ISRAELE

Enciclopedia Italiana - IX Appendice (2015)

ISRAELE.

Matteo Marconi
Silvia Moretti
Livio Sacchi
Elisa Carandina
Giuseppe Gariazzo

– Demografia e geografia economica. Condizioni economiche. Storia. Bibliografia. Architettura. Letteratura. La produzione poetica e teatrale. Bibliografia. Cinema. Bibliografia

Islanda

Demografia e geografia economica di Matteo Marconi. – Stato dell’Asia sud-occidentale. La popolazione è aumentata del 13% tra il 2007 e il 2014, giungendo a 7.822.107 ab., secondo una stima UNDESA (United Nations Department of Economic and Social Affairs). Sulla dinamica demografica pesa positivamente sia un costante movimento immigratorio, perlopiù di confessione ebraica (16.558 solo nel 2012), sia un notevole tasso di fertilità (3 figli per donna nel 2013). Quest’ultimo dato si spiega solo in parte con l’apporto della comunità palestinese, il cui peso relativo è cresciuto dello 0,7% negli ultimi dieci anni, fissando i rapporti di forza a 75,2% di ebrei rispetto a 20,6% di palestinesi. All’interno della popolazione ebraica, grande impatto demografico hanno le comunità di ebrei ultraortodossi, la cui prolificità è almeno doppia rispetto alla media nazionale. Parte dei cittadini israeliani di confessione ebraica vive negli insediamenti, 341.400 in Cisgiordania, 196.400 a Gerusalemme Est e 18.900 sulle alture del Golan (2014). Negli ultimi quindici anni il totale dei coloni israeliani è aumentato di quasi 100.000 unità, in proporzione con maggiore intensità in Cisgiordania, dove l’incidenza dal 2000 è maggiorata del 70%. La stessa geografia urbana israeliana è fortemente influenzata dal conflitto con i palestinesi, dato che Gerusalemme è la città che proporzionalmente cresce di più, con una popolazione quasi raddoppiata negli ultimi venti anni.

Condizioni economiche. – L’economia è fortemente legata al settore terziario, che impiega ben il 77,1% della forza lavoro. Gli investimenti statali e l’iniziativa privata hanno determinato l’ascesa delle imprese ad alto contenuto tecnologico, che, nel corso del primo decennio del 21° sec., hanno guidato l’espansione economica israeliana, con una crescita del PIL costantemente intorno al 5% e un aumento consistente del reddito pro capite disponibile. Il successo dell’alta tecnologia è legato soprattutto ai comparti dell’elettronica, dell’informatica, delle biotecnologie e delle telecomunicazioni, stimolati dagli alti livelli di istruzione e dalle ricadute positive in termini di brevetti dei forti investimenti statali in campo militare. Altre voci importanti sono i diamanti tagliati, i prodotti farmaceutici, ortofrutticoli e la plastica. Le politiche di rientro dal deficit di bilancio hanno portato a un aumento della disoccupazione, attestata al 12,7%. La dipendenza energetica dall’estero è diminuita grazie allo sfruttamento dei due più grandi giacimenti di gas naturale offshore scoperti negli ultimi anni. Nonostante ciò, le risorse energetiche sono tra le principali voci dell’import israeliano, insieme ai cereali, a comporre una bilancia commerciale tendenzialmente in saldo negativo. Gli Stati Uniti costituiscono il principale partner commerciale, soprattutto sul capitolo delle esportazioni. Nel difficile contesto geopolitico attuale le spese militari sono comprensibilmente alte (5,7% del PIL), con 176.500 militari di professione e quasi mezzo milione di riservisti, sebbene l’andamento generale positivo dell’economia abbia quasi portato a dimezzarne l’incidenza sul PIL.

Indicatori economico-sociali
fig. 1

Storia di Silvia Moretti. – Nei primi mesi del 2006 si apriva per I. una fase molto delicata, segnata simbolicamente dalla scomparsa dalla scena politica di Ariel Sharon e dalla vittoria di Ḥamās alle elezioni palestinesi. Il nuovo primo ministro Ehud Olmert, in continuità con la politica del suo predecessore, confermava la costruzione di nuovi insediamenti ebraici nei Territori occupati (fig. 1), secondo un disegno che mirava a impedire sul campo la nascita di uno Stato palestinese geograficamente unitario con Gerusalemme Est capitale (v. gerusalemme). Alla fine di giugno 2006 un commando palestinese attaccava un avamposto israeliano nelle vicinanze del valico di Rafah, tra la Striscia e l’Egitto, uccidendo due soldati e catturandone un terzo. La reazione di I. a Gaza era immediata, con il lancio di una campagna militare aerea e di terra (operazione Piogge d’estate), la prima dopo l’evacuazione del 2005. Poche settimane dopo, in risposta alle gravi provocazioni delle milizie libanesi di Ḥezbollāh, I. iniziava una massiccia offensiva aerea sia nel Sud del Libano sia su Beirut: i bombardamenti israeliani e di Ḥezbollāh si concludevano il 14 agosto con un cessate il fuoco congiunto. La fine delle ostilità, a dispetto delle trionfalistiche affermazioni israeliane della vigilia che prospettavano la distruzione militare di Ḥezbollāh, faceva registrare una critica serrata all’operato di Olmert per una condotta di guerra da più parti considerata fallimentare; tutt’altro che indebolita, inoltre, appariva la forza politica di Ḥezbollāh, il cui arsenale nel giro di pochi mesi fu addirittura implementato con il decisivo apporto di Siria e Irān. Procedevano, intanto, le operazioni israeliane di costruzione della barriera difensiva per recintare la Cisgiordania da Nord a Sud e alla fine del 2007 circa il 60% del muro era stato edificato. L’anno si chiudeva, nel mese di novembre, con la conferenza di Annapolis (Maryland, Stati Uniti); un incontro internazionale che lasciava un segno più sul piano simbolico cercando di sgombrare il campo dai molteplici passaggi intermedi che avevano fin lì caratterizzato il difficile percorso negoziale e puntando dritto alla discussione sullo status finale: la coesistenza dei due Stati come unica speranza di pace nella regione. L’insistenza israeliana nel pianificare e costruire nuovi insediamenti determinò frizioni via via più ricorrenti con l’amministrazione statunitense: appariva infatti sempre più evidente che la presenza degli insediamenti costituiva sia il maggiore ostacolo alla nascita di uno Stato palestinese unitario, come ricordato anche dal presidente George W. Bush durante la sua visita nella regione (genn. 2008), sia una continua violenza sul popolo palestinese del quale I. continuava a disconoscere le sofferenze. Ciò nonostante tra il marzo e il giugno 2008 nuove unità abitative furono progettate nella zona di Betlemme, a Gerusalemme e nei dintorni di Kalkilya. La tensione intorno a Gaza, intanto, dove nel mese di gennaio 2008 l’esercito di I. aveva stretto la sua morsa tagliando tutti i rifornimenti, non accennava a diminuire, mentre a Gerusalemme un attentato compiuto da un terrorista palestinese toglieva la vita a otto studenti di un collegio rabbinico (6 marzo).

fig. 2

Dimessosi Olmert nel settembre 2008, toccava a Tizpi Livni, esponente di Kadima, guidare il Paese in un momento di grave crisi. Dopo aver intensificato le operazioni militari a Gaza, il 27 dicembre 2008 I. lanciava l’operazione Piombo fuso con l’obiettivo dichiarato di smantellare una volta per tutte le rampe di lancio dei missili Qassam. L’offensiva aerea su Gaza era seguita a distanza di pochi giorni (3 genn. 2009) dall’invasione delle truppe di terra. Ma nonostante il tragico bilancio, con Gaza ridotta a un campo di rovine e circa 1400 vittime tra i palestinesi (13 gli israeliani uccisi), i missili continuavano a cadere su Israele (fig. 2).

Il 10 febbraio, a poche settimane dal cessate il fuoco (18 gennaio) e dal ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia, si svolgevano le elezioni politiche che facevano registrare la sostanziale parità tra Likud e Kadima (avanti di un solo seggio), il crollo dei laburisti e il preoccupante successo del partito dell’estrema destra Yisrael Beytenu, terzo partito nel Paese, contrario a qualsiasi negoziato con i palestinesi.

Fallito il tentativo di Livni di formare il governo, il nuovo esecutivo nasceva sotto l’egida dell’accordo tra il segretario del Likud Benjamin Netanyahu, nominato primo ministro, e il leader di Yisrael Beytenu, Avigdor Lieberman, un’alleanza decisa a dominare la scena politica imprimendo una svolta a destra al Paese, relegando sullo sfondo la questione palestinese e incrementando i piani di colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme. Messa alla prova nelle elezioni anticipate del gennaio 2013, la coalizione dei due partiti doveva scontare un deciso arretramento (31 seggi), tallonata al secondo e terzo posto da due partiti del centrosinistra (rispettivamente Yesh Atid, con 19 seggi, e il Partito laburista, con 15). I quattro anni di governo Netanyahu prima delle elezioni del 2013 videro un cambiamento di scenario significativo: cresceva l’isolamento d’I., costretta, dopo lo scoppio della primavera araba (2011), a convivere con nuovi interlocutori e pericolosi nemici alle sue frontiere e nel resto del mondo: in Egitto, per es., dove era stata abbattuta la rassicurante dittatura di Muḥammad Ḥusnī Mubārak per lasciare il posto alle incertezze del processo democratico, in tutti i Paesi arabi dove si stava imponendo l’islamismo più estremista, in Turchia, Paese nel quale l’amicizia di un tempo si era trasformata in ostilità anche dopo l’incursione armata della marina israeliana contro la nave turca Mavi Marmara durante la quale nove attivisti turchi erano stati uccisi (maggio 2010), per non parlare infine dell’Irān che aveva fatto di I. il bersaglio delle sue minacce atomiche. In questo quadro andavano considerati anche il declino della forza degli Stati Uniti nella regione e una certa freddezza dell’Europa. Si evidenziava, invece, la convergenza d’interessi con quei Paesi come l’Arabia Saudita preoccupati di mantenere lo status quo nel mondo arabo. Anche la società israeliana appariva mutata, cresceva la vocazione nazionalista e si radicava sempre di più una deriva religiosa: coloni estremisti, ebrei russi e religiosi ultraortodossi, cui le destre al governo avevano lasciato sempre più ampi spazi di manovra, univano le loro forze per contestare i principi laici e democratici dello Stato. Su questo scenario incombeva il problema irrisolto dei palestinesi: le tattiche dilatorie di Netanyahu, che vedeva nella conservazione dello status quo, fondato su colonizzazione e occupazione, un’opportunità per impedire nuove iniziative di pace, andavano di pari passo con l’inconsistenza della strategia negoziale palestinese.

fig. 3

Dopo due anni di crisi strisciante, il 14 novembre 2012, I. dava il via all’operazione Colonna di nuvola. Even ti scatenanti l’uccisione del capo militare di Ḥamās da parte di I. e le centinaia di missili lanciati da Gaza in risposta all’omicidio che, per la prima volta, raggiungevano Tel Aviv. Il 21 novembre si firmava la tregua con la mediazione del presidente egiziano Muḥammad Mursī: 177 i morti tra i palestinesi, sei gli israeliani uccisi. Pochi giorni dopo la Palestina otteneva dall’Assemblea delle Nazioni Unite il riconoscimento di Stato osservatore. L’irritazione di Netanyahu si riversava in una sempre più decisa spinta alla colonizzazione (oltre mezzo milione sono gli israeliani che vivono negli insediamenti, fig. 3), ma – nonostante il clima di cupo pessimismo – a metà del 2013 il segretario di Stato americano John Kerry annunciava al mondo la ripresa dei negoziati tra israeliani e palestinesi (v. palestina). Le trattative, però, apparivano destinate a un drammatico fallimento anche a causa dell’esitante strategia americana in Medio Oriente. Nel giugno 2014 il rapimento e l’uccisione di tre ragazzi israeliani in Cisgiordania, di cui I. attribuiva ad Ḥamās la responsabilità, conduceva nel giro di poche settimane a una nuova guerra a Gaza, la quarta dal 2006, durata quasi 50 giorni. L’operazione Margine protettivo (oltre 2100 i morti palestinesi, circa 70 gli israeliani), era finalizzata alla distruzione dei tunnel scavati da Ḥamās in territorio israeliano; il cessate il fuoco congiunto del 26 agosto, raggiunto con la mediazione dell’Egitto, portava allo scoperto la totale assenza in entrambi gli schieramenti di una strategia politica per raggiungere la pace.

elezioni

Nel 2015 la vita interna del Paese era messa alla prova da un nuovo simbolico appuntamento. Nelle elezioni del marzo 2015 l’elettorato era chiamato a pronunciarsi sull’idea stessa d’I. delineata nel disegno di legge voluto da Netanyahu, che definiva I. ‘Stato della nazione ebraica’, e le urne premiavano il premier uscente e le sue parole d’ordine sempre più radicali: sionismo religioso, nazionalismo e colonizzazione. Il Likud conquistava 30 seggi, seguito dal-l’Unione sionista (24 seggi), lista elettorale di centrosinistra, e, a sorpresa, dalla coalizione dei partiti arabi israeliani che si aggiudicava un risultato storico con 14 seggi. Decisive per la formazione del governo si rivelavano, però, le formazioni più piccole della destra estremista (La casa ebraica) e ultraortodossa (Shas e Giudaismo unito della Torah) che salvavano Netanyahu a poche ore dalla scadenza del mandato esplorativo. Una maggioranza tentennante, tuttavia, che si prestava inevitabilmente a possibili rimescolamenti.

Bibliografia: T. Hermann, How the peace process plays inIsrael, «Current history», 2010, http://www.openu.ac.il/Personal_sites/download/Tamar-Hermann/how-the-peace-process.pdf(31 agosto 2015); A. Sharon, Failure in Gaza, «The New York review of books», 2014, http://www.nybooks.com/articles/archives/2014/sep/25/failure-gaza/ (31 agosto 2015); Il buio oltre Gaza, «Limes», 2014, 9, nr. monografico: Le maschere del califfo, parteIII; D. Shulman, Bibi. The hidden consequences of his victory, «The New York review of books», 2015, http://www.nybooks.com/articles/archives/ 2015/apr/23/bibi-hidden-consequenceshis-victory/ (31 agosto 2015).

Architettura di Livio Sacchi. – Grazie agli intensi scambi culturali e professionali con l’Europa e gli Stati Uniti e ai contributi di progettisti ebrei residenti in ogni parte del mondo, I. costituisce uno dei Paesi più interessanti e internazionali dal punto di vista architettonico. Gerusalemme e Tel Aviv, le sue due principali città, rappresentano la prima la storia antica e religiosa del Paese, la seconda quella recente, legata alla stessa costituzione dello Stato moderno.

Tel Aviv Museum of art

Alle straordinarie testimonianze archeologiche del passato, quali, per es., la fortezza di Masada nel deserto del Mar Morto o le rovine del palazzo di Erode lungo la costa mediterranea, oggi restaurate e valorizzate a fini turistici, si affiancano numerosi e qualificati esempi recenti che fanno di I. un significativo punto di riferimento sulla scena architettonica contemporanea. Tel Aviv in particolare, tra le più vivaci e cosmopolite città del Medio Oriente, include la cosiddetta Città Bianca, pressoché esclusivamente costituita da edifici razionalisti realizzati negli anni Trenta e Quaranta del 20° sec.: un raro esempio di insieme urbano di gusto Bauhaus, non a caso dichiarato patrimonio UNESCO nel 2004. Tel Aviv fra l’altro, si è aggiudicata lo World smart cities award allo Smart City expo world congress che si è tenuto a Barcellona nel 2014. All’interno della Tel Aviv global city vision, ambizioso progetto promosso nel 2012 dalla municipalità metropolitana di Tel Aviv-Giaffa, particolarmente apprezzate sono state la copertura wi-fi dell’intera area metropolitana e la carta per i servizi digitali, che consente il contatto diretto con le pubbliche amministrazioni e l’aggiornamento in tempo reale sui servizi offerti, alla quale hanno aderito più di 100.000 residenti. Oltre a rendere la città progressivamente più attenta alle esigenze dei suoi abitanti, tra i principali obiettivi del progetto si segnala la trasformazione di Tel Aviv in un grande centro finanziario, culturale e turistico di livello internazionale. La città vanta attualmente il maggior numero di musei pro capite al mondo: oltre 20. Tra i molti edifici significativi, si ricordano: il Tel Aviv Museum of art (2011), dell’architetto statunitense Preston Scott Cohen; la Peace Peres House (2009), realizzata da Massimiliano e Doriana Fuksas a Giaffa; il Design Museum (2010) a Holon, progettato da Ron Arad all’interno di una nuova area culturale nella parte est della città; la biblioteca e il centro di ricerca in memoria del primo ministro Yitzhak Rabin (2010) ucciso nel 1995, opera dell’architetto israeliano Moshe Safdie. A Gerusalemme si ricordano lo Yad Vashem, monumentale museo dell’Olocausto, progettato dallo stesso Safdie e inaugurato nel 2005, e l’espansione dello Israel Museum (2010) di James Carpenter Design Associates ed Efrat-Kowalsky Architects. Il primo museo israeliano dedicato all’architettura è stato ideato e voluto dal regista Amos Gitai presso lo studio del padre, l’architetto Munio Gitai Weinraub (1909-1970), a Haifa (2012). Da ricordare infine il Nesher Memorial (2013), che è stato progettato dallo studio israeliano SO Architecture a Nesher e che all’interno dei suoi arditi volumi ospita un auditorium e una galleria.

Porter School of environmental studies

Tra i molti altri recenti esempi realizzati a Tel Aviv vanno ancora ricordati: la torre residenziale su Rothschild Boulevard (2009-15) disegnata da Richard Meier & Partners; il complesso B.S.R 3 (2013), due torri che ospitano uffici e negozi nel distretto Bnei Brak, di Yashar Architects; la Porter School of environmental studies (2014) della TAU (Tel Aviv University), la più grande università del Paese, opera degli studi Geotectura+Chen Architects+Axelrod Grobman Architects, primo edificio ecologico israeliano ad aver conseguito il certificato LEED Platinum (Leadership in Energy and Environmental Design). Ancora si segnalano: la scuola ortodossa a Remle, dello studio Dan and Hila Israelevitz Architects con Simon Amsis a Gerusalemme, inaugurata nel 2010; la stazione di Sderot (2010), 7 km a est di Gaza, sulla nuova linea tra Ashkelon e Beer-Sheva, di Ami Shinar/Amir Mann Architects and Planners, a Sderot; la biblioteca Tirat Carmel (2013), ai piedi del monte Carmelo, di Schwartz Besnosoff Architects; l’articolata torre per appartamenti Z Design Building (2013) a Holon, non lontano dal sopra ricordato Design Museum e l’addizione allo Shenkar Campus con l’edificio Pernik (2014), che ospita un’accademia e i relativi uffici amministrativi, a Ramat Gan, entrambi degli architetti Ami Shinar e Amir Mann.

Letteratura di Elisa Carandina. – Nel contesto della produzione letteraria multilinguistica di I., il panorama attuale in lingua ebraica presenta numerosi elementi di continuità con quello internazionale e con il periodo di revisione della narrazione sionista propria della nuova letteratura ebraica, mostrando particolare attenzione a una riflessione identitaria, linguistica e spaziale che rimanda in modo più evidente alle fasi iniziali di questa letteratura.

Per quanto riguarda la prosa, dal punto di vista forma le sembra delinearsi un ritorno alle scritture neorealiste o post realiste, secondo una tendenza nettamente distinguibile nello scenario letterario globale, fenomeno che interessa le generazioni più giovani o le opere più recenti di autori già affermati. Dal punto di vista tematico, invece, la decostruzione della narrazione sionista, cronologicamente riconducibile alla produzione successiva alla guerra di Kippur, costituisce ancora la nota dominante del panorama letterario. In continuità con la polifonia caratteristica di questa fase, sembra infatti prevalere una riflessione sulle identità del singolo, spesso sviluppata in parallelo a un percorso di revisione dei miti fondanti della cultura e della società israeliane. Attraverso tale filtro si è sviluppato un approfondimento della relazione tra individuo e norme sociali e linguistiche, un’analisi del rapporto con lo spazio e le sue implicazioni identitarie, una rilettura di diverse tradizioni che accomuna il variegato panorama legato in particolare alle generazioni di autori nati negli anni Sessanta e Settanta, di cui sono un esempio le opere di Lea Aini (n. 1962), Boris Zaidman (n. 1963), Yael Hedaya (n. 1964), Ayelet Shamir (n. 1964), Assaf Gavron (n. 1968), Sami Berdugo (n. 1970), Eshkol Nevo (n. 1971), Alex Epstein (n. 1971), Alon Hilu (n. 1972), Shimon Adaf (n. 1972), Sayyed Kashua (n. 1975), Ron Leshem (n. 1976), Asaf Schurr (n. 1975), Nir Baram (n. 1977) e Almog Behar (n. 1978). In questa prospettiva può inoltre essere letto il frequente ricorso alla saga familiare come nell’ultimo romanzo di Zeruya Shalev (n. 1959) Še᾿erit haḥayyim (2011; trad. it. Quel che resta della vita, 2013), in Wiqṭor we-Ma᾿šah (2012, Victor e Masha) di Alona Kimhi (n. 1966), Qol ṣe῾adenu (2008; trad. it. Il suono dei nostri passi, 2011) di Ronit Matalon (n. 1959), Zeh ha-devarim (2010, Questo è le parole) di Sami Berdugo (n. 1970), Šum gammadim lo yavo᾿u (2005; trad. it. La pazienza della pietra, 2008) di Sarah Shilo (n. 1958). Nelle sue versioni più recenti questo genere tende sempre più ad associare eventi storici e note autobiografiche, e talvolta künstlerroman, come negli ultimi romanzi di Yoram Kaniuk (n. 1930) e Hayyim Beer (n. 1949), in Ṣillah (2013) di Yehudit Katzir (n. 1963), Yolandah (2011) di Moshe Sakal (n. 1976). Se i primi due elementi sembrerebbero dominare anche in Ha-roma᾿n hamiṣri (Romanzo egiziano) di Orly Castel-Bloom (n. 1960) di prossima pubblicazione, attorno a una riflessione sulla creazione artistica si sviluppa invece l’ultimo romanzo di Abraham B. Yehoshua (n. 1936) Ḥesed sefaradi (2011; trad. it. La scena perduta, 2011), tema che si ritrova anche nella più recente opera di David Grossman (n. 1954) Sus eḥad niknas le-bar (2014; trad. it. Applausi a scena vuota, 2014).

Le varie forme di life writing costituiscono un importante elemento del panorama recente sia in rapporto alla rilettura di luoghi e momenti simbolici della storia di I., come, per es., il romanzo autobiografico Hayinu he-῾atid (2011, Eravamo il futuro) di Yael Neeman (n. 1960) – il quale si inserisce inoltre nel filone che rilegge sotto diversi punti di vista l’esperienza del kibbutz alla quale appartengono anche Ha-baytah (2009, Verso casa) di Assaf Inbari (n. 1968) e Ben ḥaverim (2012; trad. it. Tra amici, 2012) di Amos Oz (n. 1939) cui si deve anche Sippur ῾al ahavah weḥošek (2002; trad. it. Una storia di amore e di tenebra, 2003) – sia per quanto riguarda la sperimentazione stilistica come nel caso di Curriculum vitae (2007) di Yoel Hoffmann (n. 1937). Nel contesto della corrente postmoderna si conferma inoltre il ruolo di Etgar Keret (n. 1967), del quale alcuni racconti sono stati adattati e illustrati dando luogo a numerose collaborazioni nell’ambito della graphic novel. A tale riguardo, da un lato, si possono riscontrare numerose affinità tematiche tra la produzione originale propria della graphic novel e la prosa, dall’altro, un’influenza di questo genere sul vasto panorama della narrativa per l’infanzia.

Infine, il genere fantasy ha di recente avuto uno sviluppo particolarmente significativo, mentre si conferma l’interesse per quello poliziesco.

La produzione poetica e teatrale. – Per quanto riguarda la poesia, la fase più recente sembra riprendere, senza tuttavia le sue implicazioni ideologiche, il dibattito formale che ha storicamente caratterizzato la riflessione in questo ambito. Dalla contrapposizione tra stile minimalista proprio di David Vogel (1891-1944) e stile magniloquente di Avraham Shlonsky (1900-1973) nel contesto della produzione modernista in lingua ebraica fino alla polemica degli anni Sessanta tra Natan Zach (n. 1930) e Natan Alterman (1910-1970), gli obblighi formali che la nuova poesia ebraica avrebbe dovuto rispettare per meglio rispondere ai nuovi contenuti di cui avrebbe dovuto trattare costituiscono il tema principale di tutta una serie di manifesti letterari che distinguono non solo le diverse generazioni, ma anche il rapporto tra centro e periferia all’interno di una medesima corrente. Pur con le dovute eccezioni, il panorama che si è andato delineando è quello del primato di una lingua prossima a quella quotidiana nella volontà di rispecchiare formalmente la «sensibilità per il mondo degli uomini e delle cose» assente, secondo Zach, nella poesia neosimbolista della generazione precedente. Il rifiuto di prosodia e versificazione classiche per privilegiare il verso libero, la rima interna, un andamento prosaico e l’uso di un lessico improntato sulla lingua parlata e quotidiana hanno senza dubbio prevalso negli autori nati negli anni Venti e Trenta ed è stato reinterpretato, con alcune importanti variazioni stilistiche, dalla generazione successiva che ha inoltre riletto l’individualismo proprio della rivoluzione di Zach affrontando nuove sfumature dell’io nonché del suo rapporto con la realtà. Ne sono un esempio le opere di Aharon Shabtai (n. 1939), Meir Wieselther (n. 1941), Yair Hurvitz (1941-1988), Yona Wollach (1944-1985), Aghi Mishol (n. 1947), Yitzhak Laor (n. 1949), Naim Araidi (n. 1950), Ronny Someck (n. 1951), Maya Bejerano (n. 1959) e Leah Aini (n. 1962). Accanto a queste tendenze, o in alcuni casi volutamente in margine, si colloca infine la poesia elaborata in riferimento al contesto religioso, per es. quella di Admiel Kosman (n. 1957), Yonadav Kaplan (n. 1963), Hava Pinhas-Cohen (n. 1955) e Miron Izakson (n. 1956), e un ritorno a forme classiche, di cui Dory Manor (n. 1971) è l’esponente di maggior rilievo, non soltanto con le sue opere, ma anche tramite la rivista da lui diretta «Ho!».

Il panorama teatrale si caratterizza per un incremento significativo delle opere originali in lingua ebraica che, all’inizio del 21° sec., costituivano la metà delle pièces rappresentate. Accanto alla conferma della centralità di Nissim Aloni (1926-1998), Yehoshua Sobol (n. 1939) e Hanoch Levin (1943-1999), si sono di recente sviluppati nuovi percorsi che, riprendendo esplicitamente tendenze storicamente presenti nella drammaturgia, offrono nuove chiavi di lettura. I temi propri della realtà sociale e politica, la Shoah, la riflessione esistenzialista e la Bibbia sono rimasti i percorsi tematici privilegiati, nel segno tuttavia di un’innovazione stilistica di cui sono un esempio il progetto dedicato alla Bibbia di Rina Yerushalmi (n. 1939) e le opere teatrali di Nola Chilton (n. 1922), Miriam Kainy (n. 1942), Edna Mazya (n. 1949) e Yosefa Even-Shoshan (n. 1965). Particolarmente vivace appare inoltre la produzione riconducibile al milieu religioso di cui sono un esempio le rappresentazioni della Qevuṣat ha-te᾿aṭron ha-yerušalmi (Compagnia teatrale gerosolimitana).

Bibliografia: D. Urian, The Judaic nature of Israeli theatre. A search for identity, Amsterdam 2000; S. Levy, C. Shoef, Qanon ha-te᾿aṭron ha῾ivri. Me᾿ah haṣagot we-῾od aḥat (Il canone del teatro ebraico. Centouno pièces), Tel Aviv 2002; Y. Schwartz, Mah še-ro᾿im mikka᾿n. Sugyot ba-hisṭoriografiah šel hasifrut ha-῾ivrit ha-ḥadašah (Quello che si vede da qui. Problematiche storiografiche della nuova letteratura ebraica), Or Yehudah 2005; D. Miron, The prophetic mode in modern Hebrew poetry andother essays, New Milford (Conn.) 2010; G. Kaynar, Z. Caspi, Ṣefiyyah ḥozeret. ῾Iyyun meḥuddaš be-maḥaza᾿ut maqor (Un’altra visione. Una nuova analisi della produzione teatrale originale), Be’er Sheva 2013; L. Levy, Poetic trespass. Writing between Hebrew and Arabic in Israel and Palestine, Princeton (N.J.) 2014; A. Mendelson-Maoz, Multiculturalism in Israel. Literary perspectives, West Lafayette (Ind.) 2014.

Cinema di Giuseppe Gariazzo. – La cinematografia israeliana del 21° sec. ha trovato un posto di rilievo nella storia del cinema per la presenza di registi in grado di farla crescere affrontando con stile personale argomenti eterogenei, uscendo da una narrazione che, nei decenni precedenti, si era concentrata quasi esclusivamente su questioni storiche, politiche, sociali inerenti la complessa situazione mediorientale. In un certo senso, gli autori del nuovo cinema israeliano, assieme a un autore ‘storico’ come Amos Gitai (v.), hanno portato avanti, in maniera più stratificata, quello che, dagli anni Sessanta, è stato definito il cinema della ‘nuova sensibilità’.

Dancing Arabs

In primo piano si è collocata l’opera di Ronit Elkabetz e Shlomi Elkabetz che, fra il 2004 e il 2014, hanno realizzato una potente trilogia sulle relazioni sentimentali composta da Ve’ Lakhta Lehe Isha (2004, Prendere moglie), Shiva (2008, Sette giorni) e Gett (2014; Viviane). L’omosessualità è stata descritta da Eytan Fox in film come Yossi ve᾿ Jager (2002;Yossi & Jager) e Yossi (2012), dittico con protagonisti militari dell’esercito, in Ha-bua (2006, La bolla), storia di una città, Tel Aviv, e dell’amore fra un soldato israeliano e un ragazzo palestinese, e nella commedia musicale Bananot (2013, nota con il titolo Cupcakes). Fra i registi più acclamati da segnalare Eran Riklis, che ha raccontato con intensità il conflitto fra I. e Siria in Ha᾿kala ha᾿surit (2004; La sposa siriana) e fra I. e Palestina in Etz limon (2008; Il giardino di limoni) e Aravim rokdim (2014, noto con il titolo Dancing Arabs). Con pochi titoli, Keren Yedaya ha costruito un solido percorso ponendo in evidenza indimenticabili figure femminili nel film d’esordio Or (2004, Mio tesoro) e nei seguenti Kalat ha᾿yam (2009, noto con il titolo Jaffa) e Harhek miheadro (2014, noto con il titolo That lovely girl).

Filmografia apolide esemplare è stata quella di Raphaël Nadjari, uno dei cineasti più rappresentativi del nuovo cinema israeliano. Ai primi tre film realizzati a New York, hanno fatto seguito due opere nel segno di rapporti di coppia, familiari e di tensioni religiose: Avanim (2004, Pietre), girata a Tel Aviv, e Tehilim (2007), a Gerusalemme. Meno convincente è stata la bizzarra e stralunata commedia familiare ambientata a Haifa Me᾿al ha᾿giva (2013, nota con il titolo A strange course of events).

Due notevoli esordi sono stati quelli delle cineaste Vardit ‘Vidi’ Bilu e Dalia Hager con Karov la᾿bait (2005, Vicino a casa), storia dell’amicizia fra due soldatesse a Gerusalemme durante la seconda Intifada, e di David Volach con Hufshat kaitz (2007, Mio Padre, mio Signore), dove la tranquilla esistenza di una famiglia ortodossa è minata da una inquietante premonizione. Altre pregevoli opere prime sono state Meduzot (2007; Meduse), ritratto di donne nella moderna Tel Aviv diretto dall’attrice Shira Geffen e dallo sceneggiatore e scrittore Etgar Keret; Bikur ha᾿tizmoret (2007; La banda) di Eran Kolirin, vicende surreali di una banda musicale egiziana in un villaggio israeliano; e il controverso Lebanon (2009) di Samuel Maoz, in cui l’invasione israeliana in Libano nel 1982 è vista dall’interno di un carro armato. Lo stesso episodio storico è stato raccontato da Ari Folman nel documentario d’animazione Vals im Bashir (2008; Valzer con Bashir). Sempre attento alla sperimentazione, Folman ha poi diretto negli Stati Uniti il fantascientifico The Congress (2013), intreccio di animazione e scene dal vero.

Avi Mograbi ha affidato al documentario, contenente indizi autobiografici, la sua riflessione sulla situazione mediorientale in Nekom ahat mi᾿shtei eynai (2005; Per uno solo dei miei due occhi), Z32 (2008), Nichnasti pa᾿am lagan (2012, Sono entrato nel mio giardino).

Bibliografia: E. Shohat, Israeli cinema. East/West and the politics of representation, Austin 1989, nuova ed. London-New York 2010; Il cinema israeliano contemporaneo, a cura di M.G. De Bonis, A. Schweitzer, G. Spagnoletti, Venezia 2009; Israeli cinema. Identities in motion, ed. M. Talmon, Y. Peleg, Austin 2011.

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