ISABELLA d'Aragona, duchessa di Milano

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 62 (2004)

ISABELLA d'Aragona, duchessa di Milano

Francesca M. Vaglienti

Figlia secondogenita di Alfonso d'Aragona, duca di Calabria, e della colta e raffinata Ippolita Maria Sforza, nacque il 2 ott. 1470 a Napoli, in Castel Capuano. Educata nel raffinato ambiente culturale napoletano, trasse grandi insegnamenti nell'arte del governo e sviluppò un altrettanto marcato orgoglio per l'appartenenza alla casata aragonese.

Nel 1471 I. venne promessa sposa al cugino Gian Galeazzo Maria Sforza, primogenito ed erede del quinto duca di Milano Galeazzo Maria: l'atto ufficiale fu rogato a Napoli dal regio notaio Antonio d'Aversa soltanto il 26 sett. 1472, poiché, trattandosi di nozze tra consanguinei, era occorsa la dispensa pontificia, opportunamente concessa da Sisto IV. Nel 1479 ebbe occasione di conoscere due dei personaggi che più avrebbero segnato il suo destino: Ludovico il Moro, di passaggio a Napoli durante l'esilio da Milano inflittogli dal governo di reggenza di Bona di Savoia e Cicco Simonetta, e la cugina Beatrice d'Este che, condotta alla corte partenopea dalla madre Eleonora d'Aragona, marchesa di Ferrara, vi soggiornò sino al 1485, dimorando in Castel Capuano.

Nel 1480, quando il Moro aveva ormai consolidato il proprio potere sul Ducato di Milano, ancora retto nominalmente da Bona di Savoia, si procedette a un rinnovo del contratto matrimoniale tra I. e Gian Galeazzo Maria, rogato a Napoli il 30 aprile dal notaio Antonio d'Aversa, con successiva ratifica a Milano, nel castello di Porta Giovia, il 23 giugno, alla presenza, fra gli altri, dei reggenti Bona e Ludovico. Il 26 apr. 1480, il Moro aveva peraltro già ufficializzato il proprio fidanzamento con la piccola Beatrice d'Este: le due cugine erano dunque consapevoli che si sarebbero ritrovate entrambe alla corte milanese, spose l'una del duca e l'altra del suo tutore.

Negli anni immediatamente successivi, con il crescere dell'autorità politica esercitata da Ludovico Sforza, crebbero i motivi di malcontento nei confronti della sua politica estera, avvertita come spregiudicata e pericolosa per la stabilità dell'equilibrio instauratosi tra i potentati della penisola: una diffidenza che si manifestava nel lanciare al reggente del dominio sforzesco una serie di accuse, più o meno veritiere, sull'atteggiamento oppressivo adottato nei confronti del nipote e legittimo erede al trono ducale. Furono forse l'opportunità di fugare ogni possibile ombra di illegittimità del potere esercitato e la necessità di rafforzare l'alleanza con la casa aragonese contro le mire egemoniche di Venezia a spingere il Moro a sollecitare le nozze tra I. e Gian Galeazzo Maria, ma anche - probabilmente - l'indubbio vantaggio di alloggiare stabilmente a corte la figlia del futuro re di Napoli, quale illustre ospite e prezioso ostaggio.

Nell'agosto 1488, Ludovico inviò a Napoli Agostino Calco, figlio del suo fidato primo segretario Bartolomeo, per concludere i negoziati sulla dote, convenuta in 100.000 ducati da pagarsi 80.000 all'atto del matrimonio e 20.000 entro l'anno successivo. Nel mese di dicembre, giunsero quindi a Napoli su sei galee le circa 400 persone che componevano il magnifico corteo nuziale milanese al seguito di Hermes Sforza, fratello di Gian Galeazzo Maria, che - secondo l'uso - avrebbe dovuto sposare I. per procura. Tra i principali gentiluomini milanesi figuravano il conte di Caiazzo Gian Francesco Sanseverino, Bernardino Visconti, il vescovo di Como Antonio Trivulzio, i poeti Gaspare Visconti, Galeotto Del Carretto e Bernardo Bellincioni, Antonio da Corte e Ambrogio da Corte, spia del Moro e futuro acerrimo nemico di Isabella. Le nozze, che ufficialmente avrebbero dovuto consolidare l'alleanza politica tra le casate sforzesca e aragonese, furono celebrate a Napoli, nella reggia di Castelnuovo, il 21 dic. 1488: Hermes, in nome del fratello duca di Milano, pose l'anello matrimoniale al dito d'I.; il vescovo di Como pronunciò l'orazione; la regina Giovanna, in abito castigliano, e la giovane sposa, in abito napoletano, eseguirono una breve danza; Gabriele Altilio, poeta dell'Accademia Pontiniana e maestro di latino e greco di I., celebrò l'evento con un epitalamio di 270 esametri.

Il giorno seguente, re Ferdinando I - in veste di procuratore del figlio Alfonso duca di Calabria - e il segretario G. Pontano firmarono l'atto con il quale si ordinava alla filiale partenopea del banco degli eredi di Ambrogio Spannocchi e compagni, di Siena, di versare immediatamente e in contanti a Hermes Sforza e a Gian Francesco Sanseverino gli 80.000 ducati, in oro genuino, della prima rata dotale. Nell'occasione sorsero tuttavia pesanti dissapori tra la delegazione milanese e la corte aragonese: la prima accusò il sovrano napoletano di avere tentato di spacciare monete false e di minor peso per una frode complessiva stimata in circa 15.000 ducati.

Il 30 dicembre, nonostante le crescenti astiosità tra le due rappresentanze, il corteo nuziale si imbarcò su 11 galee dirette a Genova, per poi proseguire a cavallo verso Milano. Al seguito di I. partiva una compagnia composta da circa 400 persone tra dame, donzelle, guardarobieri, staffieri, schiavi e schiave, oltre a una selezionata schiera dei principali gentiluomini del Regno. La traversata del Tirreno, a causa dei forti venti invernali, incontrò non poche difficoltà e la flotta dovette sostare a Gaeta, a Civitavecchia - dove Ascanio Sforza si recò a rendere omaggio alla nipote -, a Porto Ercole, a Piombino e quattro giorni a Livorno, dove I. ricevette doni e omaggi da un'ambasceria appositamente inviata da Firenze.

Il 18 genn. 1489, la giovane sposa, in cattivo stato di salute, poté infine sbarcare a Genova, accolta da salve di artiglieria e al suono di campane e confortata da una delegazione composta, tra gli altri, da Sforza Secondo, fratellastro del Moro, Annibale Bentivoglio, Galeotto della Mirandola, Beatrice d'Este, sorella del marchese di Ferrara e vedova di Tristano Sforza, e la moglie di Agostino Doria, governatore di Genova. I. si trattenne nel capoluogo ligure per alcuni giorni, al fine di riprendersi completamente dai postumi del mal di mare e nonostante l'insistenza dimostrata da Ludovico di averla a Milano il prima possibile, per poi recarsi a Tortona, designata come luogo di incontro con lo sposo, dove giunse il 25 del mese.

Il nobile patrizio tortonese Bergonzio Botta si incaricò di approntare nel suo palazzo il coreografico banchetto di accoglienza: ogni portata venne infatti preceduta dall'allocuzione di un personaggio mitologico; levate le mense, venne recitata una favola musicata, seguita - a conclusione della serata - da una scena farsesca. Gli sposi si ritirarono dunque in stanze separate del palazzo arcivescovile, preposto a ospitarli per la notte. Fu soltanto nel castello di Vigevano, la sera del 28 gennaio 1489, che si portò a compimento la tragedia della prima notte di nozze: Gian Galeazzo Maria, dimostrando freddezza se non addirittura avversione sessuale nei confronti della moglie, mancò ai suoi doveri coniugali. E il Moro ne rise, anche pubblicamente.

Da Vigevano, l'avvilita I. partì, diretta ad Abbiategrasso, dove si recò in visita alla duchessa vecchia, come era soprannominata Bona di Savoia, per poi giungere, il 1° febbraio, a Milano, accolta da una folla festante schierata lungo le rive del Naviglio.

All'ambasciatore ferrarese Giacomo Trotti, presente all'evento, la giovane duchessa non pare abbia suscitato grandi emozioni, visto che la definisce "negretta di volto e non molto bella" (Dina, 1921, p. 292). Alla darsena di porta Ticinese, I. fu accolta dallo sposo, accompagnato da un corteo di 500 gentiluomini e dalla sua guardia, composta da stradiotti, mamelucchi e balestrieri a cavallo. Tenendosi per mano, i due sposi attraversarono la città sino al castello di Porta Giovia, pavesato a festa. Bianca Maria, cognata d'I., l'accompagnò alla sala grande della torre, dove troneggiava il sontuoso letto nuziale. Il 2 febbraio, in duomo, venne ripetuta la cerimonia di nozze, celebrata dal vescovo di Piacenza Fabrizio Marliani: le vie della città erano coperte da panni bianchi, come bianchi erano gli abiti degli sposi, le mura rivestite da tappezzerie e festoni di ginepro e melarancio, mentre nella contrada degli Orefici, da una sfera dorata adorna degli emblemi sforzeschi, un fanciullo vestito da Cupido apostrofava la coppia con versi gioiosi.

La sfarzosa benevolenza ostentata dal Moro in occasione delle nozze dei nipoti era tuttavia destinata ad assai breve durata: già all'indomani dell'evento, Ludovico rinfacciò apertamente alla delegazione napoletana di aver dovuto soccorrere il loro Regno per ben tre volte e il tentativo del sovrano aragonese di frodarlo sulla dote di Isabella. Pochi giorni dopo, la coppia ducale veniva invitata dal reggente a trasferirsi nel castello di Pavia, designato quale loro residenza principale, con un appannaggio annuo di 13.000 ducati: sorsero, nell'occasione, i primi accesi contrasti tra il Moro e I., che, acutamente, interpretava l'esilio forzato del marito da Milano come un ulteriore suo allontanamento dal centro del governo ducale e l'entità minima della provvigione annua assegnata loro come una limitazione economica diretta a privarli di ogni adeguato strumento di esercizio di potere.

I. non si sbagliava: la loro corte era infatti composta esclusivamente da schiavi, servi e spie del Moro. Di più, ottenuto dallo zio che l'appannaggio annuo crescesse a 15.000 ducati, dovette tuttavia soggiacere alla regola che ogni loro singola spesa venisse giustificata innanzi al tesoriere del reggente e si vide rimproverata pubblicamente perché, abituata, secondo l'uso napoletano, a bevande dolci, consumava una quantità considerata troppo elevata di zucchero. Alternando le lacrime alle perorazioni, I. non si arrese innanzi a Ludovico, ottenendo poi di disporre lei di 40 ducati al mese, Gian Galeazzo Maria di 100.

Di contro, la tenacia di I. non riusciva a superare i problemi sessuali del coniuge che, continuamente e pubblicamente sbeffeggiato dallo zio, incominciò a bere in maniera smodata: era del resto tutto interesse del Moro che il nipote non procreasse eredi legittimi al Ducato e perdesse, una volta riconosciuta ufficialmente la sua impotenza, ogni diritto al governo dello Stato. Sotto la pressione del sovrano aragonese che, allertato da I. delle condizioni indecorose in cui la coppia ducale si trovava a vivere, intervenne politicamente presso la corte milanese, Ludovico si decise, nel 1490, a disporre splendidi festeggiamenti a Milano in onore degli sposi, delegando a Leonardo da Vinci il compito di organizzare la coreografia dell'evento, passato alla storia come festa "del Paradiso" dal soggetto di un carro meccanico allegorico, raffigurante l'empireo e i corpi celesti, inventato per l'occasione dal genio toscano.

Nella primavera di quell'anno, nel castello di Vigevano, altra residenza lontana dal capoluogo lombardo cui la coppia era stata destinata, il matrimonio venne infine consumato e I. rimase incinta, accrescendo l'ansia del Moro, assai poco allietato dalla notizia dell'imminente nascita di un successore legittimo del nipote. Trasferitasi a Pavia, I. venne raggiunta da Leonardo da Vinci che, nell'estate 1490, ideò per lei un'elegante sala da bagno racchiusa in un padiglione di marmo, illuminato dall'alto e dotato di un impianto idraulico autoalimentato.

A questo periodo, forse tra i più felici che I. ebbe occasione di trascorrere con Gian Galeazzo Maria, risale probabilmente il di lei ritratto, in nero e rosso, eseguito da Bernardino de' Conti e ora conservato agli Uffizi. Era una spensieratezza destinata però a breve durata.

Il 14 genn. 1491, giunse a Pavia Beatrice d'Este che, già il 17 del mese, convolò a nozze con il promesso sposo Ludovico Sforza: assente di eccellenza alla cerimonia privata la coppia ducale, volutamente non invitata dal Moro. I. venne invece chiamata ad accogliere ufficialmente la cugina durante la ripetizione delle nozze celebrate a Milano pochi giorni dopo. In occasione dei festeggiamenti, tra I., titolare di un potere fittizio, e Beatrice, duchessa di Bari e signora effettiva del dominio sforzesco, incominciò a manifestarsi una rivalità via via più marcata: ad accentuarne i toni, la nascita del primogenito di I. e Gian Galeazzo Maria, Francesco, avvenuta a Milano il 30 genn. 1491, proprio a chiusura del magnifico corteo che il Moro aveva indetto per celebrare le proprie nozze. Il 2 febbr. 1494, nel castello di Vigevano, avrebbe visto la luce Bona; due bambine, Bianca, nata il 26 genn. 1493, e Ippolita, nata il 1° marzo 1495, morirono in tenera età.

Nel 1492, il precario equilibrio su cui si reggevano gli Stati italiani subì una prima forte scossa, aggravata dalla scomparsa di Lorenzo de' Medici, dall'ostilità sempre più aperta che il Moro manifestava contro il Regno di Napoli e dall'elezione al soglio pontificio di papa Innocenzo VIII, avversario del casato aragonese.

Nonostante condividessero gli svaghi di corte, la competizione politica tra le due coppie ducali, di Bari e di Milano, si andò accentuando e, in dicembre, I. venne formalmente accusata dal Moro, tramite ambasceria presso il re Alfonso d'Aragona, di avere tentato di far avvelenare Galeazzo Sanseverino e un tal Rozzone, favorito di Gian Galeazzo Maria e da lei ritenuto esercitare una nefasta influenza sul giovane consorte. La missione diplomatica milanese sortì, come prevedibile, il solo risultato di aggravare la crescente acrimonia tra i due casati e, come conseguenza diretta, l'inimicizia tra i due Stati. Una crisi che, con la nascita a Ludovico, nel gennaio 1493, del primogenito maschio Massimiliano, era destinata ad acuirsi ulteriormente: ne è testimonianza una lettera in latino, scritta da I. al padre Alfonso d'Aragona, nella quale chiese l'intervento dell'anziano sovrano di Napoli affinché il clima di totale e umiliante isolamento fisico e politico che il Moro aveva imposto alla coppia ducale venisse alfine interrotto. La missiva, pervenuta alla corte partenopea nonostante Ludovico fosse uso intercettare la corrispondenza di I. e talvolta eliminarne fisicamente i latori, produsse grande risentimento nel Regno. Ferdinando I e Alfonso d'Aragona, sdegnati, invitarono ufficialmente il reggente milanese a restituire il potere del dominio all'usurpato nipote; Ludovico, nel replicare la sua totale devozione all'erede legittimo, trattò invece contemporaneamente le nozze di Bianca Maria, sorella di Gian Galeazzo Maria, con il futuro imperatore Massimiliano e, per sé e discendenza, l'investitura al Ducato milanese.

Il conflitto tra i due casati si estese a coinvolgere gli Stati stranieri: nel maggio 1494, stretta alleanza con Firenze e il neoeletto pontefice Alessandro VI, Alfonso d'Aragona mosse in aperta ostilità contro Ludovico Sforza, occupando il feudo di Bari; il Moro replicò, coinvolgendo nel conflitto il re di Francia, Carlo VIII, le cui mire espansionistiche sul Meridione d'Italia erano note, accompagnato però dal duca Luigi d'Orléans, le cui rivendicazioni sul Ducato di Milano, per via della parentela con i Visconti, paiono invece essere state mal calcolate nella contorta politica di sopravvivenza innescata dallo Sforza.

Dopo avere cercato invano di scongiurare la guerra tra Milano e Napoli, la giovane duchessa, all'arrivo in Lombardia di Carlo VIII, si incontrò a Pavia con il sovrano per convincerlo, al capezzale dell'ormai agonico Gian Galeazzo Maria, a dimostrare clemenza nei confronti della casa aragonese. Durante l'incontro con il cugino d'Oltralpe, il giovane infermo, più lucido dello scaltro zio nel leggere il destino politico del Ducato che non aveva mai governato, affidò le sorti del figlio Francesco alla benevolenza del re di Francia. Il 21 ott. 1494, Gian Galeazzo Maria morì, probabilmente per avvelenamento da arsenico perpetrato dal Moro tramite il suo medico di fiducia, Ambrogio da Rosate (Ambrogio Varese). Il mattino dopo, a Milano, Ludovico si fece riconoscere legittimo signore del Ducato.

I. si trovò così ad affrontare contemporaneamente, da sola e in terra ostile, la tragica scomparsa del marito, la vittoriosa avanzata dell'esercito di Carlo VIII contro il Regno paterno e l'usurpazione del trono ducale lombardo al figlio Francesco. Incinta e prostrata dalle disgrazie occorse, I. cadde in un profondo stato di depressione, dal quale emerse soltanto all'inizio dell'anno successivo quando, abbandonata la corte di Pavia, si trasferì a Milano per alimentare, se non accelerare, le diffidenze che tra gli stessi alleati del Moro iniziavano a covare nei confronti del nuovo duca.

Al palese voltafaccia sforzesco nei confronti del re di Francia, I. tentò infatti di affiancare l'inimicizia di Massimiliano I, ma l'Asburgo - comprato con 100.000 ducati - ne denunciò l'operato a Ludovico, che la fece rinchiudere in stretta segregazione. Il 26 maggio 1495, il Moro - e legittima discendenza - venne solennemente investito del titolo imperiale di duca di Milano. Ma, nonostante lo sfarzo e l'ostentazione di potere esibita, il Moro non riuscì mai a conquistare il cuore dei Milanesi che, in ogni pubblica occasione, inneggiavano invece al piccolo Francesco, affettuosamente chiamato il "duchetto". Nel 1497, alla morte di Beatrice, quasi a voler vendicare il proprio dolore creando altro dolore, Ludovico decise di separare I. dal primogenito, trasferendola nella corte vecchia nei pressi del duomo, con il palese intento di poter meglio manipolare il pronipote, come già aveva fatto con il di lui padre.

Nella sua nuova residenza, I. iniziò a godere di maggior libertà di movimento e poté continuare a occuparsi dell'educazione delle figlie. Un ritratto coevo la raffigura sull'inginocchiatoio, emaciata, avvolta da un ampio scialle a ricoprirle il volto e le spalle, con le dita delicatamente poggiate su un libro di preghiere e lo sguardo dolente rivolto a un piccolo crocefisso. La vita della duchessa defraudata non si esauriva comunque nella sterile afflizione: sensibile, per animo ed educazione, a ogni espressione artistica, in questo periodo ordinò dipinti, acquistò statue antiche e strinse amicizia con il giovane discepolo di Leonardo, Giovanni Antonio Boltraffio (Beltraffio), che la ritrasse sul famoso cartone a carbone e pastello ora conservato presso la Pinacoteca Ambrosiana.

Dopo l'ascesa al trono di Francia di Luigi XII, acerrimo nemico dello Sforza, e determinato a proclamarsi nuovo signore del Ducato, con il beneplacito di Venezia (trattato di Angers), temendo una restaurazione a vantaggio del piccolo Francesco, il Moro tentò di persuadere I. a riparare, insieme con il figlio, nel Regno di Napoli, giungendo a cederle formalmente, il 1° sett. 1499, il Ducato di Bari a titolo di controdote. I. rifiutò di abbandonare Milano, erroneamente convinta di poter ottenere dal sovrano d'Oltralpe quanto lo zio, ora in fuga verso Innsbruck, le aveva un tempo usurpato. In questo periodo, I. si adoperò per far luce sull'avvelenamento del marito, di cui era stata sempre convinta, ma perse nuovamente la possibilità di convivere con il primogenito, trattenuto - per ragioni di Stato - alla corte di Luigi XII a Pavia e poi al seguito del nuovo signore di Milano, in terra di Francia. Il 9 ott. 1499, le fu concesso di riabbracciare, per quella che si sarebbe rivelata l'ultima volta, il piccolo Francesco: a far data dal drammatico commiato, I. si sarebbe sempre firmata nelle sue lettere "Isabella de Aragona Sforcia ducissa Mediolani unicha ne la desgracia" (Dina, 1921, p. 389).

Trattenutasi a Milano con le figlie Bona e Ippolita ancora per qualche mese, nel febbraio 1500 I. partì alla volta di Napoli per evitare di assistere all'effimero rientro del Moro in Milano. Nel Regno venne accolta con tutti gli onori dallo zio Federico d'Aragona, che le assegnò per residenza quel Castel Capuano che ne aveva visto i natali. Dopo la caduta definitiva di Ludovico Sforza, il 24 apr. 1500 I. venne ufficialmente investita del feudo di Bari. Coinvolta direttamente nelle lotte che opposero Napoli al tentativo franco-spagnolo di spartizione del Regno, resse il governo dello Stato quando lo zio, re Federico, si vide costretto a scendere militarmente in campo per difendere il suo dominio.

Sconfitto in battaglia e fatto prigioniero il sovrano aragonese, I. si rifiutò di consegnare Ischia ai Francesi, resistendo valorosamente, affiancata da Íñigo d'Ávalos, marchese del Vasto. In virtù del coraggio e della lealtà dimostrata nel frangente, quando il Regno di Napoli cadde sotto il dominio di Ferdinando il Cattolico, I. ottenne, per intercessione del gran capitano spagnolo Consalvo di Cordova, la conferma dell'investitura al Ducato di Bari, che comprendeva, oltre alla città vecchia, le terre di Palo, di Ostuni, con Villanova e Grottaglie, e di Modugno, i feudi calabresi di Longobucco e Rossano e quello di Borello.

Abbracciato definitivamente il fronte spagnolo, I. godette di grande stima presso i dignitari aragonesi di stanza nel Meridione, tanto che Prospero Colonna le affidò le cure del figlio, che ella condusse con sé alla corte di Napoli nel 1504. A seguito della morte improvvisa del cardinale Ascanio Sforza, abile promotore in Curia di una restaurazione sforzesca a Milano, I. decise di fare ritorno a Bari.

Qui avviò la ristrutturazione dell'imponente castello già federiciano e poi angioino (1505). La grandiosa cinta di bastioni pentagonali con angoli esterni a saliente acuto, rafforzata da quattro poderosi torri celebrate in versi da Pietro Gravina, risultò una delle opere militari più importanti dell'epoca. I. si volse quindi alle opere civili, facendo restaurare la porta Regia e la piazza antistante il castello, il palazzo della dogana e il molo, ma - soprattutto - isolando Bari dalla terraferma, tramite un largo canale artificiale che, oltre a migliorarne le difese, avrebbe dovuto rendere la città un unico grande porto.

Nel 1511 la Lega santa fece rinascere in I. la speranza di ottenere il Ducato di Milano al figlio Francesco, esule in un'abbazia in Piccardia; ma, ancora una volta, il destino le si rivelò avverso: nel gennaio 1512, in seguito a una misteriosa quanto opportuna caduta da cavallo, il primogenito morì improvvisamente, e, a un anno di distanza, si insediò sul trono del dominio lombardo - con il favore dell'imperatore Massimiliano I d'Asburgo - il figlio di Ludovico il Moro.

Abile nell'instaurare favorevoli rapporti commerciali a vantaggio dell'economia del Ducato di Bari, I. era riuscita nel frattempo a comporre le rivalità interne che contrapponevano la nobiltà al popolo e il capitolo della cattedrale al clero della basilica di S. Nicola. Amministratrice di un allevamento di razze equine celebri in tutta Europa, si interessò anche di diritto commerciale, estendendo i privilegi doganali riconosciuti ai mercanti milanesi ad altre città della penisola e favorendo l'insediamento, in Bari, di una trentina di società commerciali forestiere. Attenta a frenare gli abusi amministrativi, pubblicò una "pandetta" per frenare la corruzione di giudici e magistrati. Sensibile alla crescita culturale del dominio, fondò l'Accademia degli Incogniti e dispose l'aumento dello stipendio ai precettori pubblici, la loro franchigia dai dazi, la concessione di un alloggio e la disponibilità di un garzone (10 ott. 1513); inoltre, promosse l'istituzione di una commissione per sovrintendere all'istruzione e vincolò la possibilità dei conventi di ricevere elemosine alla disponibilità permanente di due frati deputati, per ciascun ente, all'istruzione del popolo.

La grande dignità personale e il fascino intellettuale che sapeva infondere in chi la circondava ispirarono numerose opere letterarie di stampo cortese-cavalleresco, tra cui il romanzo Question de amor, di un anonimo autore spagnolo, e il Dechado de amor, composto da un non meglio identificato Vasquez per Pier Luigi Borgia, cardinale di Valenza. Tuttavia, se il temperamento deciso e passionale d'I. suscitava appassionati omaggi letterari in molti, in altri il suo carattere indomito, unito a una condotta indipendente, anche dal punto di vista sentimentale, creava non pochi imbarazzi, come nel caso del suo primo biografo, noto con lo pseudonimo di Filonico di Alicarnasso, che le rimproverava un legame troppo stretto con Giosuè di Ruggero, suo consigliere e tesoriere, e con Prospero Colonna, ardito protagonista, tra l'altro, della celeberrima disfida di Barletta (1503). Fu comunque grazie all'appoggio di grandi condottieri se I. riuscì a preservare indenne il Ducato di Bari dalle incursioni turche e dalle scorribande francesi e spagnole.

Sempre attenta alla crescita economica del suo dominio, il 30 giugno 1515 I. aveva inoltre ceduto parte delle sue entrate alla città di Bari, con deliberazione comunale. Il suo seguito annoverava numerosi esponenti delle famiglie milanesi più illustri, tra le quali i Visconti, i Lampugnani, i Carcano, i Pezzoli e i Meravigli che si trasferirono a Bari e diedero vita a una fiorente e stabile comunità, destinata a integrarsi nella realtà locale. A un antico casato milanese apparteneva anche l'arcivescovo della città pugliese, Giovanni Giacomo Castiglioni, morto nel 1513. La piccola corte barese era del resto celebre per le raffinatezze, anche nell'arte delle ceramiche, di cui è conservata a tutt'oggi ampia testimonianza nel castello svevo.

Dama fra le più celebri del Rinascimento, I. fu al centro di una fitta rete di parentele che la videro protagonista del mondo a chiaroscuro delle corti principesche dell'epoca. Zia di Lucrezia Borgia, ne accolse a Bari il figlio Rodrigo, nato dal matrimonio con il duca di Bisceglie; i libri di spese della duchessa di Ferrara sono ricchi di annotazioni sui doni che inviava al primogenito e, fra questi, viene descritta anche una bambola in legno, con ampio corredo di abiti, dipinta dal pittore Morello e destinata alla cugina Bona (1506): si trattava di un manichino per modelli che riproducevano i vestiti più belli creati per Lucrezia.

Assillata dal progetto di maritare Bona con un grande d'Europa, dopo trattative protrattesi per un lustro e diversi possibili candidati, I. optò - con il favore imperiale - per Sigismondo I Jagellone, re di Polonia. Il distacco dall'unica figlia superstite venne vissuto da I. in modo drammatico: nel XVII secolo, su un gradino del molo del porto di Manfredonia, era ancora leggibile un'incisione che, nel riprodurre la forma del piede della giovane sposa, ricordava il punto esatto dove era avvenuto il commiato tra le due donne. A un anno di distanza dalla partenza della figlia, la duchessa, trovando intollerabile il distacco, si accinse a compiere un viaggio in Polonia: ma ancora una volta il destino le si oppose e non ebbe mai più occasione di rivedere Bona, neanche alla nascita del di lei primogenito maschio. Compì, invece, un pellegrinaggio al santuario di Loreto e a Roma, dove papa Leone X le riservò un'accoglienza trionfale e un'ospitalità prolungata e magnificente (1520).

Gli ultimi anni della sua vita la videro aspramente impegnata in una lite giudiziaria con la potente famiglia dei Castriota per l'eredità della regina Giovanna. Già gravemente ammalata di idropisia, nel 1523 soggiornò brevemente nel Ducato di Bari per assicurare la successione alla figlia; poi si trasferì definitivamente nella corte di Castel Capuano per morire dove era nata.

I. si spense a Napoli l'11 febbr. 1524 e venne sepolta nella sagrestia del convento di S. Domenico, dopo grandiose esequie.

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