Internazionalismo

Enciclopedia del Novecento (1978)

Internazionalismo

RRené Rémond
Raymond Vernon
John Henry Merryman

Internazionalismo politico, di René Rémond

Economia internazionale, di Raymond Vernon

Diritti codificati e common law, di John Henry Merryman

Internazionalismo politico

sommario: 1. Introduzione. 2. L'internazionalizzazione: a) l'allargamento dell'orizzonte territoriale; b) il ruolo del progresso tecnico. 3. L'internazionalizzazione dell'economia: a) multinazionali e crisi; b) l'istituzionalizzazione. 4. Le organizzazioni internazionali interstatali. 5. Religione e internazionalismo. 6. L'internazionalismo e le internazionali: a) la Seconda Internazionale e la guerra mondiale; b) la Terza Internazionale. Komintern e Kominform; c) le internazionali sindacali; d) le altre internazionali di partito; e) considerazioni conclusive. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Il termine si riferisce a uno dei maggiori fenomeni della storia contemporanea: la tendenza a superare i limiti delle frontiere nazionali. Il fatto non è nuovo - le sue origini risalgono all'Ottocento - ma da cinquant'anni a questa parte esso ha assunto un'ampiezza senza precedenti sotto la doppia spinta delle realtà oggettive e delle aspirazioni ideologiche.

La nozione di internazionalismo ricopre un campo esteso e differenziato. Come la maggior parte dei vocaboli che terminano con il suffisso -ismo (liberalismo o socialismo), si iscrive in una sfera ideologica e qualifica una dottrina, una corrente filosofica, un insieme di aspirazioni o un atteggiamento dello spirito. Su questo piano l'internazionalismo è l'esatto contrario del nazionalismo, cui si oppone sotto tutti gli aspetti. Il nazionalismo esalta il fatto nazionale e innalza la grandezza della nazione a valore supremo: è un assoluto al quale tutto deve essere subordinato, sia l'individuo, sia le altre nazioni, sia i rapporti con esse. L'internazionalismo relativizza le nazioni. Non implica necessariamente una loro negazione, anche se, per affermarsi, ha spesso dovuto cominciare con la critica della loro realtà: i primi internazionalismi, e in particolare gli internazionalismi di ispirazione socialista, che scoprivano la solidarietà del proletariato e opponevano l'universalismo del movimento operaio alla ristrettezza dello Stato-nazione dominato dal capitalismo, hanno proclamato il carattere artificiale delle unità nazionali. Di conseguenza internazionalismo e realtà nazionale sembrarono per molto tempo escludersi a vicenda come termini antagonisti. Ma questo è l'effetto di una definizione troppo ristretta dell'internazionalismo, il quale non può richiamarsi a un'ideologia distruttiva delle nazioni e proporsi semplicemente come loro superamento. Pur non partendo da un'ispirazione negatrice, l'internazionalismo si oppone certamente al nazionalismo: rifiuta infatti di riconoscere al fatto nazionale il carattere di sacralità attribuitogli dal nazionalismo; il suo orizzonte non si ferma alle frontiere nazionali, ma abbraccia spontaneamente una prospettiva più larga.

La dimensione ideologica non esaurisce il significato del termine, che non si definisce unicamente nell'opposizione, tratto per tratto, alle dottrine del nazionalismo. Esso si riferisce anche alla sfera delle realtà oggettive, indipendentemente da prese di posizione ideologiche. Sotto certi riguardi lo stesso vale anche per il nazionalismo, che può indicare comportamenti oggettivi, per esempio nel campo economico. Su questo piano non è sempre facile discernere la linea di confine tra internazionalismo e internazionalizzazione, fenomeno parzialmente indipendente dalla volontà esplicita degli uomini, e che può essere estraneo a qualsiasi ispirazione filosofica: si tratta della moltiplicazione delle relazioni tra insiemi organizzati nel quadro delle unità statali, della formazione di legami che tessono una trama sempre più stretta al di sopra delle frontiere nazionali. L'internazionalismo, così concepito, non è più soltanto un'affermazione dottrinale, una posizione di principio o un'aspirazione: è, a suo modo e nel suo ordine, una realtà altrettanto concreta che la nazione. Si traduce in scambi di prodotti, di uomini, di idee, in incontri, in una circolazione a livello sovrannazionale. Può far nascere istituti permanenti o temporanei, dar vita a organizzazioni, ecc. L'iniziativa può venire da gruppi privati o da governi.

Ma - e la precisazione non ci sembra superflua - non si dà internazionalizzazione se non a partire da una pluralità di nazioni. In ogni tempo le nazioni hanno intrattenuto rapporti reciproci: salvo eccezioni, non sono mai vissute in uno stato di completo isolamento reciproco. Si sono sempre verificati contatti, scambi, circolazione da un paese all'altro. L'internazionalizzazione è però cosa radicalmente diversa da queste relazioni bilaterali, dalle quali si distingue per una novità irriducibile. Presupponendo una pluralità di nazioni, le relazioni internazionali in gioco nell'internazionalizzazione sfuggono al carattere limitativo dei colloqui bilaterali e costituiscono una realtà affatto autonoma e specifica.

Oggi questa internazionalizzazione è di fatto presente in ogni aspetto della realtà: non vi è alcuna dimensione della vita collettiva, alcuna categoria di fatti sociali che le sfugga. Essa riguarda il lavoro e la produzione dei beni, l'attività intellettuale e la ricerca scientifica, la politica e la religione; il tempo libero e la salute, le credenze e i comportamenti. Ognuno è oggi membro di una società nazionale, racchiusa entro frontiere delimitate, spazialmente circoscritta, e insieme cittadino di un raggruppamento più vasto, i cui confini variano a seconda del tipo di attività considerata e a seconda della natura del fenomeno preso in esame. Un tale ampliamento di prospettiva, per lo più avvenuto in modo occasionale sotto la spinta della necessità, è potuto sembrare il compimento delle aspirazioni espresse dalle dottrine dell'internazionalismo, o la verifica delle loro affermazioni sull'irrealtà delle nazioni: dal momento che il movimento naturale della storia scompigliava le frontiere, l'ideologia che ne proclamava l'artificialità o la ‛malvagità' cessava di essere un'utopia; era invece la verità dell'avvenire.

Il confronto fra l'evoluzione delle dottrine dell'internazionalismo e il processo dell'internazionalizzazione mostra tuttavia che i rapporti tra questi due termini sono più complessi. La moltiplicazione dei rapporti internazionali non ha portato con sé la scomparsa delle nazioni. La solidarietà nazionale ha retto la concorrenza. Nel corso di tutte le grandi prove, e in particolare nei due grandi conflitti mondiali, si è rivelata più forte di ogni altra solidarietà di classe o di religione. L'internazionalizzazione non ha dunque cancellato le realtà nazionali. La società internazionale si è sviluppata a lato o, se si preferisce, al di sopra di esse. Si è così stabilita, contrariamente alle convinzioni e all'aspirazione della maggior parte dei fautori dell'internazionalismo, che invocavano il superamento dello Stato-nazione e lavoravano per la sua fine, una coesistenza di due ordini di realtà, coesistenza la cui fine non è prevedibile. E così pure, schematicamente parlando, l'evoluzione dei due internazionalismi ha seguito strade divergenti nel corso del secolo. L'internazionalizzazione ‛pratica' e istituzionale non ha cessato di progredire, rinforzarsi, allargare la propria area, diversificando le proprie forme e modalità: essa è senza dubbio quel tratto fondamentale della società contemporanea cui accennavamo all'inizio. Quanto alle dottrine dell'internazionalismo, esse, al contrario, hanno perso di forza: la loro credibilità è messa in questione; le organizzazioni cui avevano dato vita si sono lacerate, frantumate, o sono entrate in letargo. Certamente, questa contrapposizione non va esente da sfumature; nondimeno, la distinzione tra questi due livelli di internazionalismo sarà alla base di questo articolo.

2. L'internazionalizzazione

a) L'allargamento dell'orizzonte territoriale

L'internazionalizzazione è una tappa - e una conseguenza - di un processo avviato già da lungo tempo: l'allargamento progressivo dell'orizzonte all'interno del quale gli uomini vivono, lavorano, prendono coscienza della loro appartenenza a un'entità sociale.

Per secoli, è stata la nazione - piccola o grande che fosse, coincidesse o no con lo Stato - a costituire tale orizzonte. L'apparizione dello Stato moderno, il rafforzamento delle sue strutture, l'identificazione sempre più generalizzata dello Stato con la nazione, e quindi l'universalizzazione dello Stato-nazione, hanno accentuato l'ampliamento della sfera delle relazioni. In precedenza, essa si limitava a uno spazio assai più ristretto: la signoria, la provincia, la città, il cantone. Per molto tempo l'orizzonte nazionale, anticipando lo sviluppo futuro delle relazioni e l'allargamento del loro raggio d'azione, è stato in un certo senso troppo vasto. L'unità nazionale in questo modo precorreva, all'interno di molti paesi, un'effettiva coscienza di tale unità. L'unificazione andò di pari passo con l'ampliamento della sfera della vita pratica, fino a far coincidere la realtà con la costruzione politica. Poco a poco, all'interno dello Stato nazionale si è operato il risveglio del senso di appartenenza a una comunità estesa, si è effettuato il noviziato politico, si è assicurata la difesa della collettività contro le minacce e le ambizioni provenienti dall'esterno, si è costituito un mercato nazionale ed è infine fiorita una cultura comune. L'Ottocento, dominato dai movimenti nazionalisti e caratterizzato dalla costituzione delle unità nazionali, è stato per l'Europa il periodo decisivo della realizzazione di questa tappa. Il fenomeno prosegue attualmente nei continenti che prima erano sottomessi alla colonizzazione europea e che recentemente sono giunti all'indipendenza: è il loro momento di costituirsi in unità nazionali all'interno di nuovi Stati, la cui affermazione precede spesso la nascita del sentimento nazionale. Questo ritardo ha per loro come conseguenza quella di vivere simultaneamente due fasi che l'Europa ha vissuto in tempi successivi: la formazione di entità nazionali sempre più omogenee a causa della loro unificazione e il superamento di queste stesse entità a causa della crescente internazionalizzazione di scambi e relazioni.

Dopo aver proposto alle attività delle società umane un orizzonte più vasto di quello fornito dalle precedenti strutture, lo Stato nazionale è diventato poco a poco, in certi casi, un quadro troppo ristretto. Ciò è vero, naturalmente, anzitutto per le nazioni più piccole: vaste entità politiche come gli Stati Uniti, il Canada o l'Unione Sovietica dispongono di territori abbastanza estesi (milioni di chilometri quadrati) per non percepire direttamente quel senso di angustia che, al contrario, rappresenta un'espenenza immediata per i popoli abitanti su spazi più ristretti.

b) Il ruolo del progresso tecnico

Il progresso tecnico ha avuto una parte decisiva in questo allargamento degli orizzonti abituali: in particolare, ha reso possibile l'accorciamento delle distanze, la riduzione dei tempi di percorso e, al limite, l'abolizione dello spazio. Tra gli altri, due aspetti del progresso sono stati determinanti: la rivoluzione dei trasporti e quella dei mezzi di comunicazione dell'informazione e delle idee.

Volta a volta, il vapore e l'elettricità, la navigazione, il treno e l'aeroplano hanno avvicinato gli uomini: dopo aver contribuito a unificare le nazioni, ne hanno favorito le comunicazioni. Le reti ferroviarie si sono raccordate le une alle altre; i ritardi sono diminuiti, le tariffe si sono abbassate. Il volume delle merci trasportate è cresciuto in misura impressionante, la mobilità delle persone gli ha fatto seguito. Venendo a mancare l'ostacolo della distanza, l'industria e poi l'agricoltura hanno cominciato a lavorare per mercati sempre più lontani: una volta conquistata la totalità del mercato nazionale, si sono lanciate alla conquista dei mercati esteri, internazionalizzandosi. Il viticoltore italiano o l'agricoltore francese, che per secoli avevano coltivato la terra solo per l'autoconsumo e per barattare l'eventuale eccedenza di produzione con i pochi beni indispensabili alla loro sussistenza, e quindi per approvvigionare il mercato regionale o nazionale, oggi lavorano per l'esportazione. Di conseguenza essi sono tributari dei gusti, delle possibilità di acquisto e della domanda dell'estero: basta una riduzione della domanda o una lievitazione dell'offerta perché i loro prodotti rimangano privi di sbocchi. Può bastare una variazione dei tassi di cambio, per esempio una svalutazione imprevista, per ridurli in miseria. L'internazionalizzazione comporta anche conseguenze di questo tipo, che ne illustrano la realtà e l'incidenza sul lavoro e sull'esistenza di ognuno.

