Intolleranze alimentari

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007)

Intolleranze alimentari

Salvatore Auricchio

L'Accademia europea di allergologia e immunologia clinica ha ridefinito la nomenclatura delle reazioni abnormi verso gli alimenti (Johansson, Hourihane, Bousquet et al. 2001). Per intolleranza (ipersensibilità) ad alimenti si intende l'insieme di segni o sintomi obiettivamente riproducibili, indotti dall'ingestione di un alimento a dosi tollerate da soggetti sani. Se è dimostrato (o anche soltanto presunto) che l'i. a. è causata da meccanismi immunologici, si usa il termine di allergia ad alimenti; se il ruolo degli anticorpi della classe IgE è dimostrato, si fa riferimento ad allergia IgE mediata, caratterizzata di solito da inizio acuto, a breve distanza di tempo dall'ingestione del cibo.

Altre reazioni allergiche sono di tipo subacuto o cronico e vengono mediate principalmente da linfociti T. Per atopia si intende una predisposizione (personale o familiare) a produrre anticorpi della classe IgE in risposta a basse dosi di allergeni e a sviluppare tipici sintomi allergici. Tuttavia, la presenza nel sangue di anticorpi della classe IgE non significa che sia presente nel soggetto una vera malattia allergica clinicamente rilevabile, ma solo che esiste un certo rischio di sviluppare la malattia in circostanze adatte. Inoltre, la presenza nel sangue di anticorpi della classe IgE può avere un valore predittivo: per es., la presenza nel primo anno di vita di anticorpi IgE contro l'albume d'uovo può predire lo sviluppo di sintomi allergici entro i primi 7-10 anni di vita. Molti test alternativi sono stati suggeriti per la diagnosi di allergia ad alimenti, ma la loro validità scientifica non è stata dimostrata in modo convincente: tra questi vanno annoverati i test di provocazione-neutralizzazione (estratti messi sotto la lingua oppure iniettati, per diagnosticare o per trattare sintomi diversi), test elettrocutanei, di citotossicità per i leucociti e quelli basati sulla valutazione della forza muscolare.

L'allergia agli alimenti IgE mediata colpisce uno o più organi bersaglio: la cute (orticaria e angioedema), le vie respiratorie (riniti e asma), il tratto gastrointestinale (dolore, emorragia, diarrea) e il sistema cardiovascolare (shock anafilattico). Le reazioni vengono causate dal contatto diretto dell'allergene con l'organo bersaglio o per localizzazione a distanza dell'allergene, successivamente ad assorbimento dal tratto gastrointestinale.

Il capitolo delle i. a. è molto complesso: quella al grano è un esempio della variabilità dei quadri clinici possibili. Infatti, un individuo con allergia al grano può presentare, in conseguenza della diversità dei meccanismi patogenetici in gioco, malattie diverse, quali la dermatite atopica, l'orticaria, l'anafilassi, la cosiddetta asma dei fornai, la celiachia. Si illustrano di seguito quattro i. a. che sono particolarmente importanti sia per la loro elevata incidenza sia perché riguardano alimenti di ampio consumo, ossia il latte, il grano, la frutta e la verdura.

Intolleranza al latte da deficit di attività lattasica intestinale

Il lattosio è il disaccaride del latte ed è formato da 2 monosaccaridi, il galattosio e il glucosio. Per essere assorbito dall'intestino il lattosio deve essere prima scisso nei monosaccaridi costitutivi da un enzima della mucosa dell'intestino tenue, la lattasi. Quando vi è assenza o riduzione di lattasi il lattosio non idrolizzato e quindi non assorbibile passa nel colon, viene fermentato dai batteri ivi presenti, si trasforma in acido lattico e provoca diarrea detta fermentativa. Tutti i mammiferi nascono con livelli molto elevati di attività lattasica nell'intestino e sono pertanto in grado di utilizzare il lattosio contenuto nel latte. Essi perdono poi nella vita adulta questa attività enzimatica, e il latte diventa alimento non tollerato dal mammifero adulto. Vi sono tuttavia, nella specie umana, alcuni adulti che presentano una mutazione genetica che consente loro di mantenere livelli elevati di attività lattasica nell'intestino anche durante la vita adulta: questa è la condizione di persistente attività lattasica, mentre la condizione opposta è quella fisiologica dell'ipolattasia dell'adulto. Dopo la descrizione dei primi casi di ipolattasia dell'adulto (Auricchio, Rubino, Landolt et al. 1963) vi è stato un grande fiorire di studi sulla persistenza di lattasi nelle varie popolazioni del globo terrestre. In Europa centrale e settentrionale prevale la persistenza di lattasi, mentre nell'Europa meridionale, nella maggior parte dei Paesi dell'Africa e dell'Asia e nelle popolazioni originarie dell'America prevale l'ipolattasia.

Si è ipotizzato che la mutazione umana che porta a persistenza di lattasi nella vita adulta si sia verificata all'inizio del Neolitico, cioè circa 10.000 anni fa, nelle popolazioni del Vicino Oriente dedite alle prime forme di allevamento, quando si è verificata una vera e propria rivoluzione nella storia dell'uomo: il passaggio da una vita dedita alla caccia e alla raccolta del cibo a una vita dedita all'agricoltura e, attraverso la domesticazione degli animali, all'allevamento. Con il successivo diffondersi della pastorizia, la mutazione che portava a persistenza di lattasi conferiva notevole vantaggio selettivo, consentendo l'utilizzazione del latte come alimento per tutta la vita. La mutazione che porta alla persistenza di lattasi nella vita adulta è stata identificata nel genoma umano vicino al gene della lattasi.

Molteplici sono le conseguenze sia cliniche sia nutrizionali dell'intolleranza al latte da deficit di lattasi in soggetti adulti con ipolattasia. In questi, l'assunzione di latte e derivati, ricchi di lattosio, può provocare vari disturbi intestinali, quali diarrea, dolore addominale, flatulenza, e può anche aggravare altre malattie intestinali. L'ipolattasia dell'adulto può anche indurre la riduzione della quantità di latte e derivati assunti con la dieta, favorendo così lo sviluppo di osteoporosi giovanile. Va però detto che piccole quantità di latte, soprattutto se frazionate nella giornata possono essere ben tollerate da adulti ipo-lattasici. La terapia della intolleranza al latte da deficit di lattasi consiste nella riduzione (o suddivisione) della quantità di latte vaccino assunto con gli alimenti e nella sostituzione del latte vaccino con altri tipi di latte nei quali il lattosio sia stato predigerito o con derivati del latte privi di lattosio come lo yogurt o i latticini. Buon sostituto del latte è anche il latte di soia, che è privo di lattosio.

Allergia alle proteine del latte vaccino nell'infanzia

Per allergia alle proteine del latte vaccino (APLV) si intende il manifestarsi di reazioni avverse, sostenute da meccanismi immunologici, scatenate dalla ingestione di proteine del latte vaccino. Le stime di incidenza variano nei diversi studi dallo 0,1% al 7,5%. La APLV si può anche osservare in lattanti alimentati esclusivamente con latte materno, con una incidenza intorno allo 0,5%. In questi casi si tratta di reazioni immunomediate a piccole quantità di proteine del latte vaccino presenti nel latte materno. Differenti meccanismi sono coinvolti nella patogenesi della malattia: l'aumentata permeabilità intestinale a proteine e l'immaturità del sistema immunitario ne favorirebbero l'insorgenza nel primo anno di vita. La β-lattoglobulina e la caseina sono i principali allergeni del latte vaccino, in grado di indurre sia risposte mucosali anticorpali (IgE specifiche) sia cellulomediate: un ritardo nello sviluppo dei meccanismi regolatori della risposta immune intestinale ad antigeni della dieta sembra essere alla base dell'APLV. I sintomi dell'APLV si manifestano più spesso nei primi mesi di vita, quasi sempre nel primo anno: vomito e/o diarrea, talvolta con muco e sangue nelle feci. Accanto ai quadri acuti, a insorgenza rapida, con vomito e diarrea, vi è anche il quadro di diarrea cronica o malassorbimento, a insorgenza più lenta, e il quadro di tipo colitico, con sangue nelle feci. La APLV può essere anche causa di reflusso gastroesofageo e di stipsi, oppure di esofagite eosinofila. Sintomi cutanei sono la dermatite atopica, l'orticaria e l'angioedema; sintomi respiratori il broncospasmo ricor-rente, stridore, tosse, rinorrea. Lo shock anafilattico viene riportato nel 5-9% dei casi. In diversi studi reazioni IgE mediate (orticaria, anafilassi) e non IgE mediate (enteropatia cronica, proctocolite, dismotilità intestinale, dermatite atopica) corrispondono in genere a manifestazioni cliniche rispettivamente immediate o ritardate nel tempo. Quest'ultimo gruppo presenta invece un'aumentata reattività dei linfociti T, se esposti alle proteine del latte vaccino. La conferma diagnostica definitiva richiede sempre la dimostrazione della relazione causa/effetto tra l'ingestione delle proteine del latte e la sintomatologia. Con l'inizio della dieta da eliminazione, dopo pochi giorni nelle forme acute IgE mediate e dopo alcune settimane nelle forme protratte, croniche, di enteropatia sensibile al latte, si assiste a una completa remissione della sintomatologia. La terapia si basa sulla esclusione delle proteine del latte vaccino dalla dieta: sono consigliabili, al posto del latte, nel primo anno di vita, gli idrolisati di proteine del latte (di caseina e di proteine del siero) o il latte di soia.

Malattia celiaca o enteropatia glutine dipendente

È una intolleranza permanente a proteine del grano (gliadine) e ad analoghe proteine della segale, dell'orzo (e forse dell'avena), che crea un danno alla mucosa intestinale in soggetti geneticamente predisposti. La tossicità dell'avena è stata messa in discussione: l'avena non sarebbe infatti lesiva per l'intestino di pazienti adulti, ma alcuni celiaci sembrano non tollerare il cereale; è pertanto opportuno eliminare dalla dieta del celiaco anche l'avena. Le proteine del grano vengono distinte, secondo la loro solubilità in differenti solventi, in albumine, globuline, gliadine e glutenine. Le gliadine sono monomeri, mentre le glutenine formano polimeri. Le gliadine sono state classificate, secondo le sequenze aminoacidiche dell'estremità N-terminale, in α, γ e ω gliadine; le glutenine sono suddivise in glutenine ad alto peso molecolare e glutenine a basso peso molecolare. Le gliadine sono le proteine del grano responsabili della malattia celiaca; la tossicità degli altri cereali è dovuta alle prolamine di questi, che hanno analogia di solubilità o di struttura con le gliadine. Anche le glutenine sarebbero tossiche per il celiaco. Le sequenze aminoacidiche responsabili della tossicità delle gliadine non sono state del tutto chiarite, anche perché parti diverse delle molecole delle gliadine sono dotate di meccanismi lesivi diversi per l'intestino del celiaco: i peptici 31-49, 31-43, 44-55 e 56-75 della A-gliadina si sono rivelati capaci di ledere in vitro la mucosa intestinale del celiaco. I meccanismi dell'azione lesiva della gliadina per la mucosa intestinale del celiaco sono molteplici e complessi: alcuni peptidi provocano una risposta infiammatoria T cellulo-mediata, altri attivano meccanismi dell'immunità innata, oppure interagiscono con cellule citotossiche, che portano a ulteriore infiammazione e danno della mucosa. Nella malattia esiste, inoltre, una importante componente autoimmune: essa è caratterizzata dalla presenza nel sangue di vari autoanticorpi, i più importanti sono quelli rivolti contro un antigene molto diffuso nell'organismo umano, la transglutaminasi. Gli anticorpi antitransglutaminasi sono prodotti principalmente nella mucosa intestinale del malato, ma possono depositarsi in diversi organi e tessuti, ciò potrebbe spiegare la compartecipazione di questi al quadro clinico della malattia. L'allattamento al seno ritarda la comparsa della celiachia; il rischio è maggiore quando il glutine è introdotto nella dieta del lattante in larga quantità, sembra essere invece ridotto se il lattante è allattato al seno materno, quando svezzato con frumento. Una ipotesi è che la malattia celiaca possa essere ritardata, o addirittura prevenuta, se si interviene sulle abitudini alimentari degli individui geneticamente predisposti, durante il primo anno di vita.

La malattia ha una base genetica. Si possono infatti verificare più casi nella stessa famiglia e il rischio di ammalare di celiachia è elevato (10%) nei parenti di primo grado dei celiaci. Nell'80% circa delle coppie di gemelli monozigoti, la malattia colpisce entrambi i gemelli. L'unico gene identificato, sicuramente coinvolto, è l'antigene di istocompatibilità di classe ii, DQ2 o DQ8. Ciò è molto probabilmente dovuto al fatto che la molecola DQ lega frammenti peptidici degli antigeni alimentari coinvolti e li presenta alle cellule T della mucosa intestinale del malato. Altri geni candidati sono stati individuati nel genoma umano (per es., sui cromosomi 5, 11, 19), e sono oggetto di studio.

La prevalenza della malattia celiaca nelle sue varie forme cliniche è molto elevata in tutte le popolazioni umane studiate: essa è di circa 1 ogni 100 individui. La malattia è, tuttavia, clinicamente evidente in una minoranza di soggetti: per individuare tutti i casi sarebbe perciò necessario ricorrere a uno screening di massa della popolazione o, almeno, effettuare uno screening con metodi sierologici sui soggetti a rischio. L'intestino tenue del celiaco presenta una enteropatia che può essere di gravità crescente, variando da una semplice infiltrazione linfocitaria dell'epitelio intestinale di superficie a iperplasia delle cripte intestinali, ad atrofia dei villi nei casi più gravi. È caratteristico della celiachia che la enteropatia dipenda dalla presenza del glutine nella dieta. Anche il quadro clinico della malattia è molto variabile: nei bambini più piccoli, nei primi anni di vita, prevalgono i sintomi gastrointestinali (vomito, diarrea) con dimagrimento, inappetenza e irritabilità; negli anni successivi la malattia tende a colpire anche altri organi e apparati, causando quadri clinici molto variabili, come bassa statura; anemia ferripriva resistente alla terapia marziale (fino all'8% di adulti con tale forma di anemia sono risultati essere affetti da celiachia); artrite e artralgia; osteoporosi (che è dieci volte più frequente nel celiaco che nella popolazione controllo); malattie del sistema nervoso centrale e periferico (per es., epilessia con calcificazioni bilaterali occipitali, atassia neuropatie periferiche); epatiti croniche e anche insufficienze epatiche severe; infertilità, nascite premature, aborti; malattie dei denti; dermatite erpetiforme e altre malattie della cute. Una così alta variabilità del quadro clinico è imputabile a carenze nutrizionali, che sono secondarie alla enteropatia, e a danno immunomediato dei diversi organi e apparati. Inoltre, molte malattie su base autoimmune sono frequentemente associate alla celiachia: malattie tiroidee, malattia di Addison, anemia perniciosa, trombocitopenia autoimmune, sarcoidosi, diabete insulino-dipendente, alopecia e cardiomiopatie. Queste malattie avrebbero in comune con la celiachia alcuni geni, coinvolti nella risposta immune (in primo luogo, alcuni geni del sistema HLA, Human Leucocyte Antigens). Non è chiaro se il rischio di sviluppare malattie autoimmuni nel celiaco sia connesso alla durata della esposizione al glutine. La celiachia è anche relativamente frequente in alcune cromosomopatie, come la sindrome di Down e la sindrome di Turner. Il difetto selettivo di IgA seriche è anche associato a elevata incidenza di malattia celiaca. La malattia si sospetta in presenza di un quadro clinico compatibile con essa per livelli bassi di emoglobina, sideremia, calcemia, fosforemia, fosfatasemia, proteinemia, le quali suggeriscono l'esistenza di un malassorbimento.

La diagnosi si basa sulla positività di alcuni test sierologici, in particolare sulla dimostrazione della presenza nel sangue di livelli elevati di anticorpi antigliadina della classe IgA e sulla presenza di anticorpi entiendomisio e antitransglutaminasi (la transglutaminasi tissutale è il principale autoantigene riconosciuto dagli anticorpi antiendomisio). Infatti gli anticorpi antitransglutaminasi tissutale umana sono considerati di grande utilità nella diagnosi della malattia, per la loro elevata sensibilità e specificità. Tutti i celiaci sono portatori di un HLA particolare (DQ2 o DQ8): sono in uso pertanto test diagnostici basati sul dosaggio di questi marcatori, l'assenza dei quali può far escludere una diagnosi di celiachia. La diagnosi di certezza di celiachia si basa sulla biopsia intestinale, che deve rivelare la tipica enteropatia, e sulla risposta clinica e di laboratorio alla dieta senza glutine. La terapia consiste in una dieta priva di grano, segale, orzo e avena. Riso e mais sono non tossici e sostituiscono, di solito, il frumento. Tutti gli altri cibi sono consentiti, purché siano preparati senza i cereali tossici. Tale dieta va continuata per tutta la vita, senza interruzioni. La risposta clinica alla eliminazione del glutine dalla dieta è spesso ben evidente, in ogni caso la dieta senza glutine va prescritta anche ai pazienti asintomatici, con malattia celiaca silente. Normalizzazione della enteropatia si verifica, di solito, entro sei mesi dall'inizio del trattamento dietetico.

Pazienti con malattia celiaca hanno un rischio aumentato (di circa ottanta volte rispetto alla popolazione generale) di ammalarsi di adenocarcinoma del tenue. È anche aumentato il rischio per il linfoma a cellule T. Una dieta priva di glutine è protettiva nei riguardi di queste complicanze della malattia.

Sindrome allergica orale

È una sindrome causata da anticorpi IgE e caratterizzata da improvviso prurito e talvolta angioedema di labbra, lingua e palato, in seguito a ingestione di frutta fresca e verdure. La sindrome è dovuta a un'iniziale sensibilizzazione per via respiratoria a pollini che contengono proteine omologhe a quelle trovate in alcuni tipi di frutta e verdura. I soggetti con questa sindrome di solito hanno una storia di rinite allergica stagionale. Esempi di reazioni crociate tra pollini e cibi sono la reazione al melone in individui con ragweed allergy e reazioni a mele, pesche e ciliegie in quelli con allergia al polline di betulla. Le proteine in causa sono di solito termolabili e, per tale motivo, frutta e verdura cotte di solito non inducono sintomi. Reazioni anafilattiche sono rare, a causa della digeribilità delle proteine in gioco. Tuttavia, circa il 9% dei soggetti affetti presenta sintomi al di fuori della bocca e circa l'1-2% di essi presenta reazioni gravi. I test cutanei allergici con estratti freschi dei cibi incriminati sono di solito chiaramente positivi.

bibliografia

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