Introduzione alle arti visive del Vicino Oriente antico

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

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Introduzione alle arti visive del Vicino Oriente antico

Lucio Milano

Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

L’anno di nascita dell’archeologia orientale

Alla fine del 1841 un quarantenne di nazionalità francese e di orgini piemontesi arriva a Mosul, nell’odierno Iraq nord-orientale, dove il suo governo lo ha nominato console di quella città. Si chiama Paolo Emilio (Paul-Émile) Botta, ha inclinazioni per le scienze naturali e ha a lungo viaggiato tra le Americhe e la Cina, prima di approdare in Yemen per i suoi studi botanici, e poi in una delle maggiori città irakene dell’Impero ottomano, per la sua missione diplomatica. Nel gennaio del 1842 Botta, assai interessato alle antichità orientali, era già al lavoro sul tell di Kuyunjik (nelle vicinanze di Mosul) per una breve campagna di scavi. Il tell si presenta come molto promettente: non un modesto monticolo, come ve ne sono di innumerevoli in tutto il Vicino Oriente, dovunque si trovino insediamenti umani stratificati nel tempo, ma una collina che si estende per centinaia di ettari, da cui emergono tracce di antiche rovine. Egli resta però deluso nelle sue aspettative: si sposta l’anno successivo a Khorsabad, dove la fortuna gira a suo vantaggio: dagli scavi emerge infatti il palazzo reale del re assiro Sargon II, fatto costruire nella sua nuova capitale, con colossali statue di pietra, bassorilievi e sculture. È la data d’inizio dell’archeologia orientale ed è contemporaneamente l’inizio di quel rapporto intenso, contraddittorio e controverso che la cultura occidentale ha intessuto con l’arte del Vicino Oriente antico nell’arco – piuttosto breve, a ben pensare – di questi ultimi 150 anni. Poco dopo Paul-Émile Botta, il giovane inglese Austen Henry Layard, non ancora trentenne, inizia gli scavi a Nimrud e sulla collina di Kuyunjik (da lui correttamente identificata con l’antica Ninive nel 1848), riportando alla luce i palazzi di Assurnasirpal e di Sennacherib. I ritrovamenti sono di tale importanza da provocare nella madrepatria un’entusiasmo collettivo, nell’attesa che arrivino a Londra le monumentali statue di lamassu (tori alati) da lui scoperte e imbarcate assieme a centinaia di bassorilievi e di altri arredi lapidei per formare la più prestigiosa collezione di oggetti d’arte orientale in Europa. Mai – neppure con la riscoperta dell’antico Egitto a seguito delle campagne napoleoniche e con l’“egittomania” che ne era poi scaturita – si è manifestata una simile attenzione di massa per l’archeologia nel Vecchio Continente.

Impressionante è soprattutto la rapidità, il ritmo e la mole delle pubblicazioni che rendono conto di queste acquisizioni, aprendo contemporaneamente la strada alla valutazione critica di questa produzione artistica. Nel 1848 Layard dà alle stampe due volumi sull’arte assira e tra il 1849 e il 1853 esce la sua monumentale opera su Ninive (Nineveh and its Remains, 1849), con un eccezionale apparato iconografico (The Monuments of Nineveh, 1849-1853), a cui faranno seguito altri volumi sulle antichità assire e babilonesi negli anni subito successivi. La scoperta della Biblioteca di Assurbanipal a Ninive e il contemporaneo sviluppo degli studi epigrafici sul cuneiforme, soprattutto per merito di Henry Rowlinson (colui che dà il maggior contributo alla decifrazione dell’iscrizione trilingue di Dario I a Bisotun, scritta in antico persiano, elamita e babilonese), faranno poi da volano alle attività archeologiche in Mesopotamia, richiamando nei decenni successivi anche le altre potenze dell’epoca, la Germania e gli Stati Uniti, ad un ruolo di primo piano nell’attività archeologica in Assiria e in Babilonia.

Sono le monumentali sculture assire a imporre fin dagli inizi i parametri su cui misurare originalità, qualità e livello dell’arte vicino-orientale: un’arte che agli occhi di Henry Layard sembrava “rozza e primitiva”, ma che al tempo stesso esprimeva “verità di contorni ed eleganza nel dettaglio”, specie osservando il “trattamento della figura umana, la pienezza di forme degli arti e della muscolatura, l’attenzione per i dettagli dell’ornamentazione” e per il gusto delle rappresentazioni paesaggistiche e naturalistiche (uccelli, alberi, fiumi ecc.), che, pur convenzionali, esprimevano “un’idea particolare di bellezza e di grazia”. Appunto: un’idea di bellezza che non avrebbe potuto sottrarsi – secondo i canoni di una visione romantica e ottocentesca – al confronto potente, incalzante, quasi drammatico con l’arte greca, e in particolare con quei prodotti dell’arte greca, come le metope del Partenone, che ricordavano nel loro sviluppo narrativo aspetti presenti anche nei bassorilievi dei palazzi assiri. Queste metope, tra l’altro, al tempo di Layard, avevano avuto solo da qualche anno una definitiva ricollocazione al British Museum, a gloria non soltanto di Lord Elgin, che era riuscito a farcele arrivare, ma anche dello spirito dei tempi, che le elevava a emblematica rappresentazione dell’eredità classica.

Il confronto con l’arte classica, non solo greca, ma anche romana, influisce a tal punto nella valutazione dell’arte assira che ancora negli anni Venti del secolo scorso non un dilettante, ma un esperto di arte orientale come Harry Reginald Hall (allora Keeper delle Western Asiatic Antiquities del Museo Britannico) giudica gli artisti assiri incapaci di qualità ritrattistiche nella rappresentazione dei soggetti. Commentando una scena di caccia su un bassorilievo nota il grande contrasto tra la vividezza con cui sono rappresentati il leone o la leonessa morente (la leonessa che, “trafitta dalla freccia che ha ne trapassato la spina dorsale e paralizzato i suoi quarti posteriori, si trascina sul terreno” e il leone ferito, “che batte il suolo con la coda mostrando rabbia impotente”) e gli esseri umani che “sono solo bambole vestite di tutto punto”, ai quali manca qualsiasi approssimazione fisiognomica, qualsiasi caratteristica individuale: con abbondanti capigliature e barbe arriciolate, hanno secondo lui tutti lo stesso aspetto, distinguendosi solo per la foggia degli elmi e dei vestiti.

Mondo umano e mondo divino

La ricerca di un Fidia assiro ha fatto il suo tempo. Anzi, se un elemento può esserci che illumina almeno in parte una valutazione dall’interno di quest’arte – non solo di quella assira, ma in generale di quella mesopotamica – è che manca costituzionalmente in questo mondo una paternità dell’opera artistica. Così come manca, salvo poche e significative eccezioni, l’attestazione di commissioni di opere d’arte, o una loro descrizione caratterizzante, sia che si tratti di statuaria, che di pittura, o anche di architettura. In un ambiente che non è quello mesopotamico, ma quello dell’antico Israele, abbiamo la descrizione letteraria (tanto dettagliata, quanto impossibile da ricostruire in pianta) del tempio attribuito a Salomone, che la moderna critica ritiene inattendibile sul piano storico e probabilmente ispirata a modelli architettonici non indigeni. Eppure sappiamo che per qualsiasi sovrano orientale la commissione di edifici che fossero dotati di una propria riconoscibilità, con particolari caratteristiche planimetriche o anche stilistiche non era, ai fini del proprio personale rapporto con una divinità o del proprio personale prestigio, un elemento secondario: al punto che ci sono sovrani (come Gudea, re di Lagash) che sono rappresentati nella statuaria mentre tengono tra le mani la pianta del tempio da dedicare alla divinità tutelare; o ve ne sono altri che descrivono minutamente da dove far affluire le materie prime per costruirli o per arredarli; o che addirittura danno conto nei loro testi storici o religiosi di tutto ciò che occorre fare in funzione di una costruzione: dirottare fiumi, spianare rilievi, preparare il terreno, eseguire dei rituali ecc. Ma l’opera in sé non è mai estensivamente “raccontata” come tale, non con dettagli significativi.

Se ci chiediamo perché questo accada, una prima risposta è nel particolare rapporto che lega il mondo umano a quello divino, le azioni degli uomini a quelle degli dèi. Si tratta di un rapporto che è al tempo stesso estremamente personalizzato, ma poco o per nulla individualizzato. È così personalizzato che il sovrano sumerico è sulla terra vicario della divinità, a cui tutto appartiene. E quello assiro è rappresentato come puro esecutore della volontà del dio Assur, sotto il cui comando fedelmente si pone per portarne a termine i programmi. La persona del sovrano è dunque centrale in quanto incarna prerogative e aspettative divine; ma non altrettanto centrale è la sua individualità umana. La centralità riguarda il ruolo, la funzione di potere che egli esercita a vantaggio dei suoi sudditi: essa si esaurisce dunque in una emblematizzazione della figura regale, che è di volta in volta declinata e ideologicamente problematizzata a seconda delle circostanze in cui si manifesta il suo agire sociale. Il re è colui che porta sulla testa la gerla del dio per costruire il suo tempio o scavare il suo canale; è colui che unisce o intreccia le mani in segno di devozione per la divinità tutelare; è colui che presenta l’offerta, che guida l’esercito o che cattura i nemici, non per accondiscendere, ma per eseguire la volontà divina. Anche nel caso dei sovrani di Akkad, il primo caso di sovrani che assommano nella loro personalità doti di audacia e di eroismo, la novità nell’arte si esprime nell’uso dei volumi e dello spazio, nelle asimmetrie, nella cura del dettaglio (anche nel disegno di volti e ornamenti), che servono sostanzialmente a riformulare il rapporto tra umano e divino, ma non a trasferire il baricentro sull’agentività del singolo soggetto. È per questo che, sia la cosiddetta Testa di Sargon, con la sua straordinaria espressività, sia la Stele di Naram-Sin, con il suo sapiente gioco di piani inclinati, non sembrano alludere a virtù individuali, ma piuttosto esprimere la natura di un programma politico. C’è una sintonia, del resto, tra questo modo di intendere la realtà e quanto ci è trasmesso dalle fonti letterarie: basta pensare alla Lista dei re sumerici, che nell’elencare le sequenze dinastiche successive al diluvio, mette al centro della narrazione non i re – che costituiscono una monotona lista – ma le città nelle quali la “regalità” di volta in volta si trasferisce secondo il progetto divino.

Un’arte programmatica

Programma è parola chiave in tutta l’arte mesopotamica. Il programma prevale sull’individuo nell’arte celebrativa, a partire dal periodo protodinastico, con la Stele degli avvoltoi, che celebra la vittoria di un re di Lagash sul suo rivale di Umma, fino al periodo neoassiro, con i grandiosi cicli decorativi scolpiti a rilievo sulle pareti dei palazzi. Cambia naturalmente il messaggio, che moltiplica nei rilievi assiri la sua efficacia ideologica e di propaganda, ma è significativo che in entrambi i casi vi sia un testo (iscritto sopra, o accanto alle immagini) che fornisce la propria chiave interpretativa degli eventi rappresentati. Il testo scandisce il programma: le premesse della guerra, il suo svolgimento sorvegliato dal dio, la vittoria, la resa: messaggio testuale e messaggio iconografico si sostengono a vicenda.

Ma non è solo l’arte di carattere intrinsecamente storico-celebrativo ad essere programmatica. L’idea di modellare, da parte di un sovrano o di una dinastia una propria visione della funzione della regalità e del rapporto con il divino si avverte in molti settori della produzione artistica che riflettono aspetti della religione e della ritualità, nell’elaborazione di specifici temi iconografici e di specifiche invenzioni stilistiche. Ancora una volta lo sviluppo dei temi, soprattutto di quelli narrativi, presenta maggiore innovatività e pregnanza rispetto alla realizzazione delle figure; e ancora una volta si possono apprezzare significativi cambiamenti di resa iconografica che intervengono con il passare del tempo. Nel famoso Vaso di Uruk (fine del IV millennio a.C.) la ritualità si esprime attraverso una successione di fasi che inquadrano – in tre registri paralleli – degli ovini al pascolo, una teoria di personaggi che recano offerte alimentari e infine una processione di statue e insegne di divinità, con alla testa il sovrano che incede verso una divinità femminile, probabilmente la dea Inanna. Il messaggio è multiplo e implica non solo il rapporto di devozione verso la divinità, che in termini spaziali assorbe quasi per intero la narrazione, ma anche la rilevanza della figura del sovrano, il cui spazio simbolico si materializza nelle proporzioni della sua figura, che è più grande delle altre. Rappresentazioni rituali di epoca paleobabilonese, come le troviamo per esempio su bacini lustrali, hanno carattere assai più statico, mostrano solo teorie di offerenti e mostrano un sensibile cambiamento nell’ideale di regalità, che gravita ora sul concetto del “re pastore” dedito ai suoi sudditi e buon amministratore della giustizia.

Un altro esempio riguarda le scene di banchetto. Queste scene, che costituiscono un tema diffuso, sia nella glittica (cioè nelle rappresentazioni su sigilli cilindrici), sia negli intarsi e nelle placche a rilievo di epoca protodinastica, spostano solo apparentemente l’attenzione dal rapporto privilegiato tra sovrano e divinità verso quello, di carattere più “secolare”, tra sovrano e cortigiani, che bevono birra e ascoltano musica seduti alla sua presenza: perché il fuoco si concentra qui sulla proiezione sociale delle funzioni del sovrano, che amministra il Paese non solo in vece del dio, ma anche con il consenso dei suoi. D’altra parte non si potrebbe immaginare differenza più grande tra queste scene di banchetto e quelle rappresentate quasi 2000 anni dopo sui rilievi assiri, pur avendo le une e le altre il carattere di manifesto ideologico: nell’immagine di Assurbanipal sotto la pergola, che si trova nel palazzo di Ninive (640 a.C. ca.), il re è semidisteso sotto una pergola d’uva e solleva il suo calice di fronte alla regina, defilata, per festeggiare la vittoria sul re elamita Teumman; mentre alle loro spalle dei servitori li rinfrescano con flabelli, in assenza di cortigiani o funzionari. La figura del sovrano si staglia centrale e solitaria nel panorama di corte: è la figura di un imperatore ossessionato dalla sua incolumità, che guarda da lontano e dall’alto ad un mondo di scribi, cancellieri, sacerdoti e indovini che attendono quotidianamente a rituali e cerimonie da cui dipendono le sorti di battaglie e l’avvenire dell’impero. Non è un caso che nelle scene di caccia al leone, dove si celebra in modo ritualizzato l’eroismo del sovrano nell’avvenuta realizzazione di imprese terrene, lo stesso Assurbanipal, a differenza dei suoi predecessori, sia calato in uno scenario astratto, nel quale sono assenti riferimenti al paesaggio o a una progressione temporale degli eventi: è la massima espressione della “distanza” ideologica del re-eroe da ciò che lo circonda, che lo isola assieme alla sua preda (la quale a sua volta è il suo doppio, come sappiamo dalle fonti letterarie che identificano il re con il leone) e lo rende così ineguagliabile.

Tradizione e innovazione

Se la programmaticità è elemento cardine del mondo artistico mesopotamico, sia in termini politici che religiosi, un altro elemento che gioca un ruolo significativo è quello legato al binomio tradizione/innovazione. Salvo pochissime eccezioni, non c’è sovrano mesopotamico che non ricerchi una propria legittimazione attraverso il riferimento a coloro che lo hanno preceduto, alle loro opere, alla linea dinastica, ad un passato per lo più mitizzato; e, d’altra parte, non c’è sovrano che non cerchi di accreditare l’idea di essere stato iniziatore di qualcosa di nuovo, di inedito, di originale. Anche restaurare edifici decaduti o degradati è un modo di sottolineare questo aspetto: lo è anzi in termini emblematici, perché il porre mano alla riedificazione di ciò che è andato in rovina è al tempo stesso pio rispetto per il passato e audace volontà di innovazione. L’architetttura è in effetti uno dei campi in cui maggiormente si esprime questa tensione tra la fedeltà a modelli fissati dalla tradizione (e a volte pressoché canonizzati) e invenzione di nuovi modelli, di nuove formule planimetriche, di nuove formulazioni degli spazi e dei rapporti tra di essi. Questo si avverte soprattutto nell’architettura monumentale, negli edifici sacri e nei palazzi, che sono cardini dell’organizzazione socio-politica, economica e amministrativa, ma anche nell’urbanistica.

Un elemento di indiscussa continuità in Mesopotamia è quello della concentrazione degli edifici sacri in aree riservate e chiaramente delimitate nello spazio urbano, come è il caso dei recinti sacri dell’Eanna e di Kullaba nella città di Uruk, tra la fine del IV e gli inizi del III millennio a.C., o quello del quartiere sacro di Ur durante la III Dinastia. Nel II millennio a.C. si passa tuttavia a una più omogena ripartizione delle aree templari, mentre elemento caratteristico di alcuni importanti centri urbani meridionali diventano le ziqqurrat, monumenti costituiti da terrazze sovrapposte, raggiungibili con scalinate, sulla cui sommità è posto un santuario. Ad Ur, sia il palazzo reale, sia quello che va probabilmente identificato come il tesoro della dinastia, si trovavano al di fuori dell’area sacra del dio Nanna, ma a essa vicini: e questa prossimità degli edifici templari e delle residenze dei sovrani caratterizza la situazione urbanistica dei centri non solo mesopotamici ma anche siriani per tutto il III millennio a.C., benché molto diversa sia nelle due aree geografiche la concezione della regalità e il rapporto con il sacerdozio.

Un altro elemento di continuità riguarda la tipologia templare, che troviamo attestata con significative varianti, ma con sostanziale adesione al modello originario, dalla fine del IV millennio a.C. fino a tutto il II millennio a.C.: si tratta del tempio a sviluppo longitudinale, caratterizzato da due o tre vestiboli trasversali rispetto all’asse principale e da una corte centrale che si apre su antecella e cella, con corridoi o vani di servizio disposti lungo il perimetro dell’edificio. Rispetto a questa pianta di base le variazioni si moltiplicano a seconda dei periodi e delle aree, incidendo soprattutto sui prospetti esterni degli edifici, che possono essere più o meno regolari, con corpi aggettanti che animano spazi e proporzioni. Minore continuità si trova nell’ambito dell’architettura palatina, di cui le prime attestazioni risalgono al periodo protodinastico, a Kish e a Eridu: qui la disposizione dei settori residenziali, dei settori destinati all’immagazzinamento di derrate alimentari e soprattutto di quelli amministrativi si modificano a misura dei cambiamenti intervenuti nel sistema di gestione delle risorse, nell’organizzazione di corte e nelle esigenze e modalità di comunicazione tra centro del potere e periferia. Questi cambiamenti possono essere più o meno rilevanti, a seconda dei periodi e dei sovrani, ma hanno sempre conseguenze dirette sull’architettura di singoli edifici o di complessi palatini.

Uno degli esempi più straordinari di intervento pianificato sull’impianto urbanistico di una città, e al tempo stesso di profondo rinnovamento nelle concezioni architettoniche e artistiche, lo si può osservare a Babilonia al tempo dei sovrani neobabilonesi (VII sec. a.C.), quando il re Nabucodonosor ricostruisce per intero il palazzo meridionale, assieme a diversi altri edifici monumentali, organizzando attorno a cinque grandi corti altrettanti quartieri residenziali con funzioni diversificate, destinati a controllare tutto l’apparato statale. Altrettanto radicali le innovazioni sull’architettura templare, con la costruzione dell’Esagila, il tempio del dio Marduk, dove la ricchezza degli arredi diventa quasi un elemento strutturale; e sulla viabilità interna della città, dove la via processionale diventa asse portante e rappresentazione simbolica del potere del sovrano. Lungo questa via era situata la Porta di Ishtar, che si può oggi ammirare nel Museo di Berlino nella suggestione del suo rivestimento di mattoni invetriati e decorati a rilievo, a formare immagini di tori e di draghi inquadrati da una serie di elementi decorativi.

Transizioni e rotture

Sebbene la produzione artistica, così come il complesso della cultura materiale del Vicino Oriente siano dominate nel loro sviluppo da fasi di transizione che permettono di misurare entità e ritmi dei cambiamenti (e che possono essere il riflesso di fenomeni molto vari, di carattere culturale o tecnologico, di organizzazione del lavoro o di evoluzione del gusto, e via dicendo), ci sono poi delle fasi segnate da vere e proprie rotture, da cambiamenti rapidi, che provocano conseguenze durature. Uno dei fenomeni che meglio rappresenta questo aspetto è rappresentato dalle capitali di nuova fondazione, che costituiscono nel Vicino Oriente uno dei più efficaci strumenti di propaganda utilizzati da un sovrano per rimarcare una svolta politica. E l’arte si fa fedele interprete di questa propaganda: le nuove capitali sono i luoghi più produttivi in termini di innovazioni compositive e stilistiche. Per nuove fondazioni si possono intendere due realtà distinte: da un lato la trasformazione di piccoli insediamenti già esistenti che vengono trasformati in centri urbani monumentalizzati, in alternativa a una precedente capitale; dall’altro la scelta di luoghi precedentemente disabitati dove si erigono palazzi e si gettano le fondamenta di una capitale nuova. Il primo caso è quello di Akkad, la capitale (non ancora identificata sul terreno) dell’impero di Sargon, o anche quello di Shubat-Enlilla, capitale del re Samsi-Addu, di Assiria, in alta Mesopotamia; il secondo è esemplificato, tra le altre, dalla città di Dur-Kurigalzu, la rocca di Kurigalzu, fatta costruire da questo re cassita, o dalla città di Dur-Sharrukin, la rocca di Sargon, dove l’imperatore assiro Sargon II si trasferisce da Ninive verso la fine del suo regno.

Dur-Sharrukin (Khorsabad, circa 20 km a nord di Ninive) fu costruita in un arco di tempo relativamente breve (fine dell’VIII sec. a.C.), adottando una pianta pressoché quadrata e concentrando le fabbriche templari, con i santuari di Nabu, di Nergal e di Sin su una terrazza adiacente alla cinta muraria. Anche il palazzo di Sargon II fu costruito sulla terrazza, ponendo al suo ingresso enormi sculture di tori alati, come ne sono attestati anche nel palazzo di Assurnasirpal a Nimrud. Ma è soprattutto dalla decorazione scultorea delle sale del palazzo e nei bassorielivi che ripercorrono narrativamente le gesta del sovrano che emerge la novità del suo messaggio politico: in questi rilievi sia i temi, sia il trattamento delle immagini presentano caratteri del tutto originali e manifestano nel modo più conseguente il programma di un re che vuole differenziarsi dai suoi predecessori. Alle immagini dinamiche dei bassorilievi di Assurnasirpal si sostituiscono ora scenari più statici: le rappresentazioni di battaglie o l’incedere di dignitari vengono circoscritti nello spazio, mentre il re viene rappresentato in pose autorevoli e rigide, che tendono a trasmettere l’idea di un assoluto controllo imperiale. È lo stesso messaggio che i suoi scribi avvalorano narrando le sue gesta nelle composizioni annalistiche, dove le conquiste non conoscono ostacoli e coprono l’intero spettro delle terre conosciute. In questo clima di serenità per l’avvenuta soggezione di un mondo posto ai suoi piedi non può mancare l’allusione al paesaggio: alberi e arbusti piantati nel giardino del palazzo, (come quelli osservati nel corso delle sue conquiste) lungo acque canalizzate al suo interno e la presenza di un padiglione decorativo. Uno scenario di impero ormai al culmine della sua potenza, che anche i suoi successori non rinunceranno a celebrare, come realizzazione di una dinastia vincente.

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