ISTHMIA

Enciclopedia dell' Arte Antica (1961)

Vedi ISTHMIA dell'anno: 1961 - 1973

ISTHMIA

L. Guerrini

(῎Ισϑμια). − Località della Grecia, situata nei pressi dell'istmo che separa il Mar Ionio (Golfo di Corinto) dall'Egeo (Golfo Saronico). Il nome deriva dai giochi istmici (le ῎Ισϑμια) che si celebravano ogni due anni in primavera, originati dai giochi funebri per un eroe.

Secondo le varie versioni letterarie, raccolte in Pausania (ii, 3 ss.) si attribuiva la fondazione sia a Posidone e Helios, sia a Sisifo, in onore di un eroe orientale, Melikertes, indicato anche col nome di Palemone. La tradizione attica, a ricordo della sua sovranità sull'Istmo, attribuiva l'istituzione dei giochi a Teseo, l'eroe nazionale. Dai giochi dell'Istmo erano esclusi gli Elei; la direzione fu tenuta da Corinto sino alla sua caduta (146 a. C.); passata temporaneamente a Sicione, tornò a Corinto con Cesare. I Romani furono invitati a parteciparvi dall'anno 228 a. C. Durante i giochi del 336 a. C. Alessandro qui fu designato generale di tutti i Greci contro i Persiani; e qui nel 196 a. C., Flaminino proclamò l'indipendenza della Grecia, così come poi Nerone nel 67 d. C. Questi giochi − la cui importanza era inferiore solo a quelli di Olimpia − prendevano nome dalla lingua di terra sottile che, unendo l'Attica e il Peloponneso, impediva una svelta navigazione tra lo buio e l'Egeo, costringendo così le navi al lungo periplo del Peloponneso, e che era detta istmo. Nessuna meraviglia quindi che molto presto i Greci pensassero ad unire i due mari mediante il taglio del lembo di terra per evitare i laboriosi trasbordi da un mare all'altro, ma l'azione che violentava l'ordine di natura era considerata empia. Erodoto (i, 174) riporta il responso contrario della Pizia al progetto degli Cnidî; Periandro per primo pensò a questo disegno come probabile (Diog. Laert., i, 7, 99); Demetrio Poliorcete consultò il parere di ingegneri specializzati (Strab., i, 3, ii); Cesare fu interrotto nel progetto dalla morte (Cass. Dio, xliv, 5; Suet., Caes., xliv; Plut., Caes., lviii); Caligola invia sul posto ingegneri che ne delimitano il tracciato (Suet., Cal., xxi); solo Nerone può cominciare realmente i lavori di taglio, probabilmente sugli accurati tracciati precedenti. Vespasiano invia per tali lavori seimila giudei; ma Nerone deve rimpatriare per la rivolta di Vindice e l'ingente opera rimane incompiuta (Cass. Dio, lxiii, 16-19; Suet., Ner., xix; Lucian., Ner.; Philostr., Apoll. Tyana, iv, 24). Anche il progetto di Erode Attico (Philostr., Sophist., ii, 6) non viene attuato. Il tracciato neroniano, che presentava minuzioso studio nel progetto e perizia di esecuzione, è stato seguito nell'attuale costruzione del canale, per cui non sono più visibili ora le tracce dei lavori di preparazione. Un collegamento parziale tra i due mari era stato però stabilito per le navi di piccolo peso, mediante la costruzione di una strada lastricata (il διολκοᾒς che le navi percorrevano su carri, o più propriamente su pesanti piattaforme provviste di ruote. Due lunghi tratti di questa strada (menzionata più volte dalle fonti, a partire dalla guerra del Peloponneso, Tucid., viii, 74; cfr. Strab., viii, 2, e usata anche da Augusto dopo la battaglia d'Azio come riportano Cass. Dio, li, 5 e Polyb., iv, 19) sono stati riportati alla luce dagli scavi recenti del Servizio Archeologico Greco: è visibile un lastricato in grosse lastre di pòros, solcato profondamente dalle ruote dei carri; le lastre presentano incise lettere dell'alfabeto corinzio arcaico. La costruzione del διολκοᾒς risale alla fine del VII sec. a. C. o all'inizio del VI, probabilmente connessa alla tirannia di Periandro; era ancora in uso nel XII sec. d. C.

La località in cui si svolgevano i giochi istmici, molto spesso menzionata dalle fonti, era stata identificata già da tempo sia per i resti visibili dello stadio e del teatro, sia per alcuni brevi scavi eseguiti nel 1883 dalla scuola francese (Monceaux), che però erano giunti all'errata identificazione dei santuarî di Posidone e Palemone con due tratti della fortezza giustinianea. Scavi regolari della zona ebbero inizio soltanto nel 1952, ad opera dell'Università di Chicago (Broneer) che scava nella zona del santuario, e del Servizio Archeologico Greco, che ha messo in luce un lungo tratto di muro appartenente a una fortificazione micenea.

L'opera di difesa risale all'incirca al XIII sec. a. C. (numerosi sono i frammenti ceramici del Tardo Elladico III B); è costruita in tecnica ciclopica, con due paramenti di grossi blocchi non squadrati che contengono un riempimento di terra e piccole pietre. Un'altra poderosa opera di difesa è la fortezza che corre quasi parallelamente al muraglione miceneo: si tratta della fortezza costruita da Victorinus, generale di Giustiniano, parte del programma difensivo del Peloponneso. Di questa fortezza (la cui datazione ha oscillato dal V sec. a. C. al VI d. C.), eretta per lo più con materiale architettonico del vicino santuario, è stata liberata la porta S con le due torri adiacenti. Nelle vicinanze del muraglione giustinianeo, dalla parte opposta all'Istmo, rimangono scarsi resti dello stadio di epoca romana (probabilmente a questo stadio si riferisce l'accenno di S. Paolo nell'viii capitolo della I° epistola ai Corinzî) e del teatro, il cui impianto risale ad epoca greca, ma con successive ricostruzioni e rimaneggiamenti (specialmente nel I sec. d. C.). Più lontano sorge il santuario di Posidone, che si compone del tempio con l'altare posti entro un tèmenos. Del tempio arcaico, che risale al VII sec. a. C., rimangono pochi resti della fondazione dell'opistodomo e dello zoccolo in pietre ben squadrate, individuati specialmente nella parte N del tempio classico; tale tempio arcaico di proporzioni allungate (rapporto larghezza-lunghezza: 1-3), orientato diversamente da quello seguente, presentava al di sopra dello zoccolo in pòros un elevato in mattoni crudi; soffitto, architrave, fregio, cornice, e probabilmente anche le colonne erano in legno; il tetto era di tegole fittili, di cui sono stati rinvenuti numerosi frammenti. Andò distrutto, forse per incendio, verso il 480-475; i suoi detriti hanno servito di riempimento alle fondazioni del tempio seguente: tra i trovamenti, notevole soprattutto un perirrantèrion, cioè un bacile per contenere l'acqua lustrale della quale si aspergeva chi entrava nel tempio, in marmo laconico (ora al museo di Corinto), della metà del VII sec., il più antico esempio di scultura corinzia in marmo. La vasca, del diametro di m 1,24 è sostenuta da quattro kòrai-cariatidi, di chiaro stile dedalico, alternate a teste di capro. Tra le fondazioni del tempio arcaico si è rinvenuta una base in pòros, che per misure corrisponde alla base del perirrantèrion. Notevoli anche alcuni oggetti in bronzo di epoca geometrica e arcaica, specie un bracciale di scudo con decorazione di soggetto mitologico, in tutto simili a contemporanei oggetti di Olimpia, tanto da indurre a credere entrambi i tipi provenienti dalla stessa officina. I soggetti della decorazione sono del repertorio in uso: imprese di Eracle, gigantomachie, Achille e Troilo, ecc. Verso il 460 a. C., sul luogo del tempio distrutto fu innalzato un tempio di grandiose proporzioni, che presenta architettonicamente molti punti di contatto con il tempio di Zeus ad Olimpia. La costruzione era interamente − comprese le tegole − in pietra locale ricoperta di stucco ad imitazione del marmo. Non rimangono che le fondazioni e pochi frammenti architettonici: il disegno della pianta presentato dagli scavatori americani è solo probabile: la cella, entro una peristasi di sei colonne per tredici, conterrebbe una doppia fila di colonne. Sono attestate da scarsissimi frammenti decorazioni frontonali a tutto tondo. Un frammento di metopa rinvenuto a Roma (ora nel Museo dei Conservatori, n. 1827), con un torso di giovane guerriero, è stata identificata dal Dinsmoor come una delle metope del pronao o opistodomo, probabilmente portata a Roma già nell'antichità. Da Senofonte (Hell., iv, 4) si sa che la parte alta del tempio andò distrutta da un incendio nel 394; in seguito venne rifatta la parte distrutta (del IV sec. infatti è una sima a teste di leone e palmette, di un tipo che si accosta a modelli microasiatici, e un triglifo angolare ricavato da un precedente capitello dorico della peristasi); non si sa se fossero stati rifatti anche i gruppi frontonali. I Romani poi, pur conservando la struttura del tempio, ricoprirono muri e pavimento con lastre marmoree e lo riempirono con statue votive (Paus., ii, 1, 7), tra cui famoso il colosso crisoelefantino donato da Erode Attico. Del 1952 è il rinvenimento di una statua colossale seduta, forse appartenente a un gruppo di Posidone e Anfitrite. Il tempio fu demolito interamente nel VI sec. per fornire materiale alla costruzione della fortezza giustinianea. Nella successione degli altari, posti ad E della facciata del tempio, sono state messe in luce le fondazioni in blocchi squadrati di pòros di un gigantesco altare arcaico (lungo m 40), che continuà ad essere in uso per tutto il periodo classico, sopravvivendo alla distruzione del primo e all'incendio del secondo tempio. Probabilmente non fu più usato in una epoca intorno al 146 a. C., cioè quando la soprintendenza dei giochi passò ai Sicioni. Il secondo altare è situato un poco a S dell'asse del tempio; la tecnica è in opus incertum contenuto da paramenti in pòros; le proporzioni sono di m 10 × 8,20. Era in disuso al momento della costruzione della stoà orientale, il cui colonnato cade sopra l'altare. Un terzo altare, corrispondente al periodo del tèmenos con stoài (dal II sec. d. C. in poi), non è ancora stato trovato. Del tèmenos corrispondente alla fase arcaica del Posidonion si sono rinvenuti scarsi resti a N del tempio, con andamento non parallelo ai muri del tempio. In epoca romana è attestato un secondo tèmenos che includeva tempio e secondo altare, di non grandi dimensioni, con tracciato parallelo ai muri del tempio. Più tardi, nel Il sec. d. C. circa, il tèmenos fu allargato e fu progettato come un intero giro di stoài, tutte delle stesse dimensioni, con un pròpylon di accesso a S-E (Paus., ii, 2, 1). Le stoài furono costruite a spese di P. Licinio Prisco, uno dei massimi sacerdoti del dio (come si apprende da due iscrizioni); quella di N però non fu attuata.

Seguendo le indicazioni di Pausania (ii, 2, 1) il Palemonion fu ricercato nella zona a S-E del santuario di Posidone: si è rinvenuto invece uno stadio di epoca precedente a quello che si trova in vicinanza della fortezza giustinianea (v. sopra), fornito di una partenza di tipo insolito. Si tratta del tipo che uno scolio ad Aristofane, Cavalieri, 1169, chiama βαλβιᾒς spiegando che βαλβιᾕς δεᾕ καλειᾖται τοᾕ ε½ν τ¶ᾖ α½ρχ¶ᾖ τουᾖ δροᾒμου κειᾒμενον ε½γκαρσιᾒως ξυᾒλον οᾐ καιᾕ ૧ετηριᾒαν καλουᾖσιν. οᾐπερ μεταᾕ τοᾕ ε½τοιμασϑηᾖνα τουᾕς σρομειᾖς ει½ς τοᾕ δραμειᾖν, ૧αιρουᾒμενοι ૧ιᾒεσαν τρεᾒχειν. Lo stadio cadde in disuso in età romana e fu sostituito da quello più ampio, a S-E.

Il santuario di Palemone menzionato da Pausania è probabilmente invece all'angolo S-O dello stadio, dove una fondazione quadrata in opus incertum si innalza sopra un passaggio sotterraneo, raccolta d'acqua in epoca greca, prosciugato mediante il bloccaggio dei tubi in periodo romano; questa cripta forse fu identificata dai Romani col luogo in cui Sisifo rinvenne il corpo dell'eroe Melikertes-Palemone, e quindi considerata luogo di culto dell'eroe, su cui eressero il tempio che dalle monete sappiamo di ordine corinzio e di forma circolare. Trovamenti di lampade di insolito tipo nelle vicinanze, indicherebbero che ivi si svolgevano i riti notturni dell'eroe, anticamente forse venerato all'aperto, sullo stadio stesso. Il tempio, orientato come quello di Posidone, è a un livello di circa m 1,50 elevato sul piano dello stadio; di esso si conserva solo il nucleo interno del basamento. Possiamo immaginare che l'elevato dell'edificio fosse di forma circolare, quale appare su monete di periodo antonino.

Nelle vicinanze, in località Rachi, è stato rinvenuto un povero agglomerato risalente al IV-III sec. a. C.

Bibl.: K. Schneider, in Pauly-Wissowa, IX, 1916, c. 2248 ss., s. v. Isthmia; Fimmen, ibid., c. 2256 ss., s. v. Isthmos; J. H. Jenkins-H. Megaw, in Annual Brit. School Athens, XXXII, 1931-2, p. 68 ss.; O. Broneer, in Hesperia, VIII, 1939, p. 181 ss.; H. N. Fowler, Corinth, I, p. 48 ss. (Diolkos): B. Gerster, XXI, 1956, p. 51 ss. e Ill. London News, 19-x-1957, p. 649 (ceramica preistorica); E. A. Smith, in Hesperia, XXIV, 1955, p. 142 ss. (santuario); Bull. Corr. Hell., LXXXI, 1957, p. 326 ss. e LXXXII, 1958, p. 694 ss.; O. Broneer, in Hesperia, XXII, 1953, p. 182, con bibl. prec.; XXIV, 1955, p. 110 ss.; XXVII, 1958, p. i ss.; id., in Archaeology, VIII, 1955, p. 56 ss.; IX, 1956, p. 134 ss.; 268 ss.; XIII, 1960, p. 105 ss.; id., in Antiquity, XXXII, 1958, p. 80 ss.; id., in Ill. London News, 15-i-1955; 15-ix-1956, p. 430; 28-ii-1959, p. 342; O. Broneer, in Hesperia, XXVIII, 1959, p. 298 ss.; E. W. Bodnar, The Isthmian Fortifications in Oracular Prophecy, in Amer. Journ. Arch., LXIV, 1960, p. 165 ss.; W. B. Dinsmoor, A Greek Sculptured Metope in Rome, in Hesperia, XXIV, 1960, p. 304 ss.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata