Istituzioni di cultura

Storia di Venezia (2002)

Istituzioni di cultura

Giuseppe Gullino

Alla caduta della Repubblica l’organizzazione culturale pubblica e privata in terra veneta era incentrata sull’asse Venezia-Padova. Volessimo poi distinguere, grosso modo potremmo dire che le lettere trovavano miglior ospitalità in laguna e le scienze sotto i colli. Qui infatti l’Università poteva contare, oltre che sui gloriosi Orto botanico e Teatro anatomico, sul Museo di storia naturale, il Teatro sperimentale, l’Osservatorio astronomico, l’Elaboratorio chimico, le Scuole di agraria, ostetricia, medicina e chirurgia, veterinaria. Tutte realizzazioni settecentesche, a parte le prime due. Inoltre, il 18 marzo 1779 i riformatori dello Studio avevano affiancato all’Università l’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti, di cui diremo fra poco.

Questo a Padova. Venezia, la Dominante, aveva invece, indiscutibilmente, il primato della cultura umanistica, se così si può dire; musica e pittura (quest’ultima istituzionalizzata nell’Accademia di Pittura, Scultura e Architettura, ospitata al «Fonteghetto», progenitrice della futura Accademia di Belle Arti che fu un poco, appunto, accademia e un poco scuola) non han bisogno né di presentazione né di spiegazione: la sola presenza della classe di governo bastava eccome a stimolare queste arti, in qualche modo favorite — perlomeno quantitativamente — dall’industria del lusso collegata alla presenza di un patriziato cui non mancavano ricchezze ed amore per il bello.

Quanto alle lettere, nel 1793 Venezia contava trentotto stamperie(1), il che è ragion sufficiente per spiegare l’impressionante euforia che avrebbe caratterizzato l’editoria locale quattro anni dopo, in quel ’97 dove tutti stamparono di tutto purché avesse un qualche aggancio con la politica, forse per rifarsi dei precedenti silenzi compendiati nel noto detto: nihil de Principe, parum de Deo. Tra i protagonisti dell’editoria settecentesca troviamo (dopo la produzione sacra) i letterati, ovviamente: dai Gozzi a Casanova su su fino a Foscolo. Giacomo e Ugo sono cani sciolti, ma i fratelli Carlo e Gasparo fanno parte di diverse accademie, una delle quali fondata proprio da loro. Accanto alle società letterarie vi sono poi quelle iniziative, consolidate da lunga tradizione, che trovano ospitalità nei «salotti» nobiliari, dove i giovani patrizi si preparano alla vita politica simulando i dibattiti che si tengono a Palazzo, e così fanno pratica di eloquenza, di retorica, di un poco di diritto, in attesa di accompagnare all’estero qualche parente chiamato a sostenervi un’ambasceria e perfezionare tra feste, cacce e conversazioni il loro tirocinio.

Naturalmente lo spirito razionalista e scientifico del secolo si fa sentire pure a Venezia, benché in misura limitata: nel ’77 si apre all’Arsenale un corso di architettura navale e, più tardi, nel ’94, nasce — dietro impulso dell’allor giovane Vincenzo Dandolo — un laboratorio chimico-fisico, che doveva trovare ospitalità presso le scuole agli ex gesuiti alle Fondamenta Nuove(2).

Venne la caduta. Il proficuo interscambio, la complementarità tra Padova e Venezia si dissolsero come nebbia al sole e, fra le due, a perdere di più fu chi più aveva, e cioè Venezia.

La rapida scomparsa del patriziato significò infatti anche la fine della società che gli gravitava attorno: non più classe di governo, duramente colpiti nell’economia, gli ex dominanti chiusero i palazzi, licenziarono i servi, tirarono a secco le gondole, si rifugiarono nelle campagne. Non pochi preferirono simbolicamente suicidarsi rifiutando di sposarsi, condannando all’estinzione la loro casata (dal 1797 al 1846 ne spariranno cinquanta).

Questo comportò, ovviamente, una caduta verticale anche delle istituzioni culturali. Sparirono quasi tutte, perlomeno quelle significative, nonostante qualche effimero conato riproduttivo che in età napoleonica sarebbe poi confluito nell’Ateneo Veneto; rimasero in piedi (ma notevolmente ridimensionate in una città passata dai circa 140.000 abitanti del 1790 ai 106.000 del 1810) le strutture fondamentali dell’istruzione pubblica, ossia quegli istituti scolastici dei quali si occupa, in questi volumi, Claudia Salmini.

Non sarà dunque un caso — per fare un esempio — se il 13 settembre 1814 la sezione padovana del Cesareo Regio Istituto di Scienze, Lettere ed Arti verrà proclamata centrale, scalzando Venezia da un secolare primato. Padova, insomma, resse meglio dell’invisa ex Dominante alla crisi seguita al 1797, perché la sua economia non era artificiale come quella veneziana, perché le sue strutture scientifiche potevano dirsi consolidate da gran pezzo, perché infine la politica napoleonica incentivò soprattutto la cultura tecnico-scientifica a scapito di quella umanistica.

Venezia dunque passava la mano; solo nel 1812 — proprio quando la fine del Regno italico era alle porte — si sarebbero registrate le ‘novità’ dell’apertura dell’Ateneo Veneto e dell’Istituto Reale di Scienze, Lettere ed Arti; due strutture vitali e che tuttora godono di buona, buonissima salute. Assieme alla più tarda (1874) Deputazione di Storia Patria, sono questi gli istituti culturali che qualificano la Venezia otto-novecentesca, perciò saranno essi i soggetti di queste pagine.

L’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti

Le origini (1779-1838)

Comincerò dall’Istituto Veneto, che ha radici più lontane e respiro più vasto rispetto agli altri, anche se — per natura e stile — fu sempre meno inserito nel tessuto urbano e nello spirito cittadino rispetto all’Ateneo.

Il suo primo statuto prevedeva un organismo essenzialmente scientifico, sicché a cercarne le radici si finisce per tornare a Padova, all’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti.

Qui, sin dall’inizio del Settecento, si era avvertita l’esigenza di formare un centro che ospitasse gli studi e fosse occasione d’incontro per gli scienziati veneti(3); non se n’era fatto niente, e solo nel ’61 — preceduto da un progetto di riforma elaborato dal professore di matematica Simone Stratico e sostenuto dai riformatori dello Studio Giacomo Nani e Lorenzo Morosini (quest’ultimo particolarmente sensibile alle sorti dell’Università perché vi aveva studiato e soprattutto perché la sorella di Stratico era sua amante) —, nel ’61 dunque, s’era proceduto ad una significativa riforma dell’antico Studio, svecchiandone le strutture più manifestamente obsolete. Dopo di che la nascita delle accademie di agricoltura, il sorgere del processo protoindustriale nella fascia prealpina e poi il nuovo clima favorevole al progresso economico e scientifico, che andava diffondendosi anche nel Veneto sulla scia delle suggestioni illuministe, tutte queste concause furono insomma alla base della trasformazione delle preesistenti accademie (l’antica dei Ricovrati e la recente di Agraria) in un solo corpo, denominato Accademia di Scienze, Lettere ed Arti, inaugurata il 25 aprile ’79, giorno di s. Marco.

La nuova istituzione si proponeva infatti il superamento dei tradizionali limiti municipali, per assurgere ad un respiro ‘nazionale’; Piero Del Negro ne ha indagato le cause prossime e remote, il carattere elitario dei suoi componenti (tratti, per la maggior parte, dai professori più prestigiosi dello Studio, meglio se non padovani), la filiazione dalla francese Académie des Sciences per quanto concerne la struttura e gli obiettivi, il compito primario di collaborare col governo alla stregua di una sorta di comitato scientifico ristretto — quasi un pool di cervelli — dalle procedure più agili rapide efficienti rispetto ai farraginosi meccanismi universitari: e infatti non furon poche le richieste di consulenze scientifiche fatte pervenire all’Accademia da diverse magistrature veneziane, soprattutto relative alla chimica, alle comunicazioni, all’agraria, all’idraulica: in fondo dovevano pur guadagnarseli, i soci, quei mille ducati che il governo aveva loro accordato annualmente(4).

Registriamo la novità di quest’istituzione, che di fatto colmava una lacuna della vecchia Serenissima, adeguandola almeno formalmente alle nazioni più evolute nel contesto europeo, e fermiamo qui il discorso ‘settecentesco’ per spostarci a quel che avvenne dopo la caduta della Repubblica.

Terminata con successo la campagna d’Italia, otto giorni prima di tornarsene a Parigi, il 9 novembre 1797 Bonaparte faceva inserire nella costituzione della Cisalpina l’articolo 297 che così disponeva: «Vi deve essere per tutta la Repubblica un Istituto nazionale incaricato di raccogliere le scoperte e perfezionare le arti e le scienze»; un anno dopo la sede era fissata a Bologna, la cui Università pareva in grado di offrire «ampli ed opportuni stabilimenti utili a questo oggetto»: esattamente la stessa logica che aveva seguito Venezia nel collocare a Padova l’Accademia, diciott’anni prima. Il modello che il generale aveva in mente era però il più recente (1796), ma non dissimile, Institut National des Sciences et des Arts, con membri divisi in classi — alcuni dei quali aventi diritto ad una pensione — e con un’accentuata propensione all’orientamento sperimentale cui ormai s’ispiravano le scienze. L’Institut divenne infatti il modello ed il volano della cultura privilegiata da Napoleone: quella degli scienziati, degli sperimentatori, degli ingegneri, di cui Volta può essere assunto a simbolo; quell’Alessandro Volta che il primo console letteralmente si comprò, nel 1801, strappandolo alla Royal Society(5).

Quali siano stati, poi, i compiti dell’Institut, ascoltiamolo da Sergio Moravia:

Non è più il tempo [...] delle ricerche generali e delle affermazioni di principio. Non a caso questi savants, fra i quali molti di grosso nome, non disdegnano di occuparsi, oltre che della ricerca pura, anche di quella applicata: oltre che della scienza, anche dell’industria [...]. La prima classe fu sempre occupata da una gran quantità di lavoro di controlli e di verifiche. Si analizzano le opere scientifiche che giungevano da ogni parte d’Europa. Si esaminano gli strumenti, macchine e ritrovati che una folla di più o meno oscuri inventori sottoponeva pressoché quotidianamente al giudizio del più alto tribunale tecnico-scientifico del momento. Si bandiscono inoltre concorsi su determinati argomenti o problemi [...]. L’assegnazione dei premi è occasione di discorsi celebranti l’importanza della scienza nel mondo moderno. Questa classe dell’Institut, d’altra parte, è assai impegnata anche dal lavoro svolto per conto del governo. È ad essa che il governo si rivolgerà per avviare una serie di iniziative di vasto impegno [...]. Apposite commissioni s’incaricheranno di preparare le relazioni di risposta ai quesiti proposti(6).

Mi sono soffermato — forse un po’ troppo — sull’immediato modello francese perché la struttura, i mezzi e le finalità saranno praticamente gli stessi che verranno mutuati dalle Accademie e dagli Istituti di Scienze, Lettere ed Arti qui in Italia, prima con Napoleone e poi con l’Austria(7).

Ma andiamo con ordine e riprendiamo il filo del discorso, che avevamo lasciato al ’97, alla costituzione della Cisalpina, la quale prevedeva la nascita di un istituto scientifico nazionale.

I tempi per la sua realizzazione non furono rapidissimi: intanto Napoleone ebbe il suo daffare in Egitto, poi dovette diventare primo console per riprendersi l’Italia a Marengo e trasformare, a Lione, la Cisalpina in Repubblica italiana; pertanto solo il 17 agosto 1802 poté essere emanato il primo regolamento dell’Istituto Nazionale Italiano, diviso in diverse classi (le stesse che quattro anni dopo sarebbero state previste per l’università) che sostanzialmente ricalcavano la ripartizione del sapere quale s’era data un quarto di secolo avanti l’Accademia patavina, ove la filosofia sperimentale veniva ora ridenominata fisica, le scienze matematiche e le lettere coincidevano, mentre la filosofia speculativa corrispondeva abbastanza da vicino alle scienze morali e politiche(8).

Si comincia? Macché, serviva altro tempo, per cui fra il 6 novembre 1802 ed il 15 gennaio 1804 si dovette pensare ai necessari adempimenti organizzativi, alla scelta dei membri, all’elezione del presidente (Volta) e del segretario (Fortis); poi finalmente si diede inizio all’attività vera e propria, di cui rimane testimonianza in una grossa raccolta delle letture effettuate dai componenti dell’Istituto, fra i quali v’erano anche dei veneti, sia pure a titolo personale: ricordiamo fra essi i nomi di Antonio Cagnoli, Vincenzo Dandolo, Benedetto Del Bene, Alberto Fortis, Domenico Monga, Simone Stratico(9).

La sede, come abbiam visto, venne fissata a Bologna, ma la capitale del Regno era Milano, dove pure risiedeva la maggior parte dei sessanta membri dell’Istituto; questa ragione, assieme all’annessione, nel 1806, delle province al di qua dell’Adige, pose il problema di una nuova rappresentatività geografica degli appartenenti al sodalizio. Si giunse così — dietro sollecitazione del viceré Eugenio — al fondamentale decreto napoleonico emanato il giorno di Natale (proprio come faceva Carlo Magno per gli editti più importanti) del 1810; nasceva — profondamente rinnovato — l’Istituto Reale di Scienze, Lettere ed Arti, forte di sessanta membri pensionati ed altrettanti onorari, con sede a Milano e quattro distinte sezioni a Bologna, Padova, Verona e Venezia. La dotazione era di 120.000 lire: niente male, laddove si consideri l’oculata parsimonia che in ogni tempo e luogo ha costantemente contraddistinto la remunerazione del lavoro intellettuale. Nel febbraio 1812 furono completate le nomine dei soci e il 28 marzo del ’13 veniva emanato il nuovo regolamento; come nel ’97, scopo di quello che veniva definito il primo corpo scientifico del Regno era di «raccogliere le scoperte e di perfezionare le arti e le scienze»; a tal fine esso veniva diviso in due classi, una di scienze ed arti meccaniche e l’altra di lettere ed arti liberali (sparivano le scienze morali e politiche, sospettate da Napoleone di rappresentare una fucina di ideologi sovversivi); il criterio fondamentale seguito per la scelta dei membri era di realizzare un rapporto di tre a due fra gli esponenti della classe scientifica e quelli della letteraria, ma in realtà la norma non fu seguita tassativamente, come si può ricavare dalla seguente tabella, che riproduce i nomi e le qualifiche dei ventuno appartenenti alle sezioni venete:

Come si vede, la sezione padovana era la più numerosa e la più qualificata scientificamente (solo due letterati su undici effettivi, l’orientalista Assemani ed il bibliotecario ed ex rettore Francesconi), mentre Venezia era presente prevalentemente con esponenti del mondo artistico-letterario: un medico (Aglietti), uno scultore (Canova), un economista ed ex municipalista (Mengotti), un bibliotecario (Morelli), un letterato (Pindemonte), un matematico (Zendrini); naturalmente né qui né altrove ci fu spazio per Foscolo(10).

Nella primavera del 1813, dunque, l’Istituto era in grado di operare, ma il 18 agosto l’Austria dichiarava guerra, il 6 ottobre il viceré Eugenio si ritirava al di qua dell’Isonzo e quindici giorni dopo aveva inizio il lungo durissimo blocco di Venezia, finito solo con l’ingresso degli austriaci in città, il 19 aprile 1814. Un mese dopo i nuovi governanti si impegnavano ad assicurare la continuità dell’Istituto, ma diviso in due corpi separati, uno lombardo e l’altro veneto; di fatto, però, si disinteressarono di una creatura che sentivano estranea alla loro tradizione, e per di più dalla netta connotazione napoleonica. A Venezia qualche adunanza si tenne, per impulso del segretario della sezione, Zendrini, presso la Biblioteca Marciana; migliore la situazione a Padova, dove il segretario Brera trovò ospitalità presso il monastero di S. Giustina e poté contare sulle strutture universitarie; inoltre la città euganea era allora sede del governo provvisorio militare; forse per queste ragioni la sezione fu proclamata centrale con decreto del 13 settembre 1815: si ritornava dunque al prevalere scientifico di Padova su Venezia, come nel 1779! Solo il 2 novembre ’17, tuttavia, una patente sovrana riconfermava ufficialmente le finalità del Cesareo Regio Istituto, sottolineando in particolar modo l’obbligo dei membri di far parte delle commissioni giudicatrici dei premi d’agricoltura e industria, che si sarebbero distribuiti alternativamente un anno a Milano e l’altro a Venezia, ma aperti a tutti i sudditi del Lombardo-Veneto. A partire dal ’19, in laguna la biennale cerimonia si tenne nella sala dello Scrutinio a Palazzo Ducale, il 4 ottobre, onomastico dell’imperatore, alla presenza delle massime autorità: sarà appunto questo dei premi uno degli aspetti irrinunciabili che qualificheranno sin dagli albori l’attività dell’Istituto; anche quando di lui non rimasero che le vestigia di un’attività embrionale, pure sopravvissero i concorsi, concepiti — quale prassi metodologica — come trasposizione nel campo economico e produttivo di uno dei punti centrali della pedagogia gesuitica, di secolare ineguagliata esperienza(11).

Per il resto, dicevo, l’Austria non aveva troppe ragioni per amare l’Istituto, anzi non ne aveva alcuna; sicché, mentre ne riconosceva la legittimità ad esistere, di fatto ne accelerava la scomparsa col semplice escamotage di non procedere a nuove nomine. Ora, siccome l’età dei membri di qualsivoglia accademia è solitamente non proprio verdissima, ne consegue che nel giro di un decennio l’Istituto si vide ridotto all’osso: dalle ventuno creature in essere alla data del 1812 si passò alle sedici del 1817 ed alle dieci del ’23; la mancanza di materia prima costrinse di fatto, l’anno successivo, la sezione veneziana a confluire nella rivale padovana, che si riuniva sporadicamente a casa del naturalista Stefano Andrea Renier. Ho detto «sezione veneziana»: si trattava in realtà di due soli soci, Aglietti e Zendrini. Quando poi, nel ’32, scomparve anche Renier, sull’Istituto scese il silenzio.

La ripresa economica degli anni Trenta (estensione del portofranco a tutta la città nel ’29; arrivo delle Assicurazioni Generali, 1831; nascita della società ferroviaria, 1837; nuove bocche di porto, 1838) determinò una positiva congiuntura anche nei rapporti psicologici fra governanti e governati. Si spiega in tal modo la rifondazione dell’Istituto, decretata ad Innsbruck il 13 agosto 1838 dall’imperatore, nell’imminenza del suo viaggio d’incoronazione nel Lombardo-Veneto. A quella data, del vecchio organismo napoleonico non rimaneva in vita a Venezia che il solo Zendrini, ormai cieco.

Per la scelta dei soci (venti onorari; quaranta effettivi, metà dei quali pensionati con 1.200 lire austriache annue; un numero imprecisato di corrispondenti) furono attivate le delegazioni provinciali, che fornirono una rosa di concittadini illustri in tutto fuorché nelle «belle arti», visto che tale settore esulava dagli interessi dell’Istituto, risultando già coperto da apposite accademie presenti sia a Milano che a Venezia. Alla fine di una serie di scremature, depennamenti, integrazioni, il 26 novembre 1839 furono nominati dall’imperatore i primi diciassette membri, che a loro volta avrebbero proceduto alla cooptazione dei rimanenti atti a formare l’organico previsto.

Nella tabella che segue sono i primi effettivi che inaugurarono la rifondazione dell’Imperial Regio Istituto di Scienze, Lettere ed Arti, nell’anno accademico 1840/1841, con la classe di appartenenza (scientifica o letteraria) e la specializzazione; in corsivo il presidente, Manin:

Pertanto i primi trenta membri dell’Istituto Veneto risultarono così provenienti: undici veneziani (37%), dieci padovani (33%), tre veronesi (10%), tre vicentini (10%), due trevigiani (7%), un udinese (3%), nessun bellunese o polesano. Le province periferiche appaiono così penalizzate a favore del tradizionale polo incentrato sull’asse Padova-Venezia, e a questo proposito possiamo notare un maggior peso specifico di Venezia (ossia del centro politico) rispetto all’Università padovana, cui aveva invece largamente attinto l’Istituto napoleonico; veneziani (o da lungo tempo dimoranti a Venezia) sono infatti: Bizio, Casoni, Contarini, Fapanni, Fusinieri, Gamba, Manin, Moschini, Nardo, Paleocapa, Zendrini. Va inoltre osservato il progressivo aumento dei rappresentanti del settore tecnico-scientifico rispetto a quello giuridico-letterario, che passano dal 57% del 1812 al 73%: è un segno dei tempi nuovi, è la borghesia che avanza con la sua rivoluzione mentale, scientifica, economica e sociale; nell’arco di un trentennio l’Istituto risponde dunque all’evoluzione in atto in tutta Europa, particolarmente riscontrabile nel settore universitario che tende a specializzarsi, che assume più numerose articolazioni rispetto agli antichi accorpamenti egemonizzati dalle discipline filosofiche e matematiche.

Ancora, va detto che il governo non si lasciò condizionare più di tanto dalle informazioni fattegli pervenire dalla polizia (particolarmente negative quelle sui progressisti Bianchetti, Scopoli e Zecchinelli), ma forse intendeva pareggiare il conto per aver imposto come presidente il conte Leonardo Manin, nipote dell’ultimo doge e assai ricco: con che s’esauriva il non amplissimo ventaglio dei suoi meriti.

L’età austriaca (1840-1866)

Il primo decennio di quello che ora s’intitolava Imperial Regio Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti fu certamente il migliore della sua storia: onorevolmente insediato al secondo e terzo piano del Palazzo Ducale (che divideva con la Marciana); confortato da un’adeguata disponibilità di mezzi (45.000 lire austriache all’anno, comprese le pensioni); dotato di un Gabinetto tecnologico avanzato (e aperto al pubblico due giorni al mese), oltre che di pregevoli raccolte naturalistiche; impegnato nella gestione dei premi industriali e dei concorsi scientifici, come pure di due periodici («Atti» e «Memorie», che ospitarono il fiore della scienza veneta), a partire dall’anno accademico 1840/1841 il nuovo Istituto fu in grado di operare al meglio, un poco perché trascinato dall’entusiasmo della novità, un poco perché effettivamente venne sentito e fatto sentire — a cominciare dal governo — come il più alto rappresentante della cultura regionale. Per questo motivo (l’art. 2 del regolamento precisava essere dovere dell’Istituto «di prestarsi a tutte le ricerche e commissioni del Governo»: esattamente in linea con quella ch’era stata l’incombenza precipua dell’antica Accademia patavina di Scienze, Lettere ed Arti) i membri del sodalizio furono chiamati a nominare, fra il ’40 ed il ’66, ben ottantadue commissioni per rispondere ad altrettanti quesiti provenienti da organismi statali (ma non solo, si fece viva anche la Camera di commercio): si andava dalle macchine idrovore ai sistemi di sicurezza da installare sulle locomotive, dai collaudi per l’illuminazione a gas ai progetti per la valorizzazione delle fonti di Recoaro, dalla malattia delle viti alla pellagra.

Accanto a queste commissioni temporanee v’erano poi quelle permanenti, o istituzionali, così articolate:

1. Commissione per l’antichità e la storia (aveva per oggetto l’indagine soprattutto archivistica della storia veneta, ma fu poco vitale).

Commissione per la biblioteca (ebbe il compito di integrare la Marciana nel campo scientifico, ma visse soprattutto di donazioni, in primis la biblioteca che le avrebbe lasciato Minich nel ’93).

Commissione per la descrizione topografica, idraulica, fisica, agraria e medica delle province venete (intendeva dotare l’Istituto di una completa illustrazione del Veneto, ma fallì lo scopo).

Commissione per lo studio della lingua e letteratura italiana (fu anch’essa poco vitale).

Commissione per le raccolte naturali (secondando la tradizione dei grandi naturalisti chioggiotti, quali Olivi e Renier, si proponeva di riunire i prodotti delle province venete).

Commissione per la proposta di soci corrispondenti (sovraintendeva alla cooptazione dei nuovi soci, compito delicato sotto l’Austria, ma in seguito scemato assai d’importanza).

Commissione per il Gabinetto tecnologico (ebbe rilievo nei primi tempi dell’Istituto, poi l’incalzare del progresso scientifico ridusse il Gabinetto alla stregua di un museo conservativo).

L’attività istituzionale prevedeva poi — come si è accennato — l’assegnazione biennale dei premi d’industria e agricoltura; il prestigio che circondava la manifestazione (che si voleva quanto più possibile solenne) era tale, che molti artigiani e troppi inventori — veri o presunti — si rivolsero all’Istituto non già per riceverne un premio, ma per strappare un giudizio positivo che equivaleva, di fatto, ad un brevetto(12). A riprova, gli unici documenti seriali — anteriori alla rifondazione del 1838 — che risultano conservati nell’archivio dell’Istituto, sono appunto quelli costituenti le buste dei premi industriali e agricoli. Donde ricaviamo, relativamente alla serie dei premiati con la maggior distinzione per il periodo 1816-1838, che ben quarantanove riconoscimenti toccarono all’industria (ma sarebbe più giusto parlare di artigianato) e solo sette all’agricoltura; evidentemente, in un Veneto largamente agricolo si voleva incentivare uno sviluppo del secondario che stentava ad affermarsi; da notare inoltre il primato di Venezia, che con le sue ventotto medaglie d’oro si pone esattamente alla pari con la terraferma (ivi compresa la Lombardia, peraltro presente con soli sette premi: segno di un inguaribile cronico disinteresse tra le due regioni; infatti quando le premiazioni si effettuavano a Venezia, emergevano sempre i veneti; l’anno dopo, a Milano, erano i lombardi a prendersi la rivincita(13)). Il fatto è che l’inadeguata rete dei trasporti non consentiva il sorgere di notevoli attività industriali lontano dal porto, per cui continuava a resistere la radicata convinzione di una città lagunare a vocazione industriale: nel trentennio 1816-1847, su un complesso di sessantaquattro medaglie d’oro accordate all’industria, ben trentasei (56,2%) toccarono a ditte veneziane, contro le ventotto (43,8%) destinate al resto del Lombardo-Veneto, da Milano a Udine. Sotto quest’aspetto un’inversione di tendenza, con il decollo industriale della terraferma, si registra solo a partire dal 1850, in conseguenza dell’attivazione della ferrovia Ferdinandea (dopo l’interruzione quarantottesca le premiazioni ripresero nel 1852 e si conclusero — per il periodo qui in esame — nel ’58, con questi risultati complessivi: tre primi premi all’industria veneziana contro gli otto della terraferma); quanto al rapporto industria-agricoltura, esso non subì significative modifiche.

Ma torniamo al 1840, alla riattivazione dell’Istituto, termine a partire dal quale disponiamo — come si è detto — di dati seriali per ogni settore del suo campo di azione.

Le letture effettuate aumentarono costantemente, passando dalle 383 del decennio 1840/1841-1849/1850 alle 638 degli anni 1860/1861-1869/1870; nel contempo, però, i membri effettivi tesero a «leggere» sempre meno a vantaggio dei soci corrispondenti o addirittura di esterni, e le letture di carattere scientifico passarono dall’89% al 74%, a favore di quelle di natura umanistica; e queste saranno tutte tendenze irreversibili e destinate ad accentuarsi nella vita dell’Istituto. Nei primi due decenni (1840-1859, quelli interamente austriaci) le dissertazioni interessarono soprattutto la fisica (132 letture, pari al 16,5% del totale), seguita dalle scienze naturali (129=16,1%) e dalla medicina (97=12,1%), mentre agli ultimi posti troviamo la storia con 42 letture (5,2%) e la letteratura (19 interventi, pari al 2,4%).

Le chiamavano letture. Ma attenzione: questi mica venivano a Venezia partendo in carrozza, che so? da Udine o da Verona, magari in pieno inverno, per attraversare poi in barca la laguna ed arrivare l’indomani a Palazzo Ducale, e tutto per il gusto di accertarsi di quanti colleghi fossero morti dall’ultima convocazione, oppure per riscuotere qualche applauso, oltre al diritto alla pensione. No no, le letture spesso erano battaglie tra diverse scuole di pensiero e/o teorie, specie nel campo della fisica e della medicina: Bizio contro Fusinieri, Zantedeschi contro Bellavitis, contro Paleocapa, contro tutti. C’è da restar stupiti, oggi, a rileggere i verbali di quelle sedute: altro che accademia, erano critiche dissensioni polemiche, era passione!

Queste le vicende per così dire istituzionali; quanto agli avvenimenti estemporanei, a dire il vero non furon poi molti perché, se è vero che l’Istituto era ubicato al centro di Venezia, è pur altrettanto certo che esso rimase sempre alquanto distaccato dalla quotidianità cittadina, quasi fosse un’essenza metafisica; diversamente da un Ateneo Veneto, l’Istituto infatti trascendeva i limiti del recinto urbano per mille comprensibilissime ragioni, a cominciare dall’ovvia considerazione che gli era stata conferita proprio una caratura regionale. Donde uno stile particolare, un atteggiamento discreto epperò togato, come da vestale di una cultura superiore: se infatti il corpo stava a Venezia, la mente era idealmente a Padova ed il cuore sparso per tutta la terraferma.

Certo, fu di fondamentale importanza per il sodalizio che tra il ’45 ed il ’47 accettasse di farsi carico della presidenza il conte Andrea Cittadella Vigodarzere, prestigioso esponente di quell’antica nobiltà che andava trasformandosi nella possidenza moderata che avrebbe segnato il Veneto ottocentesco. Fu merito suo, infatti, se l’Istituto seppe muovere i primi passi nella direzione giusta, realizzando una proficua mobilitazione dei membri e, nel contempo, ottenendo l’appoggio del governo. Celeste o calcolata che fosse questa corrispondenza d’amorosi sensi, essa venne tuttavia spazzata via per sempre dagli avvenimenti quarantotteschi.

Non che l’Istituto, chiuso nel suo conformismo scientifico, vi partecipasse in prima linea, tanto più che la presidenza del filoaustriaco Menin cercò fino all’ultimo di non assecondare quanto andava maturando fuori delle mura del Palazzo; tuttavia qualche concessione alle novità dei tempi si dovette pur farla: questo avvenne quando la congregazione municipale — dato che Venezia non aveva università — decise di appoggiare all’Istituto e un poco anche all’Ateneo l’organizzazione del IX congresso degli scienziati, i cui lavori si protrassero dal 14 al 29 settembre 1847(14). A Venezia giunsero la bellezza di 1.478 congressisti, ivi compresi quasi tutti i membri della classe scientifica dell’Istituto; accanto alla partecipazione individuale non mancò un’iniziativa ufficiale del sodalizio, che volle affiancarsi alle pubblicazioni della miscellanea Venezia e le sue lagune e della Bibliografia veneziana di Cicogna con un personale contributo, che fu il Panteon Veneto. Questo progetto, varato nella seduta del 31 gennaio 1847, si rifaceva esplicitamente alla realizzazione romana di Canova ed intendeva onorare i grandi veneziani con busti marmorei da ospitare nelle logge di Palazzo Ducale; il quale Palazzo ne era sempre stato privo, in omaggio a quel rifiuto del culto della personalità che aveva contraddistinto la Serenissima. Enti e privati risposero in buon numero all’appello e si offrirono di sostenere le spese, un poco per amor patrio, un poco per spirito di emulazione. Nel 1847 furono collocati i primi diciassette busti (per lo più artisti o scienziati), in questa successione: Pietro Bembo, Giovanni Poleni, Enrico Dandolo, Paolo Paruta, Paolo Sarpi, Apostolo Zeno, Marco Foscarini, Gasparo Gozzi, Antonio Canova, Vincenzo Scamozzi, Benedetto Marcello, Francesco Morosini, Carlo Goldoni, Bernardino Zendrini, Giovanni Arduino, Lazzaro Moro, Galileo Galilei(15).

Poi i tempi precipitarono e venne la Repubblica di Manin; con tutta la sua prudenza, il quasi omonimo abate Ludovico Menin, allora presidente, non poté procrastinare oltre il 3 aprile ’48 l’adesione dell’Istituto al governo provvisorio veneziano; quanto ai suoi membri, il loro comportamento presenta una vasta gamma di varianti, che vanno dalla partecipazione piena e convinta di un Ludovico Pasini o di un Pietro Paleocapa (che fecero anche parte del governo rivoluzionario) al netto rifiuto dell’austriacante Zantedeschi.

Di fatto, l’attività dell’Istituto rimase sospesa per due anni (30 aprile 1848-26 maggio 1850), giacché il ritorno dell’Austria non coincise affatto col ripristino dell’ordine precedente. Non ci fu, insomma, il colpo di spugna così caro all’italico costume: la repressione fu durissima, dal momento che Vienna avvertì come tradimento l’adesione alla causa nazionale di quella ch’essa poteva non senza ragione ritenere una creatura propria. Questo significò l’espulsione dall’Istituto di otto membri (Giuseppe Bianchetti, Francesco Cortese, Gherardo Freschi, Giuseppe Meneghini, Giovanni Milani, Giovanni Minotto, Pietro Paleocapa, Ludovico Pasini); e quando venne fatto presente a Radetzky che così depauperato l’Istituto non avrebbe potuto far fronte alle sue numerose incombenze (si pensi solo alla difficoltà di formare le commissioni), egli rispose in termini che più chiari non si poteva: «Apprezzo moltissimo [così scriveva da Verona, il 19 marzo 1850, al luogotenente Puchner] le scienze ed i loro cultori, ma nelle attuali circostanze assai più mi cale la politica tranquillità delle provincie di questo Regno, dalla grazia di Sua Maestà confidate alla mia tutela»(16).

Pertanto, se non fu la paralisi ci si andò vicino, specie se consideriamo i tempi lunghi, lunghissimi con i quali il governo procedeva alle nomine di nuovi soci, al punto che nel ’54 l’organico si ridusse a soli diciannove membri, molti dei quali vecchi o malati o comunque non sempre presenti alle riunioni. Furono anni di ripiegamento, di silenzio, causato anche da un nuovo e per l’addietro impensabile controllo amministrativo da parte delle autorità, che decurtavano i bilanci, che vagliavano le spese, che richiedevano continue delucidazioni, riformulazioni di relazioni e programmi, che giunsero persino a sottrarre taluni spazi (come le sale del Piovego e del Consiglio dei dieci) all’attività dell’Istituto. Sicché furono pure anni di umiliazioni servili, come l’assistere collegialmente, ogni 18 agosto, alla solenne funzione nella basilica marciana per il genetliaco dell’imperatore; o l’attestazione di totale fedeltà alla monarchia asburgica che venne espressa, dopo l’attentato di Libényi, da una delegazione dell’Istituto recatasi per le poste a Verona a manifestare all’invitto Radetzky l’angoscia in cui l’insano gesto aveva gettato un sodalizio che, come ognun sapeva, era «legato all’austriaca regnante dinastia da quell’affetto intimo ed inalterabile che è proprio di una fede leale che la riconoscenza conferma, e che ispira lo stesso culto delle scienze e delle lettere che è il culto dell’ordine, la devozione alle virtù che ne sono il presidio, e l’aborrimento da ogni empio disegno che tenda a sconvolgerlo»(17).

Ci volle quasi un decennio per superare, almeno in parte, le lacerazioni provocate dal ’48; bisognò attendere che Radetzky si facesse da parte e subentrasse il liberaleggiante arciduca Massimiliano, che varò un’amnistia e giocò la carta di un rafforzamento del prestigio dell’Istituto suggerendo un progetto di riunione in un sol corpo dei due esistenti a Milano e a Venezia; inoltre egli avrebbe voluto farvi confluire le Accademie di Belle Arti e riaffidare ad esso la supervisione dell’istruzione superiore ed universitaria: un compito, quest’ultimo, previsto dal regolamento napoleonico, ma mai applicato in età austriaca.

Questo avveniva nel ’57-’58; senonché a troncare le illusioni di Massimiliano sopraggiunse la seconda guerra d’indipendenza, al termine della quale il Veneto rimase austriaco, ma psicologicamente ormai il regime vi fu avvertito come precario e totalmente innaturale: sicché gli anni ’59-’66 furono, per così dire, di attesa; si aspettava un evento che tutti percepivano ormai come ineluttabile.

Fu gran ventura allora, per l’Istituto, poter contare sull’eccezionale segreteria di Giacinto Namias, prolungatasi per quasi un ventennio, dal ’55 alla morte, avvenuta nel ’74; assai più dei presidenti (per solito vegliardi illustri, ma condannati da una presenza necessariamente rapsodica ad incidere marginalmente nella vita concreta dell’Istituto), sarebbe stato quest’ebreo veneziano, medico e studioso di notevole levatura, ad assolvere il compito di traghettare l’Istituto in anni non facili dall’Austria all’Italia, a difenderne il prestigio, ad elevarne la qualità dei lavori e delle iniziative culturali (a titolo di esempio basti ricordare che, grazie ad un’intelligente politica di scambi da lui potenziata, nel marzo 1860 i periodici presenti nella biblioteca dell’Istituto raggiungevano la bella cifra di 202).

Tra le iniziative dell’Istituto, da ricordare le molte indagini (inizialmente sollecitate dal governo) relative alle analisi delle acque minerali vicentine di Recoaro, Civillina e Valdagno, protrattesi dal ’46 al ’79, i cui risultati sono puntualmente e diffusamente riportati negli «Atti»; di grande interesse, inoltre, l’inchiesta sulla pellagra condotta nelle province venete tra il 1848 ed il 1858, il cui ingente materiale è conservato nell’archivio dell’Istituto, in attesa di uno studio che certamente contribuirà ad una miglior conoscenza della società rurale veneta attorno alla metà del secolo(18).

Naturalmente non mancarono fallimenti o delusioni nella vita del sodalizio: talune iniziative, ad esempio, dimostrarono tutto il loro anacronismo, come il progetto di una sorta di descrizione delle province venete, articolata per settori (agricoltura, archeologia, belle arti, chimica, economia, nautica, ecc.), avanzato dall’ottuagenario Giovanni Scopoli nel ’53; allo stesso modo, da registrare la sospensione dei premi industriali (protrattasi dal ’59 al ’68 e ripresa poi con difficoltà), causata dal proliferare di altre e ben più organizzate esposizioni: intendo quelle di respiro internazionale che vennero allestite a Londra (1851), poi a Parigi (1855) e via via susseguentisi con progressione gagliarda e sempre maggiori ambizioni(19). A questo punto, dunque, quale contributo avrebbero potuto offrire allo sviluppo tecnologico ed economico di un mondo interessato da una fortissima accelerazione in tutti i campi della società organizzata, gli angusti e poco praticabili spazi di Palazzo Ducale? Si pensò (giugno ’66) di trasformare l’esposizione connessa alla premiazione dei prodotti industriali in una sorta di museo permanente, e su iniziativa di Namias venne chiamato a dirigerlo Enrico Filippo Trois. Più tardi la consuetudine dell’esposizione-premiazione riprese, ma Trois sarebbe rimasto nell’Istituto a cui avrebbe legato la propria esistenza, contribuendo più di qualunque altro all’incremento di quelle raccolte naturali (soprattutto zoologia, ittiologia e flora venete ed adriatiche) che ancor oggi rappresentano la parte storicamente più significativa del Museo di Storia Naturale di Venezia.

Dall’annessione alla Grande guerra (1866-1918)

L’ingresso del Veneto nel Regno d’Italia fu accolto con entusiasmo (in parte spontaneo, in parte sollecitato) dai veneti; per Venezia soprattutto sembravano finalmente schiudersi rosee prospettive, sia per l’imminente apertura del canale di Suez, che poteva rilanciarla nella storica e non mai dimenticata funzione di intermediatrice tra Europa e Oriente, sia perché adesso poteva sentirsi libera di assumere nuove iniziative imprenditoriali, specie nei confronti di Trieste. Lo scorcio degli anni Sessanta ed i primi Settanta furono segnati dal dinamismo di Luigi Torelli, dall’intelligente solerzia di Namias, dalla nascita della Querini Stampalia, ma furono anche quelli in cui vennero a manifestarsi i tarli che avrebbero minato l’esistenza stessa dell’Istituto: le restrizioni finanziarie di un Ministero perennemente volto a limare le sue sovvenzioni; la concorrenza che alla centralità della sua funzione opponevano organi sia nazionali come l’Accademia dei Lincei (ristrutturata nel ’70, ampliata nelle sue funzioni nel ’75), sia locali come la nuova Scuola Superiore di Commercio (Ca’ Foscari, 1868) o la Deputazione di Storia Patria (1874) o, più tardi, la Biennale (1895); oppure ancora l’inarrestabile moltiplicarsi delle specializzazioni scientifiche in ambito universitario (nel ’76 venne istituita a Padova la Scuola di applicazione per ingegneri, ossia l’attuale facoltà di Ingegneria, cui l’Istituto avrebbe donato, nell’81, le macchine del vecchio Gabinetto tecnologico: gesto che — sommato ad identica operazione condotta nel ’74 a beneficio dell’Osservatorio meteorologico del Seminario patriarcale di Venezia — ha il sapore d’una smobilitazione): ognuna di queste realtà finì insomma per togliere qualcosa all’Istituto. Era il suo ruolo scientifico a scapitarne, incalzato dal proliferare degli studi e delle scoperte, dal trionfare del positivismo e dello scientismo. Logico quindi che, in tale contesto, l’Istituto tendesse a diventare accademia, a sostituire la pratica con la teoria, le «arti» insomma con le conferenze e la carta stampata, abbandonando poi le scienze naturali e la fisica a vantaggio della storia e della letteratura. Donde la perdita — all’italiana: strisciante, non certo ufficializzata — del suo ruolo di consulente scientifico del governo, e la progressiva disaffezione dei soci. Ad evitarne una fine ingloriosa (o quantomeno un ridimensionamento, com’ebbe a verificarsi per il gemello Istituto lombardo) sopraggiunsero due punti di forza verso la fine del secolo: l’emergere, fra i suoi membri, di una pattuglia di grandi figure (anche in sintonia con la fioritura che in quel torno di anni conosceva l’Ateneo patavino), da Lampertico a Morpurgo, Rossi, Luzzatti, Tamassia, Veronese, Molmenti, Minich; poi l’eredità di quest’ultimo, che nel ’93 lasciava all’Istituto tutta la sua sostanza. Un tocco squisito, tanto più che si trattava di patrimonio rispettabile eccome per quantità e qualità.

Ma andiamo con ordine. L’essere italiani rese agevolissimi i rapporti con il superiore Ministero, eccettuati beninteso quelli economici; subito rientrarono nell’Istituto gli ultimi esuli quarantotteschi (Cortese, Freschi, Meneghini, Minotto, Pasini e Paleocapa), mentre ne veniva espulso Giovanni Veladini, imposto dall’Austria; poi il venir meno della censura contribuì grandemente a semplificare il meccanismo delle nuove cooptazioni, accelerandone i tempi, che da una media di sei mesi si ridussero a due; ancora, non pochi membri del sodalizio furono chiamati a ricoprire cariche pubbliche (assessori, sindaci, deputati, senatori, anche ministri), e questo naturalmente finì per far ricadere sull’Istituto una serie di grandi e piccoli benefici, quali ognuno può ben figurarsi, in precedenza impensabili: diciamo che l’italico stellone riuscì in qualche modo a compensare le decurtazioni finanziarie imposte dai vari governi, fossero di destra o di sinistra, per cui si passò dalle L. 15.086 annualmente accordate sino all’anno accademico 1869/1870 alle 14.091 dell’anno successivo, e poi alle L. 13.600 del 1887/1888, alle 12.240 del 1893/1894.

A risollevare le sorti dell’Istituto sopravvennero, come accennavo poc’anzi, due felici avvenimenti. Il primo è del ’69, e consiste nella creazione della Fondazione Querini Stampalia, voluta per testamento dall’ultimo esponente dell’antico casato, il conte Giovanni. Con quest’atto Querini devolveva tutto il suo patrimonio ad un duplice scopo: provvedere di sussidi talune famiglie povere dei suoi contadini (quasi tutte le sue terre erano situate tra Mestre e Jesolo), e creare nel suo palazzo veneziano quella biblioteca — tuttora esistente — con orario pomeridiano, serale e festivo, onde favorire il processo di acculturazione dei lavoratori(20).

Ebbene, forse per suggerimento di Namias il conte affidò all’Istituto Veneto la soprintendenza della nuova Fondazione, il che tra l’altro comportava la gestione di un annuo concorso dotato della bella somma di L. 3.000; in pratica questo consentì all’Istituto di scaricare sulla Querini talune spese e per diversi anni rappresentò quasi una sorta di riserva di cassa per far fronte a iniziative proprie; naturalmente non mancarono contrasti fra le due realtà(21), ma per concludere va dato atto all’Istituto di avere avuto il merito, nel 1902, di aver salvaguardato le finalità culturali della Fondazione, che tendeva sempre più a risolversi nella sua componente assistenziale.

Ma fu soprattutto il lascito di Minich a salvare l’Istituto. Primario di chirurgia all’Ospedale civile di Venezia, Angelo Minich (1817-1893) gli lasciò un’eredità di oltre 800.000 lire, pari alla dotazione ministeriale di cinquantatré anni e passa. Inoltre — ma soprattutto — si trattava di beni liquidi, capitali fruttiferi, azioni che contemplavano l’unica fatica di ricordarsi di staccare, di tanto in tanto, la cedola. In altri termini, diversamente da altre fondazioni poggianti su proprietà immobiliari costituite da campi e case soggette a tasse, a restauri, a spese di conduzione e di gestione, ad affitti non di rado corrisposti in ritardo o addirittura inesigibili se non a prezzo di grandi difficoltà, il lascito Minich non comportava alcuna spesa; merito della presidenza dell’Istituto fu poi quello di incrementarlo con abili investimenti, mantenendo fissa la scelta del settore creditizio; e sarebbero state soprattutto le Assicurazioni Generali ad accoglierne i capitali. Lungimirante e provvida si rivelò poi la decisione di elaborare uno specifico regolamento amministrativo per la costituita Fondazione Minich, per cui si evitarono dispersioni, si bloccarono le immancabili richieste di sovvenzioni avanzate dai membri sulla base di proposte progetti programmi elaborati in più breve tempo che non sarìa a dir tre paternoster; si spesero le rendite, insomma, e non si intaccò, se non marginalmente, il capitale.

Gli effetti del mutato clima che da allora si respirò nell’Istituto non tardarono a manifestarsi. Siccome il gran cuore dell’ottimo mecenate aveva disposto un gettone di presenza di 40 lire per ognuno dei membri che partecipasse alle sedute, di colpo molti riscoprirono quanto fosse bello tornare a prendervi parte (per far fronte al calo inarrestabile, a partire dall’anno accademico 1888/1889 si era dimezzato il numero delle adunanze ordinarie, riducendole ad una soltanto al mese), sicché da una media di diciassette presenze per adunanza fatta registrare nell’arco di tempo 1880/1881-1889/1890 si passò alle venticinque del successivo decennio. Ancora, l’aspetto attuale della sede di palazzo Loredan in campo S. Stefano (dove il 21 febbraio 1892 l’Istituto s’era trasferito, avendo inteso il governo di liberare Palazzo Ducale da ogni ufficio), palazzo Loredan, dicevo, fu in parte ristrutturato e arredato proprio grazie alla nuova disponibilità economica, che in qualche modo valse ad emancipare l’Istituto dalle magre sportule ministeriali; si distinse qui la competenza e la dedizione all’impresa dell’architetto Federico Berchet, che realizzò le belle scaffalature della biblioteca tuttora in uso e suggerì l’ammodernamento degli impianti, per cui nel ’96 la sede poté essere fornita di illuminazione a gas (sostituita con quella elettrica nel 1903), di caloriferi per riscaldamento ad acqua e di telefono.

Tuttavia, se il gesto di Minich salva l’Istituto, non ne impedisce la trasformazione in atto: i membri — anche se partecipano alle adunanze — «leggono» sempre meno, ossia presentano pochi contributi per la stampa negli «Atti», a vantaggio dei soci corrispondenti o addirittura di studiosi esterni; l’Istituto, insomma, tende a divenire sempre meno il depositario del sapere, per assumere il ruolo di coordinatore della divulgazione scientifica. Inoltre prosegue inarrestabile l’affermazione delle materie umanistiche a scapito di quelle scientifiche, la qual cosa finisce per snaturare l’originaria peculiarità dell’Istituto: la storia, che nel ventennio 1850-1869 era al quinto posto con novantotto letture, nel trentennio 1870-1899 balza al secondo subito dopo le scienze naturali, per raggiungere la vetta della classifica nel periodo 1900-1919, con duecentotrentuno letture, pari al 16,7% del totale.

Di pari passo il membro dell’Istituto finì per non sentirsi più soltanto uno scienziato; come osservava Brognoligo, la sua figura «sotto l’influsso dei tempi nuovi venne via via spogliandosi della solenne veste accademica per prender quella più lieve e più semplice dello studioso moderno»(22). Eppure, nonostante tutto, l’Istituto mantenne sempre un proprio stile condito d’una certa aulicità, derivante anche da un oggettivo distacco dalla città di Venezia, con cui — diversamente dall’Ateneo — non finì mai per identificarsi, pur partecipando a molte delle sue vicende (dal contributo offerto all’Osservatorio meteorologico del seminario, nel ’66, al fallito tentativo di realizzare un Acquario al primo piano di Palazzo Ducale nel ’73, allo studio delle maree lagunari avviato nel 1906 e di cui dirò tra qualche riga). A riprova della separazione esistente con la città si può ricordare la freddezza con cui l’Istituto accolse la nascita della Biennale d’arte, nel ’95, e l’iniziale contrasto con il suo esuberante segretario, Fradeletto(23).

Sotto l’incresparsi delle vicende storiche, l’Istituto continuava infatti, almeno formalmente, a mantenersi fedele a se stesso ed alle sue originali funzioni; gli anni accademici si susseguivano, la scomparsa dei vecchi soci veniva compensata dalle nuove cooptazioni; si nominavano le commissioni per rispondere alle richieste di qualche ente; le giunte ordinarie seguitavano ad occuparsi con maggiore o minor convinzione delle proprie incombenze statutarie; la biblioteca, irrobustita dai 6.000 volumi di scienze mediche lasciati da Minich, continuava il suo servizio pubblico e privato. Ancora, le premiazioni industriali si succedettero, pur con qualche interruzione e con modalità e denominazioni diverse; i concorsi scientifici conobbero addirittura un incremento, grazie al moltiplicarsi di lasciti eretti in Fondazione e gestiti dall’Istituto (Balbi Valier, Tomasoni, Cavalli, Forti, Papadopoli, oltre a Querini Stampalia e Minich) e la loro scelta fu sempre legata all’attualità scientifica e politica, sicché il loro esame comparato potrebbe suggerire interessanti riflessioni sull’evolversi delle vicende politiche sociali economiche nel periodo considerato; sto pensando in particolare alla disputa Rossi-Luzzatti del 1878, scaturita dal dibattito allora in corso tra politica liberoscambista e protezionista, che vide l’imprenditore scledense offrirsi di raddoppiare il premio di tasca sua, qualora l’Istituto avesse optato per il quesito da lui proposto, ma contestato da Luzzatti(24).

Infine vorrei ricordare le due più belle iniziative varate dall’Istituto prima della Grande guerra, che sono poi due autentici fiori all’occhiello della sua storia: la missione Gerola e le ricerche lagunari di Magrini.

La prima ha un po’ il fascino dell’avventura. Si tratta di questo: considerato il rapido degrado dei monumenti lasciati dai veneziani a Creta nel corso di quattro secoli e mezzo di dominazione, l’Istituto inviò nell’isola, fra il 1900 ed il 1902, il ventitreenne Giuseppe Gerola munito di macchine fotografiche, muli e cavalli; il giovanotto (più tardi sarebbe divenuto soprintendente per i beni artistici del Trentino) percorse l’isola in lungo e in largo per la maggior gloria della storia e della cultura, non senza acquistarsi ottima fama presso quelle ragazze poiché era un bell’uomo; tornò in patria con 450 calchi in gesso e 1.500 fotografie, oltre a gran copia di appunti disegni schizzi che avrebbe poi consegnato ai cinque ponderosi volumi dei Monumenti veneti nell’isola di Creta, che oggi costituiscono l’insostituibile testimonianza di un patrimonio culturale in buona parte scomparso.

Infine Magrini. Tutto ebbe inizio con l’inaugurazione della Stazione marittima veneziana (1° marzo 1880), che aveva comportato l’escavo del canale portuale di Malamocco e — soprattutto — prevedeva come necessario l’ampliamento della bocca di porto di S. Nicolò, per far passare navi di grande tonnellaggio. La questione non era solo tecnica, ma — come oggi si direbbe — ecologica: si trattava di appurare se i nuovi fondali sarebbero stati compatibili con la tutela dell’equilibrio lagunare, cui la Serenissima aveva provveduto con uno dei suoi ultimi atti: la Conterminazione lagunare, provvida operazione realizzata nel 1791; sennonché ora le navi erano di ferro, pescavano molto e arrivavano sin dall’Estremo Oriente, grazie al canale di Suez(25).

La querelle avrebbe accompagnato tutto il XX secolo e oggi più che mai gode di buonissima salute; ma per venire all’oggetto del presente discorso, gli studi elaborati da apposita commissione ministeriale sfociarono in un disegno di legge del 24 aprile 1898 che metteva un po’ d’ordine nell’intrico legislativo concernente la laguna, penalizzando gli abusi troppo scoperti di vallicoltori e pescatori (nihil sub sole novi: anche oggi gli inseguimenti in laguna, ad opera di carabinieri e finanzieri, di «capparozzolanti» abusivi sfreccianti su barchini truccati da far piangere gli albanesi sono all’ordine del giorno; e quando le forze dell’ordine se ne stan buone, a vivacizzare l’ambiente — di per sé monotono, questo va detto — provvedono le sparatorie di pellestrinotti e chioggiotti). Ebbene, sedeva allora fra i membri dell’Istituto Giuseppe Veronese, matematico insigne e deputato di Chioggia (patria quant’altre mai ferace di barcaroli e pescatori), che subito insorse a tutela dei suoi elettori; ne nacque una commissione di studio i cui risultati furono ampiamente propagandati dall’Istituto a mezzo stampa. Veronese agì da par suo anche a Roma; con Pelloux ebbe vita facile, dato l’ostruzionismo parlamentare che ne condizionava il governo; poi con i gabinetti Saracco e Zanardelli riuscì a far modificare nel senso da lui voluto il primitivo disegno di legge. Intanto l’Istituto s’era dato una commissione permanente per lo studio dei problemi lagunari che aveva elaborato un ampio programma di ricerche; il merito di darvi attuazione fu di un personaggio per molti aspetti eccezionale: il veneziano Giovanni Magrini.

Un giovane sconosciuto, come una manciata d’anni prima era stato Gerola; nel 1905 era tenente d’artiglieria presso l’Istituto Geografico Militare e, venuto a conoscenza del programma dell’Istituto Veneto, si rivolse ad esso chiedendo un finanziamento per studiare le maree lagunari. Ottenne 5.000 lire, con cui provvide all’acquisto degli strumenti indispensabili, mareografi e mareometri che furono collocati in diversi punti della laguna. I risultati dei suoi studi furono raccolti in dodici volumetti di Ricerche lagunari, stampati tra il 1906 ed il 1909; dopo di che i mareografi ed altro materiale furono donati al nuovo magistrato alle Acque, nato il 15 maggio 1907 su iniziativa (stavolta benemerita appieno) di Veronese.

La bella opera di Magrini non rimase episodio isolato, ma diede vita ad un preciso settore d’interesse per l’Istituto che, se non volle mai risolversi entro il recinto urbano veneziano, dimostrò grande attenzione, negli ultimi cent’anni, per la laguna: da Magrini alla proficua collaborazione col magistrato alle Acque su su fino a Francesco Marzolo, Augusto Ghetti ed alle odierne iniziative, talché si può parlare di un binomio Istituto-laguna: si può dire infatti che non ci sia convegno, studio, programma o intervento che riguardi la laguna veneta da cui sia assente palazzo Loredan.

Finisce qui, con le luminose imprese di Gerola e Magrini la storia ottocentesca dell’Istituto, poi costretto dallo scoppio della prima guerra mondiale (anzi, da Caporetto) a trasferirsi a Roma, ospite dell’Accademia dei Lincei. Era anch’esso ormai divenuto accademia, in sintonia con il venir meno della sua primitiva funzione di centro di promozione culturale e con la trasformazione della figura stessa del membro-scienziato, sublimata in quella di semplice studioso. Tuttavia alcune costanti il sodalizio le avrebbe mantenute inalterate nel tempo: un suo peculiare stile, poggiante sulla consapevolezza della superiorità culturale rispetto ad altri consimili istituzioni e garantito dal reclutamento dei membri soprattutto nel serbatoio dell’Università patavina; il distacco da particolari radici territoriali; la prevalenza — nonostante tutto — delle imprese scientifiche rispetto all’area umanistica. Naturalmente questo fu reso possibile da una duplice realtà venutasi a determinare a fine secolo: l’eredità Minich e la presenza, fra i membri dell’Istituto, di talune personalità di assoluto rilievo.

2. L’Ateneo Veneto

La nascita dell’Ateneo Veneto va ricondotta a quello stesso decreto napoleonico del Natale 1810 che prevedeva l’attivazione dell’Istituto Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti; l’art. 17, infatti, stabiliva che in ogni dipartimento del Regno ci sarebbe stata una sola accademia culturale, denominata Ateneo. In altri termini, si doveva realizzare una concentrazione del sapere in un unico organismo, accorpando le varie istituzioni preesistenti, sia scientifiche che umanistiche.

A Venezia, passata la tempesta dei primi anni seguiti alla caduta della Repubblica, non mancarono dei tentativi di ricreare una parvenza dell’antica rete culturale accademica; in fondo, gli uomini, l’esperienza, le consuetudini, i tipografi ed i librai mica s’erano dissolti dall’oggi al domani (nel ’97, anzi, avevano fornito gagliarda prova di sé); perché allora non cercare di recuperare almeno qualche frammento di una secolare tradizione?

A parte il Collegio Falloppiano — sorto giusto nel ’97 e destinato a lunga vita, in grazia degli indolori umori berneschi sui quali faceva affidamento —, già nel 1799 s’era formata l’Accademia dei Patrologi, dietro iniziativa di un gruppo di sacerdoti che si prefiggevano lo studio della patristica (si trattava di déracinés, di ecclesiastici un tempo impiegati nelle pubbliche scuole o come precettori privati). S’erano poi avuti i Sibillonisti (1800), costituiti per iniziativa del notaio Ruggero Mondini e composti per lo più da giuristi che amavano discettare di letteratura; quindi (1° gennaio 1803) avevano iniziato ad operare ben due accademie: la Morale, costituita da trenta ecclesiastici che si riunivano a S. Samuele, sotto la guida di don Giorgio Martinelli; e l’Accademia Veneta Letteraria (inizialmente denominata dei Giovani), che raccoglieva la parte migliore di ciò che restava dell’antico milieu culturale della Serenissima (ne facevano parte Bartolomeo Bevilacqua, Ubaldo Bregolini, Melchiorre Cesarotti, Matteo Dandolo, Carlo Gozzi, Carlo Antonio Marin, Jacopo Morelli, Ippolito Pindemonte); milieu già bastantemente uniformatosi agli umori dei nuovi padroni. Il loro programma prevedeva infatti che nel corso delle riunioni si sarebbero trattati «soltanto quegli argomenti in lingua italiana o latina che appartengono all’amena letteratura, proibiti restando quelli che mai riguardassero religione o politica, i quali non potranno anzi essere proposti»(26). Erano poi sorte l’Accademia dei Filareti (1804) su impulso del conte Francesco Cattaneo (ne fece parte il bibliotecario della Marciana, Jacopo Morelli); quindi quella dei Sofronimi, fondata da don Giovanni Bellomo, docente presso il liceo «S. Caterina». Questi ultimi (i Sofronimi) e l’Accademia Veneta Letteraria si unirono ben presto per dar vita (1805) all’Accademia Veneta di Belle Lettere, che anticipava nel nome la complementare Accademia di Belle Arti, fondata dal viceré Eugenio con i decreti del 27 novembre 1806 e 12 febbraio 1807 (rinvio in proposito al saggio di Giandomenico Romanelli, in questo stesso volume). Breve vita e angusto respiro ebbero poi l’Accademia di Scienze e Lettere, voluta all’interno del liceo «S. Caterina» da quel rettore, Antonio Traversi; e quindi l’Accademia degli Invulnerabili, istituita nel 1811 dall’abate Giovanni Piva e destinata all’educazione dei giovanetti.

Queste iniziative, come si è anticipato, furono ridimensionate (e non ci voleva molto) o addirittura soppresse quando alla fine del 1810 Napoleone stabilì che tutte le società accademiche (eccettuate quelle di belle arti) presenti in ogni provincia si unissero per dar vita ad un unico organismo: nasceva così l’Ateneo Veneto, nel quale confluirono le accademie dei Filareti, di Belle Lettere e la Società di Medicina. Quest’ultima merita un cenno, per esser la più antica e solida di tutte; l’avevano fondata nel 1789 due medici, Andrea Valatelli e Pietro Pezzi, e si era subito dimostrata vitale, ottenendo il ruolo di consulente scientifico del governo (prese parte alla compilazione del Codice farmaceutico della Repubblica, uscito nel 1790), che le assegnò anche una sede presso le scuole degli ex gesuiti alle Fondamenta Nuove; soppressa dall’Austria nel ’98, fu ripristinata dal viceré Eugenio il 5 settembre 1807, quindi (25 gennaio 1808) insediata nella soppressa scuola di S. Girolamo a S. Fantin; il 26 agosto dello stesso anno, il segretario, dottor Francesco Aglietti, otteneva il permesso di formare una biblioteca prelevando dagli avanzi delle librerie demaniali i testi attinenti agli studi medici, che andarono ad unirsi ai busti dei più famosi clinici veneziani che la Società era già riuscita a farsi donare(27). Con queste premesse, e sentendosi corporazione forte, è comprensibile che i soci avvertissero come il fumo negli occhi l’idea di confondersi con accademie più recenti e di tutt’altra natura, per cui il 17 marzo 1811 Aglietti chiedeva al viceré la grazia di un’autonoma sopravvivenza per una società che si voleva discendente diretta del Collegio dei medici fisici, il quale risalendo al XIV secolo poteva dirsi la più antica accademia scientifica d’Europa.

Fu tutto inutile, perché di lì a poco la prefettura ordinava l’accorpamento alla Società Medica delle accademie dei Filareti e di Belle Lettere; la prima adunanza si teneva pertanto nella sede di S. Fantin il 12 gennaio 1812: presidente fu acclamato Leopoldo Cicognara, segretario della classe scientifica Aglietti, di quella letteraria l’abate Mauro Boni, di quella delle arti un professore del liceo «S. Caterina», Francesco Dupré. L’Ateneo infatti, come altre consimili istituzioni, ricalcava la struttura dell’Istituto Nazionale; come questo si articolava in tre classi (scienze, lettere, arti), ma con maggior elasticità — derivante dalle diverse funzioni — si apriva maggiormente all’esterno, risultando composto da un certo numero di soci ordinari, soprannumerari, onorari, esterni e corrispondenti; in tutto 388 anime, così distribuite: 164 a Venezia, 68 nel resto del Veneto, 101 nelle altre regioni italiane, 55 all’estero; le riunioni private si tenevano ogni giovedì dal 15 novembre a tutto agosto; a novembre e a maggio erano previste due sessioni aperte al pubblico. Lo statuto riconosceva esplicitamente la superiorità dell’Istituto Nazionale sull’Ateneo; sia perché l’approvazione di tale statuto era stata demandata appunto all’Istituto, sia perché le memorie lette all’Ateneo potevano essere inoltrate all’Istituto per la pubblicazione solo dopo il rilascio di uno speciale «brevetto di approvazione» da parte della presidenza(28).

Presieduto da una personalità di grande prestigio quale fu Cicognara, l’Ateneo reclutava la maggior parte dei suoi soci dal ceto dei professionisti (medici, avvocati) o dai professori del liceo; diversamente dall’Istituto, i cui membri pensionati venivano ricompensati, i soci dell’Ateneo erano tenuti a contribuire personalmente alle spese di gestione, per la maggior parte costituite dalla pubblicazione delle memorie lette, o transazioni com’erano originariamente definite, dietro suggestione dell’inglese Royal Society.

Dopo questi promettenti inizi, analogamente a quanto ebbe a verificarsi con l’Istituto Nazionale, sopraggiunsero anni di crisi, in conseguenza dell’arrivo degli austriaci. È vero che l’Ateneo fu conservato, ma a quali condizioni possiamo facilmente immaginarlo dalla risposta che l’imperatore Francesco I diede all’indirizzo di saluto che gli era stato premurosamente rivolto: «Non vi domando scienze, vi domando religione e moralità, sudditanza fedele attaccata alla mia persona».

Oddio, per esser chiaro era chiaro eccome, tanto che ne seguì il disfacimento dell’ancor giovane Ateneo; al pari dell’Istituto, esso era una creatura napoleonica, e come tale andava trattata. Il 25 gennaio 1816, nel tentativo di assicurare la continuità dell’accademia, Aglietti fu designato per acclamazione segretario perpetuo; ma inutilmente, ché l’anno successivo Cicognara gettava la spugna e lasciava la presidenza; dopo altre rinunce, finalmente Aglietti prese su di sé l’onore e l’onere, trovando appoggio nella segreteria, opportunamente affidata ad un altro medico, l’agordino Paolo Zannini. Questi cercò nel ’20 di attivare un Gabinetto di lettura, che però ebbe vita grama, al pari dell’economia e della vita sociale dell’intera città, che negli anni Venti del secolo conobbe uno dei periodi più critici; sicché per trovare la prima raccolta delle «Esercitazioni scientifiche e letterarie dell’Ateneo di Venezia» si sarebbe dovuto attendere il 1827.

Poi giunse la svolta del quarto decennio: nel ’30 il portofranco fu esteso all’intera città, nel ’31 arrivavano le Assicurazioni Generali, nel ’33 si apriva uno stabilimento balneare alle Zattere, vicino alla Punta della Dogana, e intanto i turisti aumentavano (pare che, in occasione della visita a Venezia dell’imperatore, nel ’38, ne arrivassero 30.000) e nel ’39 nasceva la Società di Commercio. Spariva intanto la generazione settecentesca dei Cicognara, Pindemonte, Renier Michiel, della Teotochi Albrizzi, di Vittorelli, e subentravano a poco a poco altri nomi, quelli di Luigi Carrer, Emmanuele Antonio Cicogna, Girolamo Dandolo, Agostino Sagredo. E così, quasi insensibilmente, giorno dopo giorno la natura stessa dell’Ateneo, e la sua funzione, presero a trasformarsi, abbandonando gli aspetti più propriamente accademico-letterari a vantaggio di contenuti apparentemente forse meno ambiziosi, ma certamente più concreti e vicini alla realtà cittadina. Naturalmente fu un processo lento: lo stile aulico della prolusione tenuta da  Cicognara nella seduta inaugurale del 21 novembre 1812 (fu scelto un giorno caro ai veneziani: la ricorrenza della Madonna della Salute) e la concezione elitaria che gli accademici avevano di sé e del loro ruolo sopravvissero almeno fino al grande tournant quarantottesco; è ben vero che una qualche apertura verso l’esterno s’era avuta dapprima con un progetto volto ad aumentare la superficie boschiva del Veneto, e poi nel ’33 (ancor prima dello scoppio dell’epidemia di colera del ’35-’36) con la nomina di una commissione (Emilio Campilanzi, Giovanni Casoni, Marco Corniani degli Algarotti, Stefano Marianini, Pietro Paleocapa) per studiare il problema del rifornimento idrico di Venezia, e questo in risposta a specifico invito rivoltogli dal comando di Marina; è altrettanto vero che nel ’38 aveva cooptato Alessandro Manzoni tra i soci onorari, compiendo così un gesto di innegabile valenza politica(29), ma non va taciuto che nello stesso 1838 — dieci anni dopo l’esperienza de «Il Conciliatore» — il vicepresidente Luigi Casarini attaccava pubblicamente il romanticismo come espressione di un capriccioso gusto esotico e additava nella classicità romana la fonte suprema dei più elevati valori, deposito indiscusso d’ogni eletta tradizione, incomparabile dimora del bello, sicura scorta al conseguimento della virtù e tutte queste cose qua(30).

Venne il ’48 ed il sodalizio ci fu dentro fino al collo. Ad anticiparne gli eventi c’erano stati il Congresso degli scienziati, la visita di Cobden, gli infiammati discorsi di Avesani, Manin e Tommaseo, tutti avvenimenti ospitati all’Ateneo, che si candidava in tal modo ad assumere la rappresentanza dell’impegno patriottico del milieu culturale cittadino(31). E così l’11 maggio del ’48 aveva inizio, ad opera di Samuele Romanin, il primo corso di storia veneta, destinato ad aprire una gloriosa ininterrotta tradizione; e così, nei giorni nefasti dell’assedio, la sede di S. Fantin fu generosamente aperta ad ospitare gli sfollati dei sestieri più esposti alle cannonate austriache, quasi recuperando per breve tempo la sua primitiva funzione.

Seguì la repressione, e furono anni di un silenzio segnato — in sintonia con gli umori locali — da progressiva presa di distanza dalle autorità austriache e da tutto ciò che esse rappresentavano(32). Nel ’55 si presero comunque a stampare gli «Atti» (sarebbero rimasti in vita con tale denominazione fino all’81); nel ’58 (ma solo per un biennio) Romanin poteva riprendere le sue lezioni storiche, nel ’59 Massimiliano consentiva la riapertura delle adunanze pubbliche. Deludente — al solito — la collaborazione con le autorità locali: nel ’60 l’Ateneo fu richiesto di fornir parere su un progetto di illuminazione a gas, ma la proposta elaborata dalla commissione nominata per la circostanza non trovò accoglienza pratica; ugual sorte incontrò la relazione sul traforo sabaudo del Fréjus, inoltrata tre anni dopo da quella direzione tecnica all’Ateneo, che intendeva divulgarla con manifeste finalità patriottiche; sicché le celebrazioni dantesche del ’65 furono l’unico successo pieno che la nostra accademia poté ascrivere a suo merito nel corso del terzo governo austriaco.

L’annessione all’Italia comportò per l’Ateneo suppergiù gli stessi problemi che abbiam avuto modo di osservare a proposito dell’Istituto Veneto: da un lato, maggior libertà di azione, rimozione dei condizionamenti derivanti dalla censura, piena confluenza nella collettività cittadina, di cui l’Ateneo diventa l’indiscusso centro culturale; dall’altro un certo scadimento della qualità degli studi, sempre monopolizzati dall’ambito storico-letterario, ma ora con forte accelerazione secondo l’imperante gusto nazionalista. E così quelli che seguirono al ’66 furono anni di retorica patriottica, di letture dantesche, del centenario petrarchesco, dell’inaugurazione del busto di Tommaseo (1874), degli studi umanistici, della ripresa in grande stile dei corsi di storia veneta grazie all’impegno dell’onnipresente Torelli, che per qualche anno riuscì anche ad ottenere uno specifico finanziamento statale.

Poche le novità di rilievo: nel ’77 si elabora un nuovo statuto; l’anno dopo viene riconosciuta all’Ateneo la qualifica di ente morale; nell’81 dalla trasformazione degli «Atti» nasce il periodico «L’Ateneo Veneto. Rivista Mensile di Scienze, Lettere ed Arti», aperto anche a contributi esterni; l’ultimo impegno infine, prima della Grande guerra, è costituito dai restauri dei locali del palazzo realizzati nel 1913, sotto la presidenza di Filippo Nani Mocenigo e a spese del Ministero per la Pubblica istruzione. Infine la guerra; rinnovando l’esperienza del 1848-1849, l’Ateneo aprì le porte alla Croce Rossa e ad altri comitati, ma senza interrompere la propria attività; solo dopo Caporetto fu decisa la chiusura, che non durò poi molto: dal 4 novembre 1917 al 23 dicembre 1918; ormai l’Ateneo era diventato una sorta di istituzione cittadina, una componente precisa di Venezia, ad un tempo sua anima e suo specchio(33).

3. La Deputazione veneta di Storia Patria

S’è detto che dopo l’Unità i contributi storici dimostrarono un forte incremento sia nell’ambito dell’Istituto Veneto che in quello dell’Ateneo: studi limitati alla storia locale, ai piccoli centri, o di maggior respiro attinenti alla Serenissima, in particolar modo a Venezia come Stato. Il fenomeno era generale, ma in area veneta il livello metodologico più elevato fu dato — come peraltro era naturale — da Padova, la cui Università poté contare sui nomi di Giuseppe De Leva e Andrea Gloria, al cui magistero si formarono generazioni di studenti (va ricordato però che ampiamente meritori erano stati, a Venezia, la grande opera miscellanea Venezia e le sue lagune, seguita dal generoso contributo di Samuele Romanin, ancor oggi fruibile con profitto: l’una e l’altro di ben altro valore rispetto alla pur formidabile raccolta delle Inscrizioni veneziane di Cicogna).

Ora, ad occuparsi per così dire statutariamente di storia, a Venezia c’era anzitutto l’Istituto Veneto, che sin dalle origini aveva dato vita ad una commissione permanente per l’antichità, benché le sue iniziative non avessero peccato per troppo vigore; poi veniva l’Ateneo, che dal ’48 aveva attivato specifici corsi di storia veneta aperti soprattutto ai giovani, riscuotendo buon successo.

Ma non bastava: l’imponente monumento che la Repubblica aveva lasciato di sé, la cui memoria storica era conservata nelle due grandi strutture della Marciana e dell’Archivio di Stato ai Frari, sollecitava un impegno costante non solo di studio, ma anche di pubblicazione, specie delle fonti; e questa finalità si rendeva sempre più manifesta e urgente a mano a mano che prendevano piede suggestioni positiviste. Ci volevano degli storici, dei paleografi, ma veneziani: la giunta dell’Istituto, infatti, era formata da rappresentanti delle diverse province, dunque non residenti in città e pertanto non sempre disposti ad intraprendervi indagini o iniziative di lunga durata; quanto all’Ateneo, la sua natura eclettica comportava una dispersione di forze e di interessi poco adatta ad un impegno specifico, continuo e necessariamente destinato a protrarsi nel tempo.

Occorreva dunque dar vita ad una società autonoma, ad una giunta o accademia pensata ad hoc. Sulle origini di quella che, dopo l’Unità, sarebbe stata la Deputazione di Storia Patria, possediamo l’attendibile testimonianza di Bartolomeo Cecchetti, peraltro non priva di reticenze. Ecco cosa scriveva nel 1872, quando ormai la nuova creatura stava per prendere forma:

Nel 20 gennaio del 1851 il cav. Fabio Mutinelli, direttore dell’Archivio Generale, proponeva alla Luogotenenza d’intraprendere la pubblicazione di documenti veneti. I carteggi furono lunghi e si protrassero alla fine del 1856. Fu sentito l’Istituto, nella commissione dei signori cav. Emanuele Cicogna ed ing. Giovanni Casoni, ai quali s’era aggiunto il marchese Pietro Selvatico. Addì 24 agosto del 1852 essi convennero colla Direzione dell’Archivio che la collezione da pubblicarsi si sarebbe denominata Raccolta di documenti storici relativi alla Repubblica Veneta, conservati nell’Archivio Generale di Venezia [...]. Ma a cosiffatta impresa mancava il fondamento poiché, mentre parlavasi di stampa, non s’erano neppur compilati gl’inventarii dei documenti da pubblicarsi. E qui non dirò per quali altri motivi le pratiche di sei anni rimasero allo stato di progetto. Nel 1864 il professore Andrea Gloria, il fu cav. Vincenzo Lazari e il fu conte Girolamo Dandolo tentarono di mettersi d’accordo per costituire una Società di storia patria. Ma, per motivi privati, anche quel tentativo non fu posto in atto. Il comm. Nicolò Barozzi nel 1867 tentò egli pure di costituire una società consimile, ma in onta alle sue buone intenzioni non poté riuscire che a raccogliere alcuni cultori di studii patrii, in un’adunanza. Né il fu comm. Gar, il quale nel 1869 pensò ad innestare nell’Ateneo una Deputazione di storia veneta, fu più fortunato. Si lesse e discusse uno statuto, si fecero anche alcune nomine, poi voti e speranze rientrarono nel nulla. Anche il conte Pierluigi Bembo aveva interessato nel 1868 il Ministero dell’istruzione pubblica a venir in aiuto ad una Società veneziana che si mirava ad istituire(34).

Insomma, chiacchiere senza costrutto: in fondo, mica una novità per Venezia. Ben difficile, d’altronde, che a ridosso del ’48 Mutinelli potesse ottenere dal governo il consenso e l’aiuto per un’impresa che alla fin fine si proponeva di illustrare e divulgare una storia della Serenissima facilmente fruibile in chiave antiaustriaca; in quel torno di anni Radetzky governava standosene a Verona, l’Istituto Veneto scontava la paralisi derivante da un organico gravemente depauperato, alla Marciana e all’Archivio entravano quattro gatti con uno speciale permesso; insomma, non c’erano le condizioni. Dopo il ’66, naturalmente, questi problemi vennero a cadere, ma gli ostacoli le remore le riserve sorsero proprio — e può sembrar paradosso — dalla rigogliosa fioritura in cui vennero a trovarsi gli studi storici, allora sulla cresta dell’onda. L’Istituto e l’Ateneo guardarono infatti con sospetto al sorgere di un nuovo organismo, che in qualche modo avrebbe sicuramente tolto loro qualcosa (come in fondo stava avvenendo con la nascita della Scuola Superiore di Commercio a Ca’ Foscari, nel ’68, e della Fondazione Querini Stampalia, nel ’69): né va dimenticato che tra il 1867 ed il 1874 l’Istituto ebbe come presidenti degli storici, per professione o per amore: Pietro Canal, Tommaso Gar e Giovanni Cittadella(35). Qualche possibilità di riuscita sembrò manifestarsi nel ’68 — come si è visto — ad opera di Gar e Fulin, per creare una specifica giunta all’interno dell’Ateneo, ma neanche stavolta il tentativo andò in porto.

Solo nel ’71 Adolfo Bartoli e Rinaldo Fulin, colleghi a Ca’ Foscari, riuscirono a dar vita all’«Archivio Veneto», un periodico destinato a diventare la spina dorsale della storiografia regionale(36). Dopo di che la strada si fece improvvisamente in discesa: due anni dopo, con la collaborazione del ministro Scialoja e del prefetto Mayr, si avviavano pratiche concrete per la costituzione della Deputazione, che nacque finalmente nel ’74, nonostante la precarietà delle risorse finanziarie ed il mancato soccorso da parte dell’Ateneo e dell’Istituto Veneto(37).

Essa si guadagnò rapidamente una propria funzione cui non avrebbe mai più rinunciato: quella di pubblicare fonti, saggi, testi di comprovato valore scientifico, ma dei quali nessun editore avrebbe accettato di farsi carico, in quanto privi di mercato.

Perciò la Deputazione ha sempre conservato un proprio stile: oggi come allora, infatti, essa non organizza conferenze, non promuove dibattiti o convegni; strumento del suo agire è la penna, non la parola. Eppure, sin dalla nascita, la sua presenza è stata apprezzata da quanti si sono occupati di storia veneta: credo siano ben pochi coloro che insegnarono la storia nelle università della nostra regione, i quali non abbiano compiuto parte del loro tirocinio nella rivista della Deputazione.

Questa sua vocazione fu evidente sin dalla prima traccia assegnatale da Fulin e da Bartoli: ecco allora le grandi imprese editoriali dei regesti dei Libri commemoriali curati da Riccardo Predelli, dei Diarii di Marin Sanudo, delle Antiche cronache veronesi, della lunga serie dei Monumenti e della Miscellanea di storia veneta.

L’amara considerazione di Cecchetti, che nel dicembre 1867 lamentava: «dobbiamo confessare pur troppo che agli studi storici da parecchi anni assai poco si pensa; e gli archivi e i musei sono considerati istituti di lusso, nei quali vada a morire ogni pubblico e privato interesse»; questa triste riflessione, dicevo, sarebbe stata clamorosamente smentita nel breve spazio di un decennio(38).

4. Conclusione

L’Istituto Veneto era stato concepito secondo canoni che corrispondevano all’attivismo napoleonico, ma non sempre apprezzati o attuabili nelle epoche successive; in particolare il ruolo di consulente governativo mal si adattava alle prudenze e ai tempi lunghi della burocrazia austriaca; per questo — ma soprattutto per l’eccezionale ed imprevedibile sviluppo del progresso scientifico e tecnologico che caratterizzò il nuovo secolo rispetto alle epoche precedenti — dopo l’iniziale ventata d’entusiasmo, la sua mutazione genetica fu più profonda di quella riscontrabile presso altre accademie. Nel senso che l’Istituto tese ad uniformarsi ad esse, ossia al livello più basso, perdendo gli originali tratti distintivi che ne facevano qualcosa di diverso, di superiore. Il giro di boa fu rappresentato dal Quarantotto, che gli fece perdere il favore del governo, dal quale dipendevano le sue fortune di consulente ed interlocutore privilegiato. Sicché fu gran ventura, per l’Istituto, l’eredità di Angelo Minich che lo affrancò in buona parte da ingerenze e condizionamenti statali, austriaci o italiani che fossero.

Sull’Ateneo invece, che con l’Istituto ebbe quasi identiche le origini, il trauma quarantottesco non incise più di tanto, per essere più tenue e limitata la dipendenza dal governo e perché — tutto sommato — l’adesione alla Repubblica di Manin finì per rafforzarne la ‘venezianità’, ch’era in fondo il vero nocciolo della sua natura. Per questo motivo, se nella seconda metà del secolo non troviamo più i suoi presidenti monopolizzati dal ceto nobiliare e patrizio (Cicognara, Gambara, Manin, Renier, Querini Stampalia: tutti conti), è ben vero che le nuove leve formano comunque una galleria di figure di primo piano, che si distinguono nel campo professionale o culturale, quali Berti, Namias, Calucci, Fambri, Fradeletto, Musatti... In qualche modo, insomma, si tornava alle origini, a quella Società di Medicina che aveva tenuto a battesimo il nuovo organismo e ne aveva rappresentato la base sociale. Pertanto il progressivo venir meno del profilo togato del socio accademico operò diversamente per l’Istituto e l’Ateneo. Nel primo caso, infatti, questa evoluzione contribuì a snaturarne l’immagine, le finalità, i compiti: persino la sede — Palazzo Ducale — finì per risultare incongrua, soverchiante per il peso della memoria storica ch’essa recava in sé, e dunque eccessiva per qualsiasi ente o istituto che vi fosse ospitato; per l’Ateneo, invece, il ridimensionamento della figura paludata dei soci risultò alla fin fine positivo, emancipandolo oltretutto da quella sorta di non dichiarata sudditanza psicologica ch’esso, in realtà, avvertiva nei confronti dell’Istituto. L’emulazione di quest’ultimo non aveva più, infatti, motivo di sussistere una volta che l’Ateneo fosse giunto (come giunse) a calarsi esclusivamente nella dimensione cittadina. Una dimensione — come si è detto — non più rappresentata prevalentemente dagli epigoni del patriziato della vecchia Repubblica, ma qualificata e resa vitale dall’apporto dell’elemento produttivo e professionale veneziano: da quella borghesia, insomma, che culturalmente riconosceva i suoi punti di riferimento nei due centri costituiti dal liceo «Foscarini» e dalla Scuola Superiore di Commercio. Sicché possiamo dire che la ripresa economico-sociale cittadina del secondo Ottocento — ancorché non esaltante — trova riscontro nella parallela (e parimenti moderata) fortuna dell’accademia ospitata a S. Fantin.

Più tecnica, esclusivamente motivata da finalità scientifiche di alto livello e rigorosamente limitata all’ambito storico, l’azione della Deputazione, nata in tutt’altro contesto e temperie storica. Sfumato il suo rapporto con la città o, per meglio dire, quasi inesistente, eccezion fatta per la sede che statutariamente si volle e sempre si conservò nella ex Dominante, fonte e oggetto precipuo della stessa ragion d’essere dell’organismo. Grazie ai suoi primi e principali animatori (oltre a Fulin, ricordiamo i nomi di Barozzi, Berchet, Cecchetti, Lampertico, Stefani ed altri ancora) fu avviata la tanto auspicata pubblicazione delle principali fonti della storia della Serenissima, dalle indagini sull’archivio degli inquisitori ai Diarii di Sanudo. Questi ultimi, conservati in originale alla Marciana, furono trascritti (impresa di per sé impegnativa, come ben sanno quanti conoscono la grafìa dell’insuperabile cronista), e poi corredati da indici e pubblicati in elegante edizione con impresa venticinquennale. Da un secolo essi costituiscono la principale e la più consultata fonte della storia di Venezia e delle sue interrelazioni europee e mediterranee, e grandemente — certo più di ogni altro strumento — hanno contribuito alla fortuna della storiografia della Repubblica di S. Marco.

Con questo servizio, e con tale spirito, la Deputazione iniziò ad operare in Venezia.

1. Mario Infelise, L’editoria veneziana nel ’700, Milano 1989, p. 335.

2. Virgilio Giormani, La scuola pubblica agli ex gesuiti: un polo medico, farmaceutico e chimico-fisico nel 1794 a Venezia, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», classe di scienze fisiche, matematiche e naturali, 152, 1993-1994, pp. 33-61. Se poi volessimo dare un giudizio sulla validità del riformismo settecentesco in questo settore, a Padova e a Venezia, ebbene ci si troverebbe di fronte al classico dilemma del bicchiere riempito a metà: io, Giormani e — mi pare — Maria Laura Soppelsa, che se n’è occupata nella Storia della cultura veneta, lo vediamo mezzo pieno; tutti gli altri mezzo vuoto.

3. Brendan Dooley, Giornalismo, Università e organizzazione della scienza: tentativi di formare un’accademia scientifica veneta all’inizio del Settecento, «Archivio Veneto», ser. V, 55, 1983, pp. 5-39.

4. Piero Del Negro, Appunti sul patriziato veneziano, la cultura e la politica della ricerca scientifica nel secondo Settecento, in Giampiero Bozzolato-Piero Del Negro-Cecilia Ghetti, La Specola dell’Università di Padova, Brugine 1986, pp. 276-294 (pp. 249-294). Sull’Accademia Agraria e su quella dei Ricovrati, cf. Attilio Maggiolo, I soci dell’Accademia Patavina dalla sua fondazione (1599), Padova 1983, pp. 9-11.

5. Se qualcuno per caso, ma non credo, volesse conoscere i dettagli: Giuseppe Gullino, «... di sfiatarmi dalla cattedra non mi risento più»: i moderati entusiasmi di Volta accademico e docente, in Alessandro Volta nel duecentocinquantesimo anniversario della nascita. Incontro su aspetti della figura e dell’opera, Padova 1998, p. 52 (pp. 37-56).

6. Sulle vicende dell’Institut, Sergio Moravia, Il tramonto dell’illuminismo. Filosofia e politica nella società francese (1770-1810), Bari 1968, pp. 410-425 e 564-569.

7. Oltre agli ormai datati Ettore Bortolotti, Materiali per la storia dell’Istituto nazionale, Modena 1915, e Giovanni Natali, Le origini dell’Istituto nazionale napoleonico (1796-1802), «Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna», 1951-1953, pp. 53-86, v. in proposito Elena Ganapini Brambilla, Le Accademie nella Repubblica Cisalpina e nel Regno Italico, con particolare riguardo all’Istituto Nazionale, in Napoleone e l’Italia. Atti del convegno, I, Roma 1973, pp. 473-490; Luigi Pepe, Le istituzioni scientifiche e i matematici veneti nel periodo napoleonico, in Le scienze matematiche nel Veneto dell’Ottocento. Atti del seminario, Venezia 1994, pp. 61-99 (quest’ultimo lavoro riporta pure gli statuti dell’Institut National e dell’Istituto Nazionale della Repubblica Cisalpina).

8. Oltre al fondamentale volume miscellaneo Palazzo Loredan e l’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, Venezia 1985, ricordo qui una volta per tutte le pubblicazioni che ho dedicato alla nascita dell’Istituto e alle quali mi sono qui ampiamente rifatto: La nascita dell’Istituto Veneto e la sua attività sino al termine della dominazione austriaca, in Ingegneria e politica nell’Italia dell’800: Pietro Paleocapa. Atti del convegno, Venezia 1990, pp. 67-87; Organizzazione e pianificazione economica: dalle accademie agrarie all’Istituto Reale di scienze, lettere ed arti (1768-1812), in Veneto e Lombardia tra rivoluzione giacobina ed età napoleonica. Economia, territorio, istituzioni, a cura di Giovanni Luigi Fontana-Antonio Lazzarini, Roma-Bari 1992, pp. 481-491. V’è poi, onnicomprensivo, L’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti dalla rifondazione alla seconda guerra mondiale (1838-1946), Venezia 1996, che per essere diviso in capitoli e paragrafi, con le piante dei luoghi occupati prima in Palazzo Ducale e poi in palazzo Loredan, con un’Appendice che riporta — a partire dal 1840 — regolamenti e statuti, organico e statistiche dei membri, statistica delle letture effettuate, biografie dei membri effettivi, elenchi dei premi d’industria e dei concorsi scientifici, consistenza del Panteon Veneto, numerazione ed intitolazione delle buste costituenti l’archivio dell’Istituto, cronologia, indice dei nomi; per il fatto insomma di presentarsi essenzialmente come una sorta di manuale di rapida consultazione, confido possa esimermi da ulteriori rinvii ad esso nelle pagine che verranno.

9. Istituto Nazionale Italiano. Memorie, I-VI, Bologna 1806-1813.

10. Venezia, Archivio dell’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, b. 4/1.

11. Il primo concorso con premiazione tenuto a Venezia (e non più a Milano, come sino allora era accaduto) venne bandito il 29 agosto 1815, e tendeva «a promuovere l’industria, ad incoraggiare l’agricoltura e ad animare le arti ed i mestieri». Il successivo seguì senza rispettare la scadenza biennale. Per la cronologia e gli elenchi dei premiati, v. Collezione degli Atti delle solenni distribuzioni de’ premi d’industria fatte in Milano ed in Venezia dall’anno 1806 in avanti, I-VIII, Milano 1824-1858.

12. La b. 97 dell’archivio dell’Istituto contiene, appunto, un catalogo dei «Brevetti» rilasciati ai concorrenti nel corso del secondo e terzo decennio del secolo. Il 13 novembre 1859 uno scrosciante applauso accolse la proposta del matematico Giusto Bellavitis, il quale suggeriva che da allora in poi si rispedissero al mittente, d’ufficio, le troppe scritture volte a dimostrare la quadratura del cerchio, perché davvero non se ne poteva più.

13. E questo nonostante la risolutiva Notificazione, emanata il 27 febbraio 1818, intimasse a nome dell’imperatore: «È però sua volontà che questi concorsi non abbiano a tenersi dai Governi di Milano e di Venezia parzialmente per i soli abitanti delle provincie da essi dipendenti, ma bensì che vi sia ogni anno un concorso generale per tutto il Regno, da tenersi vicendevolmente un anno in Milano ed un altro in Venezia, e che il giorno 4 ottobre di cadaun anno sia fissato per la distribuzione dei premi [...]. Il primo di questi concorsi avrà luogo nel corrente anno 1818 in Milano».

14. Sul congresso, i cui atti sono tuttora inediti, v. Maria Laura Soppelsa, L’Istituto Veneto e il IX Congresso degli scienziati italiani, in Ingegneria e politica nell’Italia dell’800: Pietro Paleocapa. Atti del convegno, Venezia 1990, pp. 91-118.

15. Dopo l’iniziale fiammata, con l’evolversi delle vicende risorgimentali l’interesse per il Panteon andò progressivamente scemando; l’ultimo busto, il sessantaduesimo, dedicato a Carlo Gozzi, fu collocato — proximus sed longo intervallo rispetto al precedente — nel 1932. Busti e medaglioni subirono varie traversie, specie dopo la traslazione dell’Istituto dal Palazzo Ducale al Loredan; recentemente la maggior parte di essi è stata riunita in quest’ultima sede, in campo S. Stefano. Sull’impresa v. Alessia Bonannini, Il Panteon Veneto di Palazzo Ducale: un episodio del Risorgimento, «Archivio Veneto», ser. V, 180, 1995, pp. 99-138; Fabrizio Magani, Il Panteon Veneto, Venezia 1997.

16. A.S.V., I.R. Presidenza Luogotenenza Lombardo-Veneta, b. 57, fasc. «Istruzione pubblica. Venezia, Istituto di scienze, lettere ed arti», ad diem.

17. Venezia, Archivio dell’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, b. 43 «Adunanze ordinarie. 1854-1856», sub 21 febbraio 1853.

18. L’inchiesta infatti fu affidata alle rilevazioni dei medici condotti, che spesso fornirono un quadro dettagliato della società contadina: abitazioni, alimentazione, sanità, cultura, consistenza del nucleo familiare ed altro ancora (G. Gullino, L’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, pp. 81-82).

19. Nel giugno 1857 la «Rivista Euganea» lamentava la scarsa presenza di italiani all’esposizione agricola internazionale svoltasi a Vienna (Cristina Zanatta, La «Rivista Euganea» (1856-1859) e la storia: concezioni storiografiche nella Padova di metà Ottocento, «Studi Storici Luigi Simeoni», 59, 1999, p. 382 [pp. 379-400]).

20. V. in partic. Renzo Derosas, I Querini Stampalia. Vicende patrimoniali dal Cinquecento all’Ottocento, in I Querini Stampalia. Un ritratto di famiglia nel Settecento veneziano, a cura di Giorgio Busetto-Madile Gambier, Venezia 1987, pp. 80-83 (pp. 43-87).

21. Ad esempio nell’aprile 1883, per la scelta del bibliotecario. Da notare che allora curatore della Querini Stampalia era Giovanni Veludo, che si trovava ad essere contemporaneamente membro pensionato dell’Istituto. Sui rapporti fra le due istituzioni, G. Gullino, L’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, pp. 97-100.

22. Gioacchino Brognoligo, Appunti per la storia della cultura in Italia nella seconda metà del secolo XIX. La cultura veneta, «La Critica», 19, 1921, p. 331 (pp. 329-344).

23. G. Gullino, L’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, p. 150.

24. Ibid., p. 119.

25. Su quanto segue devo rinviare nuovamente a me stesso: Giuseppe Gullino, Un intenso decennio (1898-1907): l’Istituto Veneto e il problema lagunare, in Conterminazione lagunare. Storia, ingegneria, politica e diritto nella Laguna di Venezia. Atti del convegno, Venezia 1992, pp. 131-146.

26. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 1863 (=8081): Accademia Letteraria Veneta, cc. n.n. Su queste accademie (ivi comprese quelle seguenti nel testo), cf. Michele Battagia, Delle Accademie veneziane. Dissertazione storica, Venezia 1826, pp. 108-121; Lia Sbriziolo, Il primo biennio di vita dell’Ateneo da un manoscritto marciano di Giovanni Rossi, in Ateneo Veneto. Fascicolo speciale per il 150° anniversario 1812-1962, Venezia 1962, pp. 37-44 (pp. 33-56); Michele Gottardi, L’Austria a Venezia. Società e istituzioni nella prima dominazione austriaca (1798-1806), Milano 1993, pp. 266-268.

27. Sulla Società di Medicina, oltre al già ricordato V. Giormani, La scuola pubblica agli ex gesuiti (in partic. pp. 42-47), v. Giuseppe Occioni-Bonaffons, Brevi cenni sulle Accademie in Venezia anteriori alla istituzione dell’Ateneo Veneto, in L’Ateneo Veneto nel suo primo centennio (1812-1912), Venezia 1912, pp. 14-16 (pp. 1-20); Achille Bosisio, Il 150° anniversario dell’Ateneo Veneto, in Ateneo Veneto. Fascicolo speciale per il 150° anniversario 1812-1962, Venezia 1962, pp. 8, 16 (pp. 7-23);  ancora cf. Rodolfo Gallo, La biblioteca dell’Ateneo, ibid., pp. 177-179. Sulla sede di S. Fantin, dello stesso autore, La Scuola di San Fantin e il suo architetto, ibid., pp. 25-31. Ai fini del presente discorso, i due volumi testé citati sul centenario e centocinquantesimo anniversario dell’Ateneo sono di fondamentale importanza, in quanto ne ripercorrono dettagliatamente le vicende storiche, politiche e culturali; naturalmente secondo l’ottica, la sensibilità e lo stile letterario del tempo.

28. Gaetano A. Ruggieri, Ricordi storici sull’Ateneo di Venezia, «Esercitazioni Scientifiche e Letterarie dell’Ateneo di Venezia», 1, 1827, pp. 1-16. Con questo primo volume ha inizio la pubblicazione seriale degli Atti accademici, anche se il secondo volume sarebbe uscito solo nel 1838; dal ’55 le «Esercitazioni» avrebbero preso il nome di «Atti» sino al 1881; dopo di che il periodico assunse il nome di «Rivista». In precedenza, i prospetti cronologici delle letture e delle relazioni erano stati raccolti sotto il nome di Sessioni pubbliche dell’Ateneo Veneto tenute negli anni MDCCCXII-MDCCCXIII-MDCCCXIV, Venezia 1814; qui (alle pp. 53-82) è descritta la Organizzazione provvisoria dell’Ateneo di Venezia, che riporta anche lo statuto.

29. Pure l’Istituto Veneto si occupò delle perforazioni artesiane della città, ma solo a partire dal ’46, così come avrebbe cooptato Manzoni non prima del 7 agosto 1847. Anche da queste particolarità si può cogliere la diversa collocazione delle due istituzioni.

30. Del resto, solo alla fine del ’63 il presidente Antonio Berti si sarebbe posto retoricamente il problema della funzione delle accademie (nel discorso intitolato, appunto, Sull’odierno officio delle Accademie), riconoscendo il venir meno dell’antica loro ragion d’essere, ma solo per ribadirne, alla fin fine, l’insostituibile validità.

31. Sul ruolo giocato da Manin nei mesi che precedettero lo scoppio della rivoluzione, v. ora: Gaetano Cozzi, ‘Venezia e le sue lagune’ e la politica del diritto di Daniele Manin, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 323-341.

32. Soprattutto dopo la seconda guerra d’indipendenza il distacco psicologico dei veneziani — anche di quelli nobili — dall’Austria si fece irreversibile. Cf. in proposito Alvise Zorzi, Venezia austriaca (1798-1866), Roma-Bari 1985, pp. 126-145.

33. L’attività pratica dell’Ateneo ci è dettagliatamente descritta nei due volumi celebrativi che già si è avuto modo di ricordare. Propongo qui lo specimen completo del primo di essi, L’Ateneo Veneto nel suo primo centennio (1812-1912), come maggiormente inerente al presente discorso: G. Occioni-Bonaffons, Brevi cenni sulle Accademie in Venezia, pp. 1-20; Luigi Carlo Stivanello, Uno sguardo all’opera dell’Ateneo in argomento di vita pubblica, pp. 23-50; Marco Padoa, Letteratura, pp. 51-74; Luigi Conton, Archeologia, pp. 75-88; Giuseppe Occioni-Bonaffons, Storia, pp. 89-118; Antonio Brunetti, Diritto pubblico, diritto privato e storia del diritto, pp. 119-139; Giacomo Luzzatti, Scienza economica, pp. 140-149; Giuseppe Naccari, Astronomia, pp. 150-198; Ettore De Toni, Scienze naturali, pp. 199-206; Cesare Musatti, Scienze mediche, pp. 207-219; Enrico Maggioni, Idraulica ed interessi lagunari, pp. 220-230; Ferruccio Truffi, Commercio e merceologia, pp. 231-249; Alberto Stelio De Kiriaki, Istituzioni di beneficenza, pp. 250-263; Giacomo Franceschini, Filosofia e pedagogia, pp. 264-324.

34. Bartolomeo Cecchetti, Le pubblicazioni delle Società di storia patria del Regno e Venezia rispetto ad esse, «Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», ser. IV, 1, 1871-1872, pp. 1630-1631 (pp. 1619-1641); il brano da me citato è stato recentemente riprodotto in un’opera che ricostruisce la storia documentata della Deputazione: Mario De Biasi, La Deputazione di storia patria per le Venezie dalle origini ad oggi (1873-1995), Venezia 1995, pp. 13-14. Sulla nascita della Deputazione v. inoltre: Gina Fasoli, Anche la Deputazione di storia patria per le Venezie ha la sua storia, «Archivio Veneto», ser. V, 170, 1990, pp. 223-230 (pp. 215-235); e ancora: Gioacchino Brognoligo, Appunti per la storia della cultura, «La Critica», 20, 1922, pp. 282-284 (pp. 278-287); Gino Benzoni, La storiografia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 622-623 (pp. 597-623).

35. Illuminante quanto scriveva Cecchetti nel ’72, nel saggio sopra ricordato (p. 1629): «Duole che per motivi di ambizioni malcollocate e per spirito di gelosia ogni tentativo di fondare una Deputazione di storia patria in Venezia sia abortito. Questa sequela di insuccessi meriterebbe quasi uno studio. Forse l’investigazione metterebbe a nudo qualche miseria che fra noi rode, come tarlo, le radici di ogni buona intenzione».

36. Benzoni non è facile lodatore neppure quando si sforza di esser buono; con questa premessa ricordo il chiaro giudizio da lui manifestato sulla rivista, dal 1885 organo della Deputazione di Storia Patria per le Venezie, definita come «il periodico implacabilmente puntuale nel ritmo di uscita (nemmeno la guerra del 1915-18 riuscirà a rallentarlo) [...]. Fido recapito per l’erudizione storica lagunare e veneta e, insieme, palestra per giovani ricercatori con formazione universitaria» (G. Benzoni, La storiografia, p. 622). Giustamente apprezzate, infatti, non solo le doti di rigore filologico e scientifico della rivista, ma anche la cura editoriale che tradizionalmente ne accompagna ogni numero.

37. Il 21 luglio 1873 la presidenza dell’Istituto negava di corrispondere alla Deputazione il contributo finanziario richiesto, motivando tale rifiuto con l’esistenza, nel seno dell’Istituto, di una giunta di studi storici, «la quale per mancanza appunto di mezzi fu costretta finora a rimanersene inoperosa» (G. Gullino, L’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, p. 137). Strettamente legato alle strettezze economiche fu il problema della sede, che tra il ’75 e l’88 fu ospitata presso la Fondazione Querini Stampalia, e dopo l’88 in alcune stanze del mezzanino messe a disposizione dall’Istituto Veneto. Poi, dal 1925 al 1938 la Deputazione si trasferì in alcuni locali delle Procuratie Nuove; di lì passò nel palazzo Pisani a S. Stefano (presso il Conservatorio di musica «Benedetto Marcello», con il quale tuttavia la convivenza si rivelò difficile) e, dopo molteplici traversie, a partire dal 1981 ha finalmente trovato adeguata sistemazione nel seicentesco palazzetto Pizzamano, a S. Giacomo dell’Orio, fornitole dal Comune dopo specifico restauro.

38. Bartolomeo Cecchetti, Gli archivi comunali del Veneto, «Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», ser. III, 13, 1867-1868, p. 362 (pp. 361-426).

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