Le frontiere sono diventate permeabili anche agli uomini. Gli uomini hanno sempre viaggiato per vedere paesi e per trovare lavoro. Ma oggi i movimenti migratori, ormai facilitati dalla rivoluzione dei trasporti, si sono intensificati: riguardano milioni di individui. I paesi industriali dell'Europa settentrionale, bisognosi di mano d'opera supplementare, hanno così accolto, all'epoca del boom economico, tra il 1950 e il 1973, considerevoli masse di lavoratori venuti prima dall'Europa meridionale, poi dall'Africa del Nord, dall'Africa nera e dall'Asia Minore. L'internazionalizzazione è forse ancor più evidente nello sviluppo dei viaggi. Il turismo ha giocato un ruolo di estrema importanza nell'internazionalizzazione. Alla vigilia della seconda guerra mondiale il viaggio all'estero era un'avventura ancora abbastanza eccezionale: solo una minoranza aveva varcato i confini del proprio paese e la stragrande maggioranza non conosceva l'estero che per sentito dire; oggi, nelle giovani generazioni, è molto elevata la percentuale di quelli che hanno varcato le frontiere e visitato paesi stranieri. In due decenni il raggio d'azione si è considerevolmente allargato: grazie all'aereo, all'abbassamento dei prezzi, allo sviluppo della formula dei charters, per un europeo andare in America o in Asia è divenuto altrettanto facile e banale che per un francese di vent'anni fa andare in Spagna o in Italia.

Si può anche viaggiare col pensiero. Le invenzioni susseguitesi nel campo dei mezzi di comunicazione nel corso dell'ultimo mezzo secolo hanno avuto, per l'internazionalizzazione, altrettanta importanza che la rivoluzione dei trasporti. Il telefono, le telecomunicazioni, il dominio delle onde hertziane, la radio, la televisione, l'uso dei satelliti artificiali hanno cancellato le barriere spaziali, ridotto gli ostacoli, dilatato il ‛vicinato' di ciascuno sino agli estremi confini del mondo. Ancora meno di cent'anni fa, l'orizzonte familiare all'uomo medio non andava oltre ciò che il suo sguardo poteva abbracciare quando alzava la testa dal suo campo: il suo villaggio e i pochi villaggi vicini. Oggi si può affermare che l'intero universo è diventato, soprattutto grazie alla televisione, un grande villaggio. L'informazione fa il giro del mondo in un istante, cosicché tutti i popoli vivono con uno stesso ritmo. L'avvenimento è conosciuto dappertutto nello stesso momento: esso si internazionalizza e ogni popolo può considerare come parte della propria storia avvenimenti che si riferiscono principalmente ad altri popoli. I mezzi audiovisivi, cinema e televisione, comunicano anche le sensibilità, le culture, i costumi: prodotti di esperienze singole e separate, elaboratesi lentamente all'interno di specifiche comunità, sono oggi ‛in piazza', manipolati, scambiati, internazionalizzati. L'occidentale si commuove di fronte a film giapponesi e l'egiziano assiste alla rappresentazione di una commedia americana. Si delineano così i tratti di una sorta di cultura universale, una vulgata o koiné del XX secolo, che è l'espressione più completa dell'internazionalizzazione: essa spazza via i particolarismi culturali, scavalca le differenze linguistiche, si fa gioco delle frontiere.

Lo stesso progresso tecnico che ha reso possibile la mobilità di persone, cose e idee, ha promosso innovazioni di ordine istituzionale che hanno creato una dimensione internazionale. Per esempio, via via che le reti ferroviarie si allungavano - per così dire alla ricerca le une delle altre - diventava sempre più necessario un loro coordinamento, volto a definire regolamenti comuni, uniformare gli scartamenti e i materiali, armonizzare gli orari, allineare le tariffe. Lo stesso discorso vale per la navigazione aerea e, parallelamente, per i mezzi audiovisivi: radio e televisione. Incontri di tecnici hanno dato vita a organismi internazionali che si riuniscono periodicamente in congressi. L'Ottocento aveva visto nascere un'Unione telegrafica universale e un'Unione postale universale. Nel XX secolo le organizzazioni di questo tipo sono proliferate: dall'Unione internazionale delle telecomunicazioni all'Organizzazione dell'aviazione civile internazionale. Non esiste oggi un settore di attività che non abbia alle spalle un'istituzione internazionale di carattere tecnico e con competenza specialistica.

3. L'internazionalizzazione dell'economia.

L'internazionalizzazione, resa possibile - o anche necessaria - dal progresso tecnico, ha raggiunto tutti i settori e toccato tutti gli aspetti della vita collettiva: politica, cultura, economia, ecc.

Fermiamoci un attimo a considerare alcune delle conseguenze del fenomeno in campo economico. Abbiamo già parlato dell'allargamento dei mercati agricoli e della ricerca di sbocchi all'estero per i prodotti della terra, come anche della circolazione della mano d'opera attraverso le frontiere. All'internazionalizzazione non sfugge alcun settore dell'attività produttiva. Non è motivo di sorpresa che il commercio s'internazionalizzi: lo scopo del commercio è sviluppare gli scambi e in ogni epoca c'è stato commercio per mare in direzione di altri paesi e altri continenti. La novità del nostro secolo consiste nel crescente volume degli scambi e nel ruolo sempre più importante dell'esportazione rispetto agli sbocchi interni. Anche il credito si internazionalizza: già da tempo, in mancanza di impieghi rimunerativi nel paese d'origine, i capitali venivano dirottati verso investimenti esteri; questo fenomeno, attualmente, ha assunto tuttavia un'ampiezza senza precedenti ed enormi quantità di capitale si spostano da un continente all'altro; eurodollari e petrodollari costituiscono oggi un dato fondamentale delle relazioni economiche internazionali.

a) Multinazionali e crisi.

Un altro fenomeno contribuisce a rendere unica rispetto al passato la situazione presente: quello delle multinazionali. Se è vero che l'esistenza di filiali all'estero di ditte con sede in altro paese rappresenta un fatto economico diffuso da tempo, dopo la seconda guerra mondiale queste reti si sono moltiplicate, diventando delle potenze internazionali che sfuggono alla sorveglianza dei poteri pubblici e al controllo degli Stati. Le multinazionali hanno una loro propria politica e le loro decisioni, prese in conformità al loro esclusivo interesse, hanno ripercussioni sull'occupazione, sulla produzione, sul livello di vita, sul reddito nazionale degli Stati, senza che questi abbiano il modo di influire sulle loro scelte nè di limitarne le conseguenze.

Le precedenti osservazioni aiutano a comprendere qualcuno degli effetti dell'internazionalizzazione crescente della vita economica. Essa crea strette solidarietà tra le entità nazionali. In questo processo i protagonisti del gioco economico trovano spesso il loro tornaconto, a cominciare dagli Stati. Il rapido e notevole sviluppo degli scambi è stato indubbiamente un fattore decisivo dell'era di prosperità, durata circa venticinque anni, fino al 1973. Ma queste relazioni non si stabiliscono quasi mai sulla base di una stretta reciprocità: se non altro perché, all'inizio, le diverse economie nazionali non sono allo stesso livello di sviluppo, nè hanno uguali riserve di ricchezze naturali o accumulate. Il risultato, dunque, è di riprodurre o accrescere l'ineguaglianza. L'internazionalizzazione rivela in questo modo la dipendenza dei paesi poveri da quelli meno poveri. La crisi del 1973 ha brutalmente evidenziato la povertà energetica dell'Europa e rivelato la sua assoluta dipendenza dai paesi del Medio Oriente, suoi fornitori di petrolio. Certi paesi del Terzo Mondo, la cui economia è dominata da una monocultura, sono alla mercé dei paesi che ne acquistano i prodotti: se questi sospendono gli acquisti oppure si verifica un crollo della valuta, si determina un disastro nazionale.

Niente può illustrare la realtà dell'internazionalizzazione meglio dell'andamento delle crisi economiche. Esse interessano il mondo intero e nessun paese è al riparo dalle ripercussioni delle catastrofi originatesi in un altro paese. La grande crisi del 1929 cominciò in ottobre negli Stati Uniti e dilagò in pochi anni nell'intera Europa, paralizzando le economie, facendo vacillare l'ordine sociale, indebolendo i regimi e contribuendo alla rovina del sistema internazionale. La crisi scoppiata nell'autunno del 1973 conferma questa esperienza. L'Unione Sovietica e i Paesi del blocco comunista sfuggono alle sue conseguenze solo al prezzo di un relativo isolamento: neppure loro, comunque, sono completamente risparmiati dall'inflazione e il loro indebitamento con l'Occidente si avvicina ai 40 miliardi di dollari. Se si paragonano i comportamenti degli Stati nel corso delle due crisi, emerge indirettamente, a mezzo secolo di distanza, lo sviluppo dell'internazionalizzazione della vita economica. Alle prese con la grande depressione, la reazione di tutti gli Stati negli anni trenta fu il ritiro all'interno delle frontiere nazionali, la chiusura ai prodotti esteri, in conclusione, l'autarchia. Negli anni di crisi seguiti al 1973, invece, gli Stati evitano di ricorrere alla stessa prassi e vincono la tentazione dell'isolamento: in parte perché non hanno perso il ricordo delle sue disastrose conseguenze per la democrazia e per la pace, ma anche perché, ai nostri giorni, gli scambi hanno assunto una tale ampiezza e le economie si sono rese a tal punto interdipendenti, che non è più possibile un ritiro dal sistema.

Oggi le economie hanno bisogno di ambiti più larghi di quello nazionale. Nell'Ottocento, principati e piccoli Stati costituivano un quadro troppo angusto per le potenzialità delle economie e per questo le spinte economiche svolsero un ruolo importante nella formazione dell'unità nazionale in Germania e in Italia; allo stesso modo, oggi, i confini degli Stati nazionali comprimono le energie potenziali. Per questo l'internazionalizzazione è probabilmente un fatto irreversibile, per questo essa resiste ai rovesciamenti congiunturali che, in altri tempi, ne avrebbero interrotto il cammino.

b) L'istituzionalizzazione.

Un altro fenomeno attesta la profondità dell'internazionalizzazione delle economie e mette in rilievo la novità delle sue più recenti manifestazioni: la sua istituzionalizzazione, da parte dei governi, mediante strutture giuridico-politiche. In precedenza le relazioni economiche erano oggetto di accordi bilaterali, ma non internazionali. I pochi tentativi di organizzazione dei mercati o di regolamentazione degli scambi erano avvenuti il più delle volte per iniziativa di gruppi economici, che costituivano cartelli per spartirsi il mercato: così per l'acciaio, il petrolio e lo zucchero. Dopo la seconda guerra mondiale si sono costituite per iniziativa dei governi organizzazioni economiche regionali, dotate di importanti poteri espressamnte loro delegati dai governi stessi. La cooperazione economica si è organizzata nel quadro di comunità la cui originaria ispirazione tendeva a creare qualcosa di più che zone di libero scambio: si mirava cioè a organismi solidali capaci di definire e mettere in opera una politica concertata in tutti i settori: produzione agricola e industriale, trasporti, politica fiscale e monetaria. Gli esempi più sviluppati vengono dalla Comunità Economica Europea (che ha continuato l'opera della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio), costituita con i trattati di Roma del 1957 e comprendente all'inizio sei paesi, diventati poi nove con l'ingresso della Gran Bretagna, della Danimarca e dell'Irlanda; e dal Comecon, che ne è la replica orientale promossa dai paesi a democrazia popolare e dall'URSS.

Esistono pure organizzazioni particolari, come quella dei paesi produttori di petrolio che si sono associati per fissare il prezzo di vendita ed esercitare una pressione sui paesi importatori dell'oro nero.

Vari sono dunque i criteri che presiedono a tali associazioni: l'interesse comune riguardo a un prodotto, criteri regionali o infine l'affinità delle posizioni entro la gerarchia del potere economico - com'è il caso dei paesi in via di sviluppo, che finora subiscono, senza potersene difendere, tutti i contraccolpi delle decisioni prese da altri.

L'internazionalizzazione della vita economica produce così, simultaneamente, i più svariati effetti. Fa esplodere le anguste solidarietà nazionali e suscita invece solidarietà regionali, creando orizzonti più vasti e più adeguati alle nuove condizioni dell'economia; rivela o suscita nuovi antagonismi che attraversano vecchie solidarietà: come, dopo l'inizio della guerra, fredda tra Est e Ovest, l'opposizione tra il blocco atlantico, formatosi attorno agli Stati Uniti e all'Europa occidentale, e il blocco sovietico; come il gap Nord-Sud, la cui importanza sta eclissando l'opposizione Est-Ovest, e che contrappone l'emisfero settentrionale, più sviluppato, ricco di capitali, forte del suo vantaggio, all'emisfero meridionale, composto principalmente di paesi fornitori di materie prime. Si tratta di un'altra conseguenza dell'internazionalizzazione degli scambi.

L'internazionalizzazione ha anche l'effetto di sostituire alle solidarietà di tipo tradizionale, formatesi nel quadro delle unità politiche storiche, solidarietà di nuovo tipo che indeboliscono le vecchie. Per esempio, i risultati della divisione del lavoro si dispiegano su scala internazionale: la distinzione di lavoro e capitale, che all'interno dei rapporti sociali si presenta come opposizione tra salariati e capitalisti, dà luogo a una solidarietà internazionale. Al di sopra delle frontiere i lavoratori prendono coscienza dell'analogia delle loro situazioni, scoprono un'identità d'interessi di fronte ai datori di lavoro. Quando ci occuperemo delle dottrine dell'internazionalismo, vedremo quale giustificazione teorica ne ha dato il socialismo e indicheremo le basi teoriche sulle quali si è costituito il movimento operaio internazionale. Ma anche in assenza di tali riferimenti filosofici, il fenomeno dell'internazionalizzazione non avrebbe mancato di suscitare, al di là delle frontiere nazionali, un movimento di solidarietà tra tutti coloro che sono accomunati da una medesima condizione. Il sindacalismo internazionale è sorto dalla convergenza di una spontanea presa di coscienza e dell'apporto del pensiero socialista. La sua nascita è lontana nel tempo: è un'eredità trasmessa dall'Ottocento al Novecento. La celebrazione nel mondo intero di una giornata dei lavoratori (il 1 maggio) data dal 1889.

Se i salariati dell'industria sono stati i primi a tradurre questa solidarietà di classe in organizzazioni professionali, dopo di loro anche le altre categorie si sono organizzate, adottando strutture modellate su quelle del movimento operaio. Si sono così costituite organizzazioni internazionali che dividono orizzontalmente le società nazionali, contrapponendo una solidarietà ‛trasversale' alla coesione delle società politiche.

L'internazionalizzazione opera quindi su due piani che concorrono a destabilizzare le unità nazionali: da un lato essa tende al loro superamento operando per la formazione di grandi entità politiche in cui le diverse unità si integrino; dall'altro favorisce l'esplosione degli antagonismi sociali, che le disintegrano dall'interno accentuando divergenze e dissensi.

4. Le organizzazioni internazionali interstatali.

Il progresso dell'internazionalizzazione e, implicitamente, il successo dell'idea internazionalista si sono manifestati nel Novecento - su di un altro piano - con la nascita di organizzazioni internazionali aventi il compito di coordinare le relazioni tra Stati. In precedenza le relazioni internazionali, antiche quanto gli Stati stessi, si sviluppavano principalmente sotto forma di rapporti bilaterali: quando riguardavano più di due paesi, il fatto rientrava generalmente nel quadro di un sistema di alleanze multilaterali. La novità rivoluzionaria del XX secolo è la costituzione di organizzazioni politiche aperte in linea di principio a tutti gli Stati, con vocazione universale - e questo le distingue radicalmente dalle organizzazioni di carattere tecnico e con finalità limitate - e permanenti.

La prima organizzazione di questo tipo fu la Società delle Nazioni. Prefigurata nei ‛quattordici punti' di Wilson, all'indomani della prima guerra mondiale, essa rappresentò l'embrione di un'organizzazione giuridico-istituzionale internazionale. Per vent'anni tentò di dar corpo al sogno del superamento delle sovranità statali. Il primo decennio della sua esistenza sembrò giustificare in parte le speranze dei popoli. Ma a partire dal 1932 divenne evidente la sua impotenza di fronte ai maggiori pericoli e alle volontà egemoniche dei regimi autoritari. La guerra condotta dall'Italia fascista contro un altro Stato membro - l'Etiopia -, il rifiuto italiano di ottemperare alle ingiunzioni ginevrine, lo scacco delle sanzioni decise contro l'aggressore: tutto questo riassume il fallimento della Società delle Nazioni. Essa non era mai riuscita a far coincidere la sua aspirazione all'universalità con la sua composizione fin dall'inizio il rifiuto americano di ratificare il Trattato di Versailles, e dunque di farne parte, le aveva inferto un grave colpo. La Società delle Nazioni non raggruppò mai più di una cinquantina di Stati e quando alcuni grandi paesi si decisero a chiedere l'ammissione, come l'Unione Sovietica nel 1934, altri ne erano usciti o erano sul punto di farlo, come la Germania, il Giappone o l'Italia.

Alla Società delle Nazioni subentrò verso la fine della seconda guerra mondiale l'Organizzazione delle Nazioni Unite, la cui Carta fu elaborata a San Francisco dai vincitori e la cui sede è a New York. Malgrado alcuni fallimenti, l'ONU esercita un'indubbia attrazione: il primo atto di ogni nuovo Stato, dopo la conquista dell'indipendenza, è quello di sollecitare la propria ammissione. A eccezione della Confederazione Elvetica che, a causa del suo modo di concepire la neutralità, non ha voluto sinora farne parte, non vi è quasi Stato che non ne sia membro. Al 30 settembre 1977 il numero degli Stati membri era di 149; il confronto con la cifra indicata per la Società delle Nazioni dà la misura del cammino percorso.

Società delle Nazioni e ONU sono i cardini del sistema internazionale, le chiavi di volta di questa forma di istituzionalizzazione del fenomeno dell'internazionalizzazione. Esse non sono però il solo elemento di tale sistema, che comporta almeno due altre specie di organizzazioni: le une specializzate per settori e tipi di attività, le altre a base regionale.

Prima intorno alla Società delle Nazioni e poi intorno all'ONU si è dispiegata tutta una costellazione di organizzazioni specializzate: l'UNESCO, per l'istruzione e la cultura; la FAO, per l'alimentazione e l'agricoltura; l'OIL, per l'organizzazione del lavoro e i rapporti sociali; l'OMS, per la salute. Ne fanno parte press'a poco gli Stati membri dell'ONU. Queste organizzazioni ammettono anche, a titolo di osservatori, i rappresentanti di organizzazioni private non statali che vengono consultati e associati ai lavori. In questo modo l'internazionalizzazione istituzionale oltrepassa il quadro degli Stati e trascina con sé anche altre forze.

Con la loro tendenza all'universalità l'ONU e le sue organizzazioni specializzate rappresentano la forma più ampia assunta dall'internazionalizzazione; un'altra è quella delle organizzazioni regionali. Il panamericanismo, che tende a riunire l'intero continente americano e a promuovere una collaborazione politica e tecnica tra gli Stati delle due Americhe, è il più antico tentativo di dar vita a un'organizzazione regionale: i primi incontri risalgono alla fine del XIX secolo. Esso è fortemente segnato dal predominio degli Stati Uniti d'America e dallo squilibrio tra il peso della loro superiorità e la debolezza della gran parte degli altri partners. La cooperazione delle due Americhe ha inizio nel 1948 nel quadro dell'Organizzazione degli Stati americani, creata dalla Carta di Bogotà, che comprende tutti gli Stati delle due Americhe, eccettuata Cuba. La sua sede è a Washington e convoca conferenze periodiche.

Dopo la seconda guerra mondiale, le organizzazioni di questo tipo si sono moltiplicate, seguendo il ritmo dell'emancipazione delle ex colonie. La Lega araba, nata sotto gli auspici della Gran Bretagna, ha accolto uno dopo l'altro nelle sue file i nuovi Stati a maggioranza musulmana, che facevano della solidarietà islamica una delle regole della loro politica estera: essa comprende quindi numerosi paesi etnicamente estranei al mondo arabo, ma a esso collegati dalla comunanza di fede e di cultura.

L'Organizzazione africana e malgascia di cooperazione economica riunisce la maggior parte degli Stati francofoni nati dal vecchio impero coloniale francese; essa si è aperta ad altri paesi francofoni già sottoposti alla dominazione coloniale belga o britannica. Costituita nel 1961, anch'essa convoca conferenze periodiche.

Il Commonwealth raccoglie paesi in precedenza appartenenti all'Impero britannico e rappresenta il più compiuto esempio di quegli organismi che perpetuano in epoca postcoloniale una certa comune eredità politica. Associa nazioni di tutte le razze e di tutti i continenti: ne fanno oggi parte circa una quarantina di Stati.

L'Organizzazione dell'unità africana parte da un concetto completamente opposto: cancellando le separazioni dovute ai colonizzatori, raggruppa la totalità dei paesi africani e afferma, attraverso la sua stessa esistenza, l'unità del continente. Conta una quarantina di Stati.

Che si iscrivano in un determinato spazio geografico - emisfero o continente - o che si rifacciano a un principio comune - religione, nel caso dell'Islam; eredità culturale, nel caso della francofonia in Africa o nel caso della tradizione britannica - lo sviluppo delle organizzazioni regionali, mediatrici tra la proliferazione delle entità nazionali e le strutture a vocazione universale che gravitano attorno all'ONU, costituisce un capitolo fondamentale dell'internazionalizzazione contemporanea.

Queste organizzazioni, tuttavia, non costituiscono una tappa sulla via dell'unificazione: certo, esse superano i limiti nazionali, ma per integrarli in entità altrettanto gelo- se della loro sovranità e ugualmente animate da volontà di potenza, dal momento che spesso trovano il principio della loro coesione nel risentimento o nell'adesione a una delle grandi ideologie che si affrontano e si disputano il dominio del mondo e la fedeltà dei popoli. Il desiderio di prendersi una rivincita sugli antichi dominatori non è del tutto assente nell'Organizzazione dell'unità africana e la denuncia dell'imperialismo o del neocolonialismo permette di passare sopra ai dissensi tra Stati che si proclamano progressisti e Stati considerati conservatori. Quanto al blocco dei quattordici paesi che in tutto il mondo si richiamano al comunismo - blocco che raggruppa, oltre alle democrazie popolari dell'Europa orientale raccolte attorno all'Unione Sovietica, la Mongolia Esterna, la Corea del Nord, il Vietnam e Cuba -, l'adesione al marxismo-leninismo non lo porta né a dissolversi in un insieme più ampio né a collaborare senza reticenze con organizzazioni più vaste: l'ONU è considerata da questi paesi una valida tribuna, dalla quale mettere gli avversari in stato di accusa e far ascoltare al mondo intero le loro tesi.

La formazione di blocchi - o continentali, su base geografica, o legati da un'identica posizione ideologica - è una delle modalità dell'internazionalizzazione contemporanea. Essa fa emergere l'ambivalenza del fenomeno: superamento dei particolarismi nazionali, ma anche affermazione di antagonismi altrettanto tenaci e temibili di quelli degli Stati nazionali. La differenza è solamente di scala.

La formazione di blocchi, però, esprime anche, confusamente, un'aspirazione al superamento di orizzonti troppo ristretti e alla costituzione di aree politiche più ampie e meglio adeguate alle esigenze odierne. La costituzione di queste organizzazioni di natura prevalentemente politica è parallela alla formazione delle grandi unità economiche. Su entrambi i versanti c'è la stessa tendenza a dotare l'internazionalizzazione di strutture istituzionali. Se in un primo tempo il fenomeno obbedisce a spinte spontanee o cede a costrizioni occasionali, la seconda fase è caratterizzata dall'intervento della volontà politica, dalla ricerca di formule giuridiche, di un progetto di organizzazione razionale, dalla definizione di un programma in grado di raccogliere le energie. Dall'internazionalizzazione di fatto si è passati a un'internazionalizzazione esplicita. Gli eventi sono andati incontro alle idee ispiratrici. L'internazionalizzazione, dopo averlo in parte preceduto e in parte seguito, incontra qui l'internazionalismo.

5. Religione e internazionalismo.

Tra tutte le forze che hanno favorito l'internazionalizzazione, tra le correnti che hanno contribuito all'internazionalismo, il fattore religioso occupa un posto cospicuo. Ciò è vero da quando la religione ha cessato di essere legata a un gruppo o a una città; finché si è confusa con il patriottismo locale o etnico, infatti, la religione ha impresso sui particolarismi il suggello di una legittimità trascendente e ha sacralizzato l'attaccamento esclusivo dell'individuo alla propria collettività: si è opposta insomma a ogni internazionalismo. È stata l'apparizione delle grandi religioni universali che ha annunciato il superamento delle divisioni nazionali: i loro adepti sono membri di una comunità che trascende le frontiere e che comunica a tutti i credenti il senso di una fratellanza universale.

Le grandi religioni sono state effettivamente le prime ‛internazionali'. Tanto nella civiltà cristiana che nei paesi islamici si è avuto, nella pratica, un processo di internazionalizzazione. I grandi santuari hanno attirato da tutte le nazioni folle di pellegrini che vi si sentivano a casa loro. Le università accoglievano professori e studenti provenienti da ogni dove, e il loro carattere universalistico era nel Medioevo più pronunciato che oggi. Le crociate furono imprese internazionali che mobilitarono l'Europa intera. I grandi ordini religiosi sono sciamati per il continente: in certi casi la regola prescriveva l'accettazione dell'autorità di superiori stranieri senza che nessuno, eccettuati i governi, ci trovasse nulla da ridire.

La natura delle relazioni tra religione e realtà nazionali non è tuttavia così semplice come l'aspirazione universalistica delle grandi religioni potrebbe far credere: la storia dei loro rapporti è assai complessa, né è sempre stato vero che l'influenza delle credenze religiose si sia esercitata nel senso del superamento dei particolarismi nazionali. Al contrario, in più di una circostanza ha lavorato al loro consolidamento. Le dimostrazioni di internazionalismo cui si faceva cenno risalgono tutte a un periodo relativamente antico, anteriore alla formazione delle nazioni e alla comparsa dello Stato moderno. Non soltanto l'universalismo religioso non ha potuto impedire la frantumazione di entità religiosamente omogenee, ma la stessa unità religiosa ha subito il contraccolpo delle fratture politiche. La Riforma è stata, per un certo aspetto, l'espressione di aspirazioni nazionali dirette contro la dominazione di Roma e ha sortito quindi l'effetto di fortificare il sentimento nazionale. A partire dal Cinquecento la religione conclude dunque delle alleanze con le nazioni: il senso religioso alimenta il patriottismo e questo trova a sua volta nella fede il fondamento della sua identità nazionale. Per l'Irlanda sottomessa all'Inghilterra protestante, per la Polonia assoggettata alla Russia ortodossa e alla Prussia luterana, la fedeltà al cattolicesimo romano è un mezzo per affermare la propria originalità e per preservare la propria anima. Lo stesso vale per le nazionalità cristiane inglobate nell'Impero ottomano. Lungi dall'indebolire l'attaccamento alla comunità nazionale, la fede religiosa s'identifica con la patria. La realtà nazionale diviene nell'Ottocento così forte che, nei conflitti che oppongono due Stati le cui popolazioni hanno la stessa religione, le Chiese si prestano a essere arruolate, mettendo il loro prestigio al servizio dell'ambizione nazionale: da entrambe le parti si mobilita Dio e si presenta la guerra come una santa causa.

Nel Novecento, e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, i rapporti tra religione e realtà nazionali si sono ulteriormente evoluti. Le religioni tendono a ritrovare la loro vocazione universalistica e battono in breccia l'esclusivismo dei nazionalismi. Quest'orientamento non cancella completamente le vestigia del passato; l'analisi deve tener conto anche delle diversità tra le varie religioni.

Il giudaismo è la più antica tra le religioni universalistiche: non ne derivano forse il cristianesimo e l'islamismo? Ora, il giudaismo ha riunito e continua tuttora a riunire in sé due tratti complementari: da un lato afferma, a differenza delle religioni pagane, la fede in un Dio unico, il Dio dell'intera umanità, la cui Rivelazione si rivolge a tutti gli uomini, in tutte le nazioni; d'altro lato, però, tra tutti i popoli Dio ne ha scelto uno, il popolo eletto, il suo preferito, al quale si è manifestato e che guida attraverso la storia. Così si afferma insieme il privilegio di un popolo e l'universalità della sua religione (il giudaismo contava numerosi proseliti anche tra persone di discendenza non ebraica).

Questi due tratti si ritrovano lungo la storia della Diaspora: dispersi nel mondo, gli Ebrei conservano la loro identità culturale e religiosa, pur assimilandosi ai popoli dei quali condividono l'esistenza e senza d'altra parte cessare di essere sensibili a preoccupazioni di più larga portata. La coscienza di appartenere a una comunità dispersa nel mondo intero spiega in parte il ruolo storicamente giocato dagli Ebrei nel progresso dell'economia, nello sviluppo delle conoscenze, nelle trasformazioni sociali. Il problema dei rapporti tra giudaismo e internazionalismo è oggi complicato dalla restaurazione di uno Stato-nazione, cioè dall'esistenza di Israele. Il sionismo che ha presieduto alla formazione di questo Stato è un nazionalismo per certi versi paragonabile a tutti i nazionalismi che, nel corso dell'Otto e Novecento, hanno mirato a far coincidere Stato e nazione, combattendo per l'indipendenza e l'unità. Si tratta però, in questo caso, di un nazionalismo ‛universale': il popolo che intende liberare e riunire è un popolo disperso su tutta la terra e, se è vero che soltanto una minoranza di Ebrei ha ripreso la strada della Palestina e si è stabilita sulla terra dei suoi padri, la maggior parte degli altri Ebrei, che continuano a vivere nei paesi ai quali si sono assimilati, si sentono solidali con i loro fratelli israeliani: sono membri di una sorta di ‛internazionale'. Lo Stato di Israele deve la sua sopravvivenza all'aiuto materiale e al sostegno morale degli Ebrei del mondo intero. Senza identificarsi con il giudaismo - religione universale - il sionismo è senza dubbio un fenomeno internazionale che, attraverso il mondo intero, tesse i legami tra tutti gli Ebrei (v. giudaismo; v. sionismo).

Il contributo portato all'internazionalismo dall'Islām presenta aspetti alquanto differenti. Certamente, come il giudaismo, l'Islām è sorto in un preciso punto dello spazio (poco lontano, del resto, dalla Palestina) al quale resta attaccato da legami sentimentali: le città sante, dove il Profeta visse, continuano a calamitare lo sguardo del credente, che si volge in direzione della Mecca durante le sue preghiere quotidiane. Nella prima fase della sua espansione, l'Islām si è identificato con l'elemento arabo e ancor oggi, essendo l'arabo la lingua religiosa del Corano, ogni progresso dell'islamismo si accompagna a una certa arabizzazione culturale e forse anche politica. Assai presto l'Islām ha raggiunto popoli, paesi, continenti diversi: ha integrato in una comunità di fede popoli lontani tra i quali ha tessuto legami internazionali.

L'Islām ha creato in un certo senso una civiltà comune che si estende oggi dalle rive atlantiche dell'Africa fino all'Indonesia, dall'Africa nera alla Cina e all'Unione Sovietica, e che comprende più di mezzo miliardo di uomini. La religione musulmana è la religione dominante in una quarantina di paesi. Essa si spinge anche al di fuori della sua area specifica con l'immigrazione nei paesi industrializzati di una mano d'opera proveniente da paesi poveri e con la scelta volontaria di una minoranza negro-americana, che ha visto nell'affermazione dell'Islām un mezzo per affermare la propria identità in contrapposizione a quella della maggioranza bianca degli Stati Uniti. Attraverso questo vasto spazio esiste una comunità di credenti che è un potente fattore di internazionalizzazione.

Questa unità di natura religiosa ha operato come una spinta al risveglio dei nazionalismi arabi o africani. Il senso della specificità musulmana ha suscitato la formazione di nazioni distinte all'interno di aree geografiche prima politicamente indivise, com'è stato il caso del Pākistan al tempo dell'indipendenza dell'India. Esso ha inoltre ispirato programmi politici: perché - infatti - non prolungare l'unità religiosa in un'unità politica e non tradurne la realtà in una costruzione sovrannazionale? Fino a oggi però tutti i tentativi in questa direzione sono falliti. Il mondo musulmano resta frammentato, diviso in entità politiche nazionali, lacerato dalle ripercussioni degli scontri ideologici tra Stati rivoluzionari e Stati conservatori, dilaniato tra i blocchi e i sistemi d'alleanza. Ritrova tuttavia la sua unità nell'affrontare gli imperialismi stranieri, il neocolonialismo e soprattutto il sionismo. Come un tempo contro la cristianità, l'Islām ricostituisce oggi la sua unità e la sua solidarietà contro il piccolo Stato di Israele, incuneatosi sul fianco della sua area d'espansione. Sotto questo aspetto l'Islām si può considerare oggi a buon diritto una grande forza internazionale (v. islamismo).

La recente evoluzione delle Chiese cristiane illustra il ritorno delle religioni alla loro vocazione universale. Ciò si manifesta, contemporaneamente, nelle strutture, nei rapporti reciproci e nelle relazioni col mondo.

Consideriamo anzitutto le strutture. Esse hanno sempre avuto una propensione al superamento dei particolarismi nazionali. Nessuna Chiesa ha mai accettato di limitare il suo campo d'azione a un solo paese. Anche le Chiese nazionali nate dalla Riforma, che riconoscevano l'autorità del sovrano, anche le Chiese autocefale dell'ortodossia hanno cercato di fare opera di evangelizzazione oltre i loro confini originari. La storia delle missioni è inseparabile da quella delle Chiese cristiane. Tutte hanno accolto l'invito rivolto loro dal Cristo: ‟Andate, evangelizzate tutte le nazioni della terra". La partecipazione all'azione missionaria ha avuto come conseguenza che ogni Chiesa ha diramazioni al di là dei confini nazionali: per esempio la Chiesa d'Inghilterra ha delle Chiese sorelle in tutti i continenti.

Queste nuove Chiese, all'inizio completamente dipendenti dalle Chiese-madri per la sopravvivenza materiale, per il reclutamento del clero e per le direttive, a poco a poco si sono emancipate. In taluni casi l'emancipazione è stata una scelta autonoma, in altri il frutto di una decisione venuta dall'alto. Quest'ultimo è il caso della Chiesa cattolica, le cui strutture sono più marcatamente gerarchiche di quelle di altre Chiese cristiane. È stato per iniziativa della Santa Sede che la maggior parte dei territori di missione sono stati costituiti in Chiese responsabili del proprio avvenire. Nel 1919 Benedetto XV annunciava in un enciclica l'intenzione del papato di affidare progressivamente al clero indigeno la responsabilità della Chiesa. In seguito, la formazione di episcopati nazionali, la creazione di cardinali di ogni razza e colore ha fatto della Chiesa cattolica, che era potenzialmente una società internazionale, un'‛internazionale' effettivamente realizzata.

Il confronto di alcune cifre relative a tempi abbastanza vicini ci dà la misura della sua internazionalizzazione e sottolinea nel contempo la rapidità dell'evoluzione. Nel 1936 il Sacro Collegio comprendeva 66 cardinali, 37 dei quali, cioè più della metà, erano italiani. Gli europei erano 59.1 rimanenti 7 erano americani: 4 dell'episcopato degli Stati Uniti, 1 canadese, 1 brasiliano e 1 argentino: tutti di razza bianca. Quarant'anni più tardi, nel 1977, il Sacro Collegio annovera 137 cardinali, tra i quali i 69 europei rappresentano una maggioranza ridottissima; gli altri continenti si dividono gli altri 68 seggi: 39 le due Americhe, 12 l'Africa, 12 l'Asia e 5 l'Oceania. Più di cinquanta Stati sono rappresentati in seno a questo supremo consesso. Questa internazionalizzazione, che è anche universalizzazione, ha una portata simbolica: nell'incontro degli uomini esprime un'aspirazione; ha anche una portata effettiva: si tratta infatti del consesso che elegge il papa.

L'internazionalizzazione del Sacro Collegio, che si riunisce al completo solo eccezionalmente e non detiene un potere permanente, è stata accompagnata, sotto il pontificato di Paolo VI, da uno sforzo sistematico per internazionalizzare il governo della Chiesa cattolica con l'introduzione nella Curia - alla testa della Segreteria di Stato e nei principali dicasteri - di personalità chiamate dall'esterno e provenienti dagli episcopati nazionali. Le istituzioni pontificie sono oggi più conformi alla vocazione universale della Chiesa cattolica e, per quanto riguarda la loro composizione, meglio preparate a ragionare e ad agire in una prospettiva internazionale.

Per molti secoli, dalle lacerazioni della Riforma ai giorni nostri, le divisioni delle Chiese cristiane hanno approfondito le opposizioni nazionali: da un lato gli Stati hanno spesso preso parte alle dispute religiose, dall'altro le Chiese hanno fatto causa comune con le ambizioni dei governi. La rottura dell'unità cristiana ha così fatto regredire l'internazionalizzazione. Al contrario, ogni avvicinamento tra le Chiese ha contribuito indirettamente all'internazionalizzazione. Il progresso avvenuto nel XX secolo con l'ecumenismo si è ripercosso dunque sull'internazionalismo (v. ecumenismo).

Dopo secoli di discordie o di guerre di religione uno sforzo notevole è stato compiuto in direzione dell'unità. In un primo tempo, si sono riavvicinate le Chiese della Riforma; in seguito, si sono loro associate le Chiese ortodosse. Oggi il Consiglio Ecumenico delle Chiese raggruppa qualche centinaio di Chiese cristiane. Dal canto suo la Chiesa di Roma ha invitato le altre Chiese a inviare osservatori al Concilio Vaticano II e ha inoltre accettato di entrare in relazione con il Consiglio Ecumenico. I rappresentanti di Roma lavorano assieme con quelli delle Chiese protestanti o ortodosse in seno a organismi misti che raggruppano tutte le Chiese cristiane. Localmente gli episcopati firmano, insieme con le autorità religiose di altre confessioni, documenti comuni in cui si definiscono atteggiamenti simili di fronte ai grandi problemi del mondo contemporaneo. Per lungo tempo ostacolo al progresso dell'internazionalizzazione, la diversità delle confessioni religiose è diventata un fattore di avvicinamento tra i popoli e di superamento degli egoismi nazionali o regionali.

Parallelamente all'internazionalizzazione di vertice e allo sforzo per superare i dissensi storici, le Chiese cristiane hanno preso posizione in favore del superamento degli egoismi nazionali e hanno intrapreso un'opera di educazione dei loro fedeli. A poco a poco hanno preso le distanze dai particolarismi e rotto con le compiacenze dimostrate in passato verso il nazionalismo.

Per la Chiesa cattolica il pontificato di Pio XI ha segnato una tappa decisiva in questa direzione. Il suo immediato predecessore, Benedetto XV, aveva già dissociato la causa della Chiesa da quella dei governi stabilendo una distinzione tra evangelizzazione e colonizzazione. Pio XI ha condannato gli eccessi del nazionalismo generatore di conflitti: contro il pensiero di Ch. Maurras e l'Action française in Francia, contro la statolatria del fascismo, contro il paganesimo del razzismo nazista egli emanò documenti molto duri. Condannando il ricorso alla guerra, rifiutando il vecchio adagio secondo cui per avere la pace bisogna preparare la guerra, il papa approvò gli sforzi della Società delle Nazioni per edificare un ordine giuridico che fondasse la pace sul diritto; risvegliò la coscienza dei cattolici riguardo alle implicazioni della loro fede nella sfera delle relazioni internazionali: come i suoi predecessori avevano cominciato a convincere i fedeli dell'esistenza di una morale sociale, così Pio XI si adoperò per mostrar loro come il cattolicesimo implicasse una morale internazionale.

I suoi successori hanno continuato e approfondito questa stessa linea d'azione. Paolo VI ha visitato nel 1965 l'Organizzazione delle Nazioni Unite e l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, e in quell'occasione ha pronunciato parole di elogio per il lavoro compiuto da quelle organizzazioni. Il papa stesso in documenti ufficiali (come la Populorum progressio), il Concilio in dichiarazioni solenni, le conferenze episcopali nazionali, le autorità di diverse Chiese vanno moltiplicando da circa due decenni i richiami alla coscienza cristiana, le implorazioni a lavorare per lo sviluppo dell'internazionalizzazione e la pace tra i popoli. Denunciando l'orgoglio e l'amor proprio nazionale, condannando senza riserve l'uso della violenza e la corsa agli armamenti, come anche la vendita di armi da parte dei paesi produttori ad altri paesi, invitando gli Stati e i popoli a collaborare a una pacifica spartizione delle ricchezze del mondo, il cristianesimo rappresenta oggi una forma di internazionalismo in atto e non soltanto una ‛internazionale'. Ci si può persino chiedere, tenuto conto del declino degli internazionalismi d'ispirazione socialista, se l'internazionalismo cristiano, più recente e quindi immune da fallimenti, non possa oggi essere un fermento di internazionalizzazione più attivo delle internazionali operaie. Il solo fatto che ci si possa porre una tale domanda rivela l'ampiezza dei mutamenti che da mezzo secolo a questa parte hanno investito i rapporti tra le grandi forze ideologiche e religiose come anche il rapporto tra queste stesse forze e la sfera internazionale: ieri più che circospette riguardo a tutto ciò che poteva indebolire gli Stati o offuscare il patriottismo, le Chiese considerano oggi positivo tutto quello che favorisce e sviluppa le relazioni tra i popoli. È dunque anche questo un segno della crescente intensificazione del fenomeno internazionalistico.

6. L'internazionalismo e le internazionali.

A differenza dell'internazionalizzazione - fenomeno oggettivo, più spesso subito che voluto - che è il risultato della naturale spinta delle società, l'internazionalismo, nel senso proprio del termine, muove da una teoria, s'iscrive in un sistema, ispira un'azione di tipo politico.

Così definito, il fenomeno è antico: in un certo senso la Rivoluzione francese, a partire dal momento in cui le sue armate passano le frontiere e distruggono le monarchie, è un internazionalismo: essa risveglia simpatie in tutti i paesi e crea una costellazione di repubbliche sorelle che rappresenta una sorta di internazionale. Anche la Giovane Europa di Mazzini, che federa una serie di movimenti: Giovane Italia, Giovane Ungheria, ecc., fa pensare alle internazionali più recenti. Ogni ideologia, se si presenta come una spiegazione e giustificazione globale e insieme come un progetto di trasformazione della società, è un potenziale fattore di internazionalizzazione. Senonché talune ideologie possono lasciar sussistere intatti gli orizzonti nazionali e limitare il proprio progetto a una federazione; altre invece postulano la fine o almeno il superamento delle entità nazionali.

L'internazionalismo più coerente, nel senso di una più decisa negazione del fattore nazionale, è quello associato al socialismo, che ha trovato la sua espressione più sistematica negli scritti di Marx e che la storia ha legato al destino del movimento operaio. Le principali internazionali hanno in comune questi caratteri.

Questo tipo di internazionalismo deriva direttamente dalle sue premesse dottrinali, premesse che distinguono anzitutto tra realtà effettive e apparenze illusorie. Le sole realtà effettive sono quelle direttamente connesse con la struttura dei rapporti di produzione a un dato stadio dello sviluppo tecnologico: la posizione nel sistema produttivo, il ruolo sociale determinato dalla divisione del lavoro, le classi. Soltanto due classi, direttamente antagoniste per interessi, vengono riconosciute in quest'analisi allo stesso tempo dualistica e dialettica: capitalisti e proletari. L'identità di condizione nei diversi paesi genera l'identità delle alleanze. La lotta di classe è la prima e ultima parola della realtà sociale. La nazione è un'unità artificiale che giustappone elementi che tutto il resto separa: i capitalisti di due paesi diversi sono più vicini tra loro di quanto non lo siano ai loro salariati; la stessa solidarietà esiste tra i proletari, i quali non hanno patria, sono spontaneamente internazionalisti. Orizzonte fittizio, la nazione è un'invenzione della borghesia, alla quale essa stessa non crede né è disposta a sacrificare i propri interessi di classe è un'esca destinata a distrarre il proletariato dalla sola lotta motivata, è un mezzo inventato per mantenere lo sfruttamento della classe operaia. La nazione dunque è nello stesso tempo un'illusione e un avversario.

Il movimento operaio è naturalmente internazionalista. La sua internazionalizzazione precede la sua organizzazione nell'ambito nazionale. Un'internazionale socialista, nella impostazione originaria, non è la federazione di movimenti già costituiti all'interno di entità politiche definite; il processo è inverso: è l'internazionale che si articola in sezioni corrispondenti alla segmentazione temporanea in unità nazionali. Internazionalista nei suoi principî e nelle sue strutture, il movimento proletario deve combattere la nazione senza riguardi né compiacenze: essa infatti non può che ritardare l'ora della fine della lotta di classe.

Tali sono i postulati che hanno presieduto all'organizzazione delle internazionali. Dal momento che in questa sede ci occupiamo dell'internazionalismo nel Novecento, ci limitiamo a un brevissimo cenno sulla Prima Internazionale. Nata nel 1864 a Londra dalla confluenza di realtà molto diverse (sindacati, partiti, movimenti nazionali in lotta per l'indipendenza), la Prima Internazionale fu lacerata dalle controversie Marx-Proudhon e Marx-Bakunin, e non sopravvisse alla guerra franco-prussiana e all'annientamento della Comune. Trasferita a New York, si sciolse poco dopo. Per circa due decenni l'aspirazione dei movimenti operai e delle scuole socialiste a un'organizzazione internazionale resterà priva di espressione.

a) La Seconda Internazionale e la guerra mondiale.

Preparata dal Congresso tenuto a Parigi nel 1889 in occasione dell'Esposizione Universale, la ricostituzione di un'internazionale diviene un fatto compiuto con il Congresso di Bruxelles dell'agosto 1891. La Seconda Internazionale è assai diversa dalla Prima. È più omogenea, comprendendo soltanto partiti politici; inoltre, mentre la Prima era stata continuamente lacerata da controversie dottrinali, la Seconda adotta il marxismo come base ideologica comune. D'altro canto, essa rinuncia a certe pretese della Prima Internazionale: rifiuta di darsi una struttura troppo centralizzata e lascia una grande autonomia ai partiti nazionali federati. Ogni tre anni tiene congressi internazionali in cui i rappresentanti dei singoli paesi cercano di definire le prospettive d'azione ed elaborano risposte comuni ai problemi della conquista del potere. Con gli anni l'Internazionale si rafforza, la sua autorità cresce e le sue istituzioni si consolidano mano a mano che il movimento socialista si espande nel mondo.

Al Congresso di Parigi, nel 1900, nasce un Ufficio socialista internazionale, composto di due delegati per ogni paese aderente; la sua sede è a Bruxelles e dispone di un segretariato permanente. Quest'organo assicura la continuità negli intervalli tra un congresso e l'altro, e provvede all'esecuzione delle decisioni prese. L'Internazionale acquista un'autorità arbitrale le cui sentenze hanno valore vincolante per i membri. I congressi triennali (Stoccarda, 1907; Copenaghen, 1910) e il congresso straordinario convocato a Basilea nel 1912 per salvare la pace rappresentano tappe importanti della storia mondiale. Essi precisano punti dottrinali, ma esprimono anche una speranza crescente. Alla vigilia della prima guerra mondiale, la Seconda Internazionale raccoglie insieme le aspirazioni del proletariato internazionale e le speranze dei popoli: simboleggia la volontà di edificare un ordine sociale basato sulla giustizia e sull'uguaglianza e il desiderio di fondare la pace internazionale. Riunendo partiti nazionali profondamente affermati in vari paesi (alcuni contano centinaia di migliaia di aderenti e dispongono di cospicue rappresentanze parlamentari), la Seconda Internazionale, all'inizio dell'estate 1914, è una forza considerevole. L'aspirazione socialista al superamento degli Stati nazionali sembra alla vigilia di affermarsi sovrapponendo alle nazioni una realtà internazionale. Mettendo alla prova la forza, la coesione, la realtà stessa dell'internazionalismo, la guerra si ripercuote in vario modo sulla Seconda Internazionale. In primo luogo va in pezzi la convinzione che la solidarietà della classe operaia possa opporre un ostacolo decisivo alla volontà di guerra attribuita ai governi e alla borghesia capitalista: l'Internazionale si rivela impotente a bloccare il meccanismo che trascina l'Europa intera in un conflitto fratricida. In secondo luogo l'Internazionale si frantuma: i diversi partiti socialisti fanno causa comune con i governi e le altre forze politiche; partecipano all'union sacrée; votano i bilanci militari; si associano allo sforzo bellico; invitano i lavoratori a mettere tutte le loro energie al servizio della patria in pericolo. Questo avviene in tutti i paesi e in entrambi gli schieramenti. Questo imprevisto rovesciamento, che sconfessa tutte le prese di posizione dell'Internazionale, ha un significato fondamentale: quando entrano in conflitto la solidarietà di classe - che unisce, al di sopra delle frontiere, i proletari - e la solidarietà nazionale - che unisce, nel quadro delle comunità storico-politiche, un'intera popolazione - è la seconda che prevale nettamente. L'esperienza smentisce dunque la tesi dell'internazionalismo, secondo la quale le entità nazionali avrebbero un carattere artificiale. Forse però gli avvenimenti presero questa direzione perché le nazioni erano realtà più antiche dell'internazionalismo, e non è escluso che esso preannunci l'avvenire più di quanto faccia presumere la presa che attualmente lo Stato-nazione ha sui propri cittadini. La guerra del 1914 dimostra comunque che questo avvenire è ancora lontano e che, di fronte al comune destino nazionale, la solidarietà di classe non è in grado di resistere: la seconda guerra mondiale confermerà questa lezione.

La vittoria dell'Intesa sugli Imperi centrali e le disposizioni dei trattati di pace rappresentano il trionfo del principio di nazionalità. Esse conducono infatti a termine lo smembramento degli imperi plurinazionali, che vanno in pezzi per far posto a nuovi Stati fondati sull'omogeneità etnica. La formazione della Società delle Nazioni controbilancia solo parzialmente questo nuovo successo delle unità nazionali, dal momento che, pur tentando di creare un diritto superiore alla ragion di Stato, presuppone nondimeno l'esistenza dei singoli Stati, sulla cui adesione si fonda.

Infine l'atteggiamento adottato dai socialisti nei confronti della guerra e dell'union sacrée ha irriducibilmente diviso l'Internazionale, dando l'avvio a un antagonismo le cui conseguenze non si sono ancora cancellate. In realtà una minoranza rifiutò di associarsi allo sforzo bellico. Quella minoranza ha continuato a considerare una sola guerra come giusta e legittima: quella che oppone il proletariato internazionale al capitalismo. La guerra mondiale, voluta dalla borghesia, serve gli interessi della borghesia, è il prodotto dell'imperialismo. Non soltanto i lavoratori non devono prendervi parte, ma, praticando un disfattismo rivoluzionario, devono preparare la presa del potere, la rovina degli Stati, la vittoria dell'Internazionale. È la posizione di Lenin, quella che trionfa in Russia con la rivoluzione dell'ottobre 1917.

Analisi divergenti, differenze di comportamento, mutui risentimenti hanno introdotto nell'internazionalismo socialista una divisione insanabile. Vi saranno d'allora in poi almeno due internazionalismi rivali.

La Seconda Internazionale si ricostruirà lentamente, finita la guerra. Una prima conferenza, tenuta a Berna nel febbraio 1919, si risolve in un mezzo scacco: l'attrazione esercitata sul movimento operaio internazionale dall'esperienza rivoluzionaria sovietica divide i partiti socialisti. È solo ad Amburgo nel maggio 1923, dopo la costituzione della Terza Internazionale e il definitivo fallimento delle trattative per la riunificazione del movimento operaio internazionale, che si ricostituisce la Seconda Internazionale. La rottura tra le due Internazionali è ormai consumata sia sul piano mondiale che nei singoli paesi, con la scissione - all'interno dei partiti socialisti - tra quanti si allineano sulle posizioni dell'Unione Sovietica, accettando i 21 Punti richiesti per aderire alla Terza Internazionale, e quanti intendono realizzare la trasformazione sociale senza sacrificare le libertà della democrazia politica nè subordinare la propria azione alla strategia dello Stato sovietico. La Seconda Internazionale non ritroverà mai più il prestigio di cui godeva prima del 1914. Continuerà a riunire periodicamente i rappresentanti dei principali partiti socialisti, ma non coordinerà più la loro attività. Non riuscirà a fissare una linea di condotta comune di fronte all'ascesa del fascismo e neppure a proporne un'adeguata spiegazione. Tra il 1930 e il 1939 la Seconda Internazionale rinnovata inciampa sulla sfida del fascismo come la sua precedente versione si era incagliata sullo scoglio della guerra: nell'un caso come nell'altro lo schema d'analisi proposto dal marxismo - cui la Seconda Internazionale resta fedele - che vede nel fascismo un sottoprodotto del capitalismo adottato dalla borghesia per prolungare il suo dominio (come faceva della guerra un prodotto della lotta di classe su scala internazionale), non ha aiutato i partiti socialisti nazionali nè l'Internazionale a percepire la natura della minaccia fascista. Presa tra i due fuochi dei regimi totalitari e del comunismo, la Seconda Internazionale viene sorpresa dalla seconda guerra mondiale in uno stato di smarrimento.

Dopo la seconda guerra mondiale essa si ricostituirà su basi ancora più modeste. Sotto la sigla di Comisco (Comittee for the International Socialist Conference) riunirà di volta in volta i dirigenti dei partiti socialisti. Nel marzo 1951 si ricostituisce l'Internazionale socialista, che oggi raggruppa una cinquantina di partiti. L'attività dell'istituzione internazionale riflette in modo assai imperfetto quella dei partiti nazionali. In numerosi paesi il socialismo è al potere: lo conserva in Svezia, lo conquista o lo riconquista in Gran Bretagna e nella Germania Occidentale; è associato al potere in Francia, in Italia, in Belgio. I legami internazionali restano però assai lenti. Da una decina d'anni a questa parte, sotto l'impulso di alcuni leaders il cui prestigio supera le frontiere dei rispettivi paesi - il tedesco Willy Brandt, lo svedese Olof Palme, il francese Mitterrand - la Seconda Internazionale ha ritrovato un certo dinamismo: i responsabili dei partiti si riuniscono per confrontare le rispettive analisi e scambiarsi le loro riflessioni. Si sono anche formati gruppi di studio per elaborare risposte ai grandi problemi del mondo contemporaneo. Ma l'Internazionale non ha alcuno specifico potere proprio, non ha alcun mandato per definire una strategia e non dispone di alcun mezzo per imporre i suoi orientamenti. Non è raro che due capi di governo, che si richiamano entrambi al socialismo, affermino posizioni contraddittorie. Appunto perché sono investiti di responsabilità di governo, negli incontri internazionali si comportano da capi di governo, proprio come si comportano da capi di governo nelle conferenze diplomatiche in cui rappresentano i loro Stati. La storia della Seconda Internazionale è dunque la storia del lento deperimento di un'istituzione la cui ambizione al superamento dei particolarismi nazionali è stata prima battuta in breccia e quindi abbandonata. Sopravvive l'internazionalizzazione, ma l'internazionalismo si è dileguato. La resistenza delle nazioni ha avuto l'ultima parola.

b) La Terza Internazionale. Komintern e Kominform.

Assai diversa - nella sua costituzione - dalla Seconda, la Terza Internazionale ha descritto in un mezzo secolo una parabola che presenta qualche somiglianza con quella della sua precorritrice.

La nascita della Terza Internazionale è direttamente legata alla Rivoluzione sovietica e segue abbastanza da vicino la presa del potere da parte dei bolscevichi. Traendo le conclusioni dal fallimento della Seconda Internazionale, una conferenza comunista internazionale riunita nel marzo 1919 decide di costituirsi in Terza Internazionale. L'iniziativa ha una portata ancora limitata: nessuno dei grandi partiti socialisti dell'Europa occidentale vi si è fatto rappresentare; la conferenza riunisce solo una cinquantina di delegati, la maggior parte dei quali, esclusi i Russi, non rappresentano che se stessi. A quell'epoca, la Rivoluzione sovietica è ancora isolata. Ma gli avvenimenti non tardano a conferire a quest'iniziativa un significato storico: nelle settimane seguenti la rivoluzione scoppia in Ungheria e in Baviera; in Cina dilaga il movimento del 4 maggio. All'appello di Mosca i partiti comunisti nazionali si moltiplicano.

Il secondo congresso dell'Internazionale comunista, nel luglio-agosto 1921, enuncia i 21 Punti, che stabiliscono le condizioni poste ai partiti socialisti che sollecitano la propria ammissione. I 21 Punti definiscono un tipo di organizzazione totalmente differente da quella precedente; essi mirano a costituire un'armata disciplinata dotata di una struttura centralizzata e di una disciplina di ferro. Impressionante è il contrasto con il funzionamento dell'Internazionale socialista, che si ispirava alla prassi delle democrazie parlamentari. L'Internazionale comunista non è una federazione di partiti nazionali: è un'armata omogenea, articolata in sezioni corrispondenti alle divisioni nazionali. Convinta che le nazioni non abbiano realtà propria e che la lotta opponga il proletariato mondiale contro una classe capitalista ugualmente mondiale, essa agisce nel quadro di una strategia di portata planetaria le cui direttive, elaborate dall'organo esecutivo che ha sede a Mosca, capitale del primo Stato proletario, i diversi partiti sono tenuti a eseguire alla lettera.

Lo scacco dei movimenti rivoluzionari europei dopo il 1920, il riflusso dell'ondata di agitazioni che ha scosso vincitori e vinti, il consolidamento dei regimi capitalistici e la conseguente scelta dell'Unione Sovietica di ‟edificare il socialismo in un solo paese" hanno per effetto di unire strettamente il destino della Terza Internazionale a quello dell'URSS, che diviene il modello e il quartier generale della rivoluzione. L'Unione Sovietica è ormai la sola patria del proletariato internazionale. Il Programma dell'Internazionale comunista, adottato nel suo VI Congresso mondiale del settembre 1928, lo dice chiaramente: ‟Il proletariato internazionale, che vede nell'URSS la sua sola patria, il baluardo delle sue conquiste, il fattore essenziale del suo affrancamento internazionale, ha il dovere di contribuire al successo dell'edificazione del socialismo in URSS, e di difenderla con tutti i mezzi contro gli attacchi delle potenze capitalistiche".

La strategia dell'Internazionale è sempre più subordinata agli interessi dello Stato sovietico. L'iniziale equilibrio tra la Rivoluzione russa e l'attività dell'Internazionale è rotto a vantaggio della prima. Attraverso la mediazione del Komintern i diversi partiti comunisti si allineano sulle posizioni della diplomazia sovietica, che prescrive ora l'irrigidimento ora l'apertura. Nel modo di vedere dei dirigenti, la contraddizione o la conciliazione tra punto di vista sovietico e punto di vista dei partiti comunisti è una questione priva di senso: è anzitutto dalla sopravvivenza dello Stato sovietico, e quindi dal suo rafforzamento, che dipende l'avvenire della rivoluzione mondiale. Anche i partiti comunisti giustificano i cambiamenti di strategia decisi dalla Terza Internazionale o da Stalin: la formazione dei fronti popolari, approvata dal VII Congresso dell'Internazionale nell'agosto 1935, come la firma, nell'agosto 1939, del patto tra Germania e Unione Sovietica, per ritrovarsi poi al fianco dell'Unione Sovietica attaccata, il 22 giugno 1941, dal Terzo Reich. Pur attraverso tutte queste vicissitudini, l'analisi della situazione resta immutata e identico l'obiettivo: il mondo è diviso dalla lotta di classe; tutti coloro che non sono incondizionatamente solidali con l'Unione Sovietica fanno, consapevolmente o no, il gioco dei suoi nemici; lo scopo dell'azione dei comunisti nel mondo è quello di consolidare l'URSS per preparare la rivoluzione comunista.

Il 15 maggio 1943 Stalin decreta lo scioglimento dell'Internazionale comunista, che è annunciato da una dichiarazione firmata dai rappresentanti dei principali partiti comunisti. La ragione addotta è che i partiti hanno raggiunto una sufficiente maturità politica. È una mossa volta a rassicurare gli alleati, Gran Bretagna e Stati Uniti? In ogni caso l'Internazionale è sciolta ‟come centro di guida del movimento operaio internazionale, e le sezioni dell'Internazionale sono dispensate dagli obblighi statutari e dagli impegni assunti nei congressi dell'Internazionale". La scomparsa dell'organo di coordinamento non cancella immediatamente il ricordo di venticinque anni di lotte comuni né le abitudini nate da una lunga familiarità. Si tratta nondimeno, alla luce dell'ulteriore evoluzione, di una prima tappa nel processo di allentamento dei legami con l'Unione Sovietica.

Ma poco dopo le redini vengono nuovamente riprese in pugno. Nel settembre 1947, alla conferenza che riunisce in Polonia i rappresentanti dei partiti comunisti occidentali e quelli del Partito comunista sovietico, questi ultimi impongono la propria visione conflittuale della situazione internazionale e obbligano i partiti fratelli a uniformarsi alla strategia dell'URSS. La guerra fredda divide il mondo in due blocchi: l'uno, guidato dall'Unione Sovietica, difende la democrazia e la pace; l'altro, asservito all'imperialismo statunitense, incarna oppressione e guerra. La partecipazione a governi di coalizione sarebbe, da parte dei comunisti occidentali, un grave errore e una pesante colpa. La conferenza crea un organo di coordinamento: l'Ufficio di informazione dei partiti comunisti europei, noto comunemente in Occidente sotto il nome di Kominform; ha sede a Bucarest e pubblica un bollettino periodico. Ma, a dispetto della somiglianza di denominazione, il Kominform non ha molto in comune con il Komintern: non è che un organo di collegamento, privo di potere decisionale.

Nello stesso periodo un mutamento capitale investe la natura della solidarietà internazionale comunista: la presa del potere in vari paesi. Fino al 1945 i partiti comunisti erano tutti all'opposizione, aperta o più spesso clandestina, e si raccoglievano attorno all'unico partito che era giunto al potere, quello dell'Unione Sovietica. All'indomani della seconda guerra mondiale, grazie alla presenza dell'Armata Rossa in numerosi paesi, i comunisti si impadroniscono successivamente del potere in Polonia, Romania, Ungheria e Bulgaria. In Iugoslavia arrivano al potere con le sole loro forze; in Cecoslovacchia il processo è un po' diverso. In ogni modo, a partire dal 1948 l'Unione Sovietica si trova circondata da una cintura di Stati in cui il comunismo è la dottrina ufficiale. L'Internazionale comunista diviene, in parte, un'internazionale di Stati, associando ormai Stati e partiti, partiti al potere e partiti all'opposizione. Il fatto che la direzione dello Stato sia ormai, in vari paesi, in mano comunista, non attenua il predominio dell'Unione Sovietica sui partiti fratelli: al contrario, la sua autorità ha modo di esercitarsi ancor più pesantemente attraverso gli apparati statali.

Il blocco comunista, che nel 1948 comprende, con la Repubblica Democratica Tedesca e l'Albania, otto Stati dell'Europa orientale, si rafforzerà con l'ingresso della Mongolia Esterna, della Cina continentale (interamente passata sotto il controllo comunista nel 1949), di Cuba (primi anni sessanta), del Vietnam e degli Stati dell'Indocina ex francese. In questo modo si costituisce per aggregazione un'‛internazionale' di Stati, la cui unità poggia sull'adesione al marxismo-leninismo ed è cementata dal primato dell'Unione Sovietica: un primato non soltanto onorifico, ma esercitato con arrogante autorità. L'Unione Sovietica è riconosciuta dagli Stati e dai partiti comunisti come la guida infallibile e il modello esemplare; è qualificata a definire gli obiettivi e a fissare la strategia comune. Essa è il cardine e il centro del sistema. Stabilisce con i suoi satelliti rapporti di dipendenza e di disuguaglianza: è il governo di Mosca che fissa i termini degli scambi economici e il loro volume. Si è così costituita, attorno a un'esperienza unica, quale quella della Rivoluzione russa, una costellazione di Stati e partiti che rappresenta una prima realizzazione dell'internazionalismo annunciato dal marxismo-leninismo. All'interno del blocco così costituito, l'internazionalismo proletario giustifica la tesi della sovranità limitata e legittima gli interventi sovietici volti a prevenire le deviazioni e a preservare intatta la coesione del sistema. È in nome di queste valutazioni che le forze armate di cinque paesi membri del Patto di Varsavia sono entrate in Cecoslovacchia nell'agosto 1968 per mettere fine all'esperienza del ‛socialismo dal volto umano', che costituiva agli occhi dei dirigenti sovietici un pericolo per il mondo comunista. Dodici anni prima, l'Armata Rossa era già entrata in Ungheria per ristabilire il suo controllo. Questi due esempi illustrano una concezione dell'internazionalismo che abolisce la sovranità degli Stati nazionali. Ma il fatto che la potenza egemone si sia trovata per ben due volte nella necessità di ricorrere alla forza delle armi contro governi comunisti e partiti fratelli rivela anche come la coesione del blocco sia stata sottoposta a dure prove e minacciata da forze centrifughe.

Tali forze vengono alla luce già all'indomani della conferenza convocata in Polonia per la costituzione del Kominform. È in effetti nel giugno 1948 che la Iugoslavia è messa al bando dai partiti comunisti. Lo scisma di Tito - il quale rifiuta di piegarsi - è la prima breccia aperta nel sistema comunista internazionale. Contro ogni previsione, Tito resta al potere nonostante la formidabile pressione dei suoi vicini ortodossi e il popolo iugoslavo fa causa comune con lui. Col passare degli anni, il sistema di Tito afferma sempre più la sua specificità per prendere le distanze dalla burocrazia sovietica. Nel 1955 i dirigenti sovietici faranno onorevole ammenda e forniranno a Tito una patente di socialismo.

Dopo il XX Congresso del Partito Comunista Sovietico, segnato dal Rapporto Chruščëv che apre la strada alla destalinizzazione, comincia un processo di diversificazione del blocco comunista. Per primo, il Partito Comunista Italiano rivendica, con Palmiro Togliatti, il diritto di ogni paese a seguire la sua propria via al comunismo e sostiene una concezione policentrica. Pur senza dirlo esplicitamente, altri paesi prendono la stessa strada. Se nella sua sfera d'influenza immediata l'Unione Sovietica può contenere le forze centrifughe e imporre una linea comune, al di là di essa non è più in grado di far prevalere le sue idee: la libertà dei diversi partiti comunisti è assai maggiore di quella dei governi comunisti delle democrazie popolari. Essi usano questa libertà in modo assai ineguale: se dal 1956 il Partito Comunista Italiano avvia una liberalizzazione, il Partito Comunista Francese aderisce solo con ritardo e con grande riluttanza al processo di destalinizzazione. In certi paesi accade persino che il partito si divida e che molte formazioni che si richiamano tutte al marxismo-leninismo seguano tuttavia linee divergenti. La rottura tra l'Unione Sovietica e la Cina è l'ultimo colpo al sistema. L'ideologia che aveva cementato il blocco è diventata il principio della sua disgregazione.

Gli sforzi dell'Unione Sovietica per ristabilire un minimo di unità e ricostituire un insieme omogeneo sono stati vani. Alla conferenza che nel 1969 ha riunito un'ottantina di partiti, molti dei partecipanti hanno rifiutato di firmare la dichiarazione finale comune. La Conferenza paneuropea comunista del giugno 1976 ha sostituito all'internazionalismo proletario la nozione più vaga e meno vincolante di solidarietà internazionalista. Il governo sovietico ha dovuto rinunciare a convocare un'altra conferenza plenaria, non avendo la sicurezza di ottenere il consenso dei partiti comunisti.

Quale fattore avrà la meglio in questa vicenda di contrasti tra elementi che accomunano Stati e partiti comunisti e elementi che invece li separano? La risposta dipende da troppe variabili - l'evoluzione dell'URSS, la parabola delle relazioni all'interno del blocco delle democrazie popolari, l'andamento delle relazioni internazionali - perché si possa azzardarla con qualche plausibilità; ma il fatto che oggi, sessant'anni dopo la Rivoluzione d'Ottobre, ci si possa porre questa domanda sottolinea il regresso dell'idea internazionalista nel mondo comunista. L'internazionalismo proletario della Terza Internazionale ha fatto la stessa esperienza di quello della Seconda: anch'esso si è scontrato contro la resistenza del fattore nazionale, si è dovuto misurare con la distanza che separa le aspirazioni internazionaliste dalle realtà storiche e politiche.

Non sono mancati altri tentativi, in genere più modesti, che hanno tratto, talora anche in anticipo sugli avvenimenti, la lezione dallo scacco dell'internazionalismo di stampo sovietico. Così Trotzki, che lasciò l'URSS nel 1929, non rinunciò all'idea della rivoluzione mondiale: disapprovò totalmente l'opzione di Stalin in favore dell'edificazione del socialismo in un solo paese e impiegò tutto il suo talento e tutta la sua energia per suscitare un movimento a livello internazionale. Nel 1933 il Plenum internazionale dell'opposizione bolscevica getta le fondamenta di una Lega comunista internazionale, che nel 1938 si ribattezza Quarta Internazionale. L'internazionalismo resta oggi uno degli orientamenti principali del trotzkismo, il quale però, se da una decina d'anni conosce un sorprendente ritorno di fortuna, in realtà - lacerato da controversie e polemiche - non è mai stato in grado di darsi un'organizzazione efficace sul piano internazionale.

Sia il maoismo che il castrismo hanno formato discepoli e ispirato emuli, tanto che è possibile, per analogia, parlare di un internazionalismo maoista o castrista. Essi non hanno però creato niente di paragonabile a quello che è stato, ed è tuttora, ancorché indebolito e smantellato, l'internazionalismo nato dalla Rivoluzione russa. Cuba ha tentato di dar vita a un internazionalismo del Terzo Mondo. Riprendendo e ampliando il movimento generato dalla conferenza che nel 1955 aveva riunito a Bandung una trentina di paesi asiatici e africani di recente emancipazione o da poco liberati dalla tutela occidentale, paesi che andavano dall'Egitto di Nasser alla Cina di Mao - movimento ripreso poi dalla Conferenza del Cairo, cui avevano partecipato i rappresentanti di poco meno di una cinquantina di governi e di movimenti di liberazione -, nel 1966 viene convocata a L'Avana una Conferenza intercontinentale; più di ottanta delegazioni vi partecipano, provenienti dai tre continenti che per molto tempo avevano subito e in parte ancora subiscono il giogo della dipendenza coloniale: Asia, Africa, America latina. Quest'incontro, pur avendo un significato simbolico e suscitando una grande eco in tutti i paesi del Terzo Mondo, non ha quasi conseguenze pratiche: non ne escono che dichiarazioni di principio e manifestazioni di simpatia. Questo tipo di internazionalismo si frantuma in varie forme di solidarietà regionali o continentali. È battuto in breccia dalle divisioni ideologiche, minato dalle gelosie, dai risentimenti o dalle rivendicazioni nazionalistiche. La moltiplicazione degli internazionalismi, se testimonia il permanere di una speranza, testimonia anche la difficoltà di inserirli nella realtà dell'azione politica internazionale.

c) Le internazionali sindacali.

L'internazionalismo operaio ha suscitato, a lato delle internazionali politiche, che trovavano nell'adesione al socialismo il movente della loro azione, anche internazionali sindacali; si riproduceva così sul piano internazionale la divisione dei compiti operatasi - nell'ambito delle entità nazionali - tra partiti politici e organizzazioni professionali. Tale raggruppamento internazionale si realizza comunque sulla base delle centrali nazionali. Due ordini di fattori, due tipi di considerazioni hanno presieduto alla nascita di queste internazionali. Fra tutti i lavoratori di una medesima branca professionale esiste sin dall'inizio un'ovvia solidarietà, che è andata accentuandosi via via che l'internazionalizzazione delle economie moltiplicava le interdipendenze transnazionali; tutti i salariati di una stessa categoria sono ugualmente interessati all'adozione di una regolamentazione uniforme che accordi garanzie analoghe, come sono tutti ugualmente interessati al successo dello sciopero indetto in un dato paese: è il loro interesse, non meno che il senso della fraternità, che li spinge a concertare le loro azioni. Questa solidarietà si è in un primo momento fatta sentire nei settori che gravitavano verso l'estero, per i quali gli scambi erano attività abituali (portuali, marittimi), ma si è via via allargata a tutti i settori professionali, dando origine ad altrettante federazioni internazionali: dei marittimi, dei metallurgici, dei chimici ecc.

L'ideologia non meno che la strategia ha contribuito alla nascita delle internazionali sindacali: esse nascono dalla stessa convinzione che fu alla base delle internazionali socialiste, e cioè che la solidarietà di classe è più importante della solidarietà nazionale, perché la lotta delle classi è la realtà essenziale. La parentela ideologica dei due tipi di internazionale è così stretta che la storia delle internazionali sindacali ha direttamente subito il contraccolpo delle controversie dottrinali di cui le internazionali politiche sono state insieme la posta e il teatro: essa ha fedelmente riprodotto le loro scissioni e le loro riconciliazioni. Esistono perciò diverse internazionali sindacali, contrariamente a quella che dovrebbe essere la logica conseguenza dell'affermazione della profonda unità del proletariato. La Terza Internazionale fu quasi subito affiancata da un'Internazionale sindacale rossa, sua emanazione e strettamente subordinata alle sue direttive, mentre i sindacati che rifiutavano questo infeudamento si raggruppavano in una Federazione Sindacale Internazionale.

Dopo un tentativo di riunificazione, nell'euforia dell'immediato dopoguerra, intorno alla Federazione Sindacale Mondiale (fondata nel 1945), le divergenze della guerra fredda hanno fatto rinascere la concorrenza tra organizzazioni rivali. Di contro alla Federazione Sindacale Mondiale, cui fanno capo circa 150 milioni di aderenti, la Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi (sorta nel 1947) ha raggruppato le organizzazioni che militavano nel campo avverso al comunismo. Una terza internazionale confederava, sin dal 1919, i sindacati che si richiamavano alla dottrina sociale della Chiesa, rifiutando la lotta di classe. Nel 1968 questa organizzazione si è deconfessionalizzata: senza rinnegare l'ispirazione a un certo universo di valori morali, ha sciolto gli ultimi legami con le Chiese, prendendo il nome di Confederazione Mondiale del Lavoro. Così tre grandi confederazioni, corrispondenti a tre grandi correnti ideali, organizzano oggi parecchie centinaia di milioni di lavoratori. Esse sono ben lontane dall'essere omogenee; ciascuna è travagliata da forze centrifughe e sperimenta al suo interno alcune delle tensioni che - nel mondo intero - contrappongono i continenti, le economie, le ideologie. Al pari delle internazionali politiche, neppure l'internazionalismo sindacale sfugge al peso delle solidarietà nazionali e alla pressione degli antagonismi che dividono dall'interno le categorie socioprofessionali ritenute solidali.

d) Le altre internazionali di partito.

Benché siano le più antiche, le più compenetrate di spirito internazionalista, le più solidamente costituite e le più note, le internazionali di ispirazione socialista non sono però le sole. Ogni grande corrente ideale che ispiri l'azione politica e si disputi l'adesione dei popoli tende a darsi una certa struttura politica internazionale. La generalizzazione dei legami internazionali è uno dei sintomi più indiscutibili del carattere insieme universale e irreversibile del fenomeno dell'internazionalizzazione; ma il grado di organizzazione varia notevolmente da un'internazionale all'altra, e nessuna si avvicina - per coesione e disciplina - al modello delle internazionali socialiste. L'analogia tra queste ultime e quelle di altra matrice non va dunque molto lontano.

Tra le due guerre le affinità dottrinali tra i regimi autoritari accreditarono l'idea di un'internazionale di destra. L'avvicinamento tra l'Italia mussoliniana e la Germania hitleriana, con la conseguente formazione dell'Asse Roma- Berlino suggellata dal Patto d'Acciaio, al quale aderirono altri paesi ugualmente anticomunisti, diede qualche consistenza a questa idea, come anche l'aiuto militare dei due Stati fascisti ai nazionalisti nella guerra civile che lacerò la Spagna tra il 1936 e il 1939. Le Croci Frecciate in Ungheria, la Guardia di Ferro rumena, i piccoli partiti nazisti norvegese e olandese ostentavano la loro simpatia per le dottrine ispiratrici del fascismo italiano e del nazismo tedesco. Ma l'affinità dei movimenti non si espresse mai in un organizzazione internazionale. Se qualche legame è sopravvissuto alla caduta di quei regimi dopo la seconda guerra mondiale si è trattato unicamente di una collaborazione clandestina, mirante ad aiutare i responsabili ricercati per crimini di guerra.

Del tutto differenti sono le internazionali di partito che sono andate fiorendo da una trentina d'anni a questa parte parallelamente allo sviluppo delle istituzioni internazionali. L'Unione internazionale democratico-cristiana raggruppa dal 1961 varie organizzazioni regionali: l'Unione europea cristiano-democratica, l'Organizzazione democratico-cristiana d'America, che riunisce i partiti democratici di ispirazione cristiana dell'America Latina, e l'Unione cristiano-democratica dell'Europa orientale, che raccoglie i resti di partiti la cui attività è stata sospesa dalle democrazie popolari. Debole è la coesione di questa internazionale e assai tenui i suoi legami. Ciò dipende dal fatto che i partiti membri sono per molti versi differenti: alcuni sono apertamente confessionali, altri deliberatamente interconfessionali, altri ancora hanno messo da parte ogni riferimento confessionale; alcuni poi sono nettamente conservatori, mentre altri hanno tendenze più progressiste. Tutti hanno in comune la convinzione che il quadro internazionale debba essere allargato, e sostengono di conseguenza tutte le iniziative favorevoli all'internazionalizzazione: i partiti europei hanno entusiasticamente combattuto in favore dell'unificazione dell'Europa occidentale e in ogni circostanza si fanno appassionati difensori delle istituzioni sovrannazionali.

All'Unione liberale mondiale aderiscono le formazioni che si richiamano alla tradizione liberale. Fondata a Londra nel 1947, raggruppa poco meno di venti partiti che si riconoscono in alcuni principi comuni: riserve nei confronti del potere statale, fiducia nel valore dell'iniziativa privata, attaccamento alle libertà tradizionali: d'impresa, di coscienza, d'espressione, d'associazione.

Il bilancio delle internazionali di partito è, al giorno d'oggi, assai modesto: quelle che all'inizio avevano le maggiori ambizioni hanno dovuto rinunciarvi e hanno dovuto ripiegare su realizzazioni limitate; le altre, almeno fino a questo momento, non sono riuscite a superare lo stadio di una semplice concertazione. Si è lontani dalle speranze e dalle aspirazioni dell'inizio del secolo. È lecito pensare che la costituzione di assemblee rappresentative di un quadro regionale più ampio e l'estensione delle loro competenze accelereranno il processo di formazione di raggruppamenti politici sovrannazionali. Il giorno in cui i membri del Parlamento europeo, per esempio, saranno eletti a suffragio universale si verranno certamente a costituire gruppi parlamentari internazionali.

e) Considerazioni conclusive.

La storia dell'internazionalismo nei primi tre quarti del Novecento si è quindi snodata simultaneamente lungo varie direttrici il cui intreccio ha disegnato parabole più complesse di quelle previste dai suoi profeti e dai suoi ideologi.

L'internazionalizzazione ha fatto straordinari progressi. La crescita delle economie, il progresso tecnologico, la moltiplicazione degli scambi di tutti i tipi hanno sovrapposto alle attività nazionali una dimensione reale in cui l'idea internazionale prende concretamente corpo. Ogni individuo vive oggi su due piani: quello della sua comunità nazionale e quello della vita internazionale. A questo riguardo, l'utopia di ieri è diventata la realtà di oggi.

L'internazionalismo si è dato delle istituzioni e il trionfo del bolscevismo in Russia l'ha in breve dotato - con il Komintern, sostenuto dallo Stato sovietico - di uno strumento di potenza incomparabile. Ma poco a poco lo Stato sovietico si è ripiegato sulle sue posizioni e l'Internazionale ha dovuto rassegnarsi a vedere allentati i legami annodati tra i partiti comunisti nazionali. Si è così ripetuta la vicenda della Seconda Internazionale, la cui coesione non aveva saputo resistere alla prova della guerra e al peso delle solidarietà nazionali.

Alla prova dei fatti, l'internazionalismo ha sperimentato la resistenza delle realtà storiche. Ha fatto nascere solidarietà nuove, incapaci però di sradicare le antiche. E più di una volta si è riscontrato che erano proprio quelle antiche solidarietà a disgregare le internazionali. Un'attività come lo sport, che per sua natura dovrebbe essere refrattaria all'infiltrazione delle passioni politiche, costituisce un esempio tipico della potenza delle solidarietà nazionali. Anche lo sport aveva creato la sua internazionale con i Giochi Olimpici: l'ambizione di Pierre de Coubertin, che li aveva ripristinati alla fine dell'Ottocento, era quella di offrire un luogo d'incontro alla gioventù di tutto il mondo al di fuori di ogni ambizione egemonica. Ottant'anni più tardi, la celebrazione dei Giochi Olimpici è diventata una delle occasioni in cui si affrontano gli orgogli e gli amor propri nazionali. Questa evoluzione, come il decadimento delle internazionali, ci impartisce una lezione. Le nuove solidarietà non cancellano le antiche. Le solidarietà nazionali, forgiate dalla storia, radicate nella sensibilità, custodite nella memoria, hanno una forza che le rende capaci di resistere ancora molto a lungo alle forze contrapposte. Questa constatazione non rende vana la speranza degli internazionalismi: li obbliga soltanto a tener conto dell'esistenza delle patrie e a riconciliarsi con quanto esse significano. Ieri gli internazionalisti credevano che l'internazionalismo sarebbe sorto sulle rovine delle nazioni; oggi è evidente che non le soppianterà, ma dovrà piuttosto superarle senza per questo cessare di rispettarle.

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Van der Esch, P., La Seconde Internationale (1889-1923), Paris 1957.

Economia internazionale

SOMMARIO: 1. Andamento delle transazioni internazionali. □ 2. Organismi economici multinazionali: a) generalità; b) imprese multinazionali; c) il mercato degli eurodollari. □ 3. Controlli nazionali sulle transazioni internazionali: a) le economie centralizzate; b) le economie regolate; c) le economie aperte. □ 4. Intese bilaterali e regionali: a) accordi bilaterali; b) intese regionali. □ 5. Organizzazioni globali: a) il Fondo e la Banca; b) il GATT; c) l'OCSE; d) le organizzazioni funzionali. □ 6. Le questioni aperte. □ Bibliografia.

1. Andamento delle transazioni internazionali.

Nella storia recente delle relazioni economiche internazionali il continuo perfezionamento dei mezzi di trasporto e di comunicazione si è rivelato un fattore di enorme importanza. Negli ultimi decenni la capacità umana di far superare grandi distanze a beni, persone e idee è cresciuta con una velocità impressionante. Da ciò è derivato che, dalla fine della seconda guerra mondiale, il volume delle transazioni internazionali è cresciuto con grande rapidità, con un ritmo di gran lunga più celere di quello delle transazioni all'interno delle nazioni principali (v. OECD, 1972, p. 138; v. Council on International Economic Policy, 1973, p. 3).

C'erano stati in passato, è vero, periodi nei quali le transazioni internazionali avevano rappresentato quote rilevantissime dell'attività economica totale di certi paesi. Nel periodo precedente la prima guerra mondiale, ad esempio, la Gran Bretagna registrava alti livelli di scambi internazionali e di movimenti internazionali di capitali. Gli scambi e gli investimenti internazionali avevano però a quell'epoca, in termini economici e politici, un significato alquanto diverso da quello che hanno assunto ai nostri giorni. Una parte considerevole di tali scambi e investimenti dei paesi principali si sviluppava di preferenza verso aree nelle quali i paesi in questione godevano di una qualche posizione particolare. Sebbene sia ancora possibile osservarla negli scambi mondiali e nei modelli di investimento attuali, tale tendenza è al giorno d'oggi assai meno evidente. Le categorie di transazioni internazionali in più rapida crescita riguardano negli anni recenti i paesi avanzati stessi: paesi cioè politicamente indipendenti l'uno dall'altro sia nella forma che nella sostanza (v. GATT, 1972, p. 3). Anche le transazioni tra paesi socialisti e capitalisti sono cresciute rapidamente, e anche in esse si riflette l'importanza crescente dei legami economici tra paesi politicamente indipendenti.

A parte gli scambi internazionali di merci, c'è stata una rapidissima ascesa anche nella vendita internazionale di servizi, come informazioni tecniche, turismo, spedizioni, aviazione e assicurazioni. Queste transazioni, cosiddette invisibili, sono diventate un elemento importante nell'economia di molti paesi (v. Merigo e Potter, 1970).

In generale, l'incremento dei movimenti di capitali attraverso le frontiere nazionali è andato soggetto a orientamenti analoghi a quelli prevalenti negli scