello delle esportazioni al 54% del 1938. E, mentre i traffici internazionali si riducono fortemente per via marittima, crescono quelli attraverso la rete ferroviaria e su strada. È bensì vero che la bilancia commerciale si riesce a chiudere con un eccesso di esportazioni (in valore) nel 1941 e 1942, in misura superiore all'avanzo del 1939, ma ciò è imputabile in gran parte agli invii di merci nelle colonie africane, ed avviene a costo di grave depauperamiento delle scorte del paese. Tutto ciò illumina sulla progressiva contrazione del livello di esistenza materiale degli Italiani; nel 1943 la disponibilità media giornaliera di alimenti pro-capite scende intorno a 2000 calorie; l'abbigliamento non è rinnovato, o rinnovato con prodotti autarchici; prospera il mercato nero, con prezzi sempre più lontani da quelli ufficialmente determinati.

Il quadro, dalle rilevazioni ufficiali, sembra tuttavia menograve. Sebbene i prodromi di una lacerazione della fitta rete vincolistica si facciano sempre più manifesti, le conseguenze inflazionistiche non sono infatti ancora evidenti: la circolazione monetaria complessiva (bancaria e di stato) al 31 dicembre di ciascun anno, che passa dall'indice 100 del 1938 (22,5 miliardi di lire) a 127 nel 1939 (28,5 miliardi), a 158 nel 1940 (35,5 miliardi), e balza poi a 244 nel 1941 (54,9 miliardi) e a 352 nel 1942 (79,2 miliardi), non vede un parallelo aumento dell'indice dei prezzi all'ingrosso (da 100 nel 1938 a 152 nel 1942) e del costo della vita (da 100 a 161) ufficialmente rilevati. Il movimento delle due curve avrà un ben differente ritmo reciproco solo a partire dal 1943. Frattanto l'aumento delle spese statali straordinarie è rapidissimo, mentre le entrate coprono una parte sempre più ridotta del totale (l'aumento del 50% del gettito della tassa scambî e quello del 30% delle imposte dirette sono infatti in gran parte neutralizzati dalla caduta delle entrate doganali).

Sebbene ancora abbastanza efficacemente manovrato, il sistema creditizio incomincia progressivamente a risentire le conseguenze dell'inflazione. Le imprese si "autofinanziano" in grado sempre maggiore; l'orientamento degli investimenti si allontana dalle opere pubbliche, dall'edilizia, dalle industrie produttrici di beni di pace. I depositi nelle aziende di credito e nelle casse postali, anche considerando la svalutazione monetaria, in questo primo periodo non appaiono contratti; la loro consistenza passa da 85,9 miliardi alla fine del 1938, a 94,5 nel 1939, 111,7 nel 1940, 143,6 nel 1941, 180,8 nel 1942. Il movimento degli investimenti e disinvestimenti nelle società per azioni segna, nel quinquennio 1938-42, un aumento netto di 22,7 miliardi: ma la cifra è scarsamente indicativa, date le variazioni monetarie. Nel periodo accennato, mentre aumentano i finanziamenti all'industria effettuati attraverso l'IMI e il Consorzio sovvenzioni su valori industriali, rimangono pressoché stazionarî in media i finanziamenti alle opere pubbliche, effettuati attraverso il Consorzio di credito per le opere pubbliche e l'Istituto di credito per le imprese di pubblica utilità; stazionario rimane anche il credito fondiario; si contraggono invece il credito edilizio e quello alberghiero, nonché il credito agrario di miglioramento.

Nel campo fiscale gli anni 1939 e 1940 non introducono innovazioni di particolare rilievo; ci si limita ad un tentativo di miglioramento del sistema tributario attraverso la revisione generale degli estimi tributarî e la formazione del nuovo catasto edilizio e si introduce l'imposta ordinaria sul patrimonio su basi reali; successivamente alla tassa scambî viene sostituita l'imposta generale sull'entrata e viene istituita una addizionale straordinaria sull'imposta complementare sul reddito. Vengono inoltre istituite una imposta straordinaria sui maggiori utili dipendenti dallo stato di guerra, con aliquote progressive dal 10 al 60%, ed una nuova imposta speciale, che colpisce il plusvalore realizzato nei trasferimenti di beni immobili. Questi ultimi provvedimenti, insieme ai numerosi altri interessanti il mercato finanziario (fondamentale quello dal 1941 che impone la nominatività dei titoli azionarî, ma importanti anche quelli che aggravano il carico tributario sugli utili delle società anonime e ne limitano la corresponsione, colpiscono i trasferimenti a riserva degli utili, aumentano le imposte di negoziazione sui titoli e il deposito preventivo per le operazioni di borsa), più che a scopi fiscali mirano a frenare la speculazione e lasciare ampî margini di risparmio per investimenti interessanti la preparazione bellica: s'inquadrano cioè, in senso lato, nella politica governativa del credito, tenacemente e con continuità perseguita.

Più serrate si fanno le maglie della disciplina nel 1942 di fronte al persistente aumento delle quotazioni dei titoli azionarî: si fa obbligo agli acquirenti di azioni di impiegare pari somma in buoni del tesoro al 3% si subordinano le costituzioni di società per azioni, gli aumenti di capitale e le emissioni di obbligazioni alla autorizzazione dei Ministeri delle corporazioni e delle finanze, si fa obbligo alle società di nuova costituzione e a quelle che aumentano il capitale sociale di investire il 20% del capitale azionario o dell'aumento di capitale in buoni del tesoro. Tutti i tentativi però, iniziati nel 1941 e proseguiti nel 1942, allo scopo di convogliare le disponibilità verso impieghi pubblici, ebbero modesto risultato e riuscirono soltanto a contrarre il volume degli affari, non a contenere l'ascesa dei titoli, tanto è vero che nel 1943 si tentò di mutare direzione, riportando in onore lo strumento fiscale (maggiorazione dei tributi locali, aumento delle aliquote dell'imposta fondiaria e di quella di ricchezza mobile, estensione della imposizione straordinaria a categorie di reddito ancora esenti) e cercando di contenere al massimo le spese pubbliche anche attraverso la riduzione degli oneri per integrazioni di prezzi.

L'occupazione e la bipartizione del territorio nazionale. - Con il 25 luglio 1943 le curve dei fenomeni economici risentono in modo amplificato delle conseguenze d'un rivolgimento politico, della continuazione della guerra su tutto il territorio con intensificate azioni distruttive, della duplice occupazione e della bipartizione politica del territorio. Il tessuto di provvedimenti legislativi, che era stato reso più fitto nel 1940-43 e che, sebbene progressivamente impacciante, riusciva a velare le conseguenze economiche del conflitto, veniva lacerato e ricomposto provvisoriamente, ma imperfettamente, nel Nord. Quando le incursioni aeree si fecero più frequenti e dannose, all'apparente ordine nazionale della trama legislativa si sostituì la quasi generale disobbedienza alle grida che moltiplicavano le pene comminate; l'insofferenza per le crescenti privazioni crebbe, di pari passo con la sfiducia generale, e l'ampiezza del mercato nero rese sempre minore la zona controllata di consumi e di produzione. La direzione della politica economica si rivelava vieppiù debole, proprio quando la condotta della guerra l'avrebbe reclamata più rigida. Il graduale inaridirsi delle fonti di reddito, la crescente sfiducia nella moneta, il progressivo arruginirsi degli strumenti produttivi, il boicottaggio operato a fini politici, lo scardinamento dell'intero sistema di trasporti, la formazione di piccoli mercati clandestini, lo sconvolgimento e la contrazione delle correnti di scambio: questo il quadro della graduale e progressiva involuzione, dove appaiono predominanti, con lo scemare dell'autorità statale, la generale inosservanza delle leggi tumultuosamente stratificatesi e il marasma amministrativo.

L'esercizio finanziario 1942-43, l'ultimo che riguardi l'intero territorio nazionale, si era chiuso con un disavanzo di 87 miliardi di lire e la circolazione monetaria alla fine di luglio del 1943 aveva raggiunto circa 97 miliardi. Il debito pubblico era salito a 406 miliardi, di cui 169 miliardi di debito fluttuante, escluse le annualità di pagamenti differiti e i residui passivi ammontanti almeno ad altri 100 miliardi. Alla fine del 1944 il debito pubblico si era più che triplicato rispetto al 1939 e la circolazione (compresi i biglietti emessi al Nord e le am-lire introdotte al Sud dalle autorità americane di occupazione) era pari a più di 11 volte quella dell'anteguerra, mentre la riserva aurea (v. in questa App.) si era ridotta ad un sesto circa. Ciò a fronte della drastica caduta della produzione e del reddito nazionale: le conseguenze sui prezzi furono evidentemente alleviate dal correttivo della tesaurizzazione, che stime private hanno valutato allora dell'ordine di 150 miliardi. L'indice del costo della vita all'inizio del 1945 era salito a 210, fatto uguale a 100 il 1938.

Il grave problema di cassa fu fronteggiato in un primo momento dal governo italiano legittimo con mezzi di tesoreria, e cioè con la emissione di buoni del tesoro ordinarî e di buoni fruttiferi e coi conti correnti, nonché con le disponibilità liquide esistenti presso le banche, abbastanza notevoli in conseguenza della generale paralisi della domanda per finanziamenti a scopo produttivo. Tale stasi - che rifletteva l'aspetto tipico della situazione economica generale - non accennò a diminuire neppure con la riduzione del saggio ufficiale di sconto dal 4,50% al 4%, disposta nel settemtire 1944.

Solo nel marzo del 1945, quando nei territorî liberati si manifestavano i primi cenni di ripresa produttiva anche per effetto dei primi rifornimenti di materie prime attraverso gli aiuti americani (forniture attraverso l'autorità militare e programma transitorio) fu lanciato un prestito destinato a scopi anti-inflazionistici per consentire al Tesoro di fronteggiare le esigenze di cassa, senza peggiorare la situazione monetaria. Le sottoscrizioni - in gran parte modeste - raccolte nell'Italia centro-meridionale raggiunsero la cifra di 32.471 milioni, e indussero il ministro Soleri ad estenderlo al Nord subito dopo il ricongiungimento del territorio nazionale. Il gettito complessivo toccò così i 106 miliardi; risultato notevole che forse avrebbe potuto consentire anche una manovra a più largo respiro, tanto più che il ricongiungimento del territorio nazionale - avvenuto dopo 20 mesi di scissione, il 25 aprile 1945 - aveva fatto constatare che i danni dell'attrezzatura industriale del Nord erano assai limitati.

Il dopoguerra. - Una situazione, per certi aspetti simile a quella che nel 1860 si affacciò all'Italia unificata, con una somma di problemi incommensurabilmente più ampî e contemporaneamente urgenti, si presentava all'Italia il 26 aprile 1945, quando tutto il territorio tornava ad una sola amministrazione. Bisognava anzitutto sgomberare le macerie, e non soltanto quelle materiali, di una guerra prolungatasi quasi cinque anni, e raccogliere la pesante eredità di un ventennio di assenza della democrazia. L'inventario sommario di questa eredità era grave: il patrimonio nazionale (stimato 700 miliardi di lire nel 1938) poteva giudicarsi ridotto di quasi un terzo per distruzioni, danneggiamenti, logorii insostituiti, consumo di scorte, contrazione di efficienza produttiva. Il naviglio mercantile aveva una consistenza di 600.000 t., cioè un sesto di quella prebellica; i trasporti danneggiati per un quarto nel patrimonio binarî, per un terzo in quello dei ponti e dei depositi, per metà nei carri merci, e per quattro quinti nei carri viaggiatori. Ridotta di un quarto la rete delle ferrovie private, di due terzi la consistenza degli autoveicoli in circolazione. Danni ingenti all'agricoltura, sia diretti sia attraverso la diminuita fertilità dei terreni (la produzione cerealicola si era contratta a metà rispetto all'anteguerra e quella agricola complessiva a 6 decimi); non molto gravi, ma sensibili in alcuni settori, i danni al patrimonio industriale. In complesso la capacità produttiva del paese si stimava che fosse ridotta a quattro quinti di quella prebellica, ma altri fattori diminuivano le reali modeste possibilità di produzione.

Scarse le possibilità di collocamento di prodotti industriali all'interno - in un mercato con assai basso livello dei redditi, assorbiti per circa l'85% dai consumi alimentari - e modestissime ancora quelle sui mercati esteri, sia perché le correnti di traffico interrotte richiedevano un rinnovato difficile lavoro di penetrazione (si pensi che la Germania nel 1941 era diventata cliente dell'Italia per oltre metà delle esportazioni e fornitrice per due terzi delle importazioni, mentre nel 1938 lo era rispettivamente per un quinto ed un quarto), sia per il controllo sul commercio con l'estero mantenuto dagli alleati, sia per gli alti costi della produzione nazionale e per le scarse disponibilità di materie prime e di risorse energetiche, sia infine per il lento riattivarsi delle comunicazioni internazionali.

Un largo processo di migrazione verso la campagna, verificatosi durante il periodo dei bombardamenti aerei, aveva spostato la residenza di gran numero di famiglie e il loro rientro in centri urbani parzialmente distrutti, insieme con l'afflusso dei reduci e degli internati, rincrudiva il problema delle abitazioni (la disponibilità di vani per abitazione si era ridotta da un vano per 1,32 abitanti nel 1938 a uno per 1,53 alla fine della guerra) e faceva affacciare con maggior intensità dell'altro dopoguerra il problema della disoccupazione. A fronteggiare il quale, in un primo momento, nel Nord, si ricorse al prolungamento del blocco dei licenziamenti, provvedimento in vigore durante la guerra a settentrione della linea gotica, e la cui efficacia giuridica doveva poi durare fino all'agosto 1947, mentre gli effetti - scoraggiamento di nuove attività e aumento dei costi - si risentirono anche successivamente, per quanto gradualmente attenuati nelle piccole e medie imprese. Nonostante questo quadro di esigenze sociali insoddisfatte, di miseri livelli medî di vita materiale (da 2795 calorie al giorno per abitante nel 1936-40 si era scesi a 1733 nel 1945), di minacciosa crescente disoccupazione, di malcontenti diffusi e di gravose eredità, l'Italia visse per qualche mese nell'euforia delle speranze suscitate dalla pace e dai tempestivi aiuti internazionali e nel frattempo il CIAI (Consiglio Industriale Alta Italia) provvedeva ad una prima programmazione degli aiuti alleati e al coordinamento delle iniziative, premessa alla ripresa industriale del Nord. L'inventario dell'avventura bellica cominciò a manifestarsi più chiaro nel 1946, quando - riuniti amministrativamente i due tronconi in cui il territorio nazionale era diviso e cessata l'occupazione militare che aveva prolungato le difficoltà di una duplice legislazione - gli inevitabili postumi della grande distruzione di ricchezza e dell'inattività produttiva si fecero più evidenti: la macchina statale manifestò la sua lacunosa e affrettata ricostituzione; i bisogni immediati e materiali si accavallarono a conclamate aspirazioni a lunga scadenza; l'inflazione monetaria, fino allora parzialmente repressa, si manifestò inarrestabile e parve senza limiti.

La condizione del bilancio statale era, infatti, giudicata di particolare gravità e la circolazione monetaria sembrava avviarsi con un ritmo disperante verso la china di cui il marco tedesco dell'altro dopoguerra aveva lasciato così indelebile memoria. Il debito pubblico, era salito (fine 1945) a 878 miliardi (di cui oltre due terzi fluttuante). Il costo della vita, pari a 25 volte nel Nord e a 29 nel Centro-Sud il livello del 1938, non accennava, nonostante l'afflusso degli aiuti esteri in derrate, a rallentare l'ascesa, ciò che comprimeva fortemente i salarî reali (il salario medio nominale dell'operaio non qualificato era 15 volte l'antebellico), stimolava agitazioni salariali, appiattiva le distanze tra i compensi dei dirigenti e dei tecnici e quelli alla base della scala dei lavoratori.

Un primo inizio di ripresa produttiva si osservò nel 1946 e fu accompagnato dal tentativo di affrontare, in modo meno empirico, i vasti problemi della ricostruzione, dell'assistenza sociale, dell'assetto finanziario, e di dar ordine al congegno statale, ma la spinta inflazionistica continuava a manifestarsi in modo preoccupante. Tale situazione caratterizzò il primo periodo del dopoguerra, che può dirsi limitato dalla data del maggio-giugno 1947. A metà del 1947, infatti, la produzione era lentamente risalita (quella agricola all'81% e quella industriale all'87% del 1938); i traffici interni riprendevano (nel 1° semestre del 1947 le merci caricate erano più che raddoppiate rispetto al 1945 e raggiungevano il livello del 1938); gli scambî con l'estero, animati in gran parte dalle importazioni effettuate sui programmi di aiuti internazionali e, all'esportazione, dalla normale espansione postbellica della domanda mondiale di prodotti tessili, incominciavano ad essere meno modesti, sebbene di gran lunga lontani da quelli prebellici; il livello materiale d'esistenza degli Italiani migliorava gradualmente; ma le condizioni del bilancio statale e della bilancia dei pagamenti davano origine alle più serie apprensioni, le quali si ripercuotevano in un livello di prezzi crescente ed in una continua contrazione del valore esterno della lira. La politica economica dell'Italia permaneva nell'empirismo del "giorno per giorno" e le preoccupazioni per la fine degli aiuti dell'UNRRA offrivano maggiore incertezza a un già perplesso e saltuario dirigismo, fortemente contrastato dall'opinione pubblica, privo di congegni tecnici adatti e di coerenti piattaforme politiche.

Nel giugno 1947 due fatti valsero a rianimare la fiducia: il discorso di H. Marshall a Harvard (S. U.), che preannunziava un piano di aiuti all'Europa, e l'attribuzione a Luigi Einaudi della direzione della politica economica italiana. Incominciò, da quella data, una nuova fase economica che fu caratterizzata dai tentativi di capovolgere la tendenza inflazionistica in atto e di avviare la moneta e i prezzi interni ad una relativa stabilità. Nel 1948 e nei primi mesi del 1949, questa stabilità - dopo un periodo di discesa dei prezzi (ultimo trimestre 1947) - è stata assicurata. Il sacrificio e lo sforzo cui si sono assoggettati gli Italiani furono notevoli, ma sarebbero stati assai più gravi, e forse insopportabili, se non avessero coinciso con l'applicazione dell'ERP, concreta realizzazione delle accennate proposte di Marshall (v. piano, in questa Appendice).

Le restrizioni qualitative e quantitative del credito del settembre 1947, nonché la ferma intenzione del governo di stroncare il processo inflazionistico in atto invertono la situazione. Il numero indice del corso dei titoli azionarî, salito nell'agosto 1947 a un massimo di 24 volte il livello del 1938, crolla nell'ottobre a 16 volte e continua a decrescere più lentamente fino al febbraio 1948; e così pure i prezzi all'ingrosso cominciano a discendere e il processo deflazionistico è accentuato dalla forzata liquidazione delle scorte a carattere speculativo che avevano caratterizzato il precedente periodo inflazionistico, ma non senza conseguenze immediate sul livello della produzione e sulla propensione agli investimenti. L'indice dei prezzi all'ingrosso, che aveva trovato il suo massimo nel settembre 1947 (62 volte quello del 1938), bruscamente contrattosi nel trimestre successivo, è oscillato poi tra le 52 e le 58 volte fino al marzo 1949, mentre gli indici del costo della vita si sono stabilizzati intorno alle 50 volte. I salarî reali ne hanno tratto vantaggio, poiché i salarî medî nominali nell'industria si sono mantenuti sulle 51-54 volte durante il 1948 e quelli nell'agricoltura sulle 54-57 volte rispetto al 1938. Nel frattempo gli aiuti esterni di carattere straordinario permettevano di saldare la bilancia dei pagamenti - che, per il quasi totale annullamento delle partite invisibili e per l'inevitabile aumento del tradizionale disavanzo commerciale, si presentava profondamente squilibrata - assicurando rifornimenti sufficienti per l'alimentazione e per la ripresa produttiva e facilitando una relativa stabilità del valore interno ed esterno della lira.

Valutazioni non ufficiali e non definitive, effettuate in dollari perché la instabilità della situazione monetaria non consentiva stime in valuta nazionale, facevano ascendere per il 1946 il previsto fabbisogno totale di importazioni, comprensivo dei trasporti, a 1,6 miliardi di dollari contro un volume di entrate ordinarie non superiore ai 300 milioni. In pratica lo sviluppo delle importazioni fu contenuto dalle scarse possibilità di rifornimento dei mercati internazionali e dalla deficienza di valute, specialmente dollari, mentre le esportazioni superarono le previsioni. La bilancia dei pagamenti del 1946 si è chiusa quindi con uscite per 1.097 milioni di dollari, coperte con entrate correnti per 422 milioni di dollari (372 milioni derivanti da esportazioni e 50 milioni da partite invisibili) e con l'apporto di 675 milioni di entrate straordinarie (UNRRA, 380 milioni; fondo paga truppe, 150 milioni; residuo aiuti della Federal Economic Administration, FEA, 60 milioni; conti sbloccati dagli Stati Uniti, 60 milioni; prestito dell'Export-Import Bank per l'industria cotoniera, 25 milioni). La situazione si prospettava non meno grave per il 1947 e in consuntivo la bilancia dei pagamenti correnti di quest'anno si è chiusa con uscite per 1568 milioni di dollari ed entrate per 774 milioni di dollari, con un deficit totale dell'ordine di 794 milioni, coperto con aiuti gratuiti per 282 milioni di dollari (UNRRA, 161; AUSA, 88; donazioni varie, 33), con 220,5 milioni di dollarì di accreditamenti da parte del governo americano (paga truppe e forniture varie), con prestiti a lungo termine da parte degli Stati Uniti per 50,2 milioni di dollari e dell'Argentina per 71,1 milioni di dollari, oltre che con riduzione delle riserve valutarie, con rientri di capitali dall'estero attraverso le importazioni franco-valuta e con altri movimenti di capitali.

Nel 1948, il disavanzo totale della bilancia dei pagamenti correnti, originariamente previsto dell'ordine di grandezza del 1947, è sceso a circa 400 milioni di dollari, per effetto combinato del migliorato ritmo di esportazione e del mancato sviluppo delle importazioni, connesso alla lentezza della ripresa ed alla perplessità delle iniziative in funzione di circostanze politiche e sociali (in particolare dell'attesa dell'esito delle elezioni). Il disavanzo è stato ampiamente saldato dagli aiuti ERP sotto la triplice forma di: doni (grants) in merci, facenti parte di un programma generale dei fabbisogni italiani; prestiti (loans) in dollari per l'acquisto di merci, anche queste rientranti nel programma; doni in merci condizionati (conditional grants) a equivalenti esportazioni, senza contropartite, effettuate dall'Italia, verso altri paesi aderenti all'ERP, le cui bilance dei pagamenti sono in posizione debitoria. Le importazioni finanziate dagli aiuti americani - che rappresentano una quota parte notevole del totale degli acquisti all'estero (il 40% circa nell'anno finanziario 1948-49) - vengono immesse sul mercato interno con sistemi eguali a quelli usati per le normali importazioni finanziate con mezzi valutarî guadagnati dall'Italia. Solamente esse sono sottoposte a speciali controlli e contabilizzazioni in quanto il privato acquirente ne versa il valore in lire (corrispondente al costo in dollari più i trasporti) al governo italiano, che - in base all'accordo di cooperazione economica fra l'Italia e Stati Uniti - deve provvedere ad accantonarlo in uno speciale fondo in moneta nazionale (Fondo-lire) destinato (salvo il 5% prelevato per le spese della Missione americana in Italia) a scopi di ricostruzione economica da decidersi d'intesa tra ilgoverno italiano e l'Economic Cooperation Administration (ECA).

Mentre per quanto riguarda il valore interno ed esterno della lira si può ritenere che il 1948 abbia segnato un notevole consolidamento della situazione e che il pericolo di un crollo della moneta sia superato, non altrettanto favorevoli conclusioni possono trarsi circa lo sforzo produttivo realizzato. Tale sforzo, sebbene crescente, non ha infatti ancora riportato la produzione italiana al livello prebellico. Gl'indici della produzione agricola e di quella industriale sono risaliti infatti nel 1948 rispettivamente all'87% e al 95% in confronto ai livelli del 1938 e il reddito nazionale si valuta tra il 90 e il 95%.

La quota di risparmio su tale reddito - che, giudicato per testa di abitante, deve tener conto di un aumento della popolazione tra il 1938 e il 1948 del 6% circa - si è aggirata intorno a un settimo del totale: propensione al risparmio che può essere giudicata alta, rispetto a un reddito medio molto modesto e a consumi frugali e rigidi, ma che non assicura la quota di investimenti reputata necessaria a ridurre il numero dei disoccupati a percentuali tollerabili e stimate "fisiologiche". Questo appare il problema fondamentale che si affaccia ai dirigenti della politica economica italiana in quella che, dopo la fase di assistenza e dopo la fase di stabilizzazione, potrà essere la fase più intensamente produttivistica dell'attuale dopoguerra: la sua soluzione richiede, non soltanto un'alta propensione al risparmio, ma una immissione di forti masse di risparmio estero. Contemporaneamente la politica estera del paese dovrà risolvere il ploblema d'una più vasta e razionale emigrazione.

Dal confronto delle cifre relative al bilancio di competenza espresse in miliardi di lire correnti con quelle espresse in miliardi di lire 1938 risulta che le spese statali, fortemente aumentate per i bisogni bellici, fino a raggiungere una cifra quasi pari a quella del reddito nazionale nel 1941-1942, siano andate poi progressivamente contraendosi ad un livello equivalente ad un quarto del reddito stesso, nonostante che nella loro espressione monetaria appaiano in aumento. Risulta anche che le entrate effettive hanno consentito la copertura di una parte sempre minore della spesa complessiva fino al 1944-45 (anno in cui raggiunsero soltanto un sesto) e sono poi risalite fino a oltre due terzi nel 1948-49 e a oltre quattro quinti nella previsione per il 1949-50.

Caratteristica dei bilanci dell'immediato dopoguerra è il notevole discostarsi delle previsioni dalle risultanze finali e quindi la continua necessità di aggiornare e rivedere tali previsioni per la mutevole situazione economica, per il variare del valore della moneta, per imprevedute spese di carattere sociale. Un maggior parallelismo tra entrate e spese è stato favorito a partire dal 1948 dall'art. 81 della Costituzione, secondo il quale ogni legge che importi nuove spese oltre quelle approvate nel preventivo deve stabilire i mezzi onde farvi fronte.

I periodi di guerra e di inflazione hanno radicalmente mutato la composizione delle spese e quella delle entrate, dando particolare rilievo nelle prime alle spese militari, a quelle di ricostruzione e a quelle per il personale, e riducendo invece fortemente l'onere per il debito pubblico, accentuando nelle seconde le entrate per imptiste indirette, il cui sistema di riscossione si adegua più facilmente al mutato metro monetario, e contraendo fortemente in proporzione il gettito di quelle dirette. A queste deviazioni si cerca di ovviare con la politica di bilancio del 1948-49 e del 1949-50, mentre attraverso una riforma tributaria, attualmente allo studio, si vuol riportare il peso delle entrate per tributi diretti ad un più equo rapporto. Uno sforzo notevole si compie per comprimere le spese cosiddette eccezionali e per ridurre l'onere dipendente dal costo dei servizî, accentuato dal forte numero di dipendenti statali (1.078.000 nel 1948).

Nel campo della imposizione diretta sono stati, nel periodo postbellico, adottati numerosi provvedimenti intesi a restituire a questa categoria di tributi la maggiore consistenza di cui li aveva privati la rapida svalutazione monetaria, mentre innovazioni sostanziali sono state introdotte nel campo della imposizione indiretta, rivedendo le modalità di riscossione e le aliquote della imposta generale sull'entrata, istituendo nuove imposte di fabbricazione, modificando alcuni dazî doganali, aumentando l'aliquota del diritto di licenza, ed infine adeguando i prezzi dei generi di monopolio. Quanto alla finanza locale, l'introduzione di una imposta personale progressiva straordinaria sull'ammontare delle spese non necessarie costituisce la innovazione di maggior rilievo, pur restando di difficile applicazione per la mancanza di un organico collegamento con l'imposta di famiglia e con quella sul valore locativo.

La gestione di cassa, oltre che alla formazione di ingenti residui passivi, ha dato origine ad un largo ricorso al debito fluttuante, che rappresenta ormai i tre quarti del debito complessivo.

La circolazione monetaria complessiva è cresciuta gradualmente ed irregolarmente con un ritmo del 138% nel 1943, del 79% nel 1944 del 22% nel 1945, del 32% nel 1946, del 56% nel 1947 e del z2% nel 1948, anno alla fine del quale ha raggiunto 963 miliardi (pari a circa 40 volte la circolazione del 1938), mentre l'indice del costo della vita si aggira intorno alle 50 volte. Per l'andamento della circolazione e delle riserve vedi la tabella pubblicata a pagina 720 di questo volume.

Il rapporto di cambio fra lira e dollaro, fissato a 100 dagli Alleati all'atto dello sbarco in Italia, ha dato luogo ad ampie trattazioni illegali; né valsero a stroncarle la maggiorazione del 125% (febbraio 1946), né la revisione della disciplina valutaria del commercio estero (marzo 1946), che consentì l'istituzione di conti valutarî privati per il 50% del ricavato delle esportazioni. Ne derivò invece una duplicità di cambî legali, che neppure l'aumento del rapporto ufficiale, portato a 350 lire per 1 dollaro il 1° agosto 1947, riuscì a unificare. Stabilito, però nel novembre 1947, che l'Ufficio italiano dei cambî acquistasse i dollari provenienti da esportazioni o altre operazioni (per la quota che è obbligatorio cedere) a un prezzo pari alla media dei corsi di mercato libero del mese precedente a quello dell'operazione, il cambio della valuta esportazione si è avviato verso una relativa stabilità, oscillando in tutto il 1948 intorno a 575 lire per dollaro. Nel novembre 1948 il governo italiano si è impegnato a mantenere il rapporto ufficiale della lira con la sterlina (fissato inizialmente a 403, nel febbraio 1946 a 907 e nell'agosto 1947 a 1411) sulla base di quello col dollaro, al cambio ufficiale di 4,03 dollari per sterlina.

Bibl.: Oltre le Relazioni della Banca d'Italia e gli Atti parlamentari, v.: Com. econ. per la Costituente, Rapporti, Roma 1946-47; Conf. Gen. dell'Industra it., L'economia italiana nel 1948, Roma 1948; Istituto per gli Studi di economia, Annuario della congiuntura economica italiana 1938-47, Firenze 1949.

Roberto Tremelloni

Dominî coloniali.

Per la questione delle colonie, in relazione agli obblighi del trattato di pace, v., in questa Appendice, africa (I, p. 71); africa orientale italiana (I, p. 85); cirenaica (I, p. 623); colonia (I, p. 647); egeo (I, p. 819); eritrea (I, p. 868); libia; somalia; tripolitania. In relazione a quanto esposto in dette voci (e soprattutto in I, p. 674) si precisa che le N. U. hanno rinviato (Parigi, dicembre 1948) la discussione della questione alla sessione dell'aprile 1949.

Preistoria (XIX, p. 721).

Scavi stratigrafici, rigorose revisioni e lo studio comparato delle culture italiane con quelle mediterranee ed europee hanno portato un grande progresso nella conoscenza dell'Italia preistorica. Il quadro che oggi se ne può tracciare differisce spesso anche nelle linee fondamentali da quello esposto nella voce citata.

Paleolitico inferiore. - Lo studio dei rapporti fra le culture umane e le terrazze fluviali o le linee di riva quaternarie ha dimostrato la lunghissima durata del Paleolitico inferiore, di cui nuove facies sono state identificate, specie nelle industrie su scheggia (Clactoniano, Tayaciano ecc.). Ne consegue una più esatta valutazione del significato delle stazioni italiane di questa età.

Industria clactoniana è stata riconosciuta nella Grotta dell'Osservatorio (Principato di Monaco) e alla valchetta Cartoni (Roma); industria amigdaliana a Quinzano (Verona), nelle alluvioni del Tevere ecc. Appartenente al Tayaciano è stato riconosciuto il giacimento di Loretello di Venosa, in cui questa industria, come in Palestina (Monte Carmelo), in Siria (Jabrud) e nella Russia europea (Kük Koba) sta al di sotto di un livello acheuleano superiore (Micocchiano).

Paleolitico medio. - Il panorama del Mousteriano italiano si è straordinariamente arricchito e di esso sono state meglio precisate le diverse facies e i rapporti con le variazioni del clima e del livello marino. Ai Balzi Rossi gli scavi della Barma Grande (L. Cardini) hanno rivelato fra i ciottoli della spiaggia tirreniana a strombus appena emersa grossolane schegge levalloisiane, e al di sopra strati mousteriani di cui gli inferiori con industria assai più grossolana e fauna calda (ippopotamo, elefante antico), i superiori appartenenti al mousteriano classico con fauna fredda (renna, marmotta).

Ricerche condotte da A. C. Blanc lungo le coste della Versilia, del Lazio e del Salernitano hanno portato ad individuare nelle formazioni dunari di spiaggia e nelle grotte litoranee una lunga serie di giacimenti mousteriani e paleolitici superiori la cui formazione potè essere collegata alle variazioni subite dalla linea di riva durante la regressione che segue alla trasgressione tirreniana (confermando i dati dei Balzi Rossi), ed anche alle variazioni del clima attestate dalla formazione dei terreni, dalle faune e soprattutto dalla flora. In base a tali osservazioni, il Mousteriano, che si sovrappone direttamente alle spiagge a strombus, appare dunque aver avuto inizio in Italia con la regressione che segue la trasgressione tirreniana (di cui sono testimonianza tali spiagge) ed essere continuato anche nel successivo periodo trasgressivo versiliano, fino almeno alla seconda delle tre probabili oscillazioni fredde dell'ultimo periodo glaciale. Al Graziosi si deve la localizzazione dell'industria mousteriana nella media fra le tre terrazze del Panaro, del Samoggia e di altri fiumi emiliani.

Al Mousteriano classico (cfr. La Quina) possono attribuirsi le stazioni dei Lessini, di Quinzano (Verona), dell'Amiata, del Cetona (Tomba di S. Francesco, Grotta di Gosto), di Perugia (Il Pino), del Materano (Scalaferri ecc.). Alla varietà alpina, caratterizzata soprattutto dalla presenza di ossa di Ursus spelaeus, spezzate nel caratteristico modo ad asola (cfr. Equi, Pocala), quelli di Grotta all'Onda (Lucca).

Nelle caverne del Circeo (Grotte Guattari e del Fossellone) e nelle vicine località dell'Agro Pontino il Blanc identificò una particolare facies ricavata da piccoli ciottoli di spiaggia (pontiniana), che compare non dissimile a Scalea e a Bisceglie (Grotta S. Croce). Per la conoscenza dell'uomo mousteriano sono di fondamentale interesse i due crani umani di Saccopastore attribuiti da A. C. Blanc all'interglaciale Riss-Würm e quindi considerati assai più antichi di un terzo cranio, dai caratteri più spiccatamente neanderthaliani, rinvenuto dallo stesso Blanc nella Grotta Guattari al Circeo, con industria pontiniana.

È evidente che anche il Mousteriano, per le variazioni di livelli marini e del clima di cui è stato spettatore, per la diversità delle sue facies industriali ed anche delle stesse razze umane che ne sono state portatrici, deve aver avuto una lunghissima durata.

Paleolitico superiore e mesolitico. - Le scoperte più importanti sono avvenute in Liguria. Ai Balzi Rossi scavi di A.C. Blanc e di L. Cardini al Riparo Mochi, hanno rivelato una successione culturale analoga a quella francese, in cui al di sopra del Mousteriano e separati da esso e fra di loro da strati sterili si ha: 1) un'industria di tipo périgordiano inferiore, con lamette minuscole a finissimo ritocco inverso e piccole larghe scheggie con ritocco alla base; 2) un livello di tipo aurignaciano medio con grattatoi a musetto, ecc.; 3) un'industria di tipo perigordiano superiore a tendenza microlitica, non geometrizzante, con lamette minuscole a dosso ribattuto, bulini vari, ecc.; 4) un'industria macrolitica con grossi grattatoi, forse riferibile al magdaleniano superiore, e infine, 5) in superficie, un'industria ipermicrolitica geometrizzante di tipo mesolitico (cfr. Sauveterriano) con fauna ancora fredda (stambecco, marmotta). Il cosiddetto "Grimaldiano" sembrerebbe dunque oggi essere il prodotto della confusione di diverse industrie del Paleolitico superiore, la cui distinzione non sarebbe stata riconosciuta negli scavi precedenti.

Un'industria di tipo aurignaciano, o meglio périgordiano superiore, con lame a dosso ribattuto ecc. è venuta in luce nel Finalese all'Arma dell'Aquila e alle Arene Candide. In questa caverna, sul deposito pleistocenico che la contiene si adagiano strati olocenici, caratterizzati da fauna selvaggia attuale e da un'industria litica di tipo mesolitico, ma notevolmente diversa da quella dello strato superiore del Riparo M0chi per l'assenza di microbulini e di tipi geometrizzanti, in cui abbondano piccoli grattatoi su lama corta e ciottoletti tinti di ocra che possono in qualche modo riavvicinarsi a quelli del Mas d'Azil, senza averne i disegni caratteristici. La seriorità rispetto al Riparo Mochi è attestata dalla fauna in cui ogni elemento freddo è ormai scomparso. Nello strato aurignaciano comparve la ricchissima sepoltura di un giovane capo adagiato su letto di ocra, con macigni posati sulle mani e sui piedi (fissazione del cadavere). Recava una cuffia di conchiglie di nassa, impugnava ancora una grande lama di selce e aveva intorno al torace quattro bastoni di comando in corno d'alce. Negli strati mesolitici si ebbe una autentica necropoli, con scheletri di tipo cromagnonoide, supini su letto di ocra, ed essi pure circondati da un abbondante corredo (macine e ciottoletti tinti d'ocra, selci, pugnali d'osso, denti di cervo forati, ecc.); numerose vertebre di scoiattoli trovate presso il collo di un ragazzo rivelano la presenza di un collare di pelliccia. Nuove stazioni sono state segnalate un po' ovunque. La Grotta del Fossellone (Circeo) ha dato un tipico aurignaciano medio, altre (Quinzano, Lago di Massaciuccoli, Tane del Diavolo di Parrano presso Orvieto, Canale Mussolini e Grottacce nell'Agro Pontino, Costiera di Sperlonga, C. Palinuro, Grotta S. Croce di Bisceglie, Zinzulosa di Otranto, Soleto, Grotta dei Pipistrelli di Matera) hanno dato orizzonti riferibili piuttosto all'aurignaciano superiore. In Sicilia una rigorosa revisione dei materiali e di alcuni giacimenti (S. Teodoro, Addaura) ha confermato l'assenza del Mousteriano, da taluni ancora posta in dubbio. A S. Teodoro sono venuti in luce alcuni scheletri, i primi paleolitici nell'isola, in cui il Graziosi ravvisa caratteri simili a quelli delle popolazioni mediterranee attuali, tipo umano che per la prima volta viene messo in evidenza nel Paleolitico superiore.

Varie stazioni paleolitiche superiori, con facies sensibilmente diverse, sono state identificate anche nella cuspide Sud-orientale dell'isola, ove questa cultura sembrava assente. Il riparo della Fontana Nuova (Marina di Ragusa) sembrerebbe riferibile all'Aurignaciano medio, altre (Palazzolo Acreide, Canicattini, Sortino, Grotta Lazzaro di Modica) all'Aurignaciano superiore. Notevole a Grotta Corruggi (Pachino) la ricchezza e varietà dei tipi, anche microlitici, da confrontare col noto riparo del Castello di Termini Imerese.

Notevoli le scoperte nel campo dell'arte quaternaria. Ai Balzi Rossi ai già noti trovamenti di statuette femminili e di ciottoli e ossa con incisioni si sono venuti ad aggiungere (notati da L. Cardini fra i materiali del Museo di Mentone) ciottoli con graffiti geometrici o con schematiche stilizzazioni della figura, umana analoghe a quella di Grotta Romanelli. Alla nota statuetta femminile di Savignano sul Panaro se n'è aggiunta un'altra da Chiozza di Scandiano, purtroppo non proveniente da strati culturali di sicura datazione, ed una terza di non accertata provenienza (Trasimeno?). Alle figurazioni graffite di Grotta Romanelli, già note da tempo (bovide, profili schematici femminili), si sono aggiunti blocchi incisi con figurazioni animalistiche (felino e cinghiale) e geometriche, e un blocco dipinto con figurazioni schematiche. Ciottoli incisi sono stati raccolti a Grotta S. Croce (Bisceglie). Un ciottolo dipinto di tipo aziliano fu raccolto dal Buchner alla Grotta delle Felci (Capri). Infine una pittura schematica parietale fu identificata da A. C. Blanc all'Arnalo dei Bufali (Sezze Romano).

Prime culture agricole. - Ancora più importanti sono i risultati nel campo delle culture agricole, grazie ai fondamentali studî di G. Patroni e di P. Laviosa Zambotti e ad importanti scavi che hanno permesso di ricostruire la successione delle culture in parecchie regioni, colmando lacune nelle nostre conoscenze e portando a più equilibrata valutazione della durata e importanza delle diverse culture. Importantissimi sono i risultati conseguiti in Liguria, ove lo scavo della caverna delle Arene Candide di Finale Marina (integrato dallo scavo della vicina Arma dell'Aquila) ha consentito la completa ricostruzione dell'evoluzione culturale.

Al mesolitico succede una prima cultura neolitica, caratterizzata da ceramica decorata con impressioni a crudo (cfr. Molfetta, Tremiti, Stentinello); poi una civiltà caratterizzata da vasi a bocca quadrata, pintadere, idoletti fittili, mestolini forati, ecc., che rivela connessioni con le culture balcaniche e danubiane della sfera del Tibisco. La decorazione prevalente è ora quella graffita dopo cottura. A questi strati corrispondono tombe con scheletro rannicchiato entro cista litica (Arene Candide) o con semplice masso capezzale (Arma dell'Aquila). Questa cultura viene cancellata dal diffondersi di una nuova civiltà, la civiltà "della Lagozza", i cui caratteri sono stati definiti da P. Laviosa Zambotti partendo dall'esame della stazione palafitticola della Lagozza di Besnate (Gallarate). Questa cultura che si estese sulla Lombardia (Lagozza e Isolino del Lago di Varese) e sull'Emilia (Pescale), presente anche nel Lucchese (Grotta dell'Onda), collega l'Italia con la Svizzera occidentale (neolitico lacustre antico o civiltà di Cortaillod) e con la Francia meridionale (Camp de Chassey e grotte meridionali). Ne sono caratteristiche ceramiche lucide, non ornate, prive di vere anse.

Non molto dissimile deve esser stato il corso delle civiltà più antiche in Emilia, ove gli scavi di Fiorano, del Pescale (Modena) e di Chiozza di Scandiano hanno fatto luce sulle culture precedenti la grande civiltà enea nella regione. La facies più arcaica (Fiorano, Albinea, Calerno, Campegine, ecc.) è caratterizzata da ceramica decorata con solcature, cuppelle, impressioni a chicchi di grano (tazze sagomate, scodelle emisferiche con anse a nastro soprelevate e sormontate da bottone) e da una industria litica conservante la tradizione del paleolitico superiore con grattatoi su lama, rombi, microbulini. Manca la frecciolina peduncolata. Nei residui di pasto prevalgono ancora gli animali selvaggi. La fase seguente (Chiozza, Pescale) è caratterizzata da vasi a bocca quadrata di varie forme, decorati con tecnica ad intaglio con spirali ricorrenti, meandri ecc. (stile di Vucedol), pintadere, ecc. È presente la ceramica figulina, acroma o dipinta, tipo Ripoli. Questa civiltà rivela il fondersi di correnti culturali varie, provenienti alcune dall'Italia meridionale e, attraverso essa, dalla Balcania (ceramica dipinta), altre della valle del Danubio (ceramica tipo Vucedol, vasi a bocca quadrata, ecc.). Ad esse sembra sostituirsi anche qui la civiltà della Lagozza, senza dubbio di origine occidentale, che si viene a sovrapporre al Pescale alla cultura precedente.

In Toscana, la presenza di ceramica impressa, identica a quella dei livelli più bassi delle Arene Candide all'isola d'Elba, offre una nuova prova dell'origine marinara (verisimilmente nordafricana) di questa prima facies, che interessa soprattutto le piccole isole (Malta, Tremiti, Elba) e le coste (Molfetta, Leuca, Siracusa, Finale Ligure, Bocche del Rodano). Le facies successive (ceramica graffita, sporadica ceramica dipinta tipo Ripoli - di cui altri frammenti dalla Grotta Lattaia di Cetona - e poi ceramica della Lagozza) sono presenti a Grotta dell'Onda (Lucca).

Nel territorio etrusco, a Pienza e soprattutto a sud dell'Amiata, al Botro del Pelagone (Manciano), a Corano e Poggio Formica (Pitigliano), a Ponte S. Pietro (Ischia di Castro), ecc. sono venute in luce necropoli di tombe a forno della cultura detta di Rinaldone, che rappresenta ormai il trapasso all'età dei metalli, caratterizzata da vasi a bottiglia talvolta lenticolari con anse a canale, da bicchieri troncoconici, da olle mono o biansate, ecc., talvolta associate con pugnaletti di rame. Allo stesso orizzonte culturale appartengono le tombe a fossa o a grotticella di Valvisciolo, Sermoneta e Casamari, queste ultime corredate da magnifici pugnali e cuspidi di selce a superfici interamente ritoccate (cfr. Remedello). Una cultura affine è stata recentemente identificata anche in Campania nella necropoli di Paestum (v. in questa App.), le cui ceramiche, pur ricordando i tipi tosco-laziali, ne differiscono soprattutto per i tipi delle anse e per forme particolari che rivelano rapporti con l'orizzonte elladico. Rapporti che, secondo P. Laviosa Zambotti, avrebbero avuto luogo attraverso la Sicilia, la cui influenza è evidente anche nel tipo della sepoltura.

Anche nell'Italia meridionale adriatica la più antica cultura agricola sembra quella caratterizzata dalla ceramica impressa (Tremiti, Molfetta, Canne, Vigna dell'Acqua, ecc.). La successione dei tipi è però talvolta difficile a stabilirsi mancando dati stratigrafici. Un acuto tentativo di ricostruirla è stato quello di R. Stevenson. Alla ceramica impressa sembra sostituirsi, nella fase successiva, quella graffita ed incrostata (stile di Matera), con cui si associa la prima ceramica dipinta di evidente influenza balcanica. La regione viene allora a gravitare nell'ambito culturale balcanico. La ceramica dipinta assume, nella probabile terza fase, un rigogliosissimo sviluppo (villaggi trincerati del Materano, stazioni delle Puglie, di Ripoli, ecc., ampiamente illustrate da U. Rellini) e viene esportata largamente verso le coste tirreniche (Grotta delle Felci a Capri) e adriatiche (stazioni emiliane), giungendo fino alla Liguria (Caverna dell'Acqua di Finale). Con la ceramica dipinta si associa quella monocroma grigia o rossoviva con anse tubolari. Una fase ancor più evoluta sarebbe rappresentata dalla ceramica a sottile tremolo marginato di Serra d'Alto (Gravela), che compare anche a Lipari, a Paternò, ecc. Alle tombe a fossa circolare della fase più antica (Molfetta) vengono a sostituirsi quelle a forno, di tipo siciliano, alcune delle quali sono state recentemente segnalate al Pizzone a Taranto. Larga diffusione assume in queste culture l'industria litica di tecnica campignana di cui vastissime stazioni-officine sono state identificate al Gargano. Essa rappresenta senza dubbio un apporto dell'Europa nord-occidentale alla costituzione delle culture italiane ed è probabile costituisca un riflusso dovuto a quelle correnti che hanno portato fino alla Charente e alla Normandia la ceramica graffita (Laviosa).

In Sicilia la civiltà di Stentinello, finora ritenuta esclusiva delle regioni orientali (Siracusano e zona etnea), è stata identificata nel Trapanese (Paceco), dimostrandosi così la sua estensione su tutta l'isola. La ceramica impressa la dimostra uscita dallo stesso ceppo delle più vecchie culture della Liguria, delle Puglie, ecc., sebbene sia certo durata più a lungo di esse, fino a ricevere gli apporti delle culture di influenza balcanica dell'Italia meridionale adriatica (ceramica dipinta di Megara Iblea, idoletti fittili ecc.). Sul finire dell'età di Stentinello tutta la Sicilia, ma particolarmente la cuspide nord orientale e l'arcipelago eoliano, devono aver subìto fortemente l'influsso delle culture apulo-materane, manifestatosi attraverso una larga esportazione di ceramiche a stralucido rosso e dipinte, i cui prodotti caratterizzano la stazione e necropoli di Marmo di Paternò, illustrata da I. Cafici, le stazioni di Lipari (Diana) e della Calcara di Panarea, ecc.; ma giungono sporadicamente fino al Siracusano (Matrensa), a Caltagirone (Bersaglio) e al Palermitano (M. Pellegrino). L'innesto di questa nuova corrente sul vecchio ceppo stentinelliano, a cui si aggiungono forse stretti rapporti con l'Iberia, porta probabilmente al sorgere della cultura di S. Cono (Licodia Eubea) e di Piano Notaro (Gela), presente in molte località della Sicilia orientale (Trefontane di Paternò, Grotta di Calafarina, Bersaglio di Caltagirone, ecc.) ed ancor più diffusa nella occidentale (cultura tipo Conca d'Oro, illustrata da I. Marconi Bovio). Essa è caratterizzata da particolari forme ceramiche, decorate con solchi curvilinei fiancheggiati da punti o con graffiti dopo cottura e recanti talvolta i primi tentativi locali di una decorazione dipinta. Nell'industria litica dominano le freccioline a base concava. Ma la Sicilia viene ad un certo momento attratta nella sfera delle culture egee dell'elladico medio sotto l'influenza delle quali sbocciano sulle coste orientali e meridionali la cultura di Castelluccio e quella di Serraferlicchio. Si tratta forse di un vero movimento di colonizzazione. Le due culture di Castelluccio (Siracusano) e di Serraferlicchio (Agrigento) sembrano essere due germogli paralleli e indipendenti delle culture elladiche. I caratteri della cultura madre si segregano nelle due culture derivate, ciascuna delle quali eredita elementi che l'altra non possiede. È comune ad entrambe una ceramica dipinta, identica nella tecnica, diversa nello stile decorativo così come nelle forme che decora. Essa si associa a Serraferlicchio con una ceramica monocroma lucida di colore rosso vivo e con una nera buccheroide, assenti a Castelluccio. Queste tre classi di ceramiche sembrano corrispondere alle tre classi della ceramica elladica (Mattmalerei, Urfirniss, Minia). Dall'orizzonte elladico derivano pure molte delle forme vascolari e soprattutto il tipo delle tombe a forno, che ora compare per la prima volta in Sicilia. Ceramica dipinta, talvolta a tre colori, analoga ai tipi di Serraferlicchio è stata segnalata nella Grotta del Vecchiuzzo (Petralia Sottana), a Termini Imerese, a Isnello, ecc. Nello stesso orizzonte sembra rientrare il Bersaglio di Caltagirone. Ma la cultura di Castelluccio, sviluppatasi dapprima nella cuspide sud orientale dell'isola, dotata di coerenza e rigidità stilistica assai maggiori, sembra aver esercitato ben presto la sua influenza sulla cultura di Serraferlicchio, assai più aperta ad accogliere elementi estranei (derivati dalle culture indigene) fino a sostituirsi ad essa anche nell'Agrigentino, ove assume una facies particolare (Monte Sara, Monte Aperto, Monte d'Oro, ecc.). La vecchia cultura indigena (S. Cono) non scompare, ma arretra di fronte al progredire delle culture di influenza elladica dalle quali deriva alcuni elementi (tombe a forno e pozzetto, ecc.), ed ha una tardiva fioritura nel Palermitano, ove giunge ad avere contatti con le culture iberiche dalle quali importa il caratteristico vaso campaniforme (Villafrati, Carini, Torrebigini), sotto la cui influenza si sviluppa la cultura della Moarda, caratterizzata da una ceramica riccamente decorata a fasce nella stessa tecnica di quello. I prodotti di essa sono spesso associati con la ceramica dipinta di Serraferlicchio, la quale, d'altronde, nello stile decorativo rivela talvolta indubbie influenze del vaso campaniforme. L'influenza delle culture di derivazione elladica risale la penisola e l'abbiamo rilevata evidente nelle necropoli di Paestum. In Sicilia trova rigoglioso sviluppo l'industria litica campignana, estranea ancora a Stentinello, ma dominante nelle culture seriori, di cui vaste officine litiche esistono negli Iblei (S. Cono, Calaforno, Scalona, ecc.). Anche le isole Eolie raggiungono una particolare prosperità, alimentata dal commercio dell'ossidiana che, raccolta a Lipari e lavorata nei villaggi delle isole (Panarea, Filicudi, Salina), era poi largamente esportata.

Età dei metalli. - Meno decisivo è stato il progresso degli studî per l'età dei metalli, già d'altronde assai meglio conosciuta. Il maggior contributo è stato portato dalla definizione dei caratteri ed espansione della civiltà "di Polada" dovuta a P. Laviosa Zambotti. Questa cultura che fiorisce nella Lombardia orientale e nel Veneto, ma la cui influenza si risente per tutta la valle Padana, la Francia meridionale e la Catalogna si sviluppa attraverso due fasi, l'una strettamente connessa alla civiltà di Remedello e quindi avente le sue radici nei primi albori della età dei metalli, la seconda parallela alla cultura enea padana di Castione dei Marchesi (già detta "terramaricola"). Questa a sua volta è preceduta da altra facies culturale (Lagazzi di Vho), sincronizzabile con Polada I. Alla civiltà di Polada I appartengono le palafitte recentemente scavate di Fimon, di Barche di Solferino e soprattutto quella, importantissima per vastità, conservazione e rinvenimenti, di Molina di Ledro.

Alla conoscenza della cultura appenninica dell'Italia peninsulare hanno portato contributi le ricerche del Calzoni sulla Montagna di Cetona (stazioni di Belverde, con tipica ceramica "appenninica" decorata ad intaglio, e di Casa Carletti, più tarde forme ormai preludenti all'età del ferro; entrambi gli orizzonti alla Tana del Diavolo di Parrano-Orvieto), di F. Rittatore a Grotta Misa (Ischia di Castro, Viterbo), di L. Cardini alla Grotta dello Scoglietto (Monti dell'Uccellino) e quelle di G. Buchner a Ischia (ove la ceramica appenninica ad intaglio è stratigraficamente associata con ceramica micenea del minoico tardo III).

Per l'età del ferro le scoperte non hanno modificato sensibilmente il panorama già noto per la penisola: il nostro esame si limiterà quindi alle regioni periferiche, la cui conoscenza era rimasta fino a poco tempo addietro meno approfondita. Particolarmente studiata è stata l'evoluzione della civiltà di Golasecca: dal Barocelli nelle maggiori necropoli del Novarese (Ameno, Castelletto Ticino, S. Bernardino, di Briona, ecc.), dal Crivelli nel Canton Ticino. Attenzione è stata per la prima volta portata, oltreché alle tombe, agli abitati di questa età (Alba, Bric Berciassa presso Borgo S. Dalmazzo, Monte Mesma di Ameno, Merlotitt, ecc.). Particolare luce ha ricevuto la Liguria marittima che in quest'epoca rientra come area marginale nella civiltà di Golasecca e presenta condizioni di singolare arretratezza. Lo scavo di un abitato a Rossiglione ha rivelato il perdurare della industria litica, forse oltre il V-IV sec. a. C., e lo scavo delle Arene Candide quello dell'abitazione nelle cavenne (cfr. Tanassa di Toirano, Bergeggi, ecc.). Il perdurare della stessa facies culturale in alcuni castellieri della Riviera di Levante (Pignone, Framura, ecc.) dimostra le condizioni di primitività della regione ancora al tempo delle guerre romano-liguri (fine III sec. a. C.).

Le culture del Trentino e dell'Alto Adige sono state oggetto di ampî studî di P. Laviosa Zambotti, che ha messo in luce la dipendenza culturale di quella regione dalla Valle Padana e i fenomeni di ristagno culturale che vi si sono manifestati.

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Luigi Bernabò-Brea

Storia (XIX, p. 791; App. I, p. 748).

La politica razzista. - La seconda metà del 1938 registra per la politica dell'Italia fascista due eventi principali: il razzismo e Monaco. L'uno si presenta come un fatto di politica interna, l'altro di politica estera: in effetti, sono le due facce complementari di una stessa realtà, la "messa al passo" o Gleichschaltung dell'Italia fascista rispetto alla Germania hitleriana.

Mussolini, in verità, ebbe a dichiarare il 30 luglio 1938 a un gruppo di federali dell'Alta Italia: "anche nella questione della razza noi tireremo diritto. Dire che il fascismo ha imitato qualcuno o qualcosa è semplicemente assurdo". Nessun dubbio, tuttavia, è possibile sul carattere riflesso, d'imitazione, del razzismo antisemitico fascista. Mai, fino a quell'anno, il regime fascista aveva proclamato l'esistenza di un problema ebraico in Italia; Mussolini aveva piuttosto ripetutamente affermato il contrario. Perché in quel dato punto, all'inizio dell'estate del 1938, egli ritenesse necessario cambiare improvvisamente rotta; se, nel far questo, abbia subìto pressioni di Hitler, sono questioni di una certa importanza storica, non ancora affrontate. Si potrebbe congetturare una relazione con la visita di Hitler a Roma nel maggio 1938, e altresì con l'inizio della crisi cecoslovacca, in quanto Mussolini sentì il bisogno, man mano che si stringeva sempre più dappresso alla Germania nel campo della politica internazionale, di adeguare contemporaneamente, il più possibile, la mentalità e il costume fascisti a quelli del nazionalsocialismo. Più in generale, possiamo considerare l'iniziativa antisemitica mussoliniana come una applicazione particolare del principio affermato da Mussolini il 18 luglio 1938 al presidente del Consiglio e al ministro degli Esteri ungheresi B. Imrédy e K. de Kanya, che tra Italia e Germania esisteva una totale solidarietà di regime.

La campagna razzista si aprì con la pubblicazione, il 14 luglio 1938, della "Carta della razza", in dieci punti, attribuita a un gruppo di scienziati, taluni dei quali negarono poi di averla approvata. La sostanza era questa. Esistono razze, piccole e grandi; il concetto di razza è puramente biologico; la popolazione attuale italiaua è ariana, ed esiste ormai una pura razza italiana. Questa non va confusa con le razze mediterranee orientali o africane ("pericolose le teorie che sostengono l'origine africana di alcuni popoli europei"); gli Ebrei non appartengono alla razza italiana (9); i caratteri puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo (10); "è tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti" (7). Era visibile lo sforzo di mantenere una certa moderazione di linguaggio (soprattutto quell'affermazione del carattere puramente biologico, fatta per tranquillizzare le autorità cattoliche); al che si associava il tentativo, sviluppato in una nota dell'Informazione diplomatica del 5 agosto, di mescolare artificialmente insieme la preoccupazione contro il meticciato nell'Africa italiana e l'antisemitismo. La conclusione pratica, però, era appuntata contro gli Ebrei; ma anche questa poté sembrare dapprima dovesse essere limitata. La stessa nota dell'I. D. diceva che d'ora innanzi la partecipazione degli Ebrei "alla vita globale dello stato, doveva adeguarsi al rapporto numerico fra essi e il popolo italiano". Una specie, dunque, di numerus clausus, applicato alle attività civiche dei cittadini di razza ebraica. Sennonché, già il 1° settembre, veniva preso un provvedimento gravissimo (date soprattutto le persecuzioni antisemitiche già scatenate in Germania): l'espulsione dall'Italia, entro sei mesi, degli stranieri di razza ebraica venuti dopo il 1° gennaio 1919. E il giorno dopo seguiva il primo ostracismo agli Ebrei anche italiani: essi erano esclusi dall'insegnamento nelle scuole governative o con effetti legali; esclusi anche dall'assistentato universitario, dalla libera docenza, dalle accademie e istituti analoghi; vietata l'iscrizione nelle scuole fornite di effetti legali. La seconda ondata si ebbe con le deliberazioni del Gran consiglio del 6 ottobre (perfezionate col decr. legge 19 novembre), vietanti il matrimonio di Italiani con non ariani (questo il termine costantemente e spropositatamente adoperato, per "arii"); escludenti gli Ebrei dal possesso o direzione di terre, case, aziende al disopra di una certa entità. Gli Ebrei erano esclusi anche dal servizio militare obbligatorio e dal partito; vietato ad essi di tenere al servizio domestici italiani ariani.

Dove, però, riappariva la volontà di mantenere una certa moderazione - di non spingere, cioè, la Gleichschaltung fino ad eccessi, insopportabili ugualmente per il senso di umanità e per quello d'indipendenza del popolo italiano - era nella definizione della categoria "ebreo", confrontata con le gravissime disposizioni tedesche di purezza ariana negli ascendenti maschili e femminili. Venne stabilito, cioè, che fosse considerato di razza ebraica chi nascesse da genitori entrambi ebrei, o, nascendo da matrimonio misto, professasse la religione ebraica: una ipotesi, quest'ultima, i cui casi di applicazione dovevano essere estremamente rari, mentre abbastanza frequenti erano invece in Italia i matrimonî misti. Si aggiungeva inoltre (non per la proibizione del matrimonio misto ma per le esclusioni da possessi e attività) il temperamento della "discriminazione": avevano diritto a questa quegli Ebrei che potessero addurre determinate benemerenze nazionali o fasciste.

La terza ondata non si ebbe che nella primavera del seguente anno. Il 29 aprile 1939 il consiglio dei ministri approvò il disegno di legge concernente la "disciplina dell'esercizio professionale per i cittadini di razza ebraica": esclusi totalmente dalla professione di notaio o da incarichi di pubblico ufficiale; i non discriminati da quella di giornalista; ammessi i non discriminati ad esercitare le altre solo per Ebrei. Questi provvedimenti trovarono ostilità nella maggioranza del popolo italiano e in seno agli stessi fascisti, tanto che la direzione del partito ritenne necessario di fare una campagna contro il "pietismo" (così, con doppio sproposito linguistico e storico, venne chiamato) degli Italiani nei riguardi degli Ebrei. E veramente può dirsi si sviluppasse in quel momento in Italia una corrente di sentimento filosemitico, che ingrossò l'antifascismo. Tale corrente attenuò in una certa misura gli effetti pratici dei provvedimenti antisemitici.

I rapporti con la S. Sede. - La campagna e i provvedimenti razzistico-antisemitici dettero luogo a non lievi difficoltà con la Santa Sede, contribuendo alla formazione di uno stato di disagio e di tensione tra Vaticano e governo fascista. Da qualche tempo si era accentuata nello spirito del pontefice Pio XI - autore dei Patti lateranensi con Mussolini e del concordato con Hitler - accanto alla preoccupazione finora nettamente predominante per il pericolo comunistico, e accennava talora a sovrastare, quella per il totalitarismo nazifascistico. Significative erano state le parole del pontefice il 4 maggio 1938, in occasione della visita di Hitler, contro l'inalberamento in Roma "di un'altra croce che non è la croce di Cristo". Nell'estate 1938 una serie di discorsi del papa associaron0 al tema del "nazionalismo esagerato" quello del razzismo, sopra un piano dottrinario ma con riferimenti espliciti od impliciti alle questioni allora agitate nelle sfere dirigenti italiane e sboccate nei provvedimenti governativi del 18 settembre.

Ricevendo il pellegrinaggio della Confederazione francese dei sindacati cristiani, Pio XI parlò espressamente contro il totalitarismo statale: lo stato non può essere veramente totalitario perché non è in grado di dare all'individuo quanto gli occorre per la perfezione interiore, per la salvezza dell'anima. Un regime veramente totalitario in fatto e in diritto è quello della Chiesa, perché l'uomo, come creatura di Dio, appartiene totalmente alla Chiesa che di Dio è la rappresentante.

Le polemiche intorno alle questioni della razza avevano fatto nascere qualche difficoltà fra l'Azione cattolica e il Partito fascista. Un comunicato pubblicato il 20 agosto dall'agenzia Stefani annunciò che fra il segretario del Partito nazionale fascista e il presidente dell'ufficio centrale dell'Azione cattolica italiana si era stabilito di attenersi agli accordi del settembre 1931, che il comunicato stesso riproduceva. L'Osservatore Romano del 25 agosto aggiunse che era stata altresì dichiarata del tutto ammissibile la simultanea appartenenza all'Azione cattolica e al Partito fascista. Avendo taluni giornali italiani ed esteri commentato il comunicato del 20 nel senso che l'Azione cattolica aveva riconosciuto per la sua apoliticità di essere estranea al tema razziale, l'Osservatore Romano (24 agosto) replicò che questo tema, come era stato considerato dal Santo Padre, non aveva carattere politico, ma spirituale.

La fine dell'anno 1938 e il principio del seguente vennero contrassegnati nel mondo ecclesiastico italiano da varî documenti pastorali di vescovi trattanti la questione della razza e quella semitica, con qualche divergenza fra loro se non di posizioni strettamente dottrinali, almeno di formulazioni, d'intonazione e di atteggiamento pratico. Fu rilevata particolarmente l'omelia pronunciata il 13 novembre dal cardinale arcivescovo di Milano in duomo, molto rigida riguardo al razzismo tedesco e terminante con l'invito al genio dell'italica stirpe e alla sapienza del nostro governo per una cooperazione con la grazia divina che voleva tener lontana dall'Italia "questa novella nordica eresia che ci deprime".

Il punto più delicato fu quello del divieto dei matrimonî fra "ariani" e "non ariani", dato che per il Concordato il matrimonio religioso ha in Italia pieni effetti civili. Proprio questi effetti civili furono espressamente denegati, per tal caso, da un disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 10 novembre 1938 e la contraddizione con il Concordato fu rilevata dall'Osservatore romano del 15 che era stato preceduto da una nota diplomatica di protesta del 13. Pio XI si era già rivolto con due autografi (4 e 5 novembre) al capo del governo e al re imperatore. Rispose solo il secondo dicendo genericamente che di quanto esponeva il pontefice "si sarebbe tenuto il massimo conto ai fini di una soluzione conciliativa dei due punti di vista". La soluzione non venne, anzi la tensione aumentò. Dopo una seconda e una terza nota di protesta (22 novembre, 4 dicembre), Pio XI, la vigilia di Natale, nella consueta allocuzione al Sacro collegio, accennando particolarmente al prossimo decennale della Conciliazione, espresse la sua riconoscenza verso "il nobilissimo sovrano e il suo incomparabile ministro", indicò quali motivi di sue preoccupazioni presenti: l'ostilità contro l'Azione cattolica che si era manifestata in varî luoghi (e anche contro il cardinale arcivescovo di Milano, di cui egli approvava la pastorale); il vulnus inferto al Concordato dalle leggi razziali italiane; le onoranze in Roma a "una croce nemica della Croce di Cristo". La Chiesa non mutò la sua prassi nella celebrazione di matrimonî con "non ariani", i quali peraltro non venivano più trascritti civilmente.

Tuttavia queste dimostrazioni del pontefice, indubbiamente significative, non portarono ad un'alterazione profonda e durevole delle relazioni fra Chiesa e Stato in Italia. Va d'altronde rilevato che, frattanto, nella questione spagnola - pure essendosi Pio XI astenuto da manifestazioni ufficiali e avendo anzi preferito il non parlarne troppo - si trovarono allineate col governo italiano, sia pure per motivi in parte diversi, le più alte sfere del cattolicismo italiano. La Civiltà Cattolica, nel settembre 1937, sostenne la legittimità giuridica e morale dell'insurrezione franchista, e giustificò altresì gl'interventi volontaristici a favore della Spagna nazionale. E l'Osservatore romano si dimostrò, specie nell'ultimo periodo della guerra, apertamente favorevole a Franco. La vittoria finale di Franco, tra il gennaio e il marzo 1939, che fu un grande successo internazionale del governo fascista, fu anche salutata con simpatia dal nuovo pontefice Pio XII, che era appunto il cardinale Pacelli, eletto il 2 marzo 1939. Pio XI era morto il 10 febbraio, alla vigilia del decennale della Conciliazione per il quale il pontefice aveva preparato un discorso (rimasto inedito), a cui egli teneva moltissimo e che sembra fosse tale da dover riuscire tutt'altro che gradito al fascismo. Il successore Pio XII venne al trono con disposizioni favorevoli al mantenimento delle buone relazioni con il governo fascista. Ma la messa all'Indice, seguita poco dopo (24 aprile 1940) delle Opera omnia di A. Oriani, la cui edizione era stata promossa e curata dallo stesso Mussolini, che aveva dichiarato l'Oriani "anticipatore del fascismo", illustra i limiti di tali disposizioni.

Politica estera: Monaco. - Mussolini, per suo conto, affettava adesso con gli intimi indifferenza per la Santa Sede. All'opera per la pace spiegata da Pio XI, particolarmente negli ultimi mesi di vita, e continuata dal successore, non è da attribuire un'influenza sulla politica estera fascista; non fu certo d'ispirazione papale la piena solidarietà con la Germania affettata da Mussolini per la crisi sudetica. L'ambasciatore italiano a Berlino, B. Attolico, valente ed onesto per quanto il posto glielo permetteva, fin dal giugno 1938 aveva dato l'allarme circa il pericolo di guerra della politica di Hitler contro la Cecoslovacchia. Il governo fascista tentò di appurare le reali intenzioni di Hitler, per evitare di essere sorpreso dagli avvenimenti; tentò anche (attraverso le note dell'Informazione diplomatica e una lettera aperta di Mussolini in data 15 settembre a Runciman) di patrocinare un'accettazione delle richieste sudetiche per evitare la guerra. Ma, mentre questi tentativi non ebbero alcun effetto pratico, le prese di posizione ufficiali del duce - particolarmente, la tournée di discorsi del settembre - furono tutte in favore della Germania; egli, anzi, allargò la campagna contro la Cecoslovacchia, denunciandone, nel discorso a Trieste del 18 settembre, l'"inconsistenza organica" e domandando una soluzione generale secondo il principio di riazionalità. Nello stesso discorso annunciò che, ove si venisse a un conflitto e si formasse "un fronte di carattere universale", l'Italia sarebbe stata accanto alla Germania. Nel già menzionato colloquio del 18 luglio, con il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri ungheresi, pur dichiarando di esser convinto che, se anche la Germania attaccasse la Cecoslovacchia, non si verificherebbe nessuna crisi europea, aggiungeva che l'Italia appoggerebbe completamente la politica tedesca, mobilitando all'occorrenza contro la Francia, e se questo non bastasse, attaccandola (in questa occasione egli parlò, come si è detto, della totale solidarietà dei due regimi).

Tuttavia, su invito fattogli da N. Chamberlain la mattina del 28 settembre d'intercedere presso Hitler perché sospendesse l'attacco imminente contro la Cecoslovacchia, egli chiese a Hitler - riconfermando la decisione dell'Italia di seguire in ogni caso la Germania - un ritardo di ventiquattro ore, che Hitler concesse. Avendo subito dopo il governo inglese proposto a Hitler un convegno a quattro per risolvere pacificamente la questione, si ebbe a Monaco, il 29 e il 30 la conferenza tra Hitler, Mussolini, Chamberlain e Daladier, terminata con l'accordo per la cessione dei territorî sudetici.

In questa conferenza Mussolini funzionò di fatto da presidente, e fu considerato come il salvatore della pace. Ma l'accordo medesimo funzionò a tutto vantaggio della Germania, la quale sfruttò sino in fondo la sua sostanziale, se non formale, vittoria diplomatica, con l'aiuto del governo fascista, alla cui collaborazione con Hitler le due potenze occidentali abbandonarono l'esecuzione dell'accordo medesimo. L'attività personale di Mussolini consistè - alla conferenza e dopo - nell'imporre, secondo il discorso di Trieste, le rivendicazioni delle altre minoranze, più particolarmente di quella ungherese, accentuando lo smembramento dello stato cecoslovacco. Le cessioni cèche all'Ungheria furono regolate con l'arbitrato Ribbentrop-Ciano del 2 novembre.

Dopo il successo di Monaco, Mussoliui aveva nuovamente (come dopo la conclusione vittoriosa della campagna etiopica) la via aperta per un avvicinamento alle potenze occidentali, e per una politica almeno di equilibrio fra esse e l'imperialismo hitleriano. Egli però - che aveva abbandonato la causa dell'indipendenza austriaca già varî mesi prima dell'Anschluss, e nel discorso di Genova del 14 maggio 1938 aveva dichiarato la politica di Stresa morta e sepolta - scelse, invece, un'altra via: quella d'imitare nei confronti della Francia i metodi hitleriani.

Dopo Monaco, Inghilterra e Francia avevano proceduto al riconoscimento formale dell'impero italo-etiopico, mettendo in vigore la prima (16 novembre 1938) il complesso accordo con l'Italia del 16 aprile - stipulante fra l'altro lo statu quo nel Mediterraneo - e nominando la seconda il 4 ottobre un nuovo ambasciatore a Roma, A. François-Poncet, trasferito da Berlino, con le credenziali dirette al re imperatore. Il 30 novembre - il giorno stesso del fallito sciopero generale francese - il ministro degli Esteri italiano G. Ciano fece alla Camera dei deputati un'esposizione di politica estera. Egli terminò parlando degl'interessi e delle naturali aspirazioni del popolo italiano. Dai deputati partirono allora grida di: Tunisi, Gibuti, Corsica. A una protesta dell'ambasciatore francese, Ciano rispose che la manifestazione dei deputati non doveva essere interpretata come espressione della politica governativa. Vi furono parecchie dichiarazioni del ministro degli Esteri francese G. E. Bonnet escludenti qualsiasi cessione di territorî all'Italia. Il 17 dicembre 1938 una nota italiana al governo francese dichiarò decaduti gli accordi del gennaio 1935. Parigi rispose il 26 prendendo atto della denuncia e polemizzando con gli argomenti esposti dalla nota fascista. Al principio del gennaio 1939 il presidente del consiglio francese Daladier fece un viaggio in Corsica e a Tunisi, con grandi dimostrazioni in risposta a quelle fasciste. Il 26 gennaio 1939 la Camera francese chiuse una discussione di politica estera votando all'unanimità dei 609 presenti per l'integrità dell'impero.

Mentre la situazione era così tesa tra Francia e Italia, il presidente del consiglio inglese Chamberlain e il ministro degli Esteri E. F. Halifax fecero un viaggio a Roma (11-14 gennaio 1939). Il comunicato finale affermò che dai colloqui era risultata la volontà comune di seguire una politica mirante efficacemente al mantenimento della pace. Non si parlava di risultati concreti che, infatti, non ci furono. Mussolini dichiarò che l'Italia voleva la pace e avrebbe fatto una politica di pace: carattere e limiti del dissidio con la Francia erano chiariti dalla denuncia italiana degli accordi del 1935; egli riteneva che, terminata la guerra spagnola, sarebbe possibile risolvere, attraverso conversazioni dirette, la controversia. Chamberlain si limitò ad esprimere rammarico per il peggioramento delle relazioni italo-francesi, ad augurare un'intesa e a rilevare l'analogia fra le relazioni italo-tedesche e quelle anglo-francesi. Tornato in Inghilterra, Chamberlain, accettando sostanzialmente il punto di vista di Mussolini, disse il 31 gennaio ai Comuni essere improbabile che i negoziati italo-francesi risultassero fruttuosi finché tra i due paesi si elevava la barriera della guerra spagnola. Nessuna parola di critica al contegno italiano verso la Francia. Vero è, tuttavia, che il 6 febbraio ebbe a dichiarare che "una minaccia qualsiasi agli interessi vitali della Francia, da qualsiasi parte provenisse, non potrebbe che suscitare l'immediata cooperazione di questo paese con la Francia", dichiarazione rispondente - in forma forse meno recisa - a quella di Bonnet del 26 gennaio alla Camera francese. L'Informazione diplomatica dell'8 febbraio disse che Chamberlain aveva fatto la stessa dichiarazione a Roma. Insomma, nonostante ogni mollezza inglese, Mussolini non ignorava che ogni attacco dell'Italia alla Francia avrebbe tratto in campo l'Inghilterra mentre, d'altra parte, era facile comprendere che il metodo di pressione pubblica adottato dal governo fascista rendeva quasi impossibile a una grande potenza di venire a concessioni.

L'ispirazione più profonda della politica estera fascista è rivelata nelle dichiarazioni fatte da Mussolini il 28 ottobre 1938 a Ribbentrop, ministro degli Esteri del Reich. All'informazione di questo, che il Fuhrer era convinto dell'inevitabilità di una guerra con le democrazie occidentali, il duce rispose assentendo. Questa guerra era "nel dinamismo storico. Si è determinata una frattura insanabile fra i due mondi". Al tempo stesso, Mussolini riconosce che "nessuno pensa ad attaccare gli stati totalitarî". Sono questi che debbono allearsi "per cambiare la carta geografica del mondo". In particolare, l'Italia con la Francia dovrà "un giorno regolare molte partite in sospeso che non potranno essere liquidate senza la guerra. Era la stessa concezione che aveva spinto Mussolini nel 1935 alla guerra contro l'Etiopia, rifiutando la possibilità di uno sfruttamento pacifico effettivo di questa.

Tuttavia Mussolini in quel colloquio, in cui Ribbentrop venne a sostenere un progetto di alleanza fra Germania, Italia e Giappone (il Tripartito), non ritenne che la situazione psicologica in Italia fosse matura per l'alleanza formale dell'Italia con la Germania, pure affermando la piena solidarietà dei due paesi, e assicurando "che nel frattempo niente sarà fatto tra noi, la Francia e l'Inghilterra": con ciò annullava di fatto la libertà formalmente mantenuta. Al principio del 1939, del resto, egli scioglieva la riserva sul tempo, proponendo a Berlino la conclusione dell'alleanza tripartita entro gennaio, dando tuttavia ad essa un carattere piuttosto difensivo, di "un patto di pace". Ma la conclusione dell'alleanza tripartita difensiva fu procrastinata dal Giappone; allora Mussolini inclinò ad affrettare l'alleanza a due, promovendo intanto le intese tecniche fra gli stati maggiori italiano e tedesco. Tra l'aprile e il maggio 1939 vi furono in Italia ripetuti colloqui del genere.

Politica interna: autarchia economica, soppressione della Camera dei deputati, fascistizzazione della cultura. - Tutta la politica interna del regime era sempre più concentrata verso l'obbiettivo gli raccogliere nelle mani del governo tutta l'autorità e le forze della nazione, con lo scopo finale della guerra vittoriosa. A ciò tendevano congiuntamente la politica autarchica, quella demografica e quella di bonifica integrale. L'11 novembre 1938 chiudeva le sue riunioni la commissione superiore per l'autarchia, con un discorso del duce che tracciava direttive per il futuro svolgimento della battaglia autarchica. Seguì, alla fine dell'anno, l'istituzione di un comitato interministeriale per l'autarchia. Precedentemente, il 24 ottobre, Mussolini aveva inaugurato una mostra a Torino per illustrare i progressi compiuti dal Piemonte nel campo dell'autarchia. Il 22 dicembre altra inaugurazione a Roma, sempre compiuta da Mussolini, della mostra della bonifica integrale; precedentemente, il 16, egli aveva inaugurato il comune di Carbonia in Sardegna; il 30 ottobre 1939 inaugurò, con Pomezia, il quinto comune dell'agro pontino. L'opera di bonifica e di colonizzazione s'intendeva ora estenderla alla Sicilia: il 20 luglio 1939 Mussolini, in un rapporto alle gerarchie di Sicilia, annunciava un piano per la cessazione del latifondo siciliano, con un'opera di bonifica e colonizzazione di un decennio. Le prime 2000 case coloniche sarebbero state inaugurate il 28 ottobre 1940. Intensamente si spingeva, non guardando al costo dell'impresa, la colonizzazione libica. Il 25 ottobre 1938 il Gran consiglio dichiarava la Libia "parte del territorio nazionale" e il 29 ventimila coloni (1800 famiglie, con numero minimo di cinque persone) reclutati in trentasei provincie, partivano per la Libia. Un anno dopo, il 28 ottobre 1939 - era già scoppiata la guerra - altre 820 famiglie coloniche partivano da Venezia per la Libia, il 29 ottobre 367 da Napoli, ; il 30, da Palermo, 165; insieme si pubblicavano i risultati della "colonizzazione demografica in Etiopia".

Dai discorsi del duce appariva in ogni occasione lo spirito di avversione alle "grandi democrazie" e il pensiero della preparazione militare e della guerra. Il sottosegretario alla guerra A. Pariani, in un articolo di rivista del 1938, dichiarava che l'Italia poteva mobilitare 9.800.000 uomini, a cui se ne aggiungevano altri 2.300.000 atti alle armi, residenti nelle terre dell'impero e nelle provincie dell'Africa settentrionale. Cifre condensate da Mussolini nella celebre frase degli "otto milioni di baionette"; sennonché rimaneva a provvedere l'armamento adeguato, che non c'era, come poi si vide da tutti, e come già allora sapevano taluni addentro alle segrete cose.

Una riforma politica interna coronante l'edificio autoritario fascista fu la soppressione della Camera dei deputati, sostituita da quella "dei fasci e delle corporazioni", con cui svanì l'ultima traccia delle libertà statutarie. Essa fu votata per acclamazione (nuovo uso introdotto, eminentemente antiparlamentare) dalla Camera nella sua ultima seduta del 14 dicembre 1938, contemporaneamente al complesso dei provvedimenti "per la difesa della razza italiana".

La nuova Camera fu costituita dalla fusione di due assemblee già esistenti, il Consiglio nazionale del partito e il Consiglio nazionale delle corporazioni: tuttavia i due consigli continuavano ad avere ciascuno la propria individualità per le rispettive funzioni specifiche. Parte dei membri del secondo consiglio non entravano nella Camera, in quanto semplici consulenti tecnici delle corporazioni. In complesso, i membri della nuova Camera erano 600; non vi erano più elezioni, essendo i seggi assegnati in ragione del posto tenuto nei due consigli; bensì c'era un rinnovamento continuo, con i cambiamenti nei ruoli dei consigli stessi. veniva mantenuta però (senza più nessun significato) la divisione in legislature. Solo i provvedimenti di maggiore importanza venivano discussi ín rìunione plenaria, sbrigandosi gli altri (anche se si trattava di leggi) nelle commissioni. La nuova Camera fu inaugurata dal re il 23 marzo 1939, con un discorso della corona contenente un quadro completo della politica fascista. Ne fu presidente, come della precedente Camera dei deputati, Costanzo Ciano, mentre la presidenza del Senato fu data a Giacomo Sualdo, togliendola a Luigi Federzoni; ciò consumò il "collocamento a riposo" del capo del nazionalismo italiano.

A Federzoni fu data la presidenza dell'Accademia d'Italia, in cui fu assorbita (con disegno di legge approvato dal consiglio dei ministri il 31 maggio 1939) l'Accademia dei Lincei, una delle più antiche del mondo. Questo atto aveva valore di simbolo per la fascistizzazione della cultura italiana.

A questa fascistizzazione doveva servire anche la Carta della scuola, approvata dal Gran Consiglio del fascismo il 15 febbraio 1939 e proclamata silloge dei "principî necessari a una rinnovazione rivoluzionaria della scuola". Nella relazione al Gran Consiglio il ministro dell'Educazione nazionale G. Bottai mise in rilievo la socialità e la politicità della scuola e la sua necessaria inserzione nell'attività produttiva del popolo. Queste ultime parole potevano indicare una intenzione di collegamento fra la scuola e la politica economica "autarchica". Alla politicizzazione e fascistizzazione della cultura era anche destinato il centro di preparazione politica, o Ateneo, annunciato dal segretario del partito fascista A. Starace il 28 luglio 1939: esso aveva sede al Foro Mussolini e i corsi duravano un biennio. Materie d'insegnamento: discorsi del duce, dottrina e storia fascista, il partito e le sue strutture: ordinamento dello stato fascista; economia politica e corporativa; politica della razza, ecc.

Contemporaneamente s'intensificavano gli scambî culturali con la Germania hitleriana. Il 23 novembre 1938 Ciano e l'ambasciatore G. V. Mackensen firmavano a Roma un accordo per regolare le relazioni scientifiche e artistiche, l'insegnamento della lingua, letteratura e storia di ciascun paese nell'altro, la divulgazione della conoscenza delle rispettive istituzioni politiche. Precedentemente, nel giugno, si era tenuto a Roma un "convegno per le relazioni giuridiche italo-tedesche", proponentesi l'elaborazione dei principî giuridici destinati a riformare la legislazione positiva dei due paesi. Venne detto ufficiosamente, a conclusione del convegno, che era stata riconosciuta "una identità di vedute, senza addivenire ad alcuna reciproca concessione". Compito dei congressisti non era stato di fare del diritto concreto, ma della politica del diritto. Da queste frasi ambigue spirava un certo sentore di Gleichschaltung del diritto romano con quello germanico-hitleriano (che al primo si contrapponeva espressamente e fieramente). Un anno dopo, precisamente nel luglio 1939, fra l'ambasciatore italiano D. Alfieri e il ministro del Reich P. J. Goebbels si concludevano accordi di collaborazione, particolarmente per ciò che riguardava la stampa, il teatro, il cinema: annunzio che faceva pensare a un coordinamento delle direttive fra il Ministero tedesco della propaganda, e quello italiano della cultura popolare.

Politica estera: il Patto d'acciaio. - Tutto, insomma, era visto sotto il profilo dell'Asse. Questo subì il suo "collaudo" definitivo con l'occupazione della Boemia e Moravia e la proclamazione del relativo protettorato da parte di Hitler (15-16 marzo 1939). L'atto, giunto interamente di sorpresa per Roma, se era una sfida per le potenze occidentali, era uno schiaffo per il governo fascista, autore principale dell'accordo di Monaco. L'impressione di Mussolini e Ciano fu grande: si pose anche ad essi il quesito se non convenisse cambiar rotta. Ma troppo impegnato era ormai il regime contro le "plutocrazie occidentali, troppo profondo il rancore di Mussolini verso di esse, perché un simile cambiamento si verificasse. Il 26 marzo, in un discorso agli squadristi allo stadio Mussolini, il duce, dichiarò definitivamente chiuso il periodo dei giri di walzer, ribadì la solidarietà totale dei due regimi: l'Asse, egli disse, "è l'incontro di due rivoluzioni che si annunciano in netta antitesi con tutte le altre concezioni della civiltà contemporanea". La caduta della Cecoslovacchia, soggiunse, era fatale. Passando quindi alle relazioni italo-francesi, disse che tra Italia e Francia si ponevano i problemi di Tunisi, Gibuti, Suez; se non fossero stati affrontati, il solco fra i due paesi sarebbe divenuto arduo a colmare. Dichiarazioni che, tacendo (e cioè abbandonando almeno per allora) le rivendicazioni sul territorio metropolitano francese e non specificando le richieste coloniali, avrebbero per sé lasciato la via a trattative, se non fossero state fatte in un tono deliberatamente aggressivo, soprattutto per le parole sprezzanti contro ogni idea di fraternità italo-francese. La risposta francese venne il 29 marzo: Daladier in un radiomessaggio ripeté il jamais riguardo a cessioni territoriali, ma aggiunse che la Francia non si ricusava di esaminare proposte che le venissero presentate.

La politica estera fascista adottò ora il criterio - propugnato particolarmente da Ciano - che il modo migliore di fare equilibrio all'espansione violenta della Germania hitleriana fosse per l'Italia fascista di compiere atti analoghi per conto proprio. Il contrappeso fu trovato in Albania. Si seppe ad un tratto di un grave dissidio tra re Zogu e il governo fascista: il 7 aprile truppe italiane sbarcarono in Albania e l'8 occuparono Tirana e Elbassan; Zogu si rifugiò in Grecia. Il 12 un'assemblea costituente a Tirana proclamò Vittorio Emanuele III re d'Albania, e questi, il 16, accettò la corona concedendo il 4 giugno una costituziorie all'Albania. Fu annunciato trattarsi di unione personale delle due corone; in realtà si ebbe una pura e semplice annessione, la quale, trattandosi di un paese già in virtuale possesso dell'Italia, mentre non accresceva sostanzialmente la potenza italiana, non formava affatto un compenso - data la sproporzione - all'espansione di Hitler, ma anzi ne aumentava la spinta, col fatto stesso di legare più strettamente a lui l'Italia.

Già prima della fine di marzo Hitler aveva iniziato la sua pressione in una nuova direzione, quella polacca, avanzando richieste per Danzica e il corridoio. Il governo fascista invece, ancora poco tempo prima, aveva manifestato la sua amicizia per la Polonia con la visita ufficiale a Varsavia, alla fine di febbraio, del conte Ciano, latore di un messaggio del duce esaltante la nuova Polonia e l'amicizia fra i due paesi. A questa amicizia si riferì anche il comunicato ufficiale del 1° marzo, esprimente la risoluzione di continuare a sviluppare la collaborazione italo-polacca, fondata sulle affinità e gli interessi comuni. Il 28 aprile Hitler annunciò al Reichstag le richieste alla Polonia, nonché la denuncia del patto di non aggressione tedesco-polacco del 1934, e dell'accordo navale con l'Inghilterra del 1935. L'Inghilterra aveva già proclamato l'impegno a sostenere la Polonia contro un'aggressione: e altrettanto aveva fatto successivamente per la Grecia e la Romania. Essa e la Francia si risolsero a trattative con la Russia, disegnandosi così la possibilità di una nuova "Triplice intesa" antigermanica. In quanto all'occupazione albanese, fu male accolta dall'opinione pubblica in Francia e in Inghilterra (essa non s'intonava neppure con l'accordo italo-inglese dell'anno avanti per lo statu quo mediterraneo); ma non vi furono proteste ufficiali.

Si erano intanto trascinate le trattative col Giappone per l'alleanza tripartita, e infine incagliate, di fronte a una risposta sostanzialmente negativa del Giappone. Ribbentrop allora (25 aprile) propose di concludere a due, fra Italia e Germania. Mussolini accettò, rinviando a dopo la firma del trattato la ripresa ufficiale delle conversazioni italo-francesi proposta dalla Francia. Egli, però, in un memoriale per Ribbentrop fece conoscere la necessità per l'Italia di un rinvio della guerra almeno per tre anni, dato il suo stato di impreparazione militare (di cui si erano avute prove lampanti in una minuscola impresa come quella di Albania).

Seguì a Milano il convegno Ciano-Ribbentrop del 6-7 maggio 1939. Il secondo fece dichiarazioni ottimistiche circa il pericolo di guerra polacco: non si pensava da parte tedesca ad iniziative, ma a lasciar stagionare la questione; fra qualche mese né un francese né un inglese marcerebbe per la Polonia. Anche la Germania era convinta della necessità di un periodo di pace, che avrebbe dovuto essere non inferiore a quattro o cinque anni. Fu stabilito che Ribbentrop avrebbe inviato uno schema per il trattato di alleanza, da discutere insieme. Mussolini, però, volle l'annunzio immediato che l'alleanza era decisa, e l'ottenne da Hitler.

Il testo inviato da Berlino fu accettato essenzialmente da Roma senza discussione (fu introdotto nel preambolo una frase a tutela dell'Alto Adige, "le frontiere comuni fissate per sempre"). Esso era radicalmente diverso dai trattati ordinarî di alleanza, contenenti la formula dell'"aggressione non provocata". Diceva infatti all'art. 3: "Se malgrado i desiderata e le speranze delle parti contraenti dovesse accadere che una delle parti entrasse in complicazioni belliche con un'altra o con altre potenze, l'altra parte contraente si porrà immediatamente come alleata al suo fianco e la sosterrà con ogni sua forza militare per terra, per mare e per aria". Era, cioè, un trattato di alleanza difensiva e offensiva (Schutz- und Trutzbündnis). Questo carattere di patto per la vita e per la morte era rafforzato dal preambolo, in cui si esaltava lo stretto legame fra i due paesi costituito "dalla profonda affinità delle loro concezioni di vita e dalla completa solidarietà dei loro interessi", e si proclamava "che essi erano decisi a procedere anche in avvenire l'uno a fianco dell'altro e con le loro forze unite, per la sicurezza del loro spazio vitale e per il mantenimento della pace" (due clausole, queste ultime, di cui la prima annullava la seconda). E ancora: "Su questa via indicata dalla storia l'Italia e la Germania intendono, in mezzo ad un mondo inquieto ed in dissoluzione, adempiere al loro compito di assicurare le basi della civiltà europea". Ciano, quando aveva letto il testo sulle bozze, aveva trovato che andava bene; e tuttavia soggiunse: "Non ho mai letto un patto simile; è vera e propria dinamite". Il patto fu firmato a Berlino il 22 maggio.

Successivamente Mussolini compilò, in data 30 maggio, un promemoria per Hitler, che fu recapitato ai primi di giugno dal generale U. Cavallero. In esso, mentre si ribadiva la necessità di un periodo triennale di preparazione (non solo per l'Italia, ma anche per la Germania), si riaffermava l'inevitabilità della guerra fra le nazioni plutocratiche e quelle povere. Nell'attesa, si doveva lavorare, oltreché all'azione di sabotaggio materiale (attentati, ecc.), a incrinare l'unità interna dei nemici, col favorire i movimenti antisemitici, pacifisti e nazionalisti, "coll'accelerare la decomposizione dei costumi, coll'eccitare alla rivolta le popolazioni coloniali". Poiché le grandi democrazie avrebbero fatto la guerra di usura, sarebbe occorso, fin dal primo momento, impadronirsi di tutto il bacino danubiano e balcanico, senza tener conto di dichiarazioni di neutralità. Non avvenne mai (fatto rilevato da M. Toscano) uno scambio delle ratifiche per il trattato del 22 maggio.

Nulla fece il governo fascista, per più mesi, per mettere in guardia la Germania circa il pericolo di una guerra generale in conseguenza del conflitto con la Polonia; e ciò nonostante gli sforzi di Attolico per illuminare da Berlino il governo di Roma circa la gravità della situazione, e per mettere con le spalle al muro Ribbentrop, cui strappò ripetutamente la dichiarazione che la Germania non voleva la guerra. Continuarono, invece, le conversazioni militari e fu preparato un accordo per l'Alto Adige (opzione offerta agli allogeni per la cittadinanza tedesca, e trasferimento conseguente oltre il Brennero), che fu perfezionato - a guerra europea già scoppiata - il 21 ottobre 1939.

Al principio dell'estate il governo fascista sviluppò (senza obiettivo preciso né risultato visibile) le dimostrazioni di solidarietà con la Spagna. Il 7 giugno 1939 vi fu una grande sfilata dei "legionarî" ritornanti dalla Spagna e di combattenti spagnoli, alla presenza di Mussolini e del ministro degli Interni franchista (poi degli Esteri) Serrano Suñer. Alla sera, brindisi di ambedue a palazzo Venezia. Mussolini augurò "una Spagna spiritualmente e militarmente potente"; Serrano Suñer parlò di una pace "con la giustizia, la potenza e la grandezza"; vi fu scambio di calorosi telegrammi fra il re e Franco. Il 19 giugno la prima squadra navale italiana iniziò una crociera in Spagna, Portogallo e Marocco (Tangeri), di "carattere addestrativo", e rientrante "nel quadro della normale attività delle forze nazionali". Vi furono commenti all'estero in altro senso. Seguì il viaggio di Ciano in Spagna, il 9 luglio; il ministro compì un giro per le città principali e i luoghi di combattimento; il 12 ebbe un colloquio con Franco a S. Sebastiano; il 13 seguì un brindisi in cui si fecero discorsi sul Mare Mediterraneo che univa le due grandi nazioni fasciste, sugli aiuti dati dall'Italia e dalla Germania contro "le orde comuniste", su Franco restauratore della potenza della Spagna, che avrebbe marciato fiera e sicura per la strada da lui aperta. Nel comunicato fu detto che i due popoli erano "indissolubilmente legati", che era stata riscontrata "piena solidarietà di punti di vista e di propositi" e che si era deciso di sviluppare la collaborazione "nell'interesse dei rispettivi paesi e in quelli generali dell'ordine e della civiltà".

Questa ostentazione di amicizia italo-spagnola non poteva avere per allora nessuna influenza sul corso degli avvenimenti (e non ne ebbe neanche dopo). Il teatro di questi era altrove. Alla fine anche a Roma ci si era persuasi che un pericolo di guerra c'era; contro il testo dell'alleanza, così impegnativo, la riserva dei tre anni, non contenuta nel documento né in un protocollo annesso, era riparo troppo debole. Fu combinato a Salisburgo, il 13 agosto, un incontro di Ciano con Ribbentrop. Questi annunziò immediatamente la decisione tedesca di ricorrere alle armi contro la Polonia. Francia e Inghilterra non sarebbero intervenute; comunque, la Germania avrebbe vinto ugualmente. Hitler successivamente ripeté le stesse cose. Una dichiarazione comune, proposta dal governo italiano, affermante il convincimento di una soluzione pacifica dei problemi internazionali sul tappeto, fu respinta dai Tedeschi; Ciano quindi non acconsentì alla pubblicazione di un comunicato affermante l'identità di vedute dei due governi. Esso fu pubblicato ugualmente dal Deutsches Nachrichten Büro.

Mussolini avrebbe ora potuto e dovuto scindere la propria responsabilità da quella della Germania e riserbarsi mano libera. Egli non lo fece; si dibatté fra Ciano, che spingeva nel senso nella neutralità, e altri del partito favorevoli alla guerra. L'annuncio del patto russo-tedesco del 23 agosto rialzò le azioni germaniche; ma in contrario il re premette in senso neutralistico. Si ricorse alla scappatoia di richiedere, per l'entrata dell'Italia in guerra, enormi consegne di materie prime, per le quali non avendo la Germania potuto prendere impegno completo, si dichiarò che per allora l'Italia non poteva intervenire. Hitler aveva dichiarato di lasciarne libera la decisione.

L'Italia fra la non belligeranza e la guerra. - Nelle prime ore del pomeriggio del 1° settembre 1939 fu pubblicato un comunicato del Consiglio dei ministri in cui era detto che le misure militari "hanno e conserveranno un carattere semplicemente precauzionale" e che l'Italia "non prenderà iniziativa alcuna di operazioni militari". Una dichiarazione di neutralità non vi fu né allora né poi; e per definire la posizione italiana fu adottato, dopo qualche tempo, il termine di "non belligeranza". Con esso, evidentemente, Mussolini voleva intendere che egli non era equidistante fra le due parti, ma restava alleato della Germania, pur non prendendo per allora le armi.

Vi fu, prima dell'entrata in guerra dell'Inghilterra e della Francia, il 3 settembre, un tentativo veramente tardivo di mediazione. Mussolini fece domandare alle tre potenze se avrebbero accettato di riunirsi in conferenza con l'Italia (per risolvere il conflitto polacco come era avvenuto per quello cèco). Il progetto fallì perché le potenze occidentali posero per condizione che Hitler ritirasse le truppe dal territorio polacco.

L'annuncio della neutralità (così allora fu chiamata da tutti) fu accolta dal popolo italiano con un gran sospiro di sollievo, anche dalla gran maggioranza dei fascisti, sia per amore della pace, sia per avversione ai Tedeschi e particolarmente alla Germania hitleriana, sia per sfogo parziale di represso antifascismo. Il sollievo venne accompagnato da un senso d'indignazione per le notizie diffusesi rapidamente, innanzi tutto per opera dei richiamati, sulle condizioni di scandalosa impreparazione delle forze armate italiane. Si propagò e radicò, da quel momento, l'impressione che il regime avesse malamente sperperato le decine di miliardi destinati alle spese militari: e fu questo uno dei colpi più gravi e più decisivi al prestigio del regime medesimo. Nella prima quindicina di settembre lo stato dello spirito pubblico in Italia fu tale che una qualsiasi iniziativa - della Corona o di altri - avrebbe potuto produrre il crollo del fascismo.

L'iniziativa non ci fu e il regime fu lasciato alle sue incertezze e ai suoi contrasti interni. In sostanza, c'erano, l'una accanto all'altra, due tendenze: quella sentimentalmente bellicosa di Mussolini, quella risolutamente pacifista di Ciano. Mussolini avrebbe accettato volentieri una fine rapida della guerra, in cui avrebbe potuto fare da mediatore; trovava insopportabile che, prolungandosi la guerra, la guerriera Italia fascista seguitasse a rimanerne fuori. Mordeva tuttavia il freno di fronte alla constatata impotenza militare (solo dieci divisioni erano pronte per la guerra) e rinviava l'intervento alla seconda metà del 1940 o anche del 1941. Lo confermava in questa disposizione Ciano che, però, si trovava di fronte alle oscillazioni quasi quotidiane del duce fra germanofilia e germanofobia, con prevalenza, nell'insieme, della prima.

Un' idea propugnata da Ciano, vagheggiata da Mussolini, e allora non ostacolata dalla Germania, era il blocco dei neutri danubiano-balcanici intorno all'Italia. All'idea non fu dato neppure un principio di attuazione. Le visite di Bottai, ministro dell'Educazione nazionale, a Sofia nel novembre, ad Atene nel dicembre, a Belgrado e Zagabria nel febbraio 1940 non ebbero portata politica. Vi furono, invece, visite di uomini di stato dei paesi orientali in Italia: a Venezia, nel gennaio 1940, Ciano s'incontrò col ministro degli Esteri ungherese C. Czaky, e fu annunciata "la perfetta identità" di vedute e di sentimenti; nel febbraio venne a Roma il ministro rumeno T. Sidorovici, comandante delle "Guardie della nazione"; in marzo fu la volta di P. de Teleki, il presidente del consiglio ungherese, e fu dichiarato il proposito di approfondire la collaborazione fra i due paesi. Pure in marzo, Ciano e M. Markovič, ministro degli Esteri di Belgrado, celebrarono in una manifestazione comune il triennio dell'accordo italo-iugoslavo (ciò che non impedì al governo fascista d'intrigare intensamente in Croazia). In aprile fu a Roma il ministro romeno della propaganda Giurescu. Da tutto questo nulla uscì per la politica internazionale.

Ciano s'illuse, con le due esposizioni fatte al Gran Consiglio il 7 dicembre 1939 e alla Camera il 16, di aver fissato definitivamente l'Italia in una posizione di neutralità sottilmente ostile alla Germania; ma la parte finale della relazione alla Camera venne preceduta da tutta una narrazione apologetica della politica estera fascista con puntate antioccidentali, che mal si accordava con tali intenzioni. In realtà Ciano non aveva né la capacità mentale né la forza di volontà per realizzare un capovolgimento della politica estera fascista, né l'ascendente necessario su Mussolini, per trascinarlo su questa nuova via; anche se alla fine di ottobre la sua posizione venne rafforzata col rimaneggiamento ministeriale che fece parlare di un ministero Ciano: del resto, promuovendo la sostituzione di Starace con E. Muti, si mostrava di non sapere uscire dalla cerchia del fascismo squadristico e legionario. Una carta nel gioco degli antitedeschi fu costituita dall'intervento russo in Polonia e soprattutto dalla guerra sovietica contro la Finlandia. Vi fu, a favore di quest'ultima, nell'inverno 1939-40, quasi una campagna antibolscevica in Italia, campagna dietro la quale spuntava la germanofobia.

Nell'incertezza rispetto alla politica estera e alla guerra, Mussolini cercò almeno (dopo esser rimasto in silenzio per qualche tempo) di tener viva la fiamma dello spirito fascista e nazionalista all'interno, ostentando le opere del regime.

Il 18 gennaio 1940 fu inaugurata a Roma la prima mostra di materiali autarchici per l'edilizia. In quello stesso giorno ebbe luogo la prima riunione del Consiglio delle dieci consulte coloniali che avevano per compito di studiare la valorizzazione dell'Africa italiana, avendo come prima mira l'autarchia imperiale. Nell'ottobre 1939 si approvò il secondo libro del nuovo codice civile (seguirono il terzo e il quarto nel gennaio 1941). Nel gennaio 1940 Grandi, divenuto da ambasciatore ministro della Giustizia, parlò dei principî generali dell'ordinamento giuridico fascista. Il 1° marzo 1940 si ebbe la cerimonia di ammissione nelle unità divisionali dell'esercito di 132 battaglioni di camicie nere: ciò significava non tanto una regolarizzazione della milizia quanto una fascistizzazione dell'esercito.

Nell'insieme, si può dire che l'inverno 1939-40 fosse neutralista (il nuovo pontefice Pio XII manifestò il suo desiderio per il mantenimento dell'Italia fuori del conflitto con la visita al Quirinale del 28 dicembre 1939); col primo soffio della primavera, invece, si annunciò l'interventismo. Punto di partenza fu il conflitto con l'Inghilterra per il blocco navale. Le crudezze di questo e gli inevitabili urti fecero il gioco della corrente anglofoba. Il 3 marzo 1940 il governo fascista pubblicò una nota diretta al governo britannico, circa le disposizioni inglesi per il fermo, dopo il 1° marzo, delle navi con carico di carbone germanico. Si protestava nella nota contro i provvedimenti contrarî alla legge internazionale, non solo riguardo al carbone, ma in generale per la politica navale dell'ammiragliato inglese. Il governo inglese fece la concessione di lasciar passare un certo numero di navi già caricate, ma tenne fermo per il futuro, pur affermando la sua disposizione a rispettare gli interessi italiani. Il governo fascista concluse una convenzione con la Germania, per ottenere da questa tutto il carbone necessario per la via di terra. Nel frattempo, il 10 marzo, Ribbentrop venne a Roma, latore di una lettera di Hitler che rispondeva, con notevole ritardo, a una di Mussolini del 4 gennaio. In questa il duce aveva dato a Hitler una serie di consigli, nel senso di un compromesso in occidente e di una recisa opposizione al bolscevismo in Oriente. Hitler, adesso, manifestava il fermo proposito di risolvere con le armi la partita occidentale e proclamava che il posto dell'Italia era a fianco della Germania. L'11 Mussolini dichiarò a Ribbentrop che intendeva intervenire nel conflitto, combattendo una guerra parallela a quella tedesca, per liberare l'Italia dalla sua prigionia nel Mediterraneo. Ribbentrop propose un incontro fra duce e Führer al Brennero e Mussolini accettò. L'incontro avvenne il 18 marzo.

I colloqui di Mussolini con Hitler furono sempre dominati dalla superiorità del secondo sul primo. Hitler imponeva tema e svolgimento, e parlava quasi sempre lui. Il 18 marzo egli disse che contava di debellare presto Francia e Inghilterra. Con la Russia era deciso definitivamente a mantenere l'amicizia. Indicò a Mussolini la parte che avrebbe potuto prendere nel conflitto l'Italia, lasciandolo libero di decidere. Mussolini rispose che l'entrata dell'Italia in guerra, a fianco della Germania, era inevitabile, non per un aiuto militare di cui questa non aveva bisogno, ma per l'onore e gli interessi italiani (così il duce svalutava in precedenza il suo intervento nei rispetti dell'alleato). L'epoca dell'intervento sarebbe dipesa dal corso delle operazioni militari tedesche, in relazione alla situazione finanziaria italiana che non permetteva una guerra lunga. In sostanza, nulla di preciso fu stabilito; soprattutto nulla fu detto da Mussolini per precisare e garantire gli obiettivi italiani.

In aprile, dopo l'invasione tedesca della Norvegia, s'intensificò da parte del fascismo la preparazione psicologica all'intervento. Al principio del mese il consiglio dei ministri aveva approvato due disegni di legge per la mobilitazione civile. Il 26 aprile il sottosegretario agli Interni G. Buffarini Guidi fece dichiarazioni bellicose alla Camera: "soltanto i popoli guerrieri sono ammessi a ordire il grande ed eterno tessuto della storia"; "ogni evento decisivo per le sorti d'Europa e del mondo deve passare per Roma". Intonazione analoga ebbe il 27 aprile il discorso di chiusura del presidente della Camera Grandi (successo a Costanzo Ciano, mantenendo - in aperto dispregio di ogni norma sulla divisione dei poteri - il posto di ministro). L'11 maggio venne pubblicata una relazione ufficiale a Mussolini sulle condizioni create al commercio italiano dal controllo franco-britannico. Avvenuta l'invasione dell'Olanda, Belgio e Francia, il 19 maggio, Ciano disse ai milanesi, in piazza del Duomo, che l'Italia non poteva estraniarsi dalle vicende europee; Roma doveva dire la sua parola: occorreva realizzare finalmente le antiche aspirazioni. Il 24 maggio si ebbe una manifestazione al Pincio (omaggio al busto di Pasquale Paoli) di Còrsi irredentisti e il 25 la distribuzione di un loro manifesto.

Già dall'aprile Ciano aveva abbandonato ogni resistenza. La manovra americana esplorativa di Sumner Welles, nel marzo, era rimasta nel vago; interventi più precisi di Roosevelt in maggio presso Mussolini per indurlo a rimaner neutrale, aprendo prospettive sia d'intervento americano, sia di sostegno americano alle aspirazioni italiane, furono seccamente respinti. Né maggior successo ebbero ripetuti approcci francesi per concessioni all'Italia e - a metà maggio - un passo di Churchill. Precipitate le cose in Francia, Mussolini - timoroso ormai di arrivar tardi, mentre Hitler non faceva la menoma sollecitazione - decise (sospinto piuttosto che trattenuto dal re, sul quale invano aveva premuto per la pace il pontefice) l'intervento per il 5 giugno, rinviandolo poi al 10. In questo giorno furono presentate le due dichiarazioni di guerra accompagnate da un discorso al popolo italiano, dal balcone di palazzo Venezia, alle ore 18.

In esso il duce disse: "scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell'occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia e spesso insidiato l'esistenza del popolo italiano". L'Italia fascista aveva fatto tutto il possibile per evitare la guerra: la sua coscienza era perfettamente tranquilla. Non si era voluta fare la revisione pacifica dei trattati; si era prescelta la politica micidiale delle garanzie antitedesche; si erano respinte le proposte del Führer del 6 ottobre. "Noi impugnamo le armi per risolvere, dopo i problemi risolti delle nostre frontiere continentali, il problema delle nostre frontiere marittime... Un popolo di 45 milioni di anime non è veramente libero se non ha libero accesso agli oceani". Era una lotta dei popoli poveri, numerosi, giovani, contro i monopolizzatori di ricchezze, isteriliti, volgenti al tramonto. "L'Italia non intende trascinare nel conflitto altri popoli con essa confinanti per mare o per terra. La Svizzera, la Iugoslavia, la Grecia, la Turchia e l'Egitto prendano atto di queste mie parole. Dipende da loro, soltanto da loro, se esse saranno o no rigorosamente confermate".

La politica estera del primo anno di guerra. - L'entrata dell'Italia in guerra a fianco della Germania era avvenuta senza nessun coordinamento preventivo politico-militare, che non ci fu veramente mai neanche in seguito. I frequenti incontri fra Mussolini e Hitler (Brennero, 4 ottobre 1940; Firenze, 28 ottobre 1940; Salisburgo, 20 gennaio 1941; Brennero, 2 giugno 1941, ecc.), intramezzati e affiancati da quelli di Ciano con Ribbentrop e Hitler, (e di Mussolini con Ribbentrop), rimasero vaghi e inconcludenti, risolvendosi in lunghi monologhi del Führer. Mussolini, anzi, finì per sentirsi come un servitore "che viene chiamato col campanello".

Ci furono due teatri di guerra: germanico al nord (contro l'Inghilterra, e poi su due fronti, inglese e russo), e italiano al sud, con intervento ausiliare in ciascuno dei due settori dell'altro alleato. Questo intervento, peraltro, fu estremamente disuguale fra le due parti. Da parte dell'Italia, contro l'Inghilterra, si ridusse all'invio di alcune squadriglie per l'azione aerea sull'isola, e questa partecipazione durò poco più di un paio di mesi (dalla seconda metà di ottobre a fine dicembre 1940). Vi fu inoltre collaborazione di sottomarini italiani coi tedeschi nella guerra navale contro gli Anglosassoni. Molto più importante fu il concorso delle truppe italiane in Russia, con un'armata; tuttavia esse rimasero completamente in sottordine. Da parte tedesca, invece, vi fu concorso crescente per la guerra terrestre ed aerea nel settore mediterraneo, fino al punto che comandante supremo, almeno di fatto, in Libia divenne il generale tedesco (poi maresciallo) Rommel, e in Italia affluirono sempre più numerose truppe e comandi tedeschi, che ebbero una loro organizzazione propria e un maresciallo per comandante supremo.

Politicamente, le posizioni di partenza della guerra in comune erano differenti, poiché l'Italia doveva ancora iniziare la realizzazione dei suoi obiettivi, e aveva a tale scopo scarse forze, mentre Hitler si trovava già ad averne conseguiti una gran parte e a disporre di una enorme forza armata vittoriosa e pienamente efficiente. Hitler aspirava adesso alla pace; e si affrettò ad accogliere la richiesta di armistizio di Pétain, fatta appena una settimana dopo l'entrata in guerra dell'Italia. Quale primo atto di guerra, pertanto, Mussolini dovette accorrere a Monaco (18 giugno 1940) presso il Führer, per discutere con lui le condizioni di armistizio. Volle tuttavia compiere un'azione di guerra, e impose al capo di stato maggiore Badoglio, reluttante, l'attacco sul fronte alpino. Nei tre giorni di combattimento (22-24 giugno) esso fece scarsissimi progressi. Il 25 entrò in vigore l'armistizio firmato la sera innanzi presso Roma: esso accordava all'Italia una stretta striscia di territorio metropolitano francese (non si arrivava neanche a Nizza). Progetto primitivo di Mussolini sarebbe stata l'occupazione di tutti i territorî agognati, e perfino la consegna della flotta francese; ma di fronte alla situazione di fatto, e all'orientamento tedesco diretto a risparmiare la Francia, vi rinunziò senz'altro.

Invece, l'offerta di pace di Hitler (19 luglio) all'Inghilterra cadde nel vuoto. Rimaneva così la guerra mediterranea e coloniale contro l'Inghilterra, che fu condotta con molto impegno e, da principio, con qualche successo, sia in Africa orientale (occupazione della Somalia britannica), sia in Libia con l'offensiva di settembre contro l'Egitto, che giunse fino a Sidi el-Barrani. L'offensiva fu imposta da Mussolini al maresciallo Graziani, che non riteneva di avere forze sufficienti. Mussolini pensava ad una occupazione del Cairo, che diceva più importante di Londra. Egli, però, non riuscì mai (e neppure, parrebbe, tentò mai veramente) a persuadere Hitler dell'importanza primaria del settore mediterraneo.

Fin dai primi tempi dell'entrata in guerra Mussolini aveva pensato a grandi iniziative proprie, contro la Iugoslavia (ch'egli voleva demolire come Hitler aveva demolito la Cecoslovacchia) e contro la Grecia - cui conservava rancore per il lontano episodio di Corfù, che intendeva annettere. Ma i suoi piani furono bocciati da Hitler. Dopoché questi, ai primi di ottobre 1940, ebbe preso possesso della Romania, Mussolini - seguitando nel sistema inaugurato con l'occupazione albanese dell'aprile 1939 - lanciò (28 ottobre) un ultimatum alla Grecia, accusata di tolleranza verso le forze mediterranee inglesi e, contemporaneamente, scatenò l'attacco dall'Albania. L'esito fu disastroso: i Greci ricacciarono gli invasori, che erano in forze nettamente insufficienti (si era creduto a un crollo interno della Grecia), ed entrarono essi in Albania. La campagna si protrasse, sfavorevole per l'Italia e logorante, nonostante che il duce, il 18 novembre, avesse affermato: "spezzeremo le reni alla Grecia", e il 23 febbraio 1941 annunciasse: "fra poco verrà il bello". Invece a un certo punto Mussolini pensò addirittura a domandare una tregua. Si aggiunse il rovesciamento della situazione in Africa, in seguito alla controffensiva britannica iniziata nel dicembre 1940, che portò gli Inglesi oltre Bengasi, e alla invasione inglese dell'Etiopia. Si aggiunse ancora il disastro navale di Taranto (novembre 1940), provocato dall'aviazione britannica, partita dalle nuove basi greche, mentre la marina di trasporto per la Libia era logorata dagli attacchi inglesi. Fin da allora si delineò una crisi nell'apparato governativo, con le dimissioni (dicembre 1940) del capo di stato maggiore Badoglio, sostituito dal discusso Cavallero.

Un mese avanti l'inizio dell'azione contro la Grecia, era stato firmato a Berlino, il 27 settembre 1940, il cosiddetto Tripartito, cioè l'alleanza fra Germania, Italia e Giappone, progettata già due anni prima. Le potenze dell'Asse e il Giappone si riconoscevano rispettivamente l'alta direzione internazionale in Europa e "nella Grande Asia orientale" (non altrimenti precisata). Si promettevano inoltre assistenza reciproca in caso di attacco di una di esse da parte di una potenza non impegnata nella guerra europea o nel conflitto cino-giapponese. Poiché si aggiungeva che il patto non implicava nessuna modificazione dello status politico con la Russia, esso veniva ad essere diretto contro gli Stati Uniti; si accresceva così l'isolamento italiano nel mondo e il suo asservimento alle potenze totalitarie mondiali.

La politica dell'Asse si rivolse ora ad ottenere il maggior numero di adesioni europee al Tripartito. Tra il 20 e il 24 novembre si ebbero quelle dell'Ungheria, Romania, Slovacchia. Più importante sarebbe stata l'adesione della Spagna; da Franco anzi si attendeva l'entrata in campo a fianco dell'Asse, che avrebbe reso possibile l'attacco a Gibilterra. Ma Franco schivò, allora e poi, una simile decisione, nonostante che Mussolini si adoperasse con lui in questo senso, particolarmente nel convegno di Bordighera del febbraio 1941.

Nel marzo 1941 aderirono al tripartito Bulgaria e Iugoslavia. Sennonché nella seconda seguì immediatamente all'adesione un colpo di stato militare a favore del minorenne Pietro II, che spodestò il reggente principe Paolo (27 marzo) e concluse un patto di non aggressione con l'URSS (5 aprile). Il 6 aprile 1941 Germania e Italia dichiararono guerra alla Iugoslavia, che in pochi giorni fu prostrata, occupata, spartita. La Slovenia fu divisa tra una parte minore annessa al Reich (che questo si prese senza discutere) e una maggiore all'Italia, con larga autonomia. La Croazia costituì, sotto il dittatore A. Pavelič, una monarchia, la cui corona fu offerta al duca di Spoleto (poi d'Aosta) Aimone, che peraltro non salì mai effettivamente sul trono. Il Banato tornò all'Ungheria; Serbia e Bosnia costituirono un piccolo stato, controllato dai Tedeschi; il Montenegro rivendicò la sua autonomia statale, sotto il controllo dell'Italia, senza trovare un Petrovič che volesse assumerne la corona. Una gran parte della Dalmazia fu annessa all'Italia, facendo a pezzi quella regione nella maniera più arbitraria. Ben presto una molteplice guerriglia, di Croati e Serbi fra loro, di Iugoslavi contro Tedeschi e Italiani occupanti, divampò nel paese, riempiendolo di orrori indicibili. Così Mussolini precipitava rispetto alla Iugoslavia in un nazionalismo imperialistico, stracciando quel trattato di Rapallo che pure era stato una delle più belle realizzazioni della diplomazia italiana.

L'avanzata germanica sul corpo della Iugoslavia, coadiuvata dall'intervento bulgaro, portò alla capitolazione dell'esercito ellenico in mano ai Tedeschi, con dispetto di Mussolini. Tutta la Grecia, continentale e insulare, fu occupata dall'Asse; poche truppe inglesi di soccorso batterono in rapida ritirata fino al reimbarco. Dalle montagne di Boemia al capo Matapan, l'Asse fu padrone di tutta l'Europa danubiano-balcanica: di fatto, però, la padrona era la Germania, che anche nelle zone formalmente riconosciute allo "spazio vitale" italiano dominava e intrigava. Mussolini si considerava impotente di fronte al predominio e alle aspirazioni tedesche, che riteneva potessero giungere fino a Trieste e Verona.

La condotta politica della guerra e la crisi dell'autunno 1942. - Particolare irritazione produsse in Mussolini l'atteggiamento di Hitler che ancora una volta non lo informò preventivamente dell'attacco alla Russia (22 giugno 1941): "silenzio assoluto, e poi sveglia notturna per informarlo del fatto compiuto"; "io non oso, di notte, disturbare i servitori, ed i tedeschi mi fanno saltare dal letto senza il minimo riguardo". L'annullamento della Russia avrebbe significato il completamento del vassallaggio verso la Germania, temuto e sentito dal duce; tuttavia egli volle subito una partecipazione italiana alla spedizione, e poi l'aumento di essa.

Nel teatro italo-mediterraneo la guerra procedeva a ondate. L'offensiva inglese dell'inverno 1940-41, fermata, era stata seguita da una controffensiva italo-tedesca nella primavera 1941, che aveva ripreso tutta la Cirenaica, e questa da una nuova offensiva inglese nel novembre 1941; nel maggio del 1942 Rommel riprendeva l'iniziativa in Cirenaica, e nel giugno si spingeva fino a el-‛Alamein, minacciando Alessandria. In mare e per aria la lotta proseguiva accanita, ma il logoramento maggiore era quello della marìna italiana di trasporto: il rifornimento della Libia divenne sempre più arduo. In quanto all'Africa orientale, essa andò totalmente e definitivamente perduta al principio dell'estate del 1941.

Lo scoppio della guerra fra Giappone e Stati Uniti il 7-8 dicembre 1941 fu seguito immediatamente dalla dichiarazione di guerra ai secondi così da parte della Germania come dell'Italia, sebbene non gli Stati Uniti, ma il Giappone avesse attaccato. Cosi gli Stati Uniti furono portati in pieno nella guerra, che divenne veramente mondiale e una in tutto il mondo: oltre la solidarietà dell'impero britannico, essi ebbero anche quella della maggior parte dell'America latina. Questo avvenimento, che segnò l'inizio della disfatta dell'Asse, fu salutato con compiacenza dal governo fascista. Mussolini aveva sempre svalutato all'estremo (dimenticando il 1918) l'intervento americano; più di quello che già facevano, gli Stati Uniti, secondo lui, non avrebbero potuto fare. Ora, egli annunziò all'adunata di Piazza Venezia: "Il Tripartito diventa un'alleanza militare, che schiera attorno alle sue bandiere 250 milioni di uomini risoluti a tutto, pur di vincere"; e attaccò Roosevelt, "autentico e democratico despota", che aveva "voluto la guerra... con diabolica pertinacia".

In realtà, il Tripartito aveva fallito al suo compito pregiudiziale: quello di tenere lontani gli Stati Uniti dalla guerra, e ciò grazie all'attacco proditorio di Pearl Harbor. Tale attacco, indubbiamente, troncò ogni indugio a quell'intervento americano che Roosevelt per suo conto da lungo tempo riteneva necessario, ma a cui l'opinione pubblica americana recalcitrava ancora. Così il principale effetto politico, e ben presto anche militare, del Tripartito, si risolse a danno dell'Asse, e più particolarmente dell'Italia. Un effetto politico fu che Franco meno che mai pensò a un intervento attivo in favore dell'Asse; e anzi la sua non belligeranza andò evolvendosi verso la neutralità, specialmente dopoché nel settembre 1942, il generale F. Jordana sostituì agli Esteri l'ardente fascista Serrano Suñer. Ma il fatto capitale fu la solidarietà contro il Tripartito proclamata a Washington il 1° gennaio 1942 da ventisei nazioni, con l'accettazione dei principî concordati tra Roosevelt e Churchill nella cosiddetta Carta atlantica del 14 agosto 1941. Altre nazioni seguirono con la loro firma.

Ai successi del Giappone in Estremo Oriente contro Stati Uniti, Impero britannico e Paesi Bassi, parvero rispondere a metà del 1942 quelli dell'Asse in Africa settentrionale. Alla fine di giugno Rommel avanzò, come si è detto, in Egitto fino ad el-‛Alamein: Alessandria parve minacciata e Mussolini partì per raggiungere l'esercito libico, preparandosi a fare un ingresso trionfale al Cairo. Per preparare politicamente il gran colpo, una dichiarazione italo-germanica del 3 luglio protestò l'intenzione dell'Asse di rispettare e assicurare l'indipendenza e la sovranità dell'Egitto. L'esule Gran Muftī di Palestina, Amin el Huseini, esule perché capo del partito arabo antinglese, inviò un telegramma a Mussolini, congratulandosi a nome del popolo arabo per le vittorie dell'Asse in Africa settentrionale, e dicendo che gli Arabi si sarebbero schierati al suo fianco per combattere il nemico comune fino alla vittoria finale. Questo irredentismo arabo, che era stato sempre coltivato da Mussolini, rimase sterile; e ancor più sterili furono i tentativi italo-giapponesi di utilizzare l'irredentismo indiano (nel luglio '42 si annunciò l'incorporazione di volontarî indiani ex-prigionieri nell'esercito italiano).

La parola rimaneva alle armi. Sulle linee di el-‛Alamein l'offensiva dell'Asse s'insabbiò e il 23 ottobre 1942 si scatenò la tremenda offensiva dell'8a armata britannica (Montgomery) che spezzò tutto innanzi a sé. Le divisioni tedesche, assai meglio fornite, "tagliarono la corda", lasciando in difficoltà gl'Italiani. Rommel iniziò quella lunghissima ritirata che lo condusse fino in Tunisia, con l'abbandono dell'intera Libia agl'Inglesi. Tripoli fu occupata da questi il 23 gennaio 1943. Tutto l'impero coloniale italiano era stato perduto dal fascismo.

Ritirata e abbandono furono dovuti alla minaccia alle spalle dello sbarco americano, con il concorso inglese, nel Marocco francese e nell'Algeria, l'8 novembre 1942. Esso segnò il Wendepunkt della guerra, il passaggio dell'iniziativa alle Nazioni Unite. Si vide allora l'importanza fondamentale dell'Africa mediterranea in questa guerra, importanza intravista da Mussolini senza che egli avesse saputo realizzarne le conseguenze. Al colpo decisivo Hitler e Mussolini non poterono reagire che con le occupazioni di tutta la Francia metropolitana, della Corsica e della Tunisia, di cui le prime due avevano ben scarso significato militare, mentre la terza non poteva compensare la perdita di tutto il resto dell'Africa settentrionale. Ridottasi in Tunisia la lotta, questa fu condotta dagli Angloamericani con la solita lentezza: pur tuttavia essa terminò nella prima metà di maggio con la capitolazione totale dell'Asse (da parte del comando italiano si giudicò ambiguo e sleale il contegno degli alleati tedeschi).

L'intima corruttela dello stato fascista. - Le condizioni del regime fascista all'interno erano ormai disastrose, con la totale disintegrazione morale. La guerra (salvo, tutt'al più, le prime settimane, quando si credette da molti a una vittoria facilissima e rapidissima) non era mai stata popolare. Tuttavia per il primo anno almeno, si può dire che il popolo non ne avesse inteso il peso e quasi non se ne fosse accorto. Questo stato d'animo cominciò a cambiare quando le operazioni in Africa e la spedizione in Russia assorbirono sempre nuove forze di giovani, che parvero inviati a un inutile macello. Vennero le strettezze dei rifornimenti, non soltanto annonarî, l'irritazione contro le prescrizioni coercitive degli ammassi e del razionamento, eluse in larga misura con la tolleranza, quando non era complicità, dei funzionarî, il malcontento e il disagio per le "file". E dall'autunno del 1942 infuriarono i bombardamenti sulle maggiori città italiane: bombardamenti distruttivi non tanto dell'apparato militare-industriale, quanto degli edifici pubblici, anche di quelli cari per tradizioni storiche e bellezze artistiche, e delle case private, con i disagi e le vittime conseguenti. Il governo fascista aveva tentato di organizzare tutta una mobilitazione civile; la cui attuazione fu affidata alla fine del febbraio 1942 al partito, accrescendone, se pur la cosa era ancora possibile, l'impopolarità. Nel maggio il servizio del lavoro obbligatorio fu regolato da un testo unico, che lo imponeva agli uomini da 14 a 70 anni, e alle donne da 14 a 60 (vi furono inclusi gli Ebrei). Alla fine del 1942, secondo il Ministero delle corporazioni, risultavano mobilitati quasi quattro milioni di lavoratori e quasi un milione e un quarto di lavoratrici. Il 1° marzo 1943 furono annunciati nuovi provvedimenti per l'avviamento delle donne al lavoro. Scarsi probabilmente (che si sappia, non sono state pubblicate indagini su questo punto) furono i risultati effettivi, rispondenti al gonfiamento statistico e certo mancò completamente la mobilitazione morale: o se mai, essa fu in senso antibellico, antifascista, e più precisamente antimussoliniano. Alla disaffezione generale del popolo rispondeva la crisi, o piuttosto lo spappolamento del partito (v. fascismo, in questa App.), in cui si delineava ormai il "si salvi chi può" e maturavano pronunciamenti ostili a Mussolini.

Il 6 febbraio 1943 Mussolini eseguì un rimpasto ministeriale totale. Prese per sé il Ministero degli esteri, tolto a Ciano; sostituì alla giustizia Grandi con A. De Marsico, giurista, professore e avvocato; all'istruzione Bottai con l'oscuro professore C. A. Biggini; al Ministero della cultura popolare G. Polverelli con A. Pavolini. Si potevano scorgere due significati nel rifacimento: eliminare elementi frondisti e pacifisti - Ciano, che fu fatto ambasciatore presso la Santa Sede, Grandi, Bottai - e apportare certi miglioramenti tecnici. Due mesi dopo, il rifacimento fu ampliato, con la nomina a segretario del partito dello "squadrista e fascista animoso della prima ora C. Scorza", cioè di chi aveva capitanato nel 1925 la selvaggia aggressione contro Amendola, causa prima della morte di lui.

C'era dunque la velleità d'infondere un sussulto di vita nell'organismo del partito, di rifarne uno strumento solido nelle mani del duce, e di galvanizzare il morale del paese. Non era il primo tentativo del genere. Nel gennaio 1941 Mussolini aveva inscenato lo spettacolo dell'invio al fronte di tutti i gerarchi, a cominciare dai ministri: esperimento che creò grandi malumori ed ebbe la durata solo di qualche mese, ma valse a disorganizzare l'amministrazione, cui Mussolini volle provvedere conferendo direttamente con i capi servizio. Anche la mobilitazione civile affidata al partito aveva uno scopo morale più che tecnico. Era una idea fissa di Mussolini che il popolo dovesse avvezzarsi alle durezze della guerra, e di queste anzi egli mostrava compiacersi, perché si aspettava che temprassero il popolo italiano. Egli non si rendeva conto che mancava a ciò la condizione pregiudiziale: la convinzione popolare della necessità e della bellezza di una causa nazionale e umana; mentre invece mai come durante la guerra Mussolini aveva insistito sul carattere fascista dell'impresa e di tutta la politica del regime, fino a organizzare speciali e solenni commemorazioni del 3 gennaio 1925, del discorso cioè che aveva segnato la rottura definitiva con la legalità costituzionale e la tradizione liberale. Anche i provvedimenti del marzo, e rispettivamente maggio 1942 per la nominatività dei titoli e il bloccamento dei maggiori utili di guerra - provvedimenti rimasti, salvo errore, sulla carta - erano destinati a render popolare, o piuttosto meno impopolare, la guerra presso il popolo, facendo credere che s'intendeva colpire la "plutocrazia" in casa, oltreché fuori. A ciò del resto rispondeva l'atteggiamento "antiborghese" assunto in questi ultimi anni da Mussolini e dal fascismo "puro".

Tutto questo non servì ad arrestare lo straripamento del malcontento nel popolo e della demoralizzazione nel partito. Né giovò il discorso alla Camera del 2 dicembre 1942, in cui Mussolini sostenne che l'occupazione dei territorî russi più ricchi era pegno di vittoria, tentò svalutare lo sbarco americano in Africa come "niente di glorioso", volle dissipare le illusioni circa le buone condizioni di pace in caso di compromesso, e sostenne che era in gioco l'essere o il non essere dell'Italia. Alla perdita della Libia e al convegno di Casablanca tra Roosevelt e Churchill (gennaio 1943), da cui uscì la formula della "resa incondizionata", Mussolini il 1° febbraio rispose: "non molleremo mai", e ostentò la sicurezza del ritorno italiano in Africa. Infine, venuto Ribbentrop a Roma (24-28 febbraio 1943), fu riaffermata nel comunicato la volontà di condurre la guerra fino all'annientamento delle forze nemiche e all'eliminazione del pericolo di bolscevizzazione dell'Europa, per far sorgere in Europa un nuovo ordine che garantisse a tutti i popoli un'esistenza sicura, in un'atmosfera di giustizia e di collaborazione. Analogamente, dopo ripetuti colloquî di Mussolini con Hitler al quartier generale di questo, dal 7 al 10 aprile, fu annunciato che la guerra sarebbe stata condotta fino "alla completa eliminazione di ogni pericolo futuro che da occidente a da oriente minacci lo spazio europeo-africano"; e si riconfermavano "i diritti delle nazioni al loro libero sviluppo e collaborazione". I dirigenti dell'Asse, cioè, facendo proprie le formule degli Alleati, tentavano di presentare la loro guerra come difensiva, e diretta alla libertà d'Europa.

Nell'imminenza dello sbarco anglo-americano in Sicilia, Mussolini tentò un ultimo sforzo per risollevare il morale facendo pubblicare il 6 luglio il discorso tenuto il 24 giugno al direttorio del PNF. Era una polemica contro i fautori di pace: "Chi crede o finge di credere alle suggestioni del nemico è un criminale, un traditore, un bastardo". Da una simile pace sarebbero venuti il disarmo completo dell'Italia, la distruzione di tutte le industrie, forse il depredamento di tutti i tesori artistici. La stessa agricoltura sarebbe stata sacrificata al grano americano; e permessa solo la coltivazione degli ortaggi. La guerra, affermò anche, poteva avere sviluppi impreveduti. Allora, e più tardi, Mussolini si cullava nell'illusione di una pace separata con la Russia, di cui tuttavia non parlò; invece prospettò una insurrezione dei negri agli Stati Uniti, una rivolta indiana. Venendo al punto dolente, egli disse che il nemico doveva tentare l'invasione del continente: "se questo tentativo fallirà, come è mia convinzione, il nemico non avrà più altra carta da giocare". A tal fine "bisogna che, non appena il nemico tenterà di sbarcare, sia congelato su quella linea che i marinai chiamano del bagnasciuga".

Da questo sproposito finale prese nome il discorso, e (con l'altro lapsus di Anassagora per Protagora) il duce ne fu coperto di ridicolo in tutta Italia, non fascista e fascista. Il 10 luglio gli Alleati sbarcarono in Sicilia e ben presto si vide che vi prendevano piede. Il 19 luglio vi fu un bombardamento pesante su quartieri popolari di Roma, nei pressi della ferrovia. In quello stesso giorno Mussolini si incontrava ancora con Hitler, a Feltre. Pare che egli fosse partito con qualche velleità di sganciarsi; per lo meno, pressioni in questo senso vennero esercitate su di lui, particolarmente dal nuovo capo di stato maggiore V. Ambrosio (successo a Cavallero il 1° febbraio). V'era anche stata, il 1° luglio, la visita a Rocca delle Caminate del vicepresidente rumeno M. Antonescu, che aveva accennato alla possibilità di un distacco contemporaneo d'Italia, Romania, Ungheria. Il colloquio di Feltre, però, si svolse più che mai secondo il solito schema: Hitler parlò lui solo per tre ore, pronunciando rimproveri e impartendo consigli. Il comunicato disse asciuttamente: "sono state esaminate questioni di carattere militare". Ad Ambrosio Mussolini annunziò poi il suo proposito di scrivere una lettera a Hitler per sganciarsi; ma non ne fece nulla. È comunemente ammesso che questo periodo finale segni una decadenza dell'uomo; decadenza anche fisica. Il fatto certo è essenzialmente la mancanza di equilibrio, di continuità, di energia preveggente e direttiva, che ora si accentua in Mussolini.

Fermenti antifascisti. La caduta di Mussolini, il Governo Badoglio e l'armistizio. - Dopoché la resistenza russa e l'intervento americano ebbero mostrato la probabilità della sconfitta tedesca, un fermento politico sotterraneo attraversò l'Italia. Al Partito comunista, che aveva sempre mantenuto una certa organizzazione clandestina, si aggiunsero gli inizî di ricostruzione degli altri partiti disciolti dal fascismo, particolarmente il socialista e il popolare (col nome di Democrazia cristiana). Il Partito repubblicano conservava una scarsa vita nei suoi nuclei tradizionali dell'Italia centrale: al nord, ove principalmente si svolgeva la ricostruzione dei partiti, era allora pressoché ignoto. Sembrava averne preso il posto un partito nuovo, sorto in questo movimento di risveglio, che si chiamò Partito d'azione, con nome di significato incerto per coloro stessi che lo scelsero. A questa incertezza di significato ne corrispondeva una d'indirizzo, avendo confluito nel nuovo partito elementi liberali di sinistra e socialisti non marxisti, particolarmente della scuola di C. Rosselli e quindi provenienti dal gruppo di Giustizia e Libertà, l'organizzazione fuoruscita da lui fondata in Francia. Le diverse correnti del partito si accordarono tuttavia nell'impostare la questione istituzionale in senso repubblicano. Gli esponenti di questi diversi partiti presero contatto fra loro, e già alla fine del 1942 si ebbero a Torino e a Milano gli embrioni dei futuri Comitati di liberazione nazionale: associazione delle forze antifasciste che mirava, rovesciato il fascismo, ad assumere il governo. Contatti scarsi e inorganici (salvo per il Partito comunista) esistevano con le organizzazioni dei partiti fuorusciti all'estero. Dopo la caduta della Francia, queste si erano rifugiate negli Stati Uniti, ove accanto ad esse si trovavano personalità politiche d'indipendenti, come C. Sforza e L. Sturzo. Il primo, alla fine del 1941, aveva pubblicato un programma che reclamava per gli Italiani l'autodecisione istituzionale e la prevedeva repubblicana democratica. Tale programma fu adottato in una manifestazione collettiva degli italiani antifascisti d'America a Montevideo, nell'agosto 1942. Il congresso di Montevideo fece voti per la formazione di una legione italiana, che combattesse a fianco degli Alleati, e per un consiglio nazionale che rappresentasse l'Italia libera e combattente per la libertà; ma i governi alleati non favorirono né l'una né l'altra iniziativa.

Nella primavera del 1943 il fermento antifascista e antibellico era vivo in Italia, e non poteva più dirsi propriamente clandestino. Gli scioperi nelle fabbriche di Torino e Milano nel marzo, sotto pretesti sindacali, ne furono chiara manifestazione. La repressione poliziesca locale era piuttosto blanda, essendo ormai diffusa la convinzione che la fine del regime si approssimasse.

In questa situazione che, insieme con la caduta del fascismo, preannunciava la possibilità della caduta anche della monarchia, il re si decise a intervenire. Egli aveva fino allora praticato una passività pressoché completa di fronte al governo mussoliniano, riparandosi dietro la finzione costituzionale che questo possedesse la fiducia del parlamento. Adesso, egli cominciò a considerare la opportunità di un cambiamento - fino anche all'allontanamento di Mussolini - che gli era stato consigliato dall'ex-presidente del consiglio Bonomi in un colloquio (ottenuto su richiesta scritta) del 2 giugno 1943; questi proponeva anche la costituzione di un gabinetto antifascista, che avrebbe dovuto operare lo sganciamento dalla Germania. Alla preparazione del colpo di stato attese il ministro della real casa, duca P. Acquarone, insieme col capo di stato maggiore Ambrosio e in intelligenza col maresciallo Badoglio, che per conto suo ebbe colloquî con uomini politici liberali. Il duca Acquarone ebbe anche contatti con l'opposizione fascista di Grandi e Ciano, che preparò un ordine del giorno (comunicato al re) per una riunione del Gran Consiglio richiesta da notabilità fasciste, domanda che Mussolini (ignaro di ciò che si preparava) accolse. Occorre aggiungere che la fronda fascista era, in quel momento, doppia: di contrarî alla guerra e insieme alla dittatura mussoliniana (Grandi, Ciano, Bottai, Federzoni), e di quelli che invece avrebbero voluto una condotta più energica, "giacobina", della guerra medesima, con una sempre più stretta unione alla Germania (Farinacci).

La sera del 24 luglio 1943 si riunì il Gran Consiglio, a palazzo Venezia, con 27 partecipanti, e la discussione tempestosissima si prolungò fino alle 3 del mattino del 25. Fu approvato a quest'ora (19 voti favorevoli, 7 contrarî, 1 astenuto) un ordine del giorno Grandi: esso domandava "l'immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al governo, al parlamento, alle corporazioni, i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali", e che il re fosse invitato ad "assumere con l'effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell'aria, secondo l'art. 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra augusta dinastia di Savoia".

Il significato politico dell'ordine del giorno era la sostituzione della dittatura mussoliniana con una regia, nel quadro dello stato fascista: i congiurati pensavano a un gabinetto Grandi-Ciano-Federzoni, o qualcosa di simile, con eventuale partecipazione di antifascisti. Mussolini non si preoccupò a tal punto dei risultati del voto da prendere, nella mattinata del 25, provvedimenti speciali. Nel pomeriggio egli si recò a riferire al re, a Villa Savoia; questi gli disse che il voto del Gran Consiglio costituiva un fatto nuovo costituzionale (equivalente a un voto di sfiducia parlamentare) e lo dichiarò dimissionario. All'uscita dal colloquio Mussolini fu arrestato da un ufficiale dei carabinieri a ciò destinato (il generale comandante dell'arma, Cerica, faceva parte del complotto regio); condotto in una caserma, fu poi trasferito (sempre in stato di "fermo", motivato come misura di sicurezza per la sua persona) fuori Roma.

In serata, il re nominò Badoglio presidente del consiglio; ma respinse l'idea da questo affacciata (secondo il preventivo accordo con Bonomi) di chiamare con lui uomini politici antifascisti, dicendo che si trattava di "spettri". L'annuncio dei due fatti fu dato dalla radio alle 22,45; contemporaneamente veniva pubblicato un proclama del re, che dichiarava di assumere il comando delle forze armate. "Nessuna deviazione deve essere tollerata, nessuna recriminazione può essere consentita... L'Italia... ritroverà nel rispetto delle istituzioni che ne hanno sempre confortata l'ascesa, la via della riscossa". Era, dunque, un vago preannuncio di ritorno all'ordinamento statutario; ma al tempo stesso un programma di ripresa guerresca contro gli Alleati. Al proclama del re Badoglio ne accompagnò uno da lui firmato, di cui gli era stato consegnato il testo: "Per ordine di S. M. il re e imperatore assumo il governo militare del Paese, con pieni poteri. La guerra continua: l'Italia... mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni. Si serrino le file intorno a S. M. il re e imperatore... La consegna ricevuta è chiara e precisa... chiunque si illuda di poterne intralciare il normale svolgimento, o tenti turbare l'ordine pubblico sarà inesorabilmente colpito". Alla redazione dei proclami fu detto (e mai smentito) avesse collaborato Orlando, cui risalirebbe particolarmente la frase: "La guerra continua". Seguì il deferimento della tutela dell'ordine pubblico alle autorità militari, il coprifuoco dal tramonto all'alba, il divieto di riunioni in locali chiusi. Il 27 luglio vennero nominati i ministri, presi unicamente dagli alti ranghi della burocrazia. Mussolini, dalla sua detenzione, fece atto di adesione al nuovo governo.

All'annuncio della caduta di Mussolini, a Roma tutto il popolo, si può dire, era sceso la notte stessa nelle strade, inneggiando alla fine del fascismo e alla libertà: altrettanto avvenne un po' più tardi nelle altre città. Si tentò di arginare e neutralizzare questo moto impetuoso di ripresa politica con i primi provvedimenti del nuovo governo, che furono, oltre quelli di polizia indicati, la soppressione del Gran Consiglio e del tribunale speciale, lo scioglimento del P N F, il divieto di costituzione di qualsiasi partito per tutta la durata della guerra, lo scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni, l'annuncio dell'elezione di una nuova camera entro quattro mesi dalla fine della guerra. Evidentemente, il piano regio era di tenere in pugno tutto il potere, attraverso il paravento costituzionale della controfirma di Badoglio, e di considerare acquisito fin d'ora, con l'eliminazione del P N F, il puro e semplice ritorno allo statuto. Corse allora voce che la principessa di Piemonte, per aver propugnato l'abdicazione del re e del principe di Piemonte, e la proclamazione del principe di Napoli sotto reggenza - che avrebbe dovuto essere quella della principessa medesima - venisse mandata agli arresti in un castello del Piemonte.

Non altrettanto facile, però, era sbarazzarsi dei partiti politici, e in generale della ripresa di vita politica, anche se si poté esercitare un controllo sulla stampa attraverso il mantenuto Ministero della cultura popolare. La stessa serie di provvedimenti antifascisti seguentisi a catena impedivano la cristallizzazione monarchico-autoritaria sognata dal sovrano. Furono soppresse le corporazioni, con tutti gli organi annessi; sciolta la Gioventù italiana del littorio; costituita una commissione per procedere all'accertamento dei rapidi accrescimenti di fortuna da parte di persone rivestite di cariche pubbliche dopo la marcia su Roma; nominati commissarî ai sindacati. Si era dovuto anche procedere a un certo numero di arresti; altri ne seguirono dopo la scoperta di un complotto fascista (23 agosto); in questa circostanza rimase ucciso E. Muti, l'ex segretario del partito. Tutto ciò non bastava a soddisfare i partiti politici, che, nonostante il divieto, agivano poco meno che alla luce del sole, e avevano costituito a Roma un comitato centrale dei sei partiti (liberale, democristiano, democratico del lavoro, azionista, socialista, comunista), presieduto dall'ex presidente del Consiglio, Ivanoe Bonomi.

Uno dei primi atti di questo comitato fu di presentare a Badoglio (3 agosto) un ordine del giorno per la rottura dell'alleanza con la Germania e la cessazione della guerra, promettendo il concorso del popolo per far fronte alle conseguenze. Badoglio rispose che avrebbe riferito al re. Su questo punto capitale nulla era stato preparato; né in fatto di contatti con gli Alleati, né per paralizzare le posizioni occupate dai Tedeschi in Italia e arrestare l'afflusso delle loro forze armate di qua dal Brennero (confronta appresso, in questo vol., pag. 108-109).

Il governo si trovava quasi alla mercé di colpi di mano delle divisioni corazzate e dell’aviazione tedesca: e pertanto tenne con i rappresentanti tedeschi in Italia e fece tenere dai giornali un linguaggio di fedeltà all’alleanza. In un convegno a Tarvisio, il 6 agosto, del ministro degli Esteri Guariglia e di Ambrosio con Ribbentrop e Keitel, si discusse sulla situazione militare. Hitler ruminava propositi d’intervento a fondo, che tuttavia non furono per allora effettuati. Gli Alleati, da parte loro, assunsero toni minacciosi contro il nuovo governo, per il suo annunzio: «la guerra continua», e intensificarono i bombardamenti sulle città: particolarmente disastrosi quelli del 13 agosto a Milano e Torino, cui si accompagnò nello stesso giorno un secondo a Roma. Il 17 agosto con la caduta di Messina fu portata a termine la campagna di Sicilia.

Solo il 10 agosto il re venne alla decisione di prender contatto segreto con gli Alleati, per ottenerne aiuto militare nell’operazione di sganciamento dall’Asse, e solo il 12 sera partì l’emissario (gen. Castellano) per Lisbona e Madrid. Si venne così (3 settembre) alla conclusione dell’«armistizio corto» di Cassibile (v. in questa App.): praticamente una resa incondizionata. All’armistizio fu associato un piano d’intervento militare alleato nella penisola, anche nelle immediate vicinanze di Roma, a sostegno del governo italiano nel momento in cui l’armistizio fosse annunciato: momento che gli Alleati avevano riservato a sé stessi di stabilire: l’intervento aereo nei pressi di Roma non si verificò, perché le autorità militari italiane non lo ritennero possibile; quando, l’8 sera, l’armistizio fu annunciato, nulla era stato fatto per organizzare la difesa della capitale. Questa fu immediatamente investita da forze tedesche, mentre il re e Badoglio lasciavano Roma senza provvedere né al governo né alla difesa. Nonostante resistenze parziali Roma fu occupata; contemporaneamente, nell’Italia settentrionale e centrale, i comandanti tedeschi agirono contro le forze italiane i cui capi capitolarono quasi ovunque senza resistenza. Questo sfacelo fu il punto di arrivo della «fascistizzazione» dell’esercito. La flotta invece, obbedendo all’ordine avuto, salpò compatta per Malta. Anche le forze italiane nei Balcani capitolarono, salvo qualche resistenza parziale, talora eroica. I Tedeschi divennero di un colpo padroni dell’Italia, dalle Alpi al sud di Napoli. Le due Italie, la resistenza, la liberazione. – Essi però non ne tennero il governo diretto, per il quale Himmler dichiarò di non avere le forze di polizia necessarie, e installarono Mussolini, da loro liberato dalla detenzione. Questi trasformò il P N F in Partito fascista repubblicano, e costituì il 23 settembre un governo. Il 28 assunse la funzione di capo provvisorio dello stato in attesa di una costituente (deliberata, ma non mai convocata): le sedi del governo furono sistemate nell’Italia settentrionale, ed egli stesso si stabilì presso Salò sul lago di Garda: nacque così «la repubblica di Salò», che assunse ufficialmente il nome di «Repubblica sociale italiana».

Per la punizione dei fascisti «traditori», e in genere per la repressione dei nemici del nuovo regime furono istituiti tribunali speciali. Uno di questi, a Verona, condannò alla pena di morte (10 gennaio 1944) coloro che avevano votato l’ordine del giorno Grandi, e la sentenza fu eseguita su quelli che si erano potuti arrestare (fra essi, Ciano e De Bono). Si creò anche un nuovo esercito fascista, sotto il comando di Graziani. Ma i renitenti e i latitanti furono moltissimi, e tutto il comando militare rimase in mano dei Tedeschi (Kesselring), che bandirono anche un arruolamento d’Italiani nella «Grande armata germanica». Politicamente, la R.S.I. assunse atteggiamenti avanzati. Non furono ricostituite le Corporazioni, mentre s’istituì una Confederazione generale del lavoro, della tecnica e delle arti. Si arrivò ad emanare (12 febbraio 1944) un decreto per la socializzazione delle imprese. L’orientamento sociale rimase effimero, data la necessità di collaborazione degli industriali e l’avversione operaia.

A Brindisi, ove col re si era recato il Badoglio, questi continuò a essere a capo del governo, ridotto in un primo tempo quasi alla sua sola persona. Tuttavia esso dichiarò la guerra (13 ottobre) alla Germania – Badoglio dovette durare qualche fatica per convincere il re a questo passo – e fu riconosciuto contemporaneamente dagli Alleati come «cobelligerante», non senza aver sottoscritto prima a Malta l’«armistizio lungo» (29 settembre), che dava agli Alleati pieno controllo sull’Italia e il governo italiano. Il 16 novembre 1943 Badoglio, non avendo ottenuto il concorso di uomini politici, formò un secondo ministero con soli sottosegretarî. A Napoli e a Bari, i sei partiti antifascisti (v. sopra) si organizzarono adesso apertamente. Essi si trovarono d’accordo nel negare al re e a Badoglio la collaborazione politica. Gli stessi partiti ripresero l’azione clandestina nell’Italia fascinazista; e a Roma, si costituirono in Comitato di liberazione nazionale che domandò il 16 ottobre il diritto di autodecisione istituzionale per il popolo italiano alla fine della guerra, e intanto la formazione di un governo provvisorio con pieni poteri, costituito dai partiti antifascisti. Questo secondo punto, però, fu inteso diversamente dai varî partiti in seno al CLN, interpretandolo gli uni (azionisti, socialisti e, meno risolutamente, comunisti) nel senso di una messa in quiescenza della monarchia, dagli altri invece accettandosi una funzione persistente di questa, in attesa delle decisioni popolari. Una deliberazione analoga (e soggetta alle stesse differenze d’interpretazione) prese il Congresso di Bari (28-29 gennaio 1944) dei partiti antifascisti, domandando altresì l’abdicazione del re. Più intransigente di tutti, il Partito repubblicano, anch’esso in via di ricostituzione, negò qualsiasi collaborazione alla monarchia, e si tenne fuori dal CLN.

Re vittorio Emanuele resistette, sebbene la richiesta di abdicazione venisse, insistente, da uomini come Croce e Sforza (rientrato in Italia nell’ottobre 1943). La sua posizione fu migliorata dall’intervento del capo dei comunisti italiani, P. Togliatti, venuto alla fine di marzo dalla Russia in Italia dopoché l’URSS (13 marzo), con iniziativa separata dagli alleati occidentali, ebbe riconosciuto il governo Badoglio. Togliatti sostenne che, in vista della guerra, i partiti antifascisti dovessero partecipare al governo, senza pregiudiziali. Infine il re, sotto la pressione alleata, accettò l’espediente immaginato dal liberale E. De Nicola e il 12 aprile annunciò la sua decisione «irrevocabile» di ritirarsi a vita privata, affidando al principe Umberto la luogotenenza del regno: la cessione del potere avrebbe avuto luogo in Roma, subito dopo la liberazione di questa. Il 21 aprile Badoglio costituì a Salerno un nuovo ministero con la partecipazione dei sei partiti. Croce e Sforza furono ministri senza portafoglio.

Le operazioni di guerra (v. appresso il paragrafo Operazioni belliche) per cacciare dall’Italia i Tedeschi erano cominciate con gli sbarchi alleati a Reggio Calabria il 4 settembre e a Salerno l’8. Modesti reparti dell’esercito regolare italiano presero parte a queste azioni; gli Alleati non davano i mezzi per armarne di più. Dietro le linee tedesche si organizzò la lotta dei partigiani, che molestavano le comunicazioni e tenevano zone montagnose, impegnando forze nemiche considerevoli. Essi agivano anche nelle città, o nelle immediate vicinanze, con attentati e colpi di mano, movimenti operai (scioperi in Alta Italia del 1° marzo 1944 e del gennaio 1945). I nazifascisti adoperavano le rappresaglie multiple, e la repressione assunse forme feroci (v. resistenza, in questa App.). Famoso rimase l’attentato con bombe contro un reparto tedesco a Roma, in via Rasella, nel marzo 1944: esso costò la vita a 32 Tedeschi, e 335 Italiani furono fucilati per rappresaglia alle Fosse Ardeatine. Il 4 giugno 1944 gli Alleati liberarono Roma. Avanzando ancora al nord, nell’agosto fu liberata Firenze: si ebbe quindi l’arresto sulla cosiddetta Linea gotica. Adesso, dietro questa, l’azione partigiana assunse il massimo d’intensità: le forze della resistenza erano fornite parte dai partiti politici, parte da formazioni apartitiche. Esse facevano capo a un triumvirato costituito da F. Parri (azionista) L. Longo (comunista), R. Cadorna (gen. dell’esercito). L’azione politica clandestina faceva capo al CL N AI (Comitato di liberazione dell’Alta Italia), cui furono riconosciuti poteri di proprio rappresentante dal governo italiano.

Il 5 giugno 1944 il re aveva compiuto la trasmissione dei poteri al luogotenente principe Umberto, che s’insediò al Quirinale. In base alle richieste del CLN egli conferì l’incarico di formare un nuovo governo con poteri esecutivi e legislativi a Bonomi, capo del Comitato: questi lo costituì con elementi presi dai sei partiti, e anch’egli si stabilì a Roma. Contemporaneamente fu preso impegno dal luogotenente per l’autodecisione istituzionale alla fine della guerra e intanto fu modificata la formula di giuramento dei ministri, eliminandone la fedeltà al re. L’opposizione, in un prim0 tempo, di Churchill, che avrebbe voluto il mantenimento di Badoglio almeno come ministro, non ebbe seguito. La ricostruzione amministrativa procedette lenta e confusa, in quanto interferivano fra loro tre autorità diverse: funzionarî ministeriali, CLN locali e Alleati, che controllavano i primi e i secondi. I CLN locali venivano a fare in certo modo le veci dei consigli comunali e provinciali, il CLN centrale del parlamento. Era inteso che la fiducia – o anzi l’«investitura», si diceva – di questo era necessaria al governo. Ma il CLN a sua volta aveva difficoltà di funzionamento, perché composto di sei partiti differenti, cui per convenzione era attribuito peso uguale, sebbene assai diversa fosse la loro consistenza nel paese. Di questi, socialisti e comunisti erano stretti da un patto di «unità d’azione», che risaliva ai tempi del fuoruscitismo. A loro si avvicinava il Partito d’azione, diviso però fra una tendenza socialista (Lussu) e una liberale-democratica (La Malfa). Si accentuarono contrasti e maneggi per la questione istituzionale; il Partito comunista, dopo un primo periodo d’incertezza, si associò a socialisti e azionisti nell’impostazione repubblicana. Il presidente Bonomi fu preso in sospetto dalle sinistre come inclinante a destra e alla monarchia; al principio del dicembre 1944 si ebbe una crisi, che terminò tuttavia con un secondo ministero Bonomi, però senza azionisti e socialisti. In complesso, l’anno di governo di Bonomi pose la base della ricostruzione amministrativa ed economica.

Nell’aprile 1945 si ebbe l’offensiva generale vittoriosa degli Alleati sulla Linea gotica; e il 25 aprile divampò in alta Italia l’offensiva generale. Il 28 Mussolini, caduto in mano dei partigiani, fu fucilato. Il 29 il comando tedesco in Italia firmò la resa a discrezione, a datare dal 2 maggio; il 7 maggio fu firmata la capitolazione in Germania, in vigore dall’8. La guerra in Europa era finita.

In alta Italia il CLN tenne il potere per alcuni giorni: vi furono numerose esecuzioni di fascisti, non senza che, come suole, anche odî privati avessero la loro parte in queste esecuzioni sommarie. Il potere fu quindi assunto dagli Alleati, che tuttavia lasciarono ai CLN una certa funzione consultiva e amministrativa. Alla fine del 1945 tutto il territorio italiano (meno le provincie al confine nord-orientale) fu restituito al governo nazionale.

Aspirazioni a un rinnovamento sociale. La proclamazione della repubblica. Il trattato di pace. La ricostruzione del paese. – La resistenza, coronata dall’insurrezione finale, produsse il cosiddetto «vento del nord», cioè un rafforzamento della diffusa e confusa aspirazione già preesistente, a un cambiamento radicale nella politica italiana, a una renovatio abimis: uomini e istituzioni. Parte essenziale di questo desiderio di rinnovamento era l’idea di una rivoluzione sociale, di cui peraltro non si specificavano né il programma né i modi, e che, in ogni caso, nulla aveva a che fare col programma e la tattica del Partito comunista che era allora spiccatamente democratico-legalitario; mentre trovava più rispondenza nelle esuberanze del capo del Partito socialista, Pietro Nenni. Una formula preparatoria di tale sognato rinnovamento totale era: tutto il potere ai CLN.

Di fatto, preparazione, disposizione e organizzazione rivoluzionarie mancavano quasi completamente; e il «vento del nord» non produsse altro effetto se non la sostituzione di Bonomi con il capo dei partigiani F. Parri, il quale fece un ministero più strettamente aderente al CLN, nel quale entrarono i capi dei sei partiti. Tale Ministero mirò a tenere un indirizzo di centro sinistro e a preparare la libera elezione di una costituente, nominando intanto la progettata da molto tempo, consulta nazionale (composta essenzialmente di designati dai sei partiti), che fu inaugurata il 25 settembre 1945. Il presidente del consiglio, però, apparve ben presto un isolato, fra una destra liberale-democristiana che lo osteggiava, e una sinistra socialcomunista che, sostenendolo a parole, gli creava di fatto imbarazzi con le agitazioni della Confederazione generale del lavoro. Questa si era ricostituita sul fondamento del sindacato unico, teoricamente apartitico; ma ne avevano presa la direzione, anche formalmente, i rappresentanti dei tre maggiori partiti comunista, socialista e democristiano – con netta preponderanza del primo che, attraverso il patto di unità d’azione, dominava il secondo. In novembre, i liberali disdissero la fiducia al Parri, e i democristiani li seguirono; donde le dimissioni, e il 9 dicembre la formazione (sempre sulla base dei sei partiti) del gabinetto De Gasperi, il capo della Democrazia cristiana. Poco dopo (sul principio del febbraio 1946) il Partito d’azione si scisse, uscendone il gruppo Parri-La Malfa che propugnava un indirizzo repubblicano democratico, nettamente distinto dai partiti socialisti.

Si fece ora più vivo il contrasto sulla questione istituzionale, e sullo stesso procedimento per risolverla. Da parte delle correnti conservatrici e filomonarchiche si caldeggiò il metodo del referendum, riserbando alla Costituente l’elaborazione della nuova costituzione (monarchica o repubblicana, a seconda dell’esito del referendum medesimo). Questa soluzione fu adottata con l’approvazione della Consulta. Dei partiti ancora istituzionalmente indecisi, il democristiano si pronunciò a maggioranza per la repubblica, e il liberale per la monarchia, rinunziando peraltro ambedue a vincolare il voto degli iscritti e a far propaganda per la soluzione adottata. Quasi alla vigilia della votazione, il re, con atto giudicato da molti in contraddizione sostanziale con gli impegni presi al momento dell’Istituzione della luogotenenza, abdicò il 9 maggio e salì al trono Umberto II, col formale impegno di rispettare il responso del referendum. Questo, il 2 giugno 1946, dette 12.717.923 voti alla repubblica contro 10.719.284 alla monarchia. Re Umberto, entrato in conflitto con il governo circa le modalità del periodo di trasmissione dei poteri, lasciò l’Italia il 13 giugno senza riconoscere né allora né poi il verdetto popolare, ma sciogliendo dal giuramento di fedeltà funzionarî e militari.

Nelle elezioni per la Costituente risultarono in testa la Democrazia cristiana, con più di 8 milioni di voti e 207 seggi, il Partito socialista di unione proletaria con più di 4 milioni e 700 mila voti e 115 seggi, il Partito comunista con più di 4 milioni 300 mila voti e 104 seggi. Seguivano varie altre formazioni di destra e di sinistra, fra cui il Partito repubblicano italiano (i cosiddetti repubblicani storici), con quasi 1 milione di voti e 23 seggi. La Costituente, riunitasi il 25 giugno, elesse il 28 a grandissima maggioranza Enrico De Nicola a capo provvisorio dello stato. Questi incaricò della formazione del nuovo gabinetto De Gasperi, il quale costituì, il 12 luglio 1946, il primo governo repubblicano, fondato sulla coalizione dei tre maggiori partiti e del Partito repubblicano storico. Fu questo il governo detto del «Tripartito» (il quarto partito, repubblicano, vi ebbe pochissima influenza, sebbene rafforzato adesso dall’entrata del gruppo Parri-La Malfa). Esso si configurò ben presto come una combinazione di opposti: Democrazia cristiana da una parte, comunisti dall’altra. Il Partito socialista, uscito dalle elezioni in posizione dominante, si ridusse a «brillante secondo» del comunismo, rinunziando alla funzione mediatrice e direttrice. Il malcontento in seno al partito, per questa condotta dei suoi dirigenti Nenni e Basso, portò nel gennaio 1947 a una scissione capitanata da Saragat e alla fondazione del Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI). In mezzo fra PSI e PSLI si tenne il gruppo esiguo, ma autorevole, di Unità socialista, intorno a I. Silone e I. M. Lombardo, col proposito di ricostituire l’unità del partito. A Unità socialista aderirono taluni elementi del Partito d’azione, mentre la maggioranza si decise per l’entrata nel PSI. Una sorpresa, nelle elezioni del 2 giugno, era stato il successo del Partito dell’Uomo qualunque (v. in questa App.): successo effimero, ché il qualunquismo non tardò a polverizzarsi.

Il 20 gennaio 1947 De Gasperi, tornato allora da un viaggio negli Stati Uniti, dette le dimissioni. Dopo aver chiesto e non ottenuto la collaborazione del PSLI – che aveva tratto a sé la metà all’incirca del gruppo parlamentare socialista – egli costituì il 2 febbraio un nuovo gabinetto tripartito (i repubblicani rifiutarono anch’essi). Il dissidio con i comunisti si andò accentuando: nello sfondo apparve sempre più netta l’ostilità degli Stati Uniti al comunismo, mentre in primo piano c’era l’agitazione a ripetizione – con scioperi anche politici – della CGIL. Il 13 maggio 1947 De Gasperi dette ancora le dimissioni; e, dopo un fallito incarico a Nitti, costituì il 31 maggio un «gabinetto di colore» (democristiani più qualche indipendente): vicepresidente del consiglio e ministro del bilancio fu il liberale L. Einaudi, non rappresentante ufficialmente il partito. Il gabinetto resse ai ripetuti assalti delle sinistre nell’assemblea costituente grazie al concorso di voti delle destre (liberali, qualunquisti, monarchici), e alla tolleranza del PSLI e del PRI. In fine questi due partiti entrarono nel governo col rimpasto del 15 dicembre 1947. R. Pacciardi (repubblicano) e G. Saragat furono vicepresidenti accanto ad Einaudi.

Attraverso queste vicissitudini politico parlamentari proseguì alacremente la ricostruzione economica del paese, con risultati rapidi e notevoli. Il merito di ciò va in prima linea alle energie individuali e nazionali; ma coadiuvò la restaurazione l’opera dei gabinetti presieduti dal De Gasperi; concorso indispensabile fu quello degli aiuti americani.

La Costituente, sebbene il lavoro legislativo fosse quasi unicamente riservato al ministero, non riuscì a terminare la redazione della costituzione entro il termine massimo stabilito di un anno e dovette essere prorogata. La costituzione ebbe l’approvazione finale dell’assemblea il 22 dicembre 1947, con 453 voti contro 62; venne firmata il 27 dicembre dal capo provvisorio dello stato, Enrico De Nicola, che da quel giorno prese ufficialmente il titolo di presidente della repubblica; ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948. Il giorno dopo la firma, 28 dicembre, era morto ad Alessandria l’ex re Vittorio Emanuele III.

Compito della Costituente fu anche di autorizzare la ratifica del trattato di pace con le Nazioni Unite. L’elaborazione di questo fu lunga: Preparato dai rappresentanti delle quattro potenze maggiori (URSS, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia) fra il 1945 e il 1946, esso fu discusso (luglio-agosto 1946) nella Conferenza dei ventuno a Parigi, poi ancora ridiscusso fra i quattro, e infine firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. Il governo italiano non ebbe parte alle trattative, ma fu ripetutamente «sentito». Oggetto principale della disputa furono le sorti della Venezia Giulia poiché la guerra mussoliniana alla Iugoslavia aveva distrutto il trattato di Rapallo. Accettato in un primo tempo il criterio etnico nella divisione fra Italia e Iugoslavia, la linea divisionale venne poi spostata verso ovest a vantaggio della Iugoslavia protetta dalla Russia, togliendo all’Italia città italianissime come Pola, Rovigno e Parenzo (senza parlare di Fiume e Zara). Infine la stessa Trieste fu staccata dall’Italia per farne il Territorio libero di Trieste, parto senza vita. Fu anche imposta, alla frontiera occidentale, la cessione dell’altipiano del Moncenisio, Briga e Tenda alla Francia. Il destino delle colonie, cedute dall’Italia al consorzio dei vincitori, fu riservato a ulteriori discussioni, tuttora in corso. Il Dodecanneso fu assegnato, secondo il criterio di nazionalità, alla Grecia. Furono imposte riparazioni alle principali potenze, alla Iugoslavia e all’Albania (Stati Uniti e Inghilterra rinunziarono subito alle loro). Fu imposto altresì un rigoroso disarmo di uomini e di materiale, per cui (considerando anche gli spostamenti di frontiera) l’Italia rimane aperta, soprattutto a oriente, a un’invasione. Nell’insieme, il trattato di pace non rappresentò, nonostante la coraggiosa e tenace difesa degli interessi italiani da parte di De Gasperi, e le dichiarazioni ufficiali contenute nel preambolo del trattato stesso, un riconoscimento adeguato del contributo dato dall’Italia alla causa delle Nazioni Unite col rovesciamento del fascismo, con la cobelligeranza, e coi terribili sacrifizî sofferti durante la Resistenza partigiana.

Dopo la ratifica italiana del trattato di pace – autorizzata dalla Costituente in seguito a vivacissimo dibattito il 31 luglio 1947, con 262 voti contro 68 e 80 astenuti – fu patrocinata l’ammissione dell’Italia fra le Nazioni Unite; ma ad essa si è opposto più volte il veto russo, in quanto l’URSS voleva l’ammissione contemporanea di altri stati, non consentita dalle potenze anglosassoni.

Nel marzo 1948 le tre potenze occidentali, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, proposero la restituzione del territorio di Trieste all’Italia, ma la Russia finora non ha acconsentito a prendere in esame la proposta. Nello stesso giorno in cui questa fu annunziata (20 marzo), i ministri degli Esteri C. Sforza e G. Bidault firmavano a Torino l’impegno per una unione doganale franco-italiana.

Il governo italiano aveva già precedentemente aderito al piano Marshall, partecipando alla prima conferenza tra i «sedici» europei e gli Stati Uniti a Parigi, nel luglio 1947, e poi a tutti i lavori seguenti.

Il piano Marshall ha avuto una parte notevole nella lotta elettorale per l’elezione del primo parlamento italiano (Camera e Senato), seguita all’approvazione della costituzione. Il piano era combattuto dal Partito comunista, secondo le direttive approvate dai partiti comunisti europei nella conferenza di Bialystock e pubblicate il 5 ottobre 1947, e secondo l’indirizzo della politica russa, ostile a ogni intesa dell’Europa occidentale. La battaglia intorno ad esso inquadrò pertanto, in modo più generale, quella tra il Fronte democratico popolare (costituito da comunisti, socialisti, e altri elementi minori, con adesione di indipendenti) e i tre partiti governativi. Parteciparono altresì alla lotta il Blocco nazionale (liberali, qualunquisti gianniniani e Nitti), il Partito monarchico, il Movimento sociale italiano (MSI: reviviscenza del fascismo di Salò).

Le elezioni del 18 aprile 1948, svoltesi in perfetta calma, e con enorme affluenza (92%), dettero per la Camera dei deputati la maggioranza assoluta (307 seggi) alla Democrazia cristiana, che aveva riportato quasi il 49% dei voti. Il Fronte ne ebbe solo 182 con un po’ più del 30%. Una buona affermazione ebbe Unità socialista, cioè il cartello elettorale costituito dal PSLI col gruppo di quel nome (quasi 1.900.000 voti e 32 seggi). Il Blocco nazionale toccò appena il milione di voti, con 18 seggi, mentre tanto il Partito monarchico quanto il repubblicano scesero al disotto dei 3/4 di milione (rispettivamente 14 e 9 deputati). Il MSI, che aveva suscitato grandi aspettative e timori, superò di poco il mezzo milione. Per il Senato la Democrazia cristiana ebbe pure la maggioranza assoluta degli eletti; però, a causa dei senatori di diritto introdotti in numero superiore al centinaio da una disposizione transitoria della costituzione, questa maggioranza riuscì soltanto relativa.

L’11 maggio 1948 il sen. Luigi Einaudi è stato eletto presidente della repubblica e il 24 maggio 1948 De Gasperi venne chiamato a formare il suo 6° gabinetto che ha mantenuto sostanzialmente la stessa fisionomia del precedente, con l’esclusione delle estreme di sinistra e di destra. L’esistenza di una stabile base parlamentare ha dato la possibilità al governo di fronteggiare con maggiore energia e coerenza i varî problemi. Di fronte a una situazione in certo modo bloccata sul piano parlamentare, l’opposizione socialista e comunista ha mostrato la tendenza a spostare il suo peso dal Parlamento nel paese. Se ne è avuta la sensazione soprattutto nel luglio 1948, quando, in conseguenza dell’attentato a P. Togliatti (14 luglio), un grande sciopero generale ha paralizzato per due giorni la vita del paese. Questo sciopero e le agitazioni connesse hanno invelenito la polemica per l’unità sindacale che si trascinava ormai da mesi. Esse – insieme ad altre e diverse influenze extrasindacali – furono il cuneo che riuscì a separare la corrente sindacale cristiana da quella social-comunista nella C.G.I.L., mentre le altre correnti (repubblicana, social laburista e anarchica) invano cercarono di compiere opera di mediazione. Il 5 agosto la C.G.I.L. prendeva atto della separazione della corrente cristiana, la quale nello stesso mese dava vita alla Libera confederazione generale italiana del lavoro (L.C:G.I.L.). Ampie discussioni in Parlamento e fuori ha pure destato il piano Fanfani per la ricostruzione edilizia, mentre contro la regione si appuntano sempre più le preoccupazioni di larghe zone dell’opinione pubblica. Sul piano internazionale, sempre aperta è rimasta la questione del destino ultimo dei nostri territorî coloniali, mentre con la Francia la politica estera italiana ha raggiunto risultati più concreti: incontro De Gasperi Schuman a Parigi del novembre e Sforza-Schuman a Cannes del dicembre; rapporto della commissione mista italo-francese per l’unione doganale (21 gennaio 1949); con la Russia sovietica la missione commerciale La Malfa è riuscita a raggiungere l’11 dicembre un soddisfacente accordo commerciale e per le riparazioni; sintomi di distensione, con volontà di risolvere le questioni in sospeso (pesca adriatica, optanti, ecc.), si sono avuti nei rapporti con la Iugoslavia; fra il dicembre 1948 e il gennaio 1949 il gen. E. Marras, capo di S. M. si è recato in visita negli S. U.; con la Grecia il 5 novembre 1948 è stato firmato a San Remo un trattato di amicizia, mentre la visita a Roma del ministro degli Esteri austriaco Gruber (7 novembre) è avvenuta nel clima dei buoni rapporti instaurati alla frontiera del Brennero.

Luigi Salvatorelli

Legislature del Parlamento dal 15 marzo 1939. – Senato: presidente (dal 15 marzo 1939) Suardo Giacomo; (dal luglio 1943) Thaon de Revel Paolo senior; Camera: presidente (dal 30 novembre 1939) Grandi Dino.

Nel luglio del 1944 il gabinetto Bonomi invitò V. E. Orlando e il sen. P. Della Torretta ad assumere rispettivamente le funzioni di Presidente della Camera e di Presidente del Senato.

Assemblea Costituente (25 giugno 1946-18 aprile 1948): presidente: Saragat Giuseppe (sino al 6 febbraio 1947), Terracini Umberto; vicepresidenti: Terracini Umberto; Micheli Filippo; Conti Giovanni; Pecorari Antonio; Grandi Achille; Tupini Umberto; Targetti Ferdinando; Bosco Lucarelli Giambattista.

Senato (dall’8 maggio 1948): presidente, Bonomi Ivanoe; vicepresidenti: Alberti Antonio; Aldisio Salvatore; Molè Enrico; Scoccimarro Mauro.

Camera dei deputati (dall’8 maggio 1948): presidente, Gronchi Giovanni; vicepresidenti: Fuschini Giuseppe; Targetti Ferdinando; Martino Gaetano; Chiostergi Giuseppe.

Elenco dei ministeri dal 12 luglio 1939. – Giustizia, Grandi Dino; (1° novembre 1939): Africa italiana, Teruzzi Attilio; corporazioni, Ricci Renato; cultura popolare, Pavolini Alessandro; scambi e valute, Riccardi Raffaele; agricoltura e foreste, Tassinari Giuseppe; comunicazioni, Host Venturi Giuseppe; lavori pubblici, Serena Adelchi; (13 giugno 1942): agricoltura, Pareschi Carlo; (5 febbraio 1943): esteri, Mussolini Benito; grazia e giustizia, De Marsico Alfredo; finanze, Acerbo Giacomo; educazione nazionale, Biggini Carlo; lavori pubblici, Benini Zenone; comunicazioni, Cini Vittorio; corporazioni, Tiengo Carlo; cultura popolare, Polverelli Gaetano; scambi e valute, Bonomi Oreste; produzione bellica, Favagrossa Carlo; (17 aprile 1943): corporazioni, Cianetti Tullio.

(25 luglio 1943-11 febbraio 1944): presidente, Badoglio Pietro, esteri, Guariglia Raffaele; interni, Fornaciari Bruno (sino al 10 agosto 1943), poi Ricci Umberto; giustizia, Azzariti Gaetano; finanze, Bartolini Domenico; guerra, Sorice Antonio; marina, De Courten Raffaele; aeronautica, Sandalli Renato; educazione nazionale, Severi Leonardo; lavori pubblici, Romano Domenico; agricoltura e foreste, Brizi Alessandro; industria, commercio e lavoro, Piccardi Leopoldo (sino al 16 novembre 1943); comunicazioni, Amoroso Federico; Africa italiana, Gabba Melchiade; scambi e valute, Acanfora Giovanni; cultura popolare, Rocco Guido (sino al 13 agosto 1943), Galli Carlo; produzione bellica, Favagrossa Carlo.

Dopo l’8 settembre 1943 i seguenti ministeri, i cui titolari non avevano potuto raggiungere Brindisi, vennero retti dal 16 settembre in poi da sottosegretari: interni, Reale Vito; giustizia, De Sanctis Giuseppe; finanze, Jung Guido; guerra, Orlando Taddeo; educazione nazionale, Cuomo Giovanni; lavori pubblici, De Caro Raffaele; agricoltura e foreste, Siciliani Tommaso; industria, commercio e lavoro, Corbino Epicarmo; poste e telegrafi, Fano Mario.

(11 febbraio 1944-17 aprile 1944): Capo del governo, Badoglio Pietro; esteri, idem; interni, Reale Vito; finanze, Jung Guido; giustizia, Casati Ettore; guerra, Orlando Taddeo; marina, De Courten Raffaele; aeronautica, Sandalli Renato; educazione nazionale, Cuomo Giovanni; lavori pubblici, De Caro Raffaele; agricoltura e foreste, Lucifero Falcone; comunicazioni, Siciliani Tommaso; industria, commercio e lavoro, Corbino Epicarmo.

(22 aprile-10 giugno 1944): presidente, Badoglio Pietro; esteri, idem; senza portafoglio, Croce Benedetto, Sforza Carlo, Rodinò Giulio, Mancini Pietro, Togliatti Palmiro; interni, Aldisio Salvatore; grazia e giustizia, Arangio-Ruiz Vincenzo; finanze, Quintieri Quinto; guerra, Orlando Taddeo; marina, De Courten Raffaele; aeronautica, Sandalli Renato; istruzione, Omodeo Adolfo; lavori pubblici, Tarchiani Alberto; agricoltura e foreste, Gullo Fausto; comunicazioni, Cerabona Franco; industria commercio e lavoro, Di Napoli Attilio.

Ministeri dopo la liberazione di Roma. – 1. – (18 giugno-10 dicembre 1944): presidente, Bonomi Ivanoe; interni, esteri (nomin. il 20 luglio 1944) e Africa italiana, idem ad int.; senza portafoglio: Cianca Alberto, Croce Benedetto (dimissionario il 27 luglio 1944), De Gasperi Alcide, Ruini Meuccio, Saragat Giuseppe, Sforza Carlo, Togliatti Palmiro, Carandini Niccolò (dal 27 luglio al 25 ottobre 1944); grazia e giustizia, Tupini Umberto; .finanze, Siglienti Stefano; tesoro (ricost. con decr. luogt. 22 giugno 1944 n. 154), Soleri Marcello; guerra, Casati Alessandro; marina, Iìe Courten Raffaele; aeronautica, Piacentini Pietro; pubblica istruzione, De Ruggiero Guido; lavori pubblici, Mancini Pietro; agricoltura e foreste, Gullo Fausto; comunicazioni, Cerabona Franco; industria, commercio e lavoro, Gronchi Giovanni.

2. – (12 dicembre 1944-19 giugno 1945): presidente, Bonomi Ivanoe; interni e, ad int. Africa italiana, id.; vicepresidenti, Rodinò Ugo e Togliatti Palmiro; senza portafoglio: Brosio Manlio; esteri, De Gasperi Alcide; grazia e giustizia, Tupini Umberto; finanze, Pesenti Antonio Mario; tesoro, Soleri Marcello; guerra, Casati Alessandro; marina, De Courten Raffaele; aeronautica, Scialoia Antonio (sino al 14 gennaio 1945), Gasparotto Luigi; pubblica istruzione, Arangio-Ruiz Vincenzo; lavori pubblici, Ruini Meuccio; agricoltura e foreste, Gullo Fausto; trasporti, Cerabona Franco; poste e telecomunicazioni, Cevolotto Mario; industria, commercio e lavoro, Gronchi Giovanni; Italia occupata, Scoccimarro Mauro.

3. – (19 giugno 1945-11 dicembre 1945): presidente, Parri Ferruccio; interno e, ad int., Africa italiana; idem.; vicepresidenti, Brosio Manlio con incarico della Consulta nazionale e poi, dal 17 agosto 1945, ministro id. id.; Nenni Pietro, incaricato per la costituente e quindi, dal 17 agosto 1945, ministro, id. id.; esteri, De Gasperi Alcide; grazia e giustizia, Togliatti Palmiro; finanze, Scoccimarro Mauro; tesoro, Soleri Marcello (deced. 22 luglio 1945), Ricci Federico (dal 31 luglio 1945); guerra, Jacini Stefano; marina, De Courten Raffaele; aeronautica, Cevolotto Mario; pubblica istruzione, Arangio-Ruiz Vincenzo; lavori pubblici, Romita Giuseppe; agricoltura e foreste, Gullo Fausto; trasporti, La Malfa Ugo; poste e telecomunicazioni, Scelba Mario; industria, commercio e lavoro, Gronchi Giovanni.

4. – (11 dicembre 1945-15 luglio 1946): presidente, De Gasperi Alcide; esteri idem e, ad int., Africa italiana; vicepresidante e ministro per la costituente, Nenni Pietro; Ministro s. p. incar. delle relazioni con la Consulta, Lussu Pietro (sino al 20 febbraio 1946), poi Cianca Alberto; interni, Romita Giuseppe; grazia e giustiza, Togliatti Palmiro; finanze, Scoccimarro Mauro; tesoro, Corbino Epicarmo; guerra, Brosio Manlio; marina, De Courten Raffaele; aeronautica, Cevolotto Mario; pubblica istruzione, Molè Enrico; lavori pubblici, Cattani Leone; agricoltura e foreste, Gullo Fausto; trasporti, Lombardi Riccardo; poste e telecomunicazioni, Scelba Mario; industria e commercio, Gronchi Giovanni; ricostruzione, La Malfa Ugo (sino al 22 dicembre 1945, data di soppressione del ministero); assistenza post-bellica, Gasparotto Luigi; lavoro e previdenza sociale, Barbareschi Gaetano; commercio con l’estero, La Malfa Ugo (dal 9 gennaio al 20 febbraio 1946), poi Bracci Ugo.

5. – (15 luglio 1946-3 febbraio 1947): presidente, De Gasperi Alcide; interni idem e, ad int., Africa italiana; senza portafoglio, Nenni Pietro (incaricato del ministero per la costituente), Macrelli Ciro; esteri, De Gasperi Alcide (ad int.) poi, dal 18 ottobre 1946, Nenni Pietro; grazia giustizia, Gullo Fausto; finanze, Scoccimarro Mauro; tesoro, Corbino Epicarmo (sino al 18 settembre 1946), poi Bertone Giovanni Battista; guerra, Facchinetti Cipriano; marina militare, Micheli Giuseppe; aeronautica militare, Cingolani Mario; pubblica istruzione, Gonella Guido; lavori pubblici, Romita Giuseppe; agricoltura e foreste, Segni Antonio; trasporti, Ferrari Giacomo; poste e telecomunicazioni, Scelba Mario; industria e commercio, Morandi Rodolfo; lavoro e previdenza sociale, D’Aragona Ludovico; commercio estero, Campilli Pietro; assistenza post-bellica, Sereni Emilio; marina mercantile, Aldisio Salvatore.

6. – (3 febbraio-31 maggio 1947): presidente, De Gasperi Alcide; Africa italiana, idem (ad int.); esteri, Sforza Carlo; interni, Scelba Mario; grazia e giustizia, Gullo Fausto; finanze e tesoro, Campilli Pietro; difesa, Gasparotto Luigi; pubblica istruzione, Gonella Guido; lavori pubblici, Sereni Emilio; agricoltura e foreste, Segni Antonio; trasporti, Ferrari Giacomo; poste e telecomunicazioni, Cacciatore Luigi; industria e commercio, Morandi Rodolfo; lavoro e previdenza sociale, Romita Giuseppe; commercio estero, Vanoni Ezio; marina mercantile, Aldisio Salvatore.

7. – (31 maggio-15 dicembre 1947): presidente, De Gasperi Alcide; Africa italiana, idem; vice presidente e bilancio, Einaudi Luigi; esteri, Sforza Carlo; interni. Scelba Mario; grazia e giustizia, Grassi Giuseppe; finanze, Pella Giuseppe; tesoro, Del Vecchio Gustavo; difesa, Cingolani Mario; pubblica istruzione, Gonella Guido; lavori pubblici, Tupini Giorgio; agricoltura e foreste, Segni Antonio; trasporti, Corbellini Guido; poste e telecomunicazioni, Merlin Giuseppe; industria e commercio, Togni Giuseppe; lavoro e previdenza sociale, Fanfani Amintore; commercio estero, Merzagora Cesare; marina mercantile, Cappa Paolo.

8. – (15 dicembre 1947-2 maggio 1948): presidente, De Gasperi Alcide; Africa italiana, id. ad int.; vicepresidente e bilancio, Einaudi Luigi; vicepresidenti senza portafoglio, Saragat Giuseppe, Pacciardi Randolfo; senza portafoglio, Togni Giuseppe; esteri, Sforza Carlo; inerni, Scelba Mario; grazia e giustizia, Grassi Giuseppe; finanze, Pella Giuseppe; tesoro, Del Vecchio Gustavo; difesa, Facchinetti Cipriano; pubblica istruzione, Gonella Guido; lavori pubblici, Tupini Umberto; agricoltura e foreste, Segni Antonio; trasporti, Corbellini Guido; poste e telecomunicazioni, D’Aragona Ludovico; industria e commercio, Tremelloni Roberto; lavoro e previdenza sociale, Fanfani Amintore; commercio estero, Merzagora Cesare; marina mercantile, Cappa Paolo.

9. – (24 maggio 1948): presidente, De Gasperi Alcide; Africa italiana, idem ad int.; vicepresidente e marina mercantile, Saragat Giuseppe; vicepresidente, Piccioni Attilio; senza portafoglio, Porzio Giovanni, Tremelloni Giovanni (vicepresidente del C.I.R. e del C.I.R. - E.R.P.), Giovannini Alberto; esteri, Sforza Carlo; interni, Scelba Mario; grazia e giustizia, Grassi Giuseppe; finanze, Vanoni Ezio; tesoro e, ad int., bilancio, Pella Giuseppe; difesa, Pacciardi Randolfo; pubblica istruzione, Gonella Guido; lavori pubblici, Tupini Umberto; agricoltura e foreste, Segni Antonio; trasporti, Corbellini Guido; poste e telecomunicazioni, Jervolino Raffaele; industria e commercio, Lombardo Ivan Matteo; lavoro e previdenza sociale, Fanfani Amintore; commercio estero, Merzagora Cesare.

R.S.I. (dal 23 settembre 1943 al 25 aprile 1945). – Primo Ministro, con funzioni di capo dello Stato, ed esteri, Mussolini Benito; interni, Buffarini Guidi Guido (sino al 21 febbraio 1945), Zerbino Paolo; difesa, Graziani Rodolfo; giustizia, Tringali-Casanova Antonino (morto il 2 novembre 1943), poi Pisenti Piero (dall’8 novembre 1943); educazione nazionale, Biggini Carlo Alberto; finanze, Pellegrini Giampietro Domenico; cultura popolare, Mezzasoma Fernando; economia corporativa, Gay Silvio (sino al 31 dicembre 1943), Tarchi Angelo; agricoltura, Moroni Ludovico; complicazioni, Liverani Francesco; lavori pubblici, Romano Ruggero.

Bibl.: Tentativi di una visione generale: L. Salvatorelli, Pensiero e azione del Risorgimento, 2ª ed., Torino 1944, cap. VII; G. Perticone, La politica italiana nell’ultimo trentennio, 2 voll., Roma 1945; F. Flora, Ritratto di un ventennio, Napoli 1944; E. Giorgi, Il dramma del popolo italiano, Firenze 1945; R. Bucci, Questa Italia. Saggio sul Fascismo, Milano 1948; S. Tino, Il trentennio fascista. Rilievi ed appunti, Roma 1944; S. Jacini, Il regime fascista. Esame critico, Milano 1947; C. I. S. Sprigge, The development of Modern Italy, Londra 1943 (trad. it. Il dramma politico dell’Italia, Roma 1945); Questo era il fascismo. Venti conferenze alla Radio Firenze 1945; F. Monicelli, Venti anni perduti, Roma 1945; P. Treves, Quello che ci ha fatto Mussolini, Roma 1945; C. Silvestri, I responsabili della catastrofe italiana, Milano 1946; P. Silva, Io difendo la Monarchia, Roma 1946; F. Giolli [U. D’Andrea], Come fummo condotti alla catastrofe, Roma s. d.; C. Sforza, L’Italia dal 1914 al 1944 quale io la vidi, Roma 1944; H. L. Matthews, I frutti del fascismo, Bari 1945; C. Barbaglio, Lettere a John. Che cosa fu il fascismo, Napoli 1946; B. Ceva, Storia di una passione, 1919-43, Milano 1948; D. A. Binchy, Church and State in Fascist Italy, Londra 1941; G. Miegge, Église sous le joug fasciste, Ginevra 1946; A. De Gasperi, Studî e appelli della lunga vigilia, Roma 1946; A. Fumarola, La generazione tradita, Roma 1946; E. Momigliano, Storia tragica e grottesca del razzismo fascista, Milano 1946; F. Flora, Stampa dell’èra fascista. Le note di servizio, Roma 1945; C. Rossi, Mussolini com’era, Roma 1948; Autobiografie di giovani del tempo fascista, Brescia 1947; L. Longanesi, In piedi e seduti, Milano 1948; G. S. Spinetti, Difesa di una generazione, Roma 1948; C. Pellizzi, Una rivoluzione mancata, Milano 1949; A. Tamaro, Due anni di storia, 1943-45, Roma 1948-49; M. Matteotti, La classe lavoratrice sotto la dominazione fascista, Roma-Milano 1944; M. Giua, Ricordi di un ex detenuto politico (1935-43), Torino 1945; M. Jacometti, Ventotene, Milano 1946; M. Borsa, Memorie di un redivivo, Milano 1946; S. Lombroso, Si può stampare. Pagine vissute, 1938-45, Roma 1945. – Per la politica estera oltre le opere citate alla voce guerra mondiale, Storia diplomatica, in questa App., v.: L. Salvatorelli, La politica internazionale dal 1861 ad oggi, Torino 1946; id., Il fascismo nella politica internazionale, Modena 1946. – Per il fuoruscitismo politico: F. S. Nitti, Meditazioni dell’esilio, Napoli 1947; id., Rivelazioni, Napoli 1948; F. Frola, Il vecchio scemo e i suoi compagni, Torino 1947 (pamphlet); A. Garosci, La vita di Carlo Rosselli, Roma 1945, 2 voll.; A. Levi, Ricordi dei fratelli Rosselli, Firenze 1947; C. Rosselli, Socialismo liberale, 1ª ed. ital., Roma 1945; E. Lussu, La catena, Roma 1945; J. Lussu, Fronti e Frontiere, Roma 1945; V. Modigliani, Esilio, Milano 1946; F. Nitti, Le nostre prigioni e la nostra evasione, Napoli 1946; G. A. Grimaldi, Piove sui sassi, Roma 1947.

Per la partecipazione italiana alla guerra: P. Badoglio, L’Italia nella seconda Guerra mondiale, Milano 1946; G. Zanussi, Guerra e catastrofe d’Italia, 2 voll., Roma 1945; M. Roatta, Otto milioni di baionette. L’esercito italiano in guerra dal 1940 al 1944, Milano 1946; A. M. Brondi, Un generale e otto milioni di baionette, Roma 1946; O. di Giamberardino, La politica bellica nella tragedia nazionale, Roma 1946; Q. Armellini, Diario di guerra, Milano 1946; C. Favagrossa, Perché perdemmo la guerra. Mussolini e la produzione bellica, Milano 1946; L. Felletti, Soldati senz’armi. Le gravi responsabilità degli alti comandi, Roma 1945; C. Buckley, Road to Rome, Londra 1945; P. Lyautey, La campagne d’Italie 1944. Souvenirs d’un goumier, Parigi 1945; M. Wankowicz, La battaglia di Montecassino, Roma-Milano 1945; M. Caracciolo di Feroleto, E poi? La tragedia dell’esercito italiano, Roma 1946; L. Mondini, Prologo del conflitto italo-greco, Roma 1945; E. Grazzi, Il principio della fine. L’impresa di Grecia, Roma 1945: S. Visconti Prasca, Io ho aggredito la Grecia, Milano 1946; F. Pricolo, Ignavia contro eroismo. L’avventura italo-greca. Ottobre 1940-Aprile 1941, Roma 1946; U. Cavallero, Diario di guerra, Bologna 1948; A. Iachino, Gaudo e Matapan, Milano 1947; G. Messe, La guerra al fronte russo. Il corpo di spedizione italiano (CSIR), Milano 1947; G. Angelini, Fuochi di bivacco in Croazia, Roma 1946; P. Caccia Dominioni, Takfir. Cronaca dell’ultima battaglia di El Alamein, Milano 1948; G. Pedoja, La disfatta nel deserto, Roma 1946; O. Piscicelli Taeggi, Diario di un combattente nell’Africa settentrionale, Bari 1946; G. Messe, Come finì la guerra in Africa. La prima armata italiana in Tunisia, Milano 1947; A. Cappellini, Torpedini umane contro la flotta inglese, Milano 1947. Per la propaganda inglese in Italia: Candidus (J. J. Marus), Parla Candidus, Milano 1945; P. Treves, Sul fronte e dietro il fronte italiano, Roma 1945. Per il punto di vista fascista: La nostra guerra. Conferenze varie, a cura di J. Mazzei, Firenze 1942; V. Gayda, Perché l’Italia è in guerra, Roma 1943; Atti del Convegno per lo studio dei problemi economici dell’ordine nuovo, 2 voll., Pisa 1942-43.

Sui fatti che portarono alla caduta del fascismo: B. Mussolini, Storia di un anno. Il tempo del bastone e della carota, Verona 1944: La Massoneria contro l’Italia. Il retroscena della crisi politico-militare culminato negli avvenimenti del 25 luglio e dell’8 settembre, Venezia 1944 (interpretazione fascista): P. Vittorelli, Dal fascismo alla rivoluzione. Storia della caduta del fascismo, 3ª ed., Il Cairo 1945; W. Sperco, L’écroulement d’une dictature. Choses vues en Italie durant la guerre 1940-45, Parigi 1946; C. Senise, Quando era capo della Polizia, Roma 1946; V. Napolitano, 25 luglio, Roma 1944.

Per l’armistizio del settembre 1943 e la mancata difesa di Roma: N. Savarese, Cronachetta siciliana dell’estate 1943, Roma 1943; G. Castellano, Come firmai l’armistizio di Cassibile, Milano 1945; A. Berio, Missione segreta (Tangeri agosto 1943), Milano 1940; F. Rossi, Come arrivammo all’armistizio, Milano 1946; M. Torsiello, L’aggressione germanica all’Italia nella fase preliminare, in Rivista mil. ital., luglio 1945; A. Corona, La verità sul 9 settembre, Roma-Milano s. d. (1944); G. Perticone, Settembre 1943, Roma 1944; G. Carboni, L’armistizio e la difesa di Roma. Verità e menzogne, Roma 1945: id., L’Italia tradita dall’armistizio alla pace, Roma 1947; A. Sanzi, Il generale Carboni e la difesa di Roma, visti ad occhio nudo, Torino 1946; E. Mecheri, Chi ha tradito? Rivelazioni e documentazioni inedite di un vecchio fascista, Milano 1947; F. Maugeri, Mussolini mi ha detto. Confessioni di Mussolini durante il confino a Ponza e alla Maddalena, Roma 1946; A. Basso, L’armistizio del settembre 1943 in Sardegna, Napoli 1947; R. Operti, Il tesoro della IV armata, Torino 1946; Z. Algardi, Pagine di storia napoletana attraverso il processo dei generali Pentimalli e Del Tetto, s. l. 1945.

Per il governo di Brindisi e di Salerno: A. Degli Espinosa, Il regno del sud, 8 settembre 1943-4 giugno 1944, Roma 1946; N. Bolla, Dieci mesi di governo Badoglio, Roma 1944; D. Bartoli, Vittorio Emanuele III, Milano 1946; B. Croce, Quando l’Italia era tagliata in due. Estratto di un diario (luglio 1943-giugno 1944), Bari 1948; id., Per la nuova vita dell’Italia. Scritti e discorsi 1943-44, Napoli 1945; A. Omodeo, Per la riconquista della libertà. Raccolta di pagine politiche, Napoli 1944; M. Correnti [P. Togliatti], Discorsi agli Italiani, Roma 1946. Per la partecipazione italiana alla guerra contro i Tedeschi: Ministère des affaires étrangères, Le concours italien dans la guerre contre l’Allemagne, Roma 1946; C. Medeghini, Gli Italiani nella guerra di liberazione. Da Cassino alle Alpi, Bergamo 1945; G. Lombardi, Il corpo italiano di liberazione, Roma 1945; G. Mastrobuono, Il gruppo di combattimento «Cremona» nella guerra di liberazione, Roma 1946; L. Boscardi, Dalle Puglie alla Valle Padana. La 210ª divisione di fanteria ital. inquadrata nella 5ª armata americana, Milano-Roma 1945. – Per Roma sotto il dominio tedesco: I. Bonomi, Diario di un anno (2 giugno 1943-10 giugno 1944), Milano 1947; P. Monelli, Roma 1943, 5ª ed., Milano 1948; C. Trabucco, La prigionia di Roma. Diario dei 268 giorni dell’occupazione tedesca, Roma s. d. (1945); A. Troisio, Roma sotto il terrore nazifascista (8 settembre 1943-4 giugno 1944). Documentario, Roma 1944: J. Di Benigno, Occasioni mancate. Roma in un diario segreto 1943-44, Roma 1945; Z. Algardi, Il processo Caruso, Roma 1945; R. E. De Sanctis, Difesa dell’uomo. Gli «asterischi» dell’Osservatore Romano durante i nove mesi dell’occupazione nazi-fascista, Roma 1945; G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Roma 1945; A. Ascarelli, Le Fosse Ardeatine, Roma 1945: G. Lombardi, Montezemolo e il Fronte militare clandestino di Roma (ottobre 1943-gennaio 1944), Roma 1946; V. Fornaro, Il servizio informazioni nella lotta clandestina. Gruppo Montezemolo, Milano 1946; P. Levi Cavaglione, Guerriglia nei Castelli romani, Roma 1945, e v. resistenza, in questa App.

Per la repubblica sociale: G. Perticone, La Repubblica di Salò, Roma 1945; F. Bellotti, La repubblica di Mussolini, Milano 1947; E. Amicucci, I 600 giorni di Mussolini (Dal Gran Sasso a Dongo), Roma 1948; E. Cione, Storia della repubblica sociale italiana, Caserta 1948; id., Tra Croce e Mussolini, Napoli 1946 (2ª ed., Caserta 1948); U. Manunta, La caduta degli angeli, Milano 1946; Stanis Ruinas, Pioggia sulla repubblica, Roma 1946; id., Lettere di un rivoluzionario, Venezia 1945; L. Villari, Affari esteri, 1943-45, Roma 1948; G. Zachariae, Mussolini si confessa, Milano 1948; D. Mayer, La verità sul processo di Verona, Milano 1945; E. Canevari, Graziani mi ha detto, Roma 1947; R. Graziani, Ho difeso la Patria, Milano 1947; C. Cya, La socializzazione delle aziende, Firenze 1944; C. Pettinato, Gli intellettuali e la guerra, Torino 1944; card. I. Schuster, Gli ultimi tempi di un regime, 2ª ed., Milano 1946; A. Malgeri, L’occupazione di Milano e la liberazione, Milano 1947; F. Lanfranchi, La resa degli ottocentomila, con le memorie autografe del barone L. Parrilli, Milano 1948; E. Moellhausen, La carta perdente, Roma 1948; R. Salvadori, Nemesi. Dal 25 al 28 aprile. Documenti e testimonianze sulle ultime ore di Mussolini, Milano 1945; G. Silvestri, Albergo agli Scalzi, Milano 1946; L. Meda, I carcerati pregano. Memorie di S. Vittore, reparto tedesco, 1943-44, Milano 1946; P. Liggeri, Triangolo Rosso. Dalle carceri di S. Vittore ai campi di concentramento e di eliminazione di Fossoli, Bolzano, Mautthausen, Gusen, Dachau, Milano 1946; A. Bizzarri, Mauthausen città ermetica, Roma 1946; G. Valenzano, L’inferno di Mauthausen (Come morirono 5000 italiani deportati), Torino 1945; M. Caracciolo di Feroleto, Sette carceri di un generale, Roma 1947; L. Valiani, Tutte le strade conducono a Roma. Diario di un uomo nella guerra di un popolo, Firenze 1947; E. Sereni, Il CLN della Lombardia al lavoro nella cospirazione, nella insurrezione e nella ricostruzione, Milano 1945; P. Mieville, Fascist’s Criminal Camp, 3ª ed., Roma 1948; C. Merzagora, I pavidi, Milano 1947.

Per la ricostruzione: P. Barbieri, Il travaglio della democrazia italiana, 1943-47. Documenti e testimonianze, Roma 1948; F. Burzio, Dalla liberazione alla Costituente, Torino 1946; Gayre, Italy in transition, Londra 1945; M. Delle Piane, Funzione storica dei Comitati di liberazione nazionale, Firenze 1946; V. Gorresio, Un anno di libertà, Roma 1945; A. Guerriero, Politica estera italiana, Roma 1945; G. Andreotti, Concerto a sei voci. Storia segreta di una crisi, Roma 1945; B. Croce, Pagine politiche, Bari 1945; id., Pensiero politico e politica attuale. Scritti e discorsi, Bari 1946; id., Due anni di vita politica italiana, 1946-47, Bari 1948; P. Togliatti, Per la salvezza del nostro Paese. Scritti e discorsi, Roma 1946; M. Dipiero, Storia critica dei partiti italiani, Roma 1946; M. Ruini, Verso la Costituente. Problemi della costituzione, Roma 1945; P. Calamandrei, Costruire la democrazia. Premessa alla Costituente, Firenze 1945; O. Zuccarini, Esperienze e soluzioni, Roma 1944; A. Monti, Realtà del partito d’azione, Torino 1945; G. Calogero, Difesa del liberalsocialismo, Roma 1945; D. Bartoli, Fine della monarchia, 2ª ed., Milano 1948; E. Saini, Storia segreta di un mese di regno, Roma 1947; P. Nenni, Una battaglia vinta, Roma 1946.

Operazioni belliche durante la seconda guerra mondiale.

Dall’entrata in guerra dell’Italia al colpo di stato del 25 luglio 1943. – Il 10 giugno 1940 le forze italiane iniziarono le ostilità dando origine a quell’insieme di operazioni costituenti la cosiddetta battaglia delle Alpi (v. in questa App.). Dopo l’armistizio con la Francia s’inclinò a credere nella facilità della vittoria; furono perfino dati ordini per il congedamento di aliquote di ufficiali e soldati. La guerra, almeno nel campo terrestre, si andava allontanando dall’Italia, dove rimasero poche grandi unità. L’andamento successivo della guerra impose però grado a grado il problema della difesa diretta dell’Italia insulare e peninsulare, e negli anni intercorsi tra il 1941 e il 1943 fu perciò dato impulso alla organizzazione della difesa costiera in Sicilia, Sardegna, Corsica, e in seguito sul litorale del continente. Subito apparvero gravi le lacune potenziali del paese: industrie non attrezzate per la guerra, materie prime deficienti, armamento ed equipaggiamento antiquati e non sufficienti, grave il problema delle munizioni, dannosi i privilegi e le esenzioni nei richiami alle armi del personale. Mentre elementi tedeschi affluivano in Italia per concorrere alla organizzazione della difesa, la stessa struttura della difesa costiera, la vana e snervante attesa di un attacco che non si verificava mai, la lunga permanenza nelle medesime località, sovente coincidenti con le sedi degl’interessi dei singoli, crearono una mentalità che condusse molti a territorializzarsi e adagiarsi quando non ad abbandonarsi a scoraggiamento e pessimismo anche per gli effetti terrificanti dei bombardamenti aerei che diventavano sempre più violenti. Ad accentuare la depressione e ad aumentare i motivi di incertezza intervennero le notizie dei rovesci ovunque subìti.

Dal 25 luglio 1943 all’8 settembre 1943. – Alla data del 25 luglio 1943 i Tedeschi avevano in Italia 7 divisioni – 3 corazzate e una di paracadutisti – una brigata corazzata e raggruppamenti autonomi di elementi sfusi, unità ripartite fra Toscana, Campania, Puglie e le isole. Le truppe dislocate in Sicilia avevano subìto perdite notevoli e stavano ricuperando personale e materiale; complementi erano in affluenza, cosicché per la fine di agosto tutte le unità furono completamente riordinate. Le truppe erano alle dipendenze dell’OBS (Oberbefehl Süd) di stanza a Frascati (generale A. Kesselring), a sua volta dipendente dal comando supremo germanico e solo nominalmente da quello italiano.

Esse costituivano masse mobili di manovra a sostegno della copertura costiera. Un aumento di tali forze, in vista di possibili sbarchi, era stato richiesto durante il convegno di Feltre (19 luglio 1943), ma i rappresentanti tedeschi avevano dichiarato esplicitamente di non poter aderire. Per la sua costituzione organica e la sua dislocazione questa massa non era in grado di controllare il territorio italiano, ed è perciò da ritenere che, almeno fino al 25 luglio, avesse esclusivamente funzioni operative.

Il 25 luglio 1943 si verificò il colpo di stato che condusse al crollo del fascismo. Tutti furono indotti a chiedersi che cosa ne avrebbe pensato l’alleato, anche se la dichiarazione contenuta in un proclama del maresciallo Badoglio («la guerra continua») voleva costituire elemento di per sé stesso chiarificatore. Ma furono sufficienti solo poche ore per avere chiara la sensazione di come la Germania giudicasse l’avvenimento.

Il 26 luglio all’alba, la 44ª divisione di fanteria tedesca e la 136ª brigata da montagna si attestarono al Brennero e il giorno 29 lo forzarono in formazione di combattimento, occuparono l’Alto Adige, imposero il proseguimento dei loro trasporti verso sud, stabilirono distaccamenti sulle linee di comunicazione e presso gl’impianti industriali, ed emisero una moneta di occupazione. Complessivamente affluirono: a) dalla Francia: divisioni 76ª, 94ª, 305ª, destinate in Liguria e la 2a paracadutisti destinata nel Lazio; b) dalla Germania: 44ª divisione e 136ª brigata di montagna per l’Alto Adige; divisioni 65ª e 24ª corazzata e SS. Hitler, destinate all’Appennino emiliano.

Contemporaneamente le forze dislocate in Sicilia affluirono verso la Calabria, quelle dislocate in Campania si irradiarono ed estesero l’occupazione, quelle dislocate in Sardegna e Corsica, concentrate, chiesero di poter concorrere alla copertura costiera (v. fig.1). E non vi era dubbio che la Germania avesse l’intenzione di occupare l’Italia, operazione che non può considerarsi improvvisata ma concepita e organizzata in precedenza. Nei giorni successivi il comando supremo germanico adottò misure che nello spazio di tre settimane portarono al concentramento in Italia di forze ingenti, in zone coincidenti con quelle in cui erano dislocate le divisioni italiane, che vennero così in breve tempo a trovarsi incapsulate e paralizzate (v. fig. 2). L’atteggiamento venne mascherato con l’intenzione di difendere in comune l’Italia, ma nel contempo furono preavvisate in arrivo altre 4 divisioni (2 dalla zona di Innsbruck e 2 dalla zona di Klagenfurt). Tale concetto i Tedeschi confermarono nei convegni di Tarvisio (6 agosto) e Bologna (15 agosto) per giustificare il loro operato, soggiungendo che intendevano costituire due masse di riserva sull’Appennino e in Liguria e chiedendo di poter concorrere alla protezione delle comunicazioni e degl’impianti dell’alta Italia.

Verso il 10 agosto la 2a divisione paracadutisti proveniente dalla Francia si portò nei pressi di Roma e la 3ª divisione corazzata, dalla zona di Orvieto, le inviò un gruppo di combattimento di rinforzo (dislocato sui Colli Albani), completandosi a sua volta con unità provenienti dalla Germania e raggiunse la forza di 24.000 uomini e oltre 600 carri armati. Si erano così formate due masse mobili corazzate a nord e a sud di Roma. Infine i Tedeschi avvertirono che il maresciallo E. Rommel era stato nominato comandante delle forze dell’alta Italia (Gruppo Armate B).

A tale massa di forze se ne aggiunse una seconda costituita da elementi sfusi per incarichi varî, bene armati e addestrati, incuneati e frammischiati capillarmente fra le unità italiane e specialmente fra le truppe costiere (circa 150.000 uomini dotati di mobilità, potente armamento e gravitanti sui centri vitali). Di notevole importanza il blocco dislocato attorno a Roma (circa 29.000 uomini), oltre a 6000 elementi del servizio informazioni e degli organi politici tedeschi.

Alla data dell’8 settembre, perciò, le forze germaniche dislocate in Italia (v. fig. 3) ascendevano a 17 divisioni, 2 brigate e circa 150.000 elementi sfusi, oltre a 4 divisioni segnalate in arrivo. A schieramento ultimato, l’incapsulamento della maggior parte delle forze italiane appariva completo, accompagnato quasi ovunque dalla prevalenza, nel numero e nell’armamento, delle forze tedesche.

Alla data del 25 luglio le forze italiane erano intanto disseminate su tutti gli scacchieri di guerra, e per giunta in condizioni di efficienza molto minorata. Tuttavia nella penisola esistevano 30 divisioni (2 corazzate, di cui 1 in corso di completamento, 11 di fanteria di cui 5 in ricostituzione e 3 autotrasportabili, 1 motorizzata, 1 celere e 4 alpine in ricostituzione, 11 costiere), 7 brigate costiere, truppe ai depositi ed elementi di polizia. Le divisioni in ricostituzione provenivano dalla Russia ed erano prive di artiglierie, armi pesanti e mezzi di trasporto; quelle costiere prevalentemente formate da elementi territoriali, le truppe ai depositi non erano addestrate, la polizia era impiegata nei normali servizî d’istituto. L’ordine pubblico nel nord assorbiva 11 divisioni, e le operazioni di rastrellamento in corso nella Venezia Giulia ne assorbivano 2.

Il 31 luglio furono impartite disposizioni verbali per opporsi ad eventuali azioni delle truppe germaniche, disposizioni che furono confermate per iscritto l’11 agosto (ordine 111 del comando territoriale); fu anche disposta la vigilanza sulle unità tedesche e si effettuarono spostamenti di unità nei limiti del possibile, data la grave crisi dei trasporti ferroviarî soggetti a continui e intensi bombardamenti (v. fig. 4).

Nel contempo si emanarono disposizioni intese a reprimere atti di forza (memorie 44 e 45 del 2 e 6 settembre; memorie 1 e 2 del 4 e 5 settembre), che apparvero forse tardive, incerte e incomplete ed eccessivamente vincolate dal segreto militare.

Intanto erano intervenute le prese di contatto fra il comando supremo italiano e il comando alleato per la stipulazione di un armistizio (missioni dei generali G. Castellano e G. Zanussi): alla offerta di collaborazione era stato risposto con la richiesta della resa incondizionata. Nel corso delle trattative (durate dal 19 agosto al 3 settembre, data della firma dell’armistizio) parve di comprendere che gli Alleati sarebbero sbarcati nei pressi di Roma e che l’armistizio sarebbe stato annunciato non prima del 12 settembre.

Giunse invece l’8 settembre, e a sera gl’Italiani appresero l’avvenuta conclusione dell’armistizio: lo stesso governo e le stesse autorità militari rimasero sorpresi. Fu possibile salvare la maggior parte della flotta dirigendola su Malta, fu possibile salvare una parte della già ridotta flotta aerea, ma l’esercito subì in pieno le conseguenze della situazione determinatasi, incapsulato com’era dalle truppe tedesche. Al disorientamento da parte italiana, dovuto anche alla incertezza e alla intempestività degli ordini e allo sbandamento di varie unità, fece riscontro l’energia dell’azione germanica, minuziosamente predisposta, che si sviluppò presto violenta.

A quella data, dinnanzi a una massa ingente di effettivi tedeschi, l’Italia poteva allineare i già citati raggruppamenti di forze, fra le quali molte unità erano in ricostituzione, altre in viaggio dalla Francia, dalla Croazia e dalla Sardegna, non giunsero in tempo.

I Tedeschi intimarono la resa e disarmarono molti reparti ricorrendo anche a stratagemmi e a intensa propaganda dissolvente, cercando di fraternizzare e di convincere tutti a lasciare le armi. Resistenze isolate ed episodî di valore posero in evidenza la coesione di alcuni reparti, ma la preponderanza dei Tedeschi ebbe il sopravvento, favorita dalla indecisione di molti comandi; alla data del 14 settembre i Tedeschi avevano ormai messo fuori causa l’esercito italiano, detenevano il controllo effettivo della penisola.

A Roma era stata predisposta la difesa della città contro cui si addensavano le formazioni corazzate tedesche, ed era stato anche previsto il concorso di unità alleate. Ma il soccorso diretto degli Alleati venne meno per varie circostanze, e il promesso sbarco «a portata di Roma» fu effettuato nella regione di Salerno, a 270 km. dalla capitale. I Tedeschi a loro volta iniziarono subito le operazioni per la conquista di Roma e la notte sul 9 settembre si determinò una situazione (v. fig. 5) che indusse le autorità responsabili a non difendere Roma; i reali, il capo del governo e i capi militari partirono per Ortona a Mare e di lì per Brindisi, dove iniziarono la costituzione di un nuovo governo che il 13 ottobre dichiarò guerra alla Germania. L’abbandono di Roma per parte dei reali e di quasi tutti i capi delle forze armate, quale che ne fosse la giustificazione, non riuscì subito comprensibile ai capi militari rimasti, aumentando il disorientamento. Si verificò un equivoco palleggiamento delle responsabilità, mentre i reparti al loro posto respingevano i violenti attacchi tedeschi e davano generoso contributo di sangue. Tutto fu vano, e il 10 settembre Roma capitolava.

Campagna d’Italia: dallo sbarco a Pantelleria (11 giugno 1943) alla liberazione di tutto il territorio peninsulare (2 maggio 1945). – Per l’importanza della campagna d’Italia nel quadro generale della seconda Guerra mondiale e per i piani generali degli Alleati, v. guerra mondiale in questa seconda Appendice (I, pp. 1156-1157).

Mentre gli eventi di cui sopra si andavano svolgendo, gli Anglo-americani, occupate Pantelleria (11 giugno) e Lampedusa-Linosa (13 giugno), erano sbarcati in Sicilia (10 luglio). Dopo 38 giorni di lotta l’isola fu conquistata (evacuazione di Messina: 17 agosto); frattanto gli Anglo-americani moltiplicavano i loro attacchi aerei (la stessa Roma fu violentemente bombardata il 19 luglio 1943) per paralizzare la vita nazionale e accelerare il determinarsi delle condizioni che avrebbero costretto l’Italia alla resa, e predisponevano l’invasione della penisola. Il 3 settembre veniva infatti concluso l’armistizio fra l’Italia e gli Alleati.

Durante le trattative per l’armistizio era stata prospettata da parte italiana l’opportunità della collaborazione che l’Italia avrebbe potuto recare alla lotta contro i Tedeschi, ma era stato risposto con la esplicita richiesta della resa incondizionata. I suggerimenti di uno sbarco sulle coste dell’alta Italia al fine di facilitare la liberazione della penisola e tagliar fuori una buona metà delle forze tedesche, e la richiesta di comunicare all’Italia data e località stabilite per lo sbarco o di annunciare l’armistizio a sbarco avvenuto, erano rimasti e rimasero in seguito senza risposta. Gli Alleati non vollero prestar fede alla esposizione della situazione militare italiana e solo tardivamente accedettero alla richiesta di un concorso di forze per la difesa di Roma; fissarono la data e la località dello sbarco senza alcun riferimento all’atteggiamento dell’Italia. Eppure, conscio della situazione italiana, il 18 agosto Churchill aveva telegrafato al generale Alexander per indurlo ad anticipare la data dello sbarco (stabilito per il 15 e spostato al 9 settembre) perciò l’annuncio dell’armistizio fu ritardato solamente nell’intento di farlo coincidere con l’inizio dello sbarco.

Mancata perciò la coesione fra Alleati e Italiani, respinta l’offerta di collaborazione, non valutato esattamente nella sua entità il pericolo tedesco, gli Alleati attuarono egualmente i loro piani sbarcando, con forze esigue, prima (3 settembre) a Reggio Calabria (8ª armata, 3 divisioni) e poi (9 settembre) a Salerno (5ª armata, 6 divisioni) e a Taranto (8ª armata, 1 divisione), determinando così il fallimento strategico iniziale della campagna, poiché furono costretti, da soli, a fronteggiare forze decisamente superiori (una parte delle quali fortunatamente rimase nel nord per il timore di altri sbarchi) e a risalire faticosamente la penisola a prezzo di gravi perdite, su di un terreno che è il più impervio d’Europa dopo le Alpi e i Pirenei. Così praticamente la capitolazione dell’Italia, anziché recare un vantaggio agli Alleati, costituì l’ultimo successo di Hitler, che ne fu indotto, come vedremo, a mutare la impostazione strategica della guerra in Italia.

La strategia degli Alleati intanto era orientata a penetrare nel territorio italiano fino al limite massimo di autonomia dell’aviazione da caccia, per impadronirsi del porto di Napoli e della base aerea di Foggia, da cui gli aerei potevano recarsi anche in Balcania. Ne conseguì il piano d’invasione da tre punti, realizzato da due armate (5ª, gen. M. W. Clark, sul versante tirrenico; 8, gen. B. L. Montgomery, sul versante ionico-adriatico): la 8ª doveva compiere un ampio avvolgimento movendo dal versante adriatico verso il crinale appenninico.

Caduta la Sicilia, il comando tedesco dovette affrontare il problema della difesa dell’Italia, adottando inizialmente la soluzione di affidare alle forze italiane la difesa della penisola meridionale, mentre i Tedeschi avrebbero arrestato gli Alleati sugli Appennini. Privi di marina, con una aeronautica insufficiente, diffidenti sul contegno italiano e incerti sulle zone di sbarco, decisero in seguito di porsi in grado di disarmare le forze italiane (progetto «Asse»), di evacuare la Sardegna e la Corsica e di porre le unità del gruppo armate sud alle dipendenze del gruppo armate B che le avrebbe accolte ai piedi dell’Appennino settentrionale, dove avrebbero dovuto ripiegare dopo il disarmo degli Italiani.

Annunciato l’armistizio fra l’Italia e gli Alleati, e avvenuto lo sbarco a Salerno, i Tedeschi effettuarono i contrattacchi c0n le forze dislocate in Campania; fallita la possibilità di rigettare in mare la 5ª armata, decisero il ripiegamento affidando il fronte sud alla 10ª armata e organizzando la difesa della penisola per successive linee di resistenza, in relazione al tempo disponibile.

I Tedeschi in un primo tempo non ebbero l’intenzione di difendere l’Italia meridionale, e del resto la difesa dell’Europa «ariana», come la chiamava Hitler, cioè dell’Europa centrale, poteva ancora effettuarsi con efficacia sulle tre linee dell’Appennino settentrionale del Po e delle Alpi. Ma poiché gli Alleati non avevano voluto sfruttare il concorso italiano e si erano indotti a invadere la penisola da Reggio Calabria, da Taranto e da Salerno, decisero di arrestarli, mutando così la impostazione strategica della campagna. In proposito sorse un conflitto fra i comandi germanici: il gen. E. Rommel, per il timore di sbarchi dietro la fronte, era del parere che si dovesse difendere l’Italia sull’Appennino settentrionale, lasciando nella parte centromeridionale formazioni motorizzate per avere il tempo di predisporre la difesa; il gen. A. Kesselring, sostenuto dal Comando supremo, era invece dell’avviso che convenisse arrestare il nemico nell’Italia meridionale. Prevalse questo secondo concetto politico-militare, e si procedette al riordinamento delle forze: il gen. Kesselring ebbe ai suoi ordini le truppe dislocate sul fronte sud (8 divisioni di cui 3 corazzate, successivamente rinforzate da altre); il comando gruppo armate B fu disciolto e dal 12 novembre assunse la denominazione di comando del sud-ovest con la 10ª armata a sud e la 14ª nord della linea Piombino-Ancona.

Fu iniziata l’organizzazione di varie linee difensive contrassegnate con le lettere dell’alfabeto; quella più importante, su cui si doveva arrestare il nemico, era la linea G (Gustav) che seguiva il corso del Garigliano-Rapido-Sangro, integrata da fortificazioni successive e dalla difesa costiera, completata da inondazioni e dalla evacuazione dei civili lungo una striscia profonda 5 km. dalle prime linee e dalla costa.

Sbarcati gli Anglo-americani a Salerno e falliti i furiosi contrattacchi per l’affluenza di nuovi mezzi anche corazzati e per il formidabile concorso dell’aviazione e della marina, sopravvenuta la 8ª armata dalla Calabria, per il timore che le forze tedesche fossero tagliate fuori dal grosso della 10ª armata, il comando germanico rinunciò a ulteriori tentativi. Le armate alleate si congiunsero sul Calore il 16 settembre; l’8a proseguì verso Foggia dove si unì ai suoi elementi sbarcati a Taranto e la 5ª verso il Garigliano dopo avere forzato il Volturno. Napoli e Foggia furono occupate, la prima col concorso della popolazione, che fin dal 27 settembre si era rivoltata ai Tedeschi, il 10 ottobre 1943 Gli Alleati avevano perciò raggiunto il loro primo obiettivo. Si prefissero quindi lo scopo di conquistare Roma e di liberare la maggior parte della penisola per dare sicurezza alle basi logistiche e aeree. Così la 5’ armata (versante tirrenico) e l’8ª (versante adriatico), affiancate, tenacemente contrastate dai Tedeschi, coordinarono i loro sforzi per il proseguimento dell’offensiva. Arrestati dinanzi a Cassino (v., in questa App.), al Garigliano e al Sangro (dicembre 1943), impiegarono tutto l’inverno in inutili e sanguinosi attacchi slegati, su ampia fronte, ai quali partecipò il 1° raggruppamento motorizzato italiano, costituito da volontarî, prima cellula del nuovo esercito, poi trasformatosi in Corpo italiano di liberazione, che si batté eroicamente a Monte Lungo (v., in questa App.) l’8 e il 16 dicembre. Nel corso di essi andò distrutta il 15 febbraio 1944, da un bombardamento aereo che non parve giustificato, la storica abbazia di Montecassino. Gli attacchi furono tutti tenacemente respinti e conseguirono solo risultati parziali per l’inclemenza del tempo, le gravi interruzioni stradali, le difficoltà del terreno organizzato a difesa, la deficienza di unità idonee alla guerra di montagna e la resistenza germanica. Effettuato uno sbarco ad Anzio (22 gennaio 1944) per concorrere alla rottura della linea Gustav a Cassino e sul Garigliano (v. Anzio, in questa App.), gli Alleati si videro incapsulare dalle forze tedesche accorse (inizialmente 5, poi 8 divisioni) e violentemente contrattaccare; la manovra affidata all’8ª armata, che doveva puntare su Pescara e concorrere quindi per Popoli-Avezzano alle operazioni su Roma, a sua volta fallì, e gli Alleati furono costretti ad attendere il maggio 1944 per riprendere l’offensiva in condizioni migliori, con impiego di mezzi adeguati e largo concorso di aviazione: alle operazioni partecipò anche il Corpo italiano di liberazione.

Si ricorda che nel frattempo si erano fatti tentativi per una riorganizzazione dell’esercito repubblicano fascista. Il 27 settembre 1943 il maresciallo R. Graziani era stato assunto alla carica di ministro della Difesa nazionale e aveva emanato le disposizioni per il reclutamento delle forze. Riuscl a riunire 786.000 uomini (esercito 143.000, marina 26.000, aeronautica 79.000, guardia nazionale 150.000, brigate nere 6000, volontarî ausiliari 122.000, operai militarizzati 260.000). La Germania si impegnò di costituire e addestrare 4 divisioni che, inviate in campi di addestramento, rientrarono in Italia nell’estate del 1944 (divisioni Monte Rosa, Littorio, San Marco, Italia) e costituirono, insieme con forze tedesche, l’armata della Liguria agli ordini dello stesso gen. Graziani. Con gli elementi della marina si costituì la X Mas, poi trasformata in divisione; gli elementi dell’aeronautica furono incorporati nell’esercito.

Le operazioni decisive contro la linea Gustav furono intraprese mediante l’avvolgimento di Cassino da nord e da sud per sboccare nella valle del Liri, col concorso delle forze sbarcate ad Anzio per tagliare le comunicazioni a sud di Roma e dell’8ª armata che avrebbe dovuto puntare su Pescara. Il generale Kesselring, a sua volta, manovrò per linee interne fra Cassino ed Anzio per l’impiego delle scarse riserve e si preparò a resistere ad oltranza.

L’offensiva si iniziò il 12 maggio col concorso preminente di forze francesi e polacche, e la linea Gustav fu finalmente infranta il 16 maggio 1944. La 5ª armata inseguì energicamente; avvenuto il 25 maggio il congiungimento con le forze sbarcate ad Anzio, superati i Colli Albani (2 giugno) e l’Appennino abruzzese, forzate le resistenze a nord del Sangro, la 5ª armata occupò Roma il 4 giugno, e l’8ª occupò Pescara a fine mese. Occupata Roma, Kesselring si ritirò in buon ordine verso l’Appennino, ma delle sue 24 divisioni 7 erano ormai logore e altre 7 prive di coesione. L’inseguimento dei Tedeschi (facilitato anche dai ponti di Roma, rimasti intatti) proseguì attivamente, per quanto più difficilmente nel settore dell’8ª armata, e portò le forze alleate, col concorso di unità italiane e partigiane, ad attestarsi, dopo aver occupato Firenze (4 agosto) e dopo un momentaneo arresto a cavallo del Trasimeno, imposto dai Tedeschi per la ricostituzione di un fronte continuo fra il Tirreno e l’Adriatico (verso la fine di agosto del 1944) alla linea Gotica, nel frattempo predisposta a difesa (Garfagnana – Appennino tosco-emiliano – fiume Marecchia). Intanto il 17 e il 19 giugno truppe francesi del gen. De Tassigny avevano occupato l’isola d’Elba. La 5ª armata occupò Pisa il 2 settembre e Lucca il 3.

Dall’inizio dell’invasione si erano intensificati i violenti attacchi aerei alle città italiane, ai nodi ferroviarî e stradali e agl’impianti industriali; il 12 e il 13 luglio furono distrutti tutti i ponti sul Po ad eccezione di quello di Ostiglia. Questi attacchi andarono sempre crescendo a mano a mano che le forze alleate risalivano verso il nord, e non ebbero termine che il 25 aprile 1945.

Mentre le forze alleate raggiungevano l'Appennino, veniva autorizzata la  ricostituzione dell’esercito italiano su nuove basi, e nel mese di agosto 1944 si dava inizio alla formazione di un nucleo di «gruppi di combattimento» (Cremona, Folgore, Friuli, Legnano, Mantova, Piceno) e alla costituzione di un’organizzazione addestrativa per la preparazione dei complementi. Il contributo italiano, che si era del resto già affermato (divisioni 205ª, 209ª, 210ª, 227ª, 228ª, 230ª, 231ª ed elementi varî) andò così crescendo (forze regolari e irregolari di partigiani, talune riunite in divisioni) e raggiunse un coefficiente notevole, che consentì agli Alleati di spostare in altri scacchieri una parte delle loro forze.

Raggiunta la linea Gotica, i Tedeschi provvidero al suo rafforzamento schierandovi le forze disponibili. Dalla Lunigiana all’Adriatico il concetto difensivo era quello di arrestare gli Alleati parando una forte offensiva sulla fronte ed eventuali sbarchi contemporanei sulle coste. Concetto formulato e imposto da Hitler, ma che in pratica presentava per la sua realizzazione gravi lacune per la deficienza di mezzi corazzati, di aviazione, di riserve mobili e di scorte di munizioni e carburanti; le truppe erano logore, i rifornimenti da tergo non più possibili per le azioni dei bombardieri alleati. Una prima esperienza fu tratta dall’agosto al dicembre 1944: l’assalto alla linea Gotica, infatti, iniziatosi il 25 agosto, aveva dato risultati discreti (occupazione del passo della Futa e di M. Belmonte) nonostante la tenace resistenza dei Tedeschi, coadiuvati da unità dell’esercito repubblicano fascista. Tuttavia le posizioni furono intaccate in profondità: notevole l’offensiva su Rimini, occupata dai Greci il 21 settembre, e su Cesenatico, che creò condizioni favorevoli all’8ª armata, non sfruttate; i Tedeschi non furono in grado di ristabilire la situazione e gli Alleati si arrestarono a poco meno di 20 km. da Bologna. L’offensiva autunnale a cui, nel settore della Garfagnana, aveva partecipato 1ª divisione brasiliana agli ordini del gen. J. B. Mascarenhas, fu sospesa il 26 ottobre e rimandata al 1945; ulteriori progressi furono compiuti dall’8ª armata che occupò Forlì (9 novembre), Ravenna (5 dicembre), Faenza (16 dicembre) e che al 31 dicembre raggiunse i fiumi Senio e Reno. A tale data le posizioni più avanzate passavano per il margine sud dell’abitato di Massa, a nord di S. Marcello Pistoiese, a M. Grande, a Casola, in Val Senio, a Faenza, in Val Lamone, a Ravello. Azioni locali si svolsero a Gallicano e Barga nel dicembre 1944 e a M. Castello (21 febbraio 1945), ma la situazione fu in breve ristabilita dagli Alleati. Incessanti bombardamenti aerei devastarono ulteriormente le città e i centri ferroviarî italiani, senza discriminazione, provocando gravissimi danni e molte perdite umane. Ciò nonostante la difesa fu perfezionata e organizzata con carattere di resistenza ad oltranza e col criterio di opporsi alle infiltrazioni in corrispondenza delle grandi rotabili, dall’Aurelia all’Adriatica.

Alla gravità della situazione venne a sommarsi l’attività partigiana, precedentemente sporadica ma poi dilagante e più intensa, anche fra le truppe schierate, nelle retrovie, sulle più lontane linee di rifornimento. Accentuatasi in primo tempo in Toscana, divampò in Emilia e costrinse i Tedeschi a guardarsi le spalle e i fianchi, a scortare i convogli di rifornimento, a vigilare nodi stradali e ferroviarî, ponti e viadotti, a distogliere truppe per vaste e frequenti azioni di rastrellamento. Oltre agli atti di sabotaggio e alla resistenza armata organizzata, si erano anche verificati palesi atti di disobbedienza alle ordinanze, che richiesero provvedimenti di ripiego e resero sempre meno tranquille le retrovie; la resistenza partigiana si risolse in un concorso efficace allo sforzo degli Alleati e contribuì notevolmente allo sgretolamento della efficienza materiale e morale delle truppe germaniche (v. resistenza, in questa App.).

All’inizio della offensiva finale il gen. Kesselring venne destinato (2 aprile 1945) in Francia, e il comando delle forze tedesche fu assunto dal gen. H. von Vietinghoff. Allo schieramento alleato (19 divisioni, circa 3000 pezzi, 3100 carri armati e 5000 aerei) i Tedeschi potevano opporre la 10ª e la 14ª armata (4 corpi, 27 divisioni oltre le 5 divisioni italiane, con poco più di 1000 pezzi, 200 carri armati e 60 aerei). Delle divisioni, 18 erano schierate, 3 erano in riserva nel nord, 3 nel Veneto e in Istria, 3 in Piemonte. La maggior parte di esse erano veterane della campagna d’Italia; da circa un anno non afflluivano loro né complementi né materiali per il completamento. Varie divisioni erano ridotte di forza; ma poiché il fronte si era andato restringendo, avvenne che l’apprestamento di forti posizioni a difesa consentì uno schieramento atto a realizzare economia nelle forze per costituire qualche riserva locale. Non fu possibile però costituire una riserva generale, e questa deficienza ebbe gravi ripercussioni. Le divisioni repubblicane fasciste erano schierate come segue: Val d’Aosta-Val di Tenda (Littorio e Monte Rosa), Alassio-Voltri (S. Marco, meno alcune aliquote), Lunigiana e Garfagnana (Italia e S. Marco) e nel Veneto (X Mas).

Il disegno strategico degli Alleati rispondeva al concetto di: a) rompere la linea Gotica e dilagare in Emilia mediante il doppio avvolgimento di Bologna; occupazione dei passaggi sul Po da Piacenza a Ferrara per dilagare in Lombardia e nel Veneto (armate 5ª e 8ª b) puntare dalla Lunigiana su La SpeziaGenova, per intercettare la Cornice e dilagare in Piemonte e Liguria (5ª armata); c) svolgere azione concorrente da Ferrara e Venezia per puntare sul Veneto (8ª armata).

L’azione, preceduta il 2 aprile da uno sbarco tattico a nord di Ravenna, ebbe inizio il 5 aprile 1945 sul versante tirrenico e il 9 aprile sul rimanente fronte fino all’Adriatico, e mentre l’ala sinistra della 5ª armata puntava su La Spezia per la via Aurelia e la Lunigiana, la massa delle forze della 5ª e dell’8ª armata attaccava l’intero fronte per attuare la manovra avvolgente diretta alla conquista di Bologna e all’occupazione dei passaggi sul Po. La battaglia fu aspra e violenta: dopo tenace resistenza le truppe alleate, con il concorso imponente e massiccio di aerei, di artiglierie e di mezzi corazzati, ruppero la linea di difesa nei pressi di Argenta (17 aprile) e a La Spezia (24 aprile) e dilagarono in Liguria e nella valle Padana. Occupata Bologna il 21 aprile (entrarono nella città, primissimi, con i Polacchi del gen. V. Anders, i gruppi di combattimento Legnano e Friuli), fu una corsa verso il Po, dove il 23 furono costituite teste di ponte (notevole la resistenza dei Tedeschi a Ferrara), precludendo la ritirata alle forze germaniche che tentavano di superare o raggiungere il fiume. Il 25 gli Alleati avevano raggiunto il Po da Casalmaggiore alla foce, ed effettuato il passaggio, ingenti forze celeri e corazzate si diressero verso le frontiere: l’8ª armata sull’Adige e nel Veneto, la 5ª in Lombardia e nel Trentino, mentre le forze sboccate dalla Lunigiana dilagavano verso Genova-Torino raggiungendo ovunque la frontiera francese. L’esercito tedesco era ormai annientato, e dalla caduta di Bologna non si può più parlare di offensiva, ma di vero e proprio dilagamento, essendo cessata la resistenza (salvo qualche episodio sporadico), per l’occupazione di tutta l’Italia settentrionale col concorso delle formazioni partigiane, che si erano nel frattempo sollevate.

I Tedeschi avevano ricevuto ordine di difendere anche la valle del Po, ma la gigantesca battaglia aveva condotto le truppe alleate nella pianura padana con ingenti forze corazzate e motorizzate, sostenute dall’aviazione mentre le truppe germaniche, ormai ridotte a frammenti di unità logore, non avevano più coesione. Già nel febbraio il gen. Kesselring aveva proposto la ritirata al Po, ma l’idea era stata respinta da Hitler. A rottura avvenuta non era materialmente possibile ripiegare in ordine e creare una linea difensiva tra la pianura e il Po, o a nord del Po, del resto già prevista (linea Genghiz Khàn). Molte difficoltà vi si opponevano infatti: il frammischiamento dei reparti, la mancanza di riserve per imbastire la linea, i ponti già distrutti e la grave deficienza di materiali da traghetto, la mancanza di carri armati, automezzi, carburanti e munizioni, l’inesistenza di unità mobili contro un avversario mobilissimo e potente. I.’intensa attività aerea costringeva poi a compiere i movimenti solo di notte, e le retrovie erano controllate dalle forze partigiane. La situazione divenne perciò disperata: la costante pressione delle forze alleate impedì ai Tedeschi di realizzare alcuna difesa nello stesso settore occidentale, dove il terreno avrebbe offerto buone condizioni. Soltanto elementi della 305ª divisione riuscirono a passare il Po; molte divisioni vi giunsero senza poter iniziare il passaggio, altre furono tagliate fuori. Non rimaneva perciò che tentare qualche resistenza sulle Alpi, ma sarebbero occorse truppe fresche e mezzi che non esistevano; si ebbero quindi solo sporadiche resistenze locali.

In tali condizioni la lotta era divenuta insostenibile per i Tedeschi. Il comando germanico, che fin dal febbraio (a insaputa dell’alleato fascista) aveva cominciato a trattare con gli Anglo-americani, s’indusse a concludere i preliminari della resa, che furono sottoscritti il 29 aprile dai rappresentanti del maresciallo H. Alexander, comandante del gruppo armate alleate, del gen. H. von Vietinghoff, comandante del gruppo armate tedesche e del gen. K. Wolff, comandante supremo delle SS. L’atto di resa si riferiva non solamente a tutte le truppe poste nell’Italia del nord fino all’Isonzo, ma anche a quelle dislocate nelle provincie austriache del Vorarlberg, del Tirolo, di Salisburgo, della Stiria e della Carinzia; erano comprese anche le truppe fasciste che avevano ripiegato verso il Po e il Ticino ad eccezione della X Mas rimasta nel Veneto.

Il 2 maggio 1945 alle ore 12 le ostilità cessarono in Italia e l’armata germanica forte di 22 divisioni tedesche e 5 fasciste (complessivamente circa un milione di uomini) capitolava senza condizioni. A tale data gli Alleati avevano occupato tutta l’Italia collegandosi a nord con i Russi e gli Americani, ad est con gli Iugoslavi e ad ovest con i Francesi. La campagna d’ Italia era finita, dopo 23 mesi dal suo inizio.

Bibl.: Oltre le opere già citate al § Storia, cfr.: Q. Armellini, La Crisi dell’Esercito, Roma 1945; P. Badoglio, L’Italia nella seconda guerra mondiale (Memorie e documenti), Verona 1946; A. Basso, L’Armistizio del settembre 1943 in Sardegna, Napoli 1947; P. Berardi, Contributo dell’esercito italiano alla guerra delle Nazioni Unite, Roma 1947; B. von Bogislay, Considerazioni sulla campagna d’Italia del 1943-44 (dattiloscritto), Berlino 1945; F. de Gungaud, Operation Victory, Londra 1947; D. Eisenhower, Diario di Guerra (trad. ital.), Milano 1947; G. C. Marshall, Biennal Report of the Chief of Staff of the United States Army - July 1, 1943 to June 30, 1945, Washington 1946; J. B. Mascarenhas de Moraes, A FEB (Corpo brasiliano di spedizione) pelo seu comandante, San Paolo (Brasile), 1947; Ministero Difesa, La battaglia delle Alpi occidentali, giugno 1940, Narrazione e Documenti, Roma 1947; T. Orlando, Vittoria di un popolo. Dalle battaglie di Tunisia alla guerra di liberazione, Roma 1946; M. Puddu, Il Corpo di spedizione francese nell’azione decisiva della battaglia di Garigliano (dattiloscritto), Roma 1947; M. Roatta, Otto milioni di baionette. L’esercito italiano in guerra dal 1940 al 1944, Verona 1946; F. Rossi, Come arrivammo all’armistizio, Roma 1946; G. Zanussi, Guerra e catastrofe d’Italia, 2 voll., Roma 1946; 5ª Arm. Am., 19 Days, from the Appennines to the Alps, Milano 1945.

Mario Torsiello

L’Italia occupata.

Per il regime di occupazione instaurato dagli Alleati in Italia a seguito dell’armistizio, si veda amg, in questa seconda App., I, p. 159. Si dà qui una cartina nella quale sono rappresentati i successivi trasferimenti (in detta voce elencati) del territorio italiano dalla giurisdizione dell’AMG all’amministrazione italiana.

L’emigrazione politica italiana durante il fascismo.

L’emigrazione o esilio per causa politica («fuorusciti», «fuoruscitismo» sono vocaboli messi in uso dalla stampa politica fascista, rimodernando il termine usato per le fazioni comunali, al fine di evitare il troppo evidente parallelo con il Risorgimento, che sarebbe risultato dall’impiego del termine «esilio» o «emigrazione») ha un’importanza non trascurabile nella storia del ventennio di governo fascista 1922-45.

Non solo molti Italiani sono stati costretti durante questo periodo a rifugiarsi all’estero per potere continuare a professare le loro idee, ma una parte notevole della vita politica italiana si è svolta come eredità, critica o anticipazione, all’estero, fra i fuorusciti.

I primi moti di emigrazione politica si ebbero già prima della marcia su Roma, quando, in seguito all’offensiva delle «squadre» fasciste contro le Camere del lavoro, contro le leghe locali e contro le varie «cittadelle rosse», il «bando» da un dato paese o da una data regione venne spesso usato come arma per consolidare la vittoria nella lotta di fazione. In quell’epoca molti elementi, specie delle classi operaie o bracciantili, della Emilia, Romagna, Toscana, in cui più forte era la guerra civile e il conflitto di classe, dovettero lasciare il loro paese. Date le condizioni economiche dell’Italia e la difficile situazione in cui un sovversivo si veniva a trovare ad opera della polizia, l’emigrazione non si arrestò all’interno del territorio nazionale, ma molti furono quelli che si diressero all’estero, specie nella vicina Francia, allora largamente aperta. Di qui, fin da tempi precedenti il delitto Matteotti, il formarsi di associazioni e gruppi che all’estero contrastavano il passo alla propaganda fascista.

Questa corrente di emigrazione, politica ed economica insieme, diretta verso i centri tradizionali dell’esodo italiano, raggiunse in alcuni anni una grande intensità: oltre centomila Italiani erano affluiti in un anno nel solo dipartimento della Senna. Questa emigrazione non considerava né chiusa né perduta la guerra civile che si era svolta sul territorio nazionale e reagiva con la violenza alle prime apparizioni del fascismo all’estero. Fu così che nel febbraio 1924 fu ferito mortalmente Nicola Bonservizi, fondatore del fascio parigino. L’uccisore, un giovane cameriere anarchico, Ernesto Bonomini, fu condannato a otto anni dalle Assise della Senna.

Frattanto le vicende politiche, a partire dal delitto Matteotti, conducevano in Francia un numero sempre maggiore, sia di uomini politici liberali sia di collaboratori del fascismo che avevano rotto con esso; di uomini eminenti e di personaggi discutibili, di eroi e di avventurieri; è in questo primo periodo dell’emigrazione, non veramente controllato politicamente, che il fascismo creò la leggenda del «fuoruscito» il quale banchettando nelle «boites de nuit» complotta il suo ritorno in Italia, con armi o bombe. A tale primo periodo si riferisce anche il decreto del marzo 1926 che privava della cittadinanza italiana De Ambris, Ciccotti-Scozzese, Cuzzani, Donati, Frola, G. A. Grimaldi, Pedrini, Pistocchi, Salerno, Salvemini, Tonello, Triaca, Vacirca.

In verità, in tutto questo periodo, una sola impresa collettiva fu tentata tra i fuorusciti. Si tratta delle famose «legioni garibaldine», reclutate da fuorusciti popolani (anarchici, repubblicani, socialisti e comunisti); legioni che avrebbero dovuto armarsi, traversar la frontiera e, in unione ai combattenti italiani di «Italia libera», compiere una specie di «marcia su Roma» a rovescio. Senonché tale movimento, organizzato senza le più elementari cautele, era viziato alla testa. In un clamoroso processo, fatto al colonnello spagnolo Macía per una simile impresa contro la Catalogna, vennero rivelate le relazioni tra il capo delle legioni, Ricciotti Garibaldi, e il questore italiano Lapolla che gli aveva versato 645.000 lire (arresto di Ricciotti, novembre 1926).

Non si stancarono per questo i «fuorusciti» di operare contro il regime, e dall’estero vennero tre degli attentatori contro Mussolini: Lucetti, già prima dello scandalo delle «legioni», Sbardellotto e Schirru.

Dall’estero vennero pure organizzati gli arditi voli di propaganda di Bassanesi e Dolci su Milano, di Lauro De Bosis su Roma, e l’evasione di Rosselli, Lussu e F. Nitti da Lipari; oltre ai molteplici altri tentativi falliti, al ritorno di personalità del fuoruscitismo in Italia per lavorarvi contro il regime (tra questi Ernesto Rossi, Sandro Pertini, Giorgio Amendola, Camilla Ravera e molti altri). Si ebbero anche dimostrazioni all’estero contro gerarchi fascisti particolarmente vistosi (dimostrazioni in America contro la visita di Balbo), attentati contro personalità del regime (attentato di Fernando De Rosa contro il principe ereditario Umberto di Savoia a Bruxelles il 26 ottobre 1929), ecc.

Organizzazione politica ed economica dell’emigrazione. – Fin dal primo periodo dell’emigrazione spontanea, quando ancora in Italia esisteva una libertà di stampa, cominciarono ad uscire all’estero numerosi e varî periodici antifascisti. Solo a Parigi si pubblicavano Voce Socialista; Rivendicazione (anarchico); Riscossa (comunista); Campane a stormo (comunista); esistevano inoltre, nei principali centri di emigrazione, giornali sovversivi locali, sostenuti dai mezzi delle colonie emigrate ai tempi delle leggi eccezionali di Crispi o di Pelloux; tali gli anarchici Risveglio di Ginevra, Adunata dei Refrattari e Martello di New York, i socialisti La parola di New York e Corriere del Popolo di San Francisco, ecc. Ai primi nel 1926 fu tentato un quotidiano «aventiniano», a cui collaborarono Carlo Prato, tìiuseppe Donati, Oddino Morgari, Mario Pistocchi. Il giornale, che ebbe breve ed effimera popolarità in ragione degli stessi attacchi di cui lo faceva oggetto la stampa fascista, non era sostenuto da mezzi morali o materiali adeguati e fu soppresso dal governo francese dopo che era caduto in mano di agenti della polizia fascista.

Alla emigrazione avvenuta prima del 1926 di singole personalità (F. S. Nitti, C. Sforza, don L. Sturzo, G. Amendola, G. Donati, P. Gobetti, G. Salvemini, A. Tarchiani, A. De Ambris, ecc.) seguì quella di interi stati maggiorí di partito (autunno del 1926 e primi del 1927: F. Turati, C. Treves, B. Buozzi, P. Nenni, Coccia, G. Saragat, E. Modigliani socialisti; C. Facchinetti, E. Chiesa, F. Schiavetti repubblicani), con l’istituzione della dittatura totalitaria. L’emigrazioue antifascista cominciò quindi a formare una sua organizzazione politica. Si ricostituiscono all’estero i partiti (socialista massimalista, socialista unitario, repubblicano; dei comunisti faremo discorso a parte); essi raggiungono un certo numero di tesserati, che si aggira per i maggiori sulle diecimila unità; si forma, secondo il modello francese, una «lega dei diritti dell’uomo» che tutela gli emigrati politici, anche indipendenti, nei confronti delle autorità. Tutte queste entità organizzano, nel 1927, a Nérac (Lot-et-Garonne), un convegno, nel quale viene fondata la «concentrazione antifascista», il cui organo, La Libertà, esce il 1° maggio 1927. La concentrazione antifascista è, in un certo senso, la continuazione dell’Aventino. Mancano in essa il partito popolare che è rappresentato all’estero solo da alcune personalità (Sturzo, Donati, E. Ferrari) ma cui non aderiscono le organizzazioni di emigrati cattolici e i partiti liberali moderati. La concentrazione è estremamente prudente e prende posizione sul problema istituzionale a favore della repubblica solo dal 1928.

La concentrazione, cui la polizia fascista attribuì la colpa di tutti gli attentati, di tutti gli arresti avvenuti in Italia, fu invece estranea, in generale, alle azioni organizzate qui; suo merito fu di riportare all’estero un’eco di quella vita democratica che si era spenta all’interno della nazione e di mantenere, per così dire, i diritti delle organizzazioni soppresse: il suo costituirsi ebbe anche una funzione di stabilizzazione nei confronti della situazione confusionaria antecedente. Dal 1927 al maggio 1934, data in cui l’organismo venne sciolto, la concentrazione rappresentò, attraverso le consuete polemiche degli esuli, il punto di riferimento di tutta la vita politica dell’emigrazione democratica e le diede un terreno comune di organizzazione e di intesa.

Intanto nel 1929 nacque Giustizia e Libertà, e si collegò con la concentrazione alla quale aderì impegnandosi a non costituire una propria organizzazione all’estero e assumendo in cambio la rappresentanza della azione in Italia dei partiti aderenti alla concentrazione stessa. È questo un periodo di stabilità nell’organizzazione antifascista, dovuto anche al formarsi dell’emigrazione di massa in seguito alla crisi mondiale.

A parte qualche sussidio di organizzazioni internazionali (come l’Internazionale sindacale, l’ITF, organizzazione dei trasporti) i mezzi dell’emigrazione provengono da organizzazioni economiche operaie (cooperative di lavoro, imprese di costruzioni stradali in Francia, società italiana di Winterthur in Svizzera, organizzazione sindacale dei sarti da donna di New York) o dai contributi diretti degli emigrati, attraverso tessere, abbonamenti, sottoscrizioni. Ciò permette di dare da vivere parcamente a un ristretto personale dirigente: qualche emigrato più ricco finanzia egli stesso la lotta (Chiesa, Rosselli); molti altri vivono delle professioni più povere; l’antica professione di maestro di lingue della società del Risorgimento non giova più e la maggior parte delle professioni intellettuali sono vietate dalle leggi moderne agli stranieri. Questa la vita economica dell’emigrazione politica, nel complesso assai dignitosa: qualche emigrato dei primi tempi non resiste al disagio economico e morale e ritorna in Italia, o passa addirittura al servizio del governo; nell’insieme figure secondarie e senza grande rilievo politico.

In polemica costante con il mondo dei fuorusciti «aventiniani», vive, fino al 1935-36, cioè fino alla vittoria del Fronte popolare in Francia, il Partito comunista. Il Partito comunista italiano costituisce all’estero un apparato che è interamente clandestino. I suoi capi (P. Togliatti, R. Grieco, Di Gennaro, G. Di Vittorio, M. Montagnana, G. Berti; più tardi E. Sereni, Leone, Pirelli, V. Spano; fra gli «eretici» espulsi I. Silone e F. Tasca) assumono pseudonimi al posto dei cognomi reali; essi vivono nell’illegalità pressappoco dappertutto, tranne nell’Unione Sovietica dove tuttavia solo alcuni di loro soggiornano, e non stabilmente. La massa operaia comunista in Francia vive organizzata nel «gruppo di lingua italiana» del Partito comunista francese; rispetto all’«esilio che attende» essi (come poi Giustizia e Libertà) assumono una posizione critica. Tuttavia è in Francia, a Lione, che ha luogo il III Congresso del Partito comunista italiano. La violenza del contrasto fra comunisti e concentrazione si espresse, oltre che in numerosi disturbi dei comizî di quest’ultima, in una irruzione violenta, nell’autunno del 1931, entro la sede della concentrazione durante una festa a favore della Confederazione generale del lavoro, da parte di aggressori comunisti.

Nel maggio 1934 l’evoluzione di Giustizia e Libertà in movimento politico autonomo porta allo scioglimento della concentrazione. Intanto la creazione del Fronte popolare in Francia ha la sua influenza anche sulla emigrazione italiana; il partito socialista (unificato nel 1930, tranne un estremo nucleo massimalista unito attorno all’Avanti! di Parigi) libero da impegni con la parte repubblicana e democratica dell’antifascismo, contrae, dopo laboriose trattative, un patto di unità d’azione col Partito comunista che prepara la sua futura evoluzione politica; lo schieramento dell’emigrazione cambia e cambia pure il carattere dell’emigrazione comunista, che assume anche un aspetto meno clandestino. Tutta l’emigrazione politica italiana (meno Arturo Labriola, che rientra in Italia, e Mario Bergamo) si schiera contro l’avventura etiopica. Il grosso di essa in un congresso tenuto a Bruxelles, approva l’azione della Società delle nazioni e la sollecita, mentre qualche gruppo critico di minoranza (Giustizia e Libertà, repubblicani dissidenti) afferma che l’azione contro la guerra degli italiani deve essere autonoma, non attendere né fidare nelle parole d’ordine delle altre potenze.

Guerra di Spagna. – Con lo scoppio della guerra civile in Spagna (18 luglio 1936) gli esuli italiani, ritenendo di esercitare una funzione che già i loro predecessori del Risorgimento avevano adempiuto, corsero spontaneamente a portare il loro soccorso alla repubblica minacciata, ancor prima che fosse noto l’ausilio aperto di Mussolini a Franco.

Molti rivoluzionarî di tutti i paesi si recarono in Spagna, ma l’apporto degli Italiani fu tra ì più larghi e tra i più spontanei. Ben prima che si formassero le brigate internazionali, italiani di tutti i partiti erano accorsi a combattere la guerra per la repubblica spagnola. Fin dall’agosto, con proprio statuto autonomo, operò sul fronte di Aragona la «colonna italiana, formata prevalentemente da anarchici, ma comandata da Carlo Rosselli e Mario Angeloni (morto, quest’ultimo, nel combattimento del 28 agosto); dal novembre dello stesso anno prese parte alla difesa di Madrid il «battaglione Garibaldi», formato in prevalenza oltre che dai comunisti, da socialisti e repubblicani e comandato da Randolfo Pacciardi. Luigi Longo divenne commissario politico generale delle brigate internazionali.

Attraverso le vicende della guerra di Spagna, durante la quale il battaglione Garibaldi fu presente a quasi tutti i fatti d’arme, si temprò, pur negli aspri contrasti politici (i fatti più gravi furono quelli del maggio 1937 a Barcellona, dove l’anarchico Berneri venne ucciso da comunisti) una solidarietà d’armi che influì anche più tardi, durante la lotta di liberazione. Il periodo della guerra di Spagna non vide solo una partecipazione intensa dell’antifascismo italiano (5 o 6000 Italiani antifascisti presero parte alla guerra, dei quali duemila i feriti, e sei o settecento i caduti), ma anche un risveglio di attività politica dell’emigrazione in Francia.

I comunisti avevano creato una specie di loro lega dei diritti dell’uomo, l’Unione popolare, presieduta da Romano Cocchi, morto poi a Buchenwald; stampavano un quotidiano La Voce degli italiani cui collaboravano membri anche di altri partiti. Usciva sempre il Nuovo Avanti (organo del Partito socialista), Giustizia e Libertà, la Giovine Italia (repubblicano-democratico), e, saltuariamente l’Avanti!, organo del gruppetto massimalista. A Barcellona gli anarchici stampavano Guerra di classe, diretto prima da Berneri e poi da Aguzzi. Fu una fioritura febbrile, che però lasciò stremata l’emigrazione, come il suo avversario fascista, che presumibilmente da quell’intervento fu non poco sollecitato a impegnarsi in Spagna.

Già verso la fine di questa guerra la sorte della più gran parte dei reduci, racchiusi in campi di concentramento, aveva messo sulle spalle dell’emigrazione, stremata dallo sforzo, compiti di assistenza cui era impari del tutto. Con lo scoppio della seconda Guerra mondiale l’emigrazione in Francia ricevette il colpo di grazia: sospesi o ostacolati dalla censura tutti i giornali, tornati nella clandestinità o rinchiusi in campi di concentramento i comunisti, anarchici o sospetti d’essere tali, l’attività organizzata dall’emigrazione fu quasi sospesa. Tentativi per prender parte alla guerra sul fronte tedesco con legioni garibaldine varie (ce ne fu una organizzata da socialisti democratici, repubblicani e Giustizia e Libertà; un’altra dall’Unione popolare e da Sante Garibaldi; una filofascista da Marabini) abortirono, forse non immeritatamente. Poi venne l’invasione, e l’emigrazione in Francia dovette cercare altre vie. La più gran parte, i più cioè tra i socialisti che erano liberi e i comunisti che erano nei campi di concentramento, rimasero in Francia, dove alcuni di essi presero parte alla resistenza e quasi tutti furono poi rinviati in Italia dal governo di Vichy, mandati a confino e liberati solo il 25 luglio 1943; alcuni pochi (C. Sforza, A. Tarchiani, A. Cianca, R. Pacciardi, E. Lussu – il quale dopo alcuni viaggi negli Stati Uniti rientrò clandestino in Francia e quindi in Italia – ecc.) raggiunsero gli Stati Uniti dove già si trovavano Salvemini e Sturzo e dove avevano preso dimora alcuni degli intellettuali emigrati sia al momento della imposizione del giuramento fascista ai professori, sia più tardi ai tempi della persecuzione razziale (M. Ascoli, G. A. Borgese, N. Levi, G. Levi Della Vida, L. Venturi, A. Toscanini, ecc.). L’emigrazione politica svolge in questo periodo in America un’intensa attività di propaganda rivolta soprattutto alla tutela dei dirittidell’Italia, domandando al popolo e all’opinione pubblica alleata di non confondere Italia e fascismo. In questa cornice si inseriscono iniziative come il congresso antifascista di Montevideo, le polemiche tra la «Mazzini Society» democratica e la comunista o paracomunista «Alleanza Garibaldi», diretta a Città del Messico da Mario Montagnana e Giuseppe Frola, ecc. Si pubblicarono molti giornali: Nazioni Unite, organo della Mazzini: La legione (poi l’Italia libera), organo repubblicano; Controcorrente, salveminiano indipendente; L’Unità del popoio, comunista: e le riviste Il Mondo e I quaderni italiani. Associazioni di «Italia libera» si formarono in quasi tutte le repubbliche dell’America Latina, attorno ad altri dirigenti (non tutti emigrati solo o prevalentemente per ragioni politiche), svolsero un’attività coordinata, in gran parte, dal Comitato italo-americano di educazione democratica di Montevideo (S. Romualdi) in stretto contatto con la «Mazzini Society» e i sindacati operai di New York ed ebbero i loro periodici (Italia libera, anche quotidiano, Buenos Aires; Il Risorgimento, Lima, ecc.). Un altro gruppo operò a Londra (U. Calosso, P. Treves), altri in Egitto.

Quando gli Alleati iniziarono la liberazione del territorio nazionale alcuni dei principali emigrati ritornarono per contribuire ai primi atti politici del paese o per prendere parte alle ultime fasi della lotta di liberazione. Finì così l’emigrazione politica. Essa ebbe tuttavia una appendice nell’emigrazione in Svizzera, dopo l’8 settembre 1943, di giovani appartenenti all’esercito, di personalità antifasciste, di famiglie minacciate per motivi razziali. I fuorusciti svizzeri del 1943-45 – in unità con quelli che come I. Silone, E. Reale, G. Chiostergi vi risiedevano già – diedero vita a una intensa attività educativa e culturale, presero contatti con emigrati di tutti i paesi (nell’emigrazione si ebbe un intenso svolgersi del movimento federalista), contribuirono alla guerra di liberazione riprendendo il loro posto in Italia nel movimento clandestino. Dalla Svizzera ritornarono in Italia, prima della fine del conflitto, Modigliani, Einaudi, Ernesto Rossi, Spinelli e altri. Con il 1945 si chiude il periodo dell’emigrazione politica e il centro della vita democratica ritorna ad essere in Italia.

Bibl.: confronta a p. 107 di questo volume.

Aldo Garosci

Letteratura (XIX, p. 932).

Chi, nella letteratura italiana d’oggi, contasse di trovare i segni di un netto distacco, di una «svolta decisiva» prodotta da ciò che negli ultimi tempi è accaduto nel mondo e particolarmente in Italia, potrebbe forse rimanere deluso. Non che quei segni manchino affatto (e basta guardare alla narrativa più recente), e questa letteratura si sia estraniata in arcadici ozî; ma non essendo che momenti o aspetti di un processo di rinnovamento già in corso da molti anni, tali segni hanno ben poco della brusca evidenza o immedíatezza che quel ricercatore forse si attenderebbe.

Del resto lo stesso fascismo ben poco aveva potuto su quel processo: e perché la nuova letteratura, tutta ripiegata in sé medesima ad auscultare il palpito segreto delle sensazioni, o rapita lungi dalla realtà nei dominî incantati della memoria, scarsa presa sembrava offrire alla retorica dominante; e perché questa, se formulò alcune grossolane concordanze fra «arte e vita», poco si curò poi che fossero rispettate. E di fatto alle declamazioni politiche sul sano ottimismo, sul primato della razza, sulla romanità e simili, corrispose, in letteratura, una poesia «ermetica», una narrativa di velleitarî e di «indifferenti», un teatro celebrante, sulle orme di Pirandello, la disintegrazione dell’io. Per non parlare della critica, oscillante fra crocianesimo ed ermetismo (v. critica, in questa App.). Certo, in questo sfrenato irrazionalismo, che il pensiero, la volontà, il mondo morale sommerge o annulla nel senso, è pur dato riconoscere una comune radice con quegli atteggiamenti psicologici e politici che portarono alla dittatura. Ma è anche vero che quell’irrazionalismo, il quale in arte ha nome «decadentismo», fu fenomeno europeo assai prima che italiano: e le sue fasi, i suoi sviluppi – che in parte durano tuttora – si sono conciliati assai bene, in altri paesi, a cominciare dalla Francia, con la libertà delle istituzioni. In Italia quel decadentismo passò alla politica tramite il dannunzianesimo degenerato in futurismo, cioè attraverso una letteratura divenuta – per meccanico scadimento della parola a suono, a onomatopea – azione essa stessa. Ma questo trapasso avvenne proprio quando la nuova letteratura, uscendo da quel lungo travaglio antidannunziano che dalla Voce giunge alla Ronda, riconduceva la parola ad una sua lirica essenzialità. Insomma, il fascismo ereditò, scontandolo fino alle conseguenze estreme, quel deteriore dannunzianesimo che la letteratura aveva ripudiato, anzi espulso da sé per affisarsi se mai a un tutt’altro D’Annunzio: quello «puro», e perenne, dell’Alcyone e delle prose notturne e segrete. Fascismo e nuova letteratura si trovarono così, a un dato punto, e tranne pochissime eccezioni (come certo «strapaesanismo» dei primi tempi, che fu però una maniera), su versanti opposti, a parlare due linguaggi diversi.

Ora, a voler fare un equo bilancio dell’ultimo decennio, i segni di cui si diceva vanno colti in profondità, nelle intime vicende di quello sviluppo che, in trent’anni e più di prove, ricerche, esperienze, compiute a contatto delle correnti più vive della cultura europea, ha condotto la letteratura italiana a rinnovare il proprio gusto e i proprî modi espressivi.

Pertanto non è da stupire se, nella poesia, il clima oggi prevalente sia ancora quello della lirica pura o ermetica, essendo l’ermetismo (v. in questa App.), nella sua accezione storicamente positiva, uno dei momenti culminanti di quello sviluppo, anzi, rispetto alla tradizione aulica della poesia italiana, una delle sue manifestazioni più «rivoluzionarie». Naturalmente, in questi anni cotesto ermetismo è venuto a sua volta evolvendosi. Placatasi l’iniziale tendenza anticlassica, grazie ad un riaccostamento ai grandi lirici del passato (Leopardi sopra tutti, e Petrarca: sia pur letti attraverso le poetiche di Poe, di Baudelaire o di Valéry), dagli originarî grumi di sensazioni e di immagini si è a poco a poco liberato un certo «discorso» poetico, ellittico ancora e allusivo, ma con una sua ideale continuità; così come dalle folgoranti allitterazioni di quei versi e versetti, rari sul bianco della pagina, è sorto – con una metrica «regolare», ma preziosamente alleggerita e franta – il «canto»: fortemente pausato ancor esso, ma canto. E le istanze autobiografiche sono venute sempre meglio trasponendosi in paesaggi, ore, stagioni, percossi da una attonita luce: che (con certi motivi di stilizzata mitologia: cigni, ninfe, sirene; Lede, Apolli, Narcisi...) sono come gli emblemi o le allegorie di quelle ansie d’ignoto, di quelle nostalgie dell’infanzia, di quelle strenue ricerche del «tempo perduto», onde l’umanità contemporanea tenta di eludere l’angoscia dell’esistenza, la schiavitù degli istinti e del sangue.

Specchio, in gran parte, di questa evoluzione dell’ermetismo è l’opera di Giuseppe Ungaretti: nella quale le liriche di Il dolore (1947) segnano un nuovo momento, dopo quelli dell’Allegria e di Sentimento del tempo. A un fremito più diretto e profondo di quella sua «pena», di sentirsi «immagine passeggera» ma «presa in un giro immortale», corrisponde una più larga articolazione della parola e del ritmo. Il soliloquio-colloquio ungarettiano, quel «grido unanime» che nel Sentimento era divenuto, spesso, inno e preghiera, qui mira a risolvere l’accesa verticalità di allora in una orizzontalità sempre fervida, ma più sinuosa e, a suo modo, effusa: anche se ciò comporta, naturalmente, i suoi rischi. Eugenio Montale rappresenta, del gusto ermetico, una fase più acuta, più ardua, ma anche più sensibile a quelle esigenze di elaborato disegno, di architettura sintattica e strofica, che sono proprie dei poeti più giovani. Ungaretti rimane, per così dire, il poeta della pura «soggettività». Montale, invece, è poeta «oggettivo», che della realtà delle cose, del mondo esterno, degli aspetti della natura – osservati con sguardo critico, corrosivo – fa altrettante «occasioni» a simboleggiare il proprio senso doglioso dell’esistenza, quasi di amara risacca o deriva. Nel passare dagli Ossi di seppia, appunto, a Le occasioni (1939) e alle liriche più recenti, egli ha talvolta esasperato il suo travaglio espressivo, reso ancor più intenso il suo analogismo; ma ha anche saputo trarre arcane incandescenze da quel suo arido fervore, e dare ben più profonda vibrazione a quelle sue forme che tengono, insieme, dell’epigrammatico e del descrittivo, del mottetto e del poemetto.

Fra Ungaretti e Montale, pur non potendosene dire veramente seguaci, trovano posto alcuni dei più validi poeti d’oggi, come Salvatore Quasimodo, che ha attuato per suo conto, in un’opera assidua di traduttore, specie dai lirici greci, quella feconda riconciliazione coi classici; Adriano Grande, inteso a sempre meglio accordare discorsività e melodia; e – più giovani – Leonardo Sinisgalli, felice soprattutto in forme e toni alacramente elegiaci; Alfonso Gatto, che l’ermetismo più rigoroso riesce talvolta a contemperare con quella vena canora, con quegli echi del Di Giacomo, a lui connaturali; Libero de Libero, che è da preferire dove, su un ritmo d’epigramma, la favola dell’infanzia tramuta in allucinati paesaggi; e ancora: Sandro Penna, Mario Luzi, Vittorio Sereni, Giorgio Bassani, Margherita Guidacci. A parte, sebbene riallacciantisi ancor essi alle esperienze della poesia pura, vanno ricordati Sibilla Aleramo, che certo suo originario dannunzianesimo riesce spesso a riscattare in uno stupore quasi magico di stati d’animo e di accordi musicali; Girolamo Comi, che dalle forme antroposofiche di un ermetismo all’Onofri è giunto alla chiarezza di una visione cristiana della vita, dando sempre più armonica espressione a quel suo mondo tumido di germinazioni segrete; e Carlo Betocchi, che cert’aria di canto popolaresco, di un realismo affabile, elegiacamente traspone in ineffabili soprarealtà di sogno.<

Ma l’ermetismo così inteso, se è fenomeno di tale importanza da influire anche su poeti di diversa provenienza e formazione (come un Betti), o che addirittura lo avversino (come un Cardarelli); non si può tuttavia identificare con tutta quanta la poesia d’oggi. Fra cotesti poeti primeggia Umberto Saba che, con l’edizione definitiva del Canzoniere (1945), ci ha offerto la sua poetica autobiografia, dominata da un senso espiatorio del dolore, da una fatalità biblica, e pur così fervidamente mescolata ad aspetti e vicende della sua Trieste, così sollecita alle illusioni o agli inviti dell’amore. Poesia di tono medio, quasi «parlato», e ancor ligia, nella metrica e nel vocabolario, alla tradizione: ma la sua forza lirica è tale da elevare spesso l’uno e da rinnovare gli altri.

Quanto alla poesia dialettale, sempre fiorente in Italia, va notato come anche sui nuovi suoi autori la poesia pura abbia fatto sentire il proprio influsso. Caduto ogni interesse storico o folcloristico, essi appaiono dei lirici «in minore», che del dialetto si servono per un sottile, ironico contrappunto a certi motivi sentimentali (come il triestino Virgilio Giotti); ovvero per una preziosa sottolineatura o mistura di valori verbali, secondo un gusto che si potrebbe definire «macaronico» (come il romano Mario Dell’Arco). Poesia in dialetto, dunque, più che poesia dialettale: e della tradizione che dal Belli giunge al Pascarella (la cui postuma, e incompiuta, Storia nostra ha però deluso), ultimo discendente rimane, con liberi e arguti spiriti, Trilussa.

Ben più complesso si presenta il panorama della prosa: ché, a differenza di quello della poesia, abbastanza unitario di tendenze, trovandosi i giovani su per giù alle prese con gli stessi problemi espressivi degli anziani, esso è vario non solo di tendenze, ma di generi, di forme, di modi. Che è, anche, diversità di generazioni letterarie, in quanto gli scrittori formatisi in un dato periodo, in uno stesso clima spirituale e culturale, non possono alla fine non apparire accomunati – al disopra della individualità dei temperamenti – da certe preferenze del gusto, da certe consonanze di poetiche e di atteggiamenti.

Così gli scrittori che, movendo dal frammentismo (v. App. I, p. 618), maturarono fra primo anteguerra e dopoguerra, fra La Voce e La Ronda, e che ormai – scomparsi Panzini, Pirandello, la Deledda – costituiscono la generazione «anziana», sono rimasti fedeli, in prevalenza, alla «prosa d’arte», al «saggio», all’«elzeviro», misti d’invenzione e di riflessione, di estro lirico e di coscienza critica. Se mai alcuni di costoro, come Emilio Cecchi, Bruno Barilli, Alberto Savinio, sono venuti accentuando in senso magico o surreale certa loro originaria disposizione metafisica. E non è caso che si tratti di scrittori esperti anche di altre arti, o per conoscenza critica o per pratica diretta. Di quelle arti – musica, pittura – in cui quei lieviti irrazionali appaiono operanti non meno, e forse più, che nella letteratura. Cecchi specialmente ci ha dato, in America amara (1939) e nelle ultime Corse al trotto (1941), nuovi, mirabili esemplari di quella sua facoltà visiva e analogica alimentata, insieme, da una cultura raffinatissima e da un sentimento favoloso della natura, dell’inedito, del primitivo, che è quasi evasione da essa. Altri scrittori, come Antonio Baldini e Vincenzo Cardarelli, si sono invece più attenuti alla lezione «classica» della Ronda: anche se la classicità sempre più maliziosa di un Baldini è in stretta funzione del suo amore per la forma, plasticamente e sensualmente intesa. Altri infine, come Soffici e Papini, hanno piuttosto falsato che svolto, specie il secondo, il loro impressionismo giovanile.

Ma non mancano, in questa generazione, i narratori, i romanzieri: anzi essi sono fra i più insigni della odierna letteratura. Però la loro narrativa, mirando a sostituire alla oggettività di quella verista o borghese, contro la quale a suo tempo insorse, una soggettività tutta intrisa di fermenti critici e lirici, è una narrativa che cura più le singole pagine o episodî che l’insieme, più la composizione in senso formale che quella in senso strutturale; una narrativa, insomma, per buona parte non ancora «sliricata». E anche qui occorre fare distinzione fra quei narratori che rimangono, pur con spiriti nuovi, su una linea più o meno tradizionale, come Bruno Cicognani, Marino Moretti e lo stesso Riccardo Bacchelli (il quale si rifà addirittura al romanzo storico, ma per trasporvi – e il Mulino del Po, 1938-40, ne è l’esempio più alto – la sua pietas di ogni umano operare); e altri narratori, come Aldo Palazzeschi, Enrico Pea, Massimo Bontempelli, che da quella si discostano per far luogo a tendenze irrazionali, fantastiche e simili, e che pertanto, sentendo in modo molto affine a quello dei poeti l’esigenza di un rinnovamento espressivo, hanno esercitato un singolare influsso sugli scrittori e narratori più giovani. Così, p. es., Gente nel tempo (1937) o Giro del sole (1941) di Bontempelli, e I fratelli Cuccoli (1948) di Palazzeschi, costituiscono, nella direzione di un «realismo magico» – inteso non come mera poetica, ma come effettiva magia di parola – traguardi, nella loro diversità, assai notevoli.

Altro gusto, altre tendenze quelli degli scrittori «di mezzo», che, affermatisi nel decennio successivo alla prima Guerra mondiale, nel solco delle esperienze della Ronda, trovarono nel «viaggio», nella prosa «evocativa», nell’«idillio», nel racconto a fondo descrittivo, in «paesaggi con figure», e simili, le loro forme adeguate. Forme che già segnavano uno svolgimento rispetto al «frammento» vociano, al «saggio» rondesco ed alla corrispondente narrativa, in quanto da un lato, col descrivere genti e paesi (specie l’Italia), si cominciava a ristabilire quel contatto con il «reale», con l’«oggetto», che la generazione precedente, nel dominante solipsismo, aveva eluso; e d’altro lato, con l’evocare, trasposte in «aure poetiche» o vagamente allegorizzate in «avventure terrene», le ambagi spirituali, l’ansia o la noia del nulla, davano l’avvio a quei trepidi temi e modi della «memoria» che, mescolati di elementi freudiani, hanno avuto gran seguito fra gli scrittori più giovani. Oltre tutto, quel descrivere ed evocare era un modo di narrarsi e di narrare, oggettivandosi. E con gli anni, infatti, queste forme sono venute assumendo un accento sempre più narrativo: Anche in scrittori che naturalmente inclinano alla prosa poetica o evocativa, quali G. B. Angioletti (e non solo in Donata, 1941, ma negli stessi «viaggi», assai felici, di Vecchio Continente, 1942) e Giovanni Comisso, che ci ha dato nuove prove di quella sua capacità di trasfigurare in luminose avventure dell’immaginazione la vita dei sensi. O quali Giorgio Vigolo, la cui ideale autobiografia tende sempre più alla composizione architettonica, di un bel barocco romano; e Gianna Manzini, con i suoi «racconti da fare», retti, quasi «improvvisi» musicali, da un puro ritmo inventivo. Corrado Alvaro, invece, è di quegli scrittori che più vorrebbero sottrarsi all’incanto lirico, a quel dialogo monologante (che in parte gli deriva dal Verga), incidendo di più i suoi racconti e romanzi in una sostanza realistica: ma in Incontri d’amore (1941) e in L’età breve (1946) il suo maggior dono rimane pur sempre quella corale animazione del paesaggio e delle cose attorno a personaggi attoniti, estatici, quasi parlanti in sogno. E, nel suo trepido angelismo, anche Nicola Lisi fa parlare in sogno le figure delle proprie «favole» o racconti, stagliate peraltro in una vivida luce; mentre Luigi Bartolini il suo amore per la «realtà» e la natura traduce in alacri ritratti di donne e animali, in vaghi idillî silvani poeticamente (o polemicamente) contrapposti a torbide visioni cittadine. Sulla via della narrativa gran cammino ha compiuto Bonaventura Tecchi, affinando ancor più le proprie facoltà, in una, di analisi psicologica e di sintesi rappresentativa. E se misura ideale del suo narrare resta l’idillio fra luce e ombra, fra realismo ed elegismo (Idilli moravi, 1939; L’isola appassionata, 1945; La presenza del male, 1948), i motivi autobiografici sempre meglio appaiono intonati a oggettività. Alle concentrate qualità di scavo di Giani Stuparich, piuttosto che il romanzo conviene il «racconto lungo»: come prova, rispetto a Ritorneranno (1941), la felicissima Isola (1942); mentre Bino Sanminiatelli ha vantaggiosamente innestato sul fondo toscano della sua narrativa un certo immaginismo lirico. Vene di un irrazionalismo e surrealismo che non disdegnano però la realtà, alimentano tanto l’umorismo lessicale (un poco alla Dossi) e «macaronico» di C. E. Gadda, quanto quello lirico e larvale di Cesare Zavattini; Achille Campanile è parso invece accentuare le espressioni malinconiche o crepuscolari del suo riso. (E da lui e soprattutto da Zavattini derivano, con toni proprî, alcuni degli umoristi più recenti, come Giovanni Mosca e Nino Guareschi).

Quanto agli scrittori «giovani», essi appaiono tutti intesi – nel loro acuito bisogno di oggettività, di distacco, di prospettiva, che non esclude, anzi presuppone la minuzia dell’indagine – alla instaurazione di un nuovo tempo e linguaggio narrativo. Generazione, dunque, essenzialmente di narratori, nella quale gli acquisti delle generazioni precedenti si combinano, non senza frutto, con esperienze di altre letterature, specie dell’americana e della russa, talora assimilate mediante un lavoro diretto di traduzione. E l’insegna sotto cui cotesta narrativa si raccoglie è quella del realismo: un realismo, peraltro, ben lontano da quello ottocentesco, in quanto espressione di un gusto non storiografico – pur se si presenti con istanze sociali o con sembianze ancora «provinciali» – ma evocativo e memorialistico, che ne è per taluni aspetti l’antitesi, mirando non tanto alla realtà storica, al vero, quanto ad una realtà vagheggiata e resa magica dalla memoria, brulicante di misteriosi legami fra l’uomo la natura le cose, tutta flussi e riflussi tra l’oggi e lo ieri, tra il parvente e l’occulto, tra il pensiero e il senso (anzi il sesso), tra l’incubo del limite, che è legge morale, e la levità del giuoco, dell’azzardo. Un realismo, insomma, «surreale» (che non vuol dire, di necessità, surrealistico): cui corrisponde spesso una narrazione strenuamente analitica o psicanalitica; una narrazione, talvolta, da memoriale o da referto; ma sempre impegnata nel profondo a serrare da presso e a raffigurare in personaggi e situazioni quell’«inconscio», quell’ineffabile», che è la sua musa e il suo tormento.

Naturalmente, varie sono le tendenze e i modi in cui si è venuto screziando, in questi anni, tale realismo. Ci sono scrittori per i quali quella memoria è, proustianamente, ricerca del «tempo perduto», e il narrare un ripercorrere a ritroso, col sussidio di Freud (e talvolta di Sade), immagini, sogni, ricordi, fino al mistero ancestrale del sangue. Tendenza che va dal moraleggiare idillico di Alessandro Bonsanti e da quello casistico, con improvvise aperture di paesaggio, di Guido Piovene (Lettere di una novizia, 1941; Pietà contro pietà, 1946), al favoleggiare tra crepuscolare e kafkiano di Dino Buzzati (Il deserto dei Tartari, 1940) o di Ennio Flaiano; e che ha largo seguito fra le scrittrici, come quella che meglio si presta – con i suoi monologhi interiori, le sue forme epistolari, la sua trepida evocatività – all’esigenza, appunto femminile, di introversioni, confessioni, fantasie. E da Paola Masino a Margherita Cattaneo, da Maria Chiappelli a Anna Maria Ortese, da Elsa Morante a Orsola Nemi a Pia d’Alessandria, i risultati sono, spesso, assai felici. (A parte, in un ambito di ricerca o contaminazione critico-lirica, stanno Anna Banti e Maria Bellonci). E ci sono scrittori nei quali quel motivo morale o moralistico, che si accompagna – talvolta con un lucido, quasi settecentesco piacere dell’intelligenza – a tutta la nuova narrativa, ama trasporsi in modi umoristici, di satira o parodia del costume borghese: con accentuazione mimica, spettacolare, come in Vitaliano Brancati (Don Giovanni in Sicilia, 1941), o surrealista, come in Tommaso Landolfi (Le due zittelle, 1946). E c’è poi la sempre più numerosa famiglia dei narratori «neorealisti», presso i quali l’interesse per il mondo esterno, l’ambiente, la società, sebbene in stretta funzione di quello per la vita interiore, conscia e subconscia, si fa tuttavia avvertire più che in altri scrittori: e però la loro zona di scavo è, apparentemente, più vicina alla cosiddetta realtà quotidiana. È la tendenza che, ai suoi estremi, ha Elio vittorini e Alberto Moravia: rappresentante, l’uno, di una narrativa che, per i suoi stessi legami o simpatie per la «prosa d’arte» e per l’«aura poetica» degli evocativi, conserva anche nelle forme più crude (o dove più sembri ricalcare gli Americani) un suo tono di memoria lirica; rappresentante, l’altro, di una narrativa «sliricata», di una «prosaprosa», che tende all’arte soprattutto per virtù di intimo disegno e architettura. E con vittorini, la cui Conversazione in Sicilia (1941) resta uno dei libri salienti di questi anni, vanno ricordati – in una gamma assai varia di sensibilità e di espressioni – Cesare Pavese (Paesi tuoi, 1941), P. A. Quarantotti-Gambini (L’onda dell’incrociatore, 1948), Giuseppe Dessì (San Silvano, 1939), Romano Bilenchi (La siccità, 1941), Vasco Pratolini (Cronaca familiare, 1947). Con Moravia, il quale ci ha dato in Agostino (1944) il suo racconto più armonico, più bello, ricorderemo Francesco Jovine (Il pastore sepolto, 1945), Ignazio Silone, Carlo Bernari, Arrigo Benedetti e Giuseppe Berto (Il cielo è rosso, 1947). Ed è su questo secondo ramo del neorealismo che di recente sono venute a innestarsi la tendenza marxista o populista, nata dalla guerra (specie partigiana), e adoperante un linguaggio di poco differenziato dalla cronaca; e quella che risente dell’esistenzialismo francese in certe aspre e sboccate accentuazioni sessuali. Ma ben poco finora – appunto per il prevalere della tesi o della maniera – hanno dato all’arte; e della letteratura della Resistenza il libro più poetico rimane, fra racconto e saggio, il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi.

Ma comune agli uni e agli altri neorealisti, e un po’, in genere, a tutti i nuovi narratori, è l’intento di articolare sempre meglio i personaggi rispetto al paesaggio, all’atmosfera o al coro che ancora li avvolgono; di far sì che dalla volubile trama delle sensazioni e delle introversioni nasca l’azione, il «dramma», e che dal racconto indiretto e dal monologo interiore risorga e fluisca il dialogo. Quel dialogo per cui soltanto il personaggio può acquistare, quali che siano le sue proporzioni, una sua individualità, una sua voce, una sua «durata». Il problema dei problemi, per la giovane narrativa, è qui. (E ad esso va in certo senso congiunto anche quello della rinascita di un teatro che – dopo la dissoluzione delle vecchie forme della commedia borghese, operata da Pirandello e dal pirandellismo – dia un adeguato linguaggio scenico alle nuove istanze spirituali. Oggi il solo vero poeta, in questo campo, è Ugo Betti). Comunque, la giovane narrativa, nel complesso delle sue tendenze e, che più conta, delle opere, costituisce – insieme con la poesia – l’aspetto più nuovo e, certo, più ricco d’avvenire del panorama letterario contemporaneo.

Bibl.: Per i singoli autori, v. le voci relative: qui si indicano soltanto scritti di carattere generale: A. Momigliano, Storia d. lett. ital., Messina-Milano 1936; id., Le tendenze della lirica ital. dal Carducci ad oggi, in Introduz. ai poeti, Roma 1946; E. De Michelis, Introduz. alla lett. contemp., in La N. Italia, marzo 1936; A. Galletti, Il Novecento, 2ª ed., Milano 1939; G. Bellonci, La lett. ital. contemp., in Il libro it. nel mondo, maggio-giugno 1941; id., Il teatro del Novecento, in Storia del teatro ital. a cura di S. d’Amico, Milano 1936; U. Bosco, Esperienze e conquiste d. lett. del Novecento, in Storia d. lett. it. di V. Rossi, 14ª ed., III, Milano 1942; E. Stock, «Novecento» die italienische Literatur der Gegenwart, Berlino 1942; G. Contini, Introduction à l’étude de la litt. ital. contemp., in Lettres, n. 4, Ginevra, ottobre 1944; A. Bocelli, Danunzianesimo e nuova lett., in La Nuova Europa, 24 dicembre 1944; id., Morte e resurrezione del personaggio, in Mercurio, n. 6, febbraio 1945; id., Leopardi e la lett. del ’900, in Risorgimento liberale, 9 maggio 1948; A. Picone Stella, Il secondo quarto del secolo, in La Nuova Europa, 31 dicembre 1944; P. Pancrazi, prefazione a Scrittori d’oggi, I, Bari 1946; E. Falqui, La lett. del Ventennio nero, Roma 1948; id., prefaz. a Capitoli (per una storia della nostra prosa d’arte), Milano-Roma 1938; F. Flora, Storia della lett. ital., ed. minore, III, Milano 1948; G. Camposampiero, La poesia ital. contemp., Roma-Torino 1938; E. Cecchi, Poesia ital. del Novecento, in Beltempo, Roma 1940; S. Solmi, La poesia ital. contemp., in Il libro ital. nel mondo, luglio 1941; A. Russi, Discorso sulla poesia contemp., in Aretusa, n. 1, marzo-aprile 1944; G. Macchia, Aspetti della poesia ital. d’oggi, in Fiera lett., 27 marzo 1947; M. L. Astaldi, Nascita e vicende del romanzo ital., Milano 1939; G. Antonini, introduz. a Narratori d’oggi, Firenze 1939; S. Rosati, Il romanzo ital., in L’Italia che scrive, marzo 1939; S. d’Amico, Il teatro italiano, 2ª ed., Milano 1937; A. Hermet, La ventura delle riviste, Firenze 1941. – Repertorî bibl.: E. Falqui, Pezze d’appoggio, 2ª ed., Firenze 1940; G. Prezzolini, Repertorio bibl. della storia e della critica della lett. ital. dal 1933 al 1942, 2 voll., New York 1946; A. Vallone, Bibl. critica del romanzo e dei romanzieri dalla Scapigliatura all’Ermetismo, 4 voll., Galatina 1946-48. – V. inoltre: critica; ermetismo; in questa App.; frammentismo, App. I.

Arnaldo Bocelli

Archeologia.

Per i trovamenti e per gli scavi nelle diverse località si possono vedere le relazioni nelle Notizie degli Scavi, edite dall’Accademia dei Lincei, per quelli dei centri più importanti si rimanda alle singole voci in questa App. Per la civiltà italica, v. soprattutto: capistrano. Per la civiltà etrusca v. soprattutto: Etruschi; Veio; Tarquinia; per la civiltà romana v.  Roma; città del Vaticano; Ostia; Pompei; Ercolano; Sirmione. Per il periodo paleocristiano v. soprattutto, basilica; catacombe; Roma.

Bibl.: Della Forma Italiae edita dall’Unione Accademica nazionale e diretta da G. Lugli sono finora usciti i seguenti volumi: Regio I, Latium et Campania, I, Ager Pomptinus, i Anxur-Tarracina, 1926, 2, Circei, 1928 (G. Lugli); R. IX, Liguria, I, Libarna 1936 (G. Monaco); R. VI, Umbria, I Tuder-Carsulae, 1938 (G. Becatti); R.I., Latium et Campania, Il Surrentum, 1946 (P. Mingazzini e F. Pfister); in corso di stampa il vol. di Augusta Prætoria (P. Barocelli). Della collana Italia Romana: Municipi e colonie, promossa dall’Istituto di studî romani e diretta da G. Q. Giglioli e A. Minto sono stati finora pubblicati: I. C. Pietrangeli, Spoletium, 1939; A. Minto, Sestinum, 1940; G. F. Carettoni, Casinum, 1940; C. Carducci, Tibur, 1940; M. Lombardi, Faesulae, 1941; G. Maetzke, Florentia, 1941; G. A. Mansuelli, Ariminum, 1941; C. Pietrangeli, Ocriculum, 1943; M. Moretti, Ancona, 1945; M. Cagiano de Azevedo, Interamna Lirenas vel Sucasina, 1947; G. A. Mansuelli, Caesena, Forum Livi, Forum Popili, 1948; varî altri volumi in preparazione. Dell’altra collezione, promossa dall’Istituto di studî romani, Italia Romana, che raccoglie una serie di studî di varî autori sulle diverse regioni, sono stati pubblicati, Sardegna romana, I, scritti di G. Bottiglioni, G. Gabrieli, B. R. Motzo, D. Scano, A. Taramelli, B. Terracini, Roma 1936; II, scritti di R. Binaghi, C. Cecchelli, B. Monterosso, A. Taramelli, S. Vardabasso, A. Vicario, Roma 1939; Campania Romana, I, scritti di A. Maiuri, R. Annecchino, G. Chianese, A. Bellucci, L. Breglia, O. Elia, L. Jacono, A. Maiuri, V, Cimorelli, F. Frediani, M. Della Corte, G. Della Valle, D. Mallardo, Napoli 1938; II, A. Maiuri, Roma 1942; Liguria Romana, I, N. Lamboglia, Roma 1939; Lombardia Romana, I, scritti di A. Calderini, A. Visconti, A. De Capitano d’Arzago, A. Monteverdi, P. Paschini, G. Locatelli, F. Lecchi, F. Frigerio, E. Nasali-Rocca, Milano 1938; II, M. Bertolone, Milano 1939; Emilia Romana, I, scritti di A. Campana, M. Corradi-Cervi, G. Mancini, G.A. Mansuelli, E. Nasalli-Rocca, A. Scarpellini, M. Zuffa, Firenze 1941; II, scritti di G. Chierici, A. Cremona-Casoli, G. Mancini, G.A. Mansuelli, G. Monaco, P. Reggiani, T. Sorbelli, M. Zuffa, Firenze 1944; Lucania Romana, I, scritti di E. Magaldi, Roma 1947. Tra le opere monografiche sull’archeologia della penisola: L. Banti, Luni, Firenze 1937; id., Pisae, in Memorie Pont. Acc., s. III, vol. VI, 1943; P. Marconi, Verona Romana, Bergamo 1937; G. Brusin, Nuovi monumenti sepolcrali di Aquileia, Venezia 1941; id., La Basilica del Fondo Tullio alla Beligna di Aquileia, Padova 1948; R. Battaglia, A. De Bon, T. Berlese, B. Forlati-Tamaro, La Via Claudia Augusta Altinate, Venezia 1938. Ricerche per la Forma Urbis Mediolani: I, G. Mompeglio Mondini, La tradizione intorno agli edifici romani di Milano dal sec. V al sec. XVIII, Milano 1943; III, A. Calderini, L’Anfiteatro romano, 1940; IV, A. Calderini, La zona di S. Sepolcro, Milano 1940; V.A. De Capitani d’Arzago, La zona di Porta Romana dal Seveso all’arco Romano, Milano 1942; A. Medri, Faenza Romana, Bologna 1943; Storia di Genova dalle origini al tempo nostro, I, N. Lamboglia, La Liguria antica, Milano 1941. Sui capitolia delle varie città italiane vedi: M. Cagiano de Azevedo, I capitolia dell’impero romano, in Memorie Pont. Accad., s. III, v. V, 1940.

Giovanni Becatti

Arti figurative (XIX, p. 971).

Architettura moderna. – Dopo l’accademismo e l’eclettismo dell’Ottocento e la breve moda, del resto limitatamente diffusa, del Liberty, i primi sforzi per un rinnovamento del gusto architettonico in Italia coincidono con la polemica del futurismo. Il manifesto di Sant’Elia per l’architettura futurista afferma la necessità di eliminare le sovrastrutture ornamentali, di diminuire l’importanza delle facciate a vantaggio dell’organicità delle piante, di accettare i nuovi materiali costruttivi e le nuove tecniche che permettono un massimo di elasticità e di leggerezza, di sostituire alle linee perpendicolari e orizzontali e in genere alle forme statiche le linee «dinamiche» oblique ed ellittiche.

Dopo la prima Guerra mondiale il problema dell’architettura tende a proporsi in termini meno polemici e più concreti; con la più precisa conoscenza di quanto s’era fatto e si faceva fuori d’Italia si fa strada la coscienza che il problema dell’architettura, oltre che un problema di gusto, era un problema di civiltà e di cultura. Il fascismo, dopo avere inizialmente appoggiato le tendenze moderne dell’architettura, nelle quali credeva d’individuare uno strumento per i suoi programmi, non appena s’avvede del loro indirizzo internazionalistico e dei loro contenuti sociali, ripiega su posizioni reazionarie e assume come espressione delle proprie aspirazioni «imperiali» un generico stile classicistico e monumentale. In contraddizione a questa vacua rettorica del monumentale, le nuove correnti precisano il loro indirizzo essenzialmente positivo, diretto a realizzare nel rigore tecnico e costruttivo, nell’aderenza delle forme alle esigenze pratiche, nell’economia delle piante un fine sociale analogo a quello che costituiva la spinta morale delle più vive correnti architettoniche europee (Le Corbusier in Francia, il Gropius in Germania, ecc.). Animatore di questa polemica per la nuova architettura è stato, in sommo grado, Edoardo Persico (morto nel 1936), i cui scritti critici hanno fortemente contribuito a mettere in evidenza il problema di cultura entro i cui limiti si giustificavano i nuovi indirizzi dell’architettura europea. Notevole influenza hanno anche avuto le mostre triennali d’architettura e d’arte decorativa a Milano, vero e proprio campo sperimentale delle più moderne idee architettoniche; né va dimenticata l’assidua opera di informazione e di chiarimento svolta dalla rivista Casabella, per molti anni diretta da Giuseppe Pagano, che può veramente considerarsi l’alfiere della nuova architettura in Italia. Tra le figure più interessanti e più vive del più recente movimento architettonico italiano è da ricordarsi, col Pagano, Giuseppe Terragni.

Giulio Carlo Argan

Pittura e scultura. – Condannare il futurismo (1909-16 circa) in nome del suo schematismo astratto era diventato da tempo un luogo comune. Oggi invece, pur senza nascondere la contraddizione intrinseca tra intenzioni pittoriche e plastiche da una parte e rappresentazione illusionistica del dinamismo e della velocità dall’altra, è necessario riconoscere che il futurismo fu l’unico moto d’avanguardia di portata europea con il quale l’Italia ebbe occasione di dare un contributo serio allo sviluppo dell’arte moderna.

Tra gli artisti che parteciparono a quel movimento appaiono oggi indubbiamente i più importanti, per generale consenso, Umberto Boccioni e Gino Severini, seguiti da Carrà, Balla, Russolo, Depero, Prampolini, Fillia, ecc. Solo nella pittura diGino Rossi e in quella di Pio Semeghini (il cosiddetto gruppo di Burano) si tentò, negli stessi anni del futurismo un rinnovamento pittorico parallelo a quello. Con essi s’incamminò però per altre vie e fu cubisteggiante ed espressionista nel primo e postimpressionista nel secondo.

Durante la prima Guerra mondiale, in un soggiorno a Ferrara, Carrà trovò nelle pitture che De Chirico già da tempo andava facendo, uno stimolo ad abbandonare del tutto il futurismo e cercare, in accostamenti inconsueti di oggetti e personaggi banali e senza significato, l’espressione di qualcosa di soprannaturale, di sorprendente e di mitico. Teorizzata la nuova formula, da parte dello stesso Carrà, in una serie di scritti, ne nacque la cosiddetta «pittura metafisica», alla quale aderì per qualche tempo anche Giorgio Morandi (v.), e sulle cui basi si è sviluppata tutta la migliore pittura italiana fino al 1934 circa.

Della pittura metafisica si può ormai dire che essa fu in Italia, sia pure in modo larvato e incompleto, l’unico movimento che presenti analogie e punti di contatto con quello che fu il dadaismo in Europa. Tale significato, però, oltre a essere passeggero, è abbastanza evidente solo nelle opere di De Chirico di quel periodo. Per gli altri, gli elementi che ben presto prevalsero furono – attraverso una precisa simbologia tattile – un astratto senso plastico e – attraverso la scelta di tonalità irreali – un astratto senso coloristico, e l’uno e l’altro furono volti a presentare sotto un aspetto mitico e favoloso qualsiasi oggetto o scena fosse assunta a proprio tema. In tal senso, e perciò contro il vivace realismo cromatico dell’impressionismo, fu orientato il movimento dei «valori plastici» (circa 1919-24), cui parteciparono, formalmente o di fatto, oltre a De Chirico, Carrà e Morandi, anche M. Campigli, M. Broglio e R. Melli.

Giorgio Morandi eliminò presto, però, ogni simbologia tattile, volgendosi completamente ad un luminismo astratto e atonalistico. Il suo grande merito è di aver così reagito tra i primi, e subito, al cattivo gusto dell’incipiente «novecento», che di un malinteso e grossolano plasticismo si stava facendo propugnatore. Sulla stessa strada impostarono la propria pittura A. Tosi, F. De Pisis, F. Casorati, V. Guidi, O. Rosai, e altri ancora, in prosieguo di tempo più o meno immediato. Il plasticismo dei «valori plastici» si trasferì invece, o rimase, alla maggior parte (da Sironi a Carena, per non citare numerosissimi altri) degli artisti che aderirono al «novecento» (iniziatosi ufficialmente con la mostra del 1926 a Milano) e decadde via via fino a divenire strumento di espressione diretta della rude e severa sanità «romana», «italica», «rurale», e magari razziale. Tra gli scultori, si ispirarono sostanzialmente alla corrente dei «valori plastici» Arturo Martini (che però sconfinò talvolta, al pari di Carrà, nel «novecento») e Marino Marini (la cui posizione rispetto al primo è analoga a quella di Morandi rispetto a Carrà). Nel «novecento» rientrano invece F. Messina, R. Romanelli, Libero Andreotti e altri.

Tra il 1928 e il 1933 si sviluppò una reazione contro il «novecento», consistente in un atteggiamento che, se da un lato si richiamava al livello di cultura e alla coscienza artistica e figurativa dei «valori plastici e della pittura metafisica», dall’altro cercava in tutti i modi di uscire dal suo ambito accentuando una concitazione emotiva e uno spirito di sofferta ribellione che si esprimeva attraverso una pennellata, un segno o un modellato per lo più a carattere espressionistico. Questa reazione si sviluppò: a Torino con Carlo Levi, Chessa, Paolucci e Menzio, in nome di una modernità di pittura viva e quasi fauve (benché Carlo Levi già impostasse la sua pittura su tonalità in fondo metafisiche); a Roma, in ordine di tempo, con Scipione, Mafai, Mazzacurati, Cagli e Melli, in nome di un decadentismo mitografico e ribelle nei primi, venato di malinconia nell’ultimo; a Milano, con il gruppo che faceva capo a Birolli, Sassu e Migneco (e che si sarebbe raccolto attorno al movimento di «Corrente») in nome di un vangoghismo tormentato e letterario e, pur nel suo culturalismo, pieno di crudezze realistiche. Tra questo decadentismo e una vaga esigenza religiosa o arcaica si formarono anche gli scultori Giacomo Manzù a Milano e, più tardi, Mirko Basaldella a Roma. Significato di reazione al «novecento» ha anche l’attività dell’acquafortista e pittore Luigi Bartolini e quella del pittore e incisore (soprattutto xilografia e linoleum) M. Maccari e del pittore L. Spazzapan.

A Milano, dove gli stimoli di una cultura figurativa europea erano assai forti, negli stessi anni attorno al 1930 si ebbe anche un movimento astrattista con lo scultore Lucio Fontana, il pittore A. Soldati, il pittore e scenografo Luigi Veronesi e altri.

Traendo profitto da tale ambiente di cultura milanese ribelle e ansioso di uscire dai limiti provinciali in cui sempre più appariva chiusa l’arte italiana, R. Guttuso volse la sua pittura a un realismo neocubista e picassiano, dapprima carico di intemperanze emotive a carattere espressionistico, ma poi sempre più saldamente posseduto. Con la sua Crocefissione (1942) la protesta espressionistica dei milanesi e dei romani cessava di risolversi in un realismo o in una mitografia decadentistici per acquistare vigore di sferzata polemica morale e sociale. Con l’acuirsi della seconda Guerra mondiale e della lotta contro il nazismo e il fascismo su questo stesso piano venne via via a trovarsi (a parte naturalmente i forti divarî e i più evidenti residui espressionistici negli artisti del nord Italia) non solo l’opera di Guttuso e di molti romani, ma anche quella di R. Birolli e di tutto il gruppo milanese che, agl’inizî del 1946, condensò nella rivista Il ’45 le sue esperienze polemiche. Tra gli scultori che emersero in questo periodo e in questa atmosfera va segnalato il ceramista Leoncillo Leonardi.

Con la fine della guerra cominciarono a riattivarsi anche gli scambî artistici, e talune mostre a carattere didattico e riassuntivo della pittura moderna francese ed europea valsero a migliorare la cultura figurativa degli artisti più giovani e a stimolare quella dei più anziani. Fu così che, nel 1946-47, si sviluppò un deciso movimento astrattista volto a esaurire in modo rigoroso tutte le esperienze formali che in Italia non erano state fatte o non avevano potuto essere portate a fondo e, soprattutto, diventar clima di cultura.

<sublem>Pertanto oggi, accanto a un residuo di decadentismo espressionistico, che trova i suoi esponenti principali in Toti Scialoja e Giovanni Stradone, mentre da un lato un forte gruppo di pittori come Guttuso, Corpora, Afro, a Roma; Moreni a Torino; Birolli e Cassinari a Milano; Santomaso a Venezia, ecc. e di scultori come Viani, Fazzini, Mazzacurati, Leoncillo Leonardi, Franchina cercano, con più o meno talento, di raggiungere una purezza e una modernità di forme senza tuttavia abbandonare un dato realistico leggibile (e cercando anzi, in taluni casi, di accentuare una sua durezza espressiva); dall’altro un numeroso gruppo di pittori come Dova, Licini e molti altri a Milano; Pizzinato e Vedova a Venezia; Turcato, lo scultore Pietro Consagra e molti giovanissimi a Roma sono decisamente passati all’astrattismo, tentando di raggiungere attraverso di esso un’arte priva di compiacimenti edonistici e, al tempo stesso, immune da intrusioni emotive incontrollate.

Bibl.: A. M. Brizio, Ottocento Novecento, Torino 1939; V. E. Barbaroux, G. P. Giani, M. Bontempelli, Arte italiana contemporanea, Milano 1940; G. De Chirico, Memorie della mia vita, Roma 1945; C. Carrà, La mia vita, Milano 1945; S. Cairola e collab. varî, Arte italiana del nostro tempo, Bergamo 1946; G. Marchiori, Pittura italiana moderna, Trieste 1946; G. Severini, Tutta la vita di un pittore, Milano 1946; G. C. Argan, Pittura italiana e cultura europea, in Prosa, 1946; C. Brandi, Europeismo, ecc., in L’immagine, 1947; L. Venturi, Pittura contemporanea, Milano 1947. Per una più ampia rassegna bibliografica v. la rivista Ulisse, Roma 1948.

Corrado Maltese

Danni di guerra ai monumenti ed alle opere d’arte. – Nonostante le distruzioni subìte dal nostro paese a causa della guerra, la complessiva ricchezza del patrimonio artistico italiano, rispetto alla sua imponenza, non appare – anche dopo la seconda Guerra mondiale – notevolmente menomata e l’Italia continua ad essere il paese del mondo indubbiamente più ricco di monumenti e d’opere d’arte del passato.

In Italia le fasi successive del conflitto si riflettono anche nella distribuzione topografica delle perdite subìte nel campo artistico. Prime ad essere colpite dai grandi bombardamenti aerei e navali furono le città maggiori dell’Italia settentrionale e meridionale, considerate importanti centri ferroviarî portuali e industriali. Poi, quando la guerra si trasferì sul territorio nazionale si può dire che dalla Sicilia alla linea Gotica non vi sia stato centro abitato che non abbia pagato il suo doloroso contributo alla guerra.

Ad ogni modo, parlando di perdite nel campo artistico, per prima cosa è necessario distinguere tra opere d’arte e monumenti completamente distrutti e opere d’arte e monumenti solo in parte danneggiati o abbattuti, per i quali il restauro s’impone e viene eseguito. E in questo secondo caso bisogna considerare fino a qual punto un’opera d’arte mutilata o soltanto ferita, malgrado gli avvedutissimi restauri, venga menomata da quelle cicatrici o mutilazioni che logicamente incidono sui suoi valori.

Nel primo gruppo, non sembrerebbero eccessivamente numerose quelle opere così altamente rappresentative della nostra civiltà artistica la cui perdita viene a modificare realmente i termini di una sua valutazione, o, comunque, a cancellare una significativa pagina della nostra storia dell’arte. Ma anche in questo caso sono i criterî valutativi a determinare una maggiore o minore estensione dell’elenco. In esso tuttavia troverà senz’altro posto, e in grandissima evidenza, la distruzione degli affreschi del Mantegna agli Eremitani di Padova, la perdita di tanto grande parte del materiale del Museo archeologico d’Ancona, la distruzione di tante antiche pitture delle dissepolte case di Pompei, dei mosaici delle antiche absidi del Duomo di Messina, i soffitti dipinti dal Tiepolo nel Palazzo Valmarana a Vicenza in Palazzo Archinti e nella Sagrestia di S. Ambrogio a Milano. Più raro il caso, e certo per opere non sempre altrettanto significative, di grandi architetture completamente annullate, quali il ponte di Capua, il duomo di Benevento, la chiesa di S. Maria in Flumine a Ceccano, il Campanile di S. Piero a Grado, il S. Biagio di Forlì o la chiesa di S. Maria in Porto Fuori a Ravenna. E nell’elenco non va posto lo stesso ponte Santa Trinità a Firenze, di cui oggi si vedono solo i piloni smozzicati, perché delle sue pietre sono stati recuperati anche i frammenti ed era già tutto misurato e rilevato prima che avvenisse il disastro, cosicché potrà essere ricomposto. Lo stesso dicasi per tante sculture, sebbene, in quel campo, il fuoco che ha incenerito il bellissimo rivestimento barocco della trecentesca chiesa di S. Chiara a Napoli abbia calcinato alcuni fra i marmi più preziosi scolpiti da Tino da Camaino.

Migliaia sono invece i monumenti parzialmente abbattuti e le opere d’arte danneggiate. Complessivamente la Direzione generale per le antichità e le belle arti, per mezzo dei suoi organi periferici, le soprintendenze, è intervenuta, portando anche un suo contributo finanziario, nel restauro di oltre 800 edifici monumentali e in moltissimi altri casi ha dovuto limitare la sua opera impartendo direttive ad enti e privati che per proprio conto intraprendevano il restauro di edifici d’interesse artistico ma di loro proprietà o pertinenza.

È inoltre da tenere presente che, nella massima parte, le opere d’arte mobili che facevano parte di raccolte pubbliche, di musei, di chiese, di molti enti e privati furono tempestivamente rimosse dalle abituali dimore e trasferite in luoghi che si potevano ritenere sicuri. A ciò si deve se quella parte del nostro patrimonio artistico non ha subìto che lievissime perdite. Per quelle che non potevano essere rimosse come per molti affreschi e sculture s’escogitarono delle protezioni in situ che, come nel caso del Cenacolo di Leonardo da Vinci in S. Maria delle Grazie a Milano, hanno talvolta dimostrato la loro provvedidenziale efficienza. (Per i particolari v. le voci dedicate, in questa Appendice, alle regioni e città).

Emilio Lavagnino

Musica.

L’attività musicale italiana ha esplicato durante il travaglioso ultimo quindicennio un vigore sufficiente a preservare, e per alcuni riguardi a sviluppare, le possibilità artistiche e culturali anteriormente acquisite, riuscendo inoltre a ridurre in misura almeno temporaneamente sostenibile le pericolose flessioni della pratica.

Pur nell’anormalità delle condizioni ambientali, normale s’è svolto, nelle storiche caratterizzazioni, il processo dialettico dall’una all’altra generazione di artisti: dalla definitiva conclusione dell’opera di consacrazione ultimo-ottocentesca (suprema vittoria restandone la pucciniana Turandot, del 1924) e dalla piena conquista, da parte dei primi opponenti del Novecento, delle posizioni cui il loro sforzo rinnovatore aveva mirato (a posizioni, tutte, di riaperto colloquio con l’arte italiana dal gregoriano al barocco e, insieme, con quella della moderna Europa), alla entrata in campo delle scuole da cotesti maestri avviate: scuole che se fin dai primi gruppi, apparsi tra il 1920 e il 1930 (v. vol. XIX, p. 1017) già potevano destare attenzione e simpatia, vengono nei secondi e in quelli, cioè, dell’ultimo quindicennio, a mostrare valori ideali e linguistici abbastanza importanti per consentirci la fiducia in una nuova efflorescenza non meno alta di quella del primo Novecento.

Sembra dunque ormai opportuno constatare la potente affermazione, di risonanza mondiale, di G. F. Ghedini, di L. Dallapiccola, di G. Petrassi, e il fervido, spesso assai felice impegno di non pochi loro confratelli e allievi, tra i quali ricordiamo A. Zecchi, S. Fuga, L. Margola, R. Nielsen, B. Bettinelli, G. Gorini, F. Lavagnino, O. Fiume, O. Renzi, B. Maderna, G. Negri, G. Turchi, M. Zafred, V. Tosatti, come tra i giovani esponenti di tendenze diverse dobbiamo menzionare C. A. Pizzini, R. Rossellini, E. Porrino, J. Napoli, V. Bucchi. Dal 1933 sono scomparsi molti compositori italiani, tra i quali A. Franchetti, P. Mascagni, U. Giordano, E. Wolf-Ferrari, O. Respighi, R. Zandonai, A. Casella, e i giovani M. Pilati, G. Salviucci, M. Di Veroli, G. Modiglioni.

Musicologia. – Il lavoro musicologico, abbastanza fervido fino a quando il precipitare della crisi bellica non ne tolse pressoché ogni possibilità, sembra oggi riprendere ardimento.

All’attivo possiamo comunque ascrivere, in molte rubriche musicologiche, contributi degni di rilievo: della musica popolare essendosi interessati, tra gli altri, G. Fara, F. B. Pratella, G. Nataletti, A. Bonaccorsi, L. Colacicchi; della musica d’arte (specialmente dell’italiana) il p. P. Ferretti e U. Sesini per la liturgia romana e il p. Lorenzo Tardo e O. Tiby per la bizantina; U. Sesini, F. Liuzzi, A. Bonaccorsi, E. Li Gotti per l’arte trovadorica, per la laudistica e per l’Ars nova; F. Torrefranca, F. Ghisi, F. Mompellio, G. Cesari, G. Benvenuti, G. De Valle de Paz, mons. R. Casimiri, G. Pannain, E. Dagnino, F. Vatielli, F. Fano per il Rinascimento; F. Fano, G. Cesari, G. Pannain, B. Lupo, D. De Paoli, G.F. Malipiero, O. Tiby, G. Roncaglia per il Seicento dai Fiorentini e dal Monteverdi ai primi strumentalisti; F. Torrefranca, G. F. Malipiero, S. A. Luciani, C. Sartori, L. valabrega, G. Barblan, R. Giazotto, A. Della Corte, V. Fedeli, M. Mila, per l’ulteriore Barocco e per il secondo Settecento; mentre dell’arte ottocentesca e dell’odierna si sono occupati, oltre quasi tutti cotesti autori, molti altri, tra i quali G. M. Gatti, E. Desideri, A. Capri, M. Rinaldi, F. Ballo, G. A. Gavazzeni, G. A. Mantelli, G. Graziosi, F. D’Amico, L. Rognoni.

Opere di storiografia generale hanno dato G. Pannain e A. Della Corte (in collaborazione), F. Abbiati, M. Mila e altri.

Intenso, inoltre, s’è venuto facendo il dibattito d’ordine estetico, del quale hanno più continuamente partecipato G. Pannain, G. M. Gatti, E. Borrelli, L. Ronga, A. Parente, M. Mila, G. Graziosi, F. D’Amico, e, in varî interventi, anche molti altri studiosi e artisti: dibattito che, inizialmente limitato, per lo più, a singoli problemi inerenti all’applicazione musicologica dell’estetica idealistica (quasi sempre di sistema crociano), sembra oggi investire i principî stessi di questa estetica.

Bibl.: In mancanza di trattazioni d’ordine generale, notizie e saggi si trovano in larga misura nelle pubblicazioni periodiche degli anni 1933-48, e specialmente in Riv. Mus. Italiana, Musica d’oggi (fino al 1942), Rassegna musicale. Per la musicologia, v.: R. Caporali, Storia della musica e critica musicale, 1921-35, Roma 1935 (Guide bibliografiche italiane A.G.I.L.); G. A. Gavazzoni, Lineamenti degli studi musicologici in Italia, in Il libro italiano nel mondo, marzo 1941.

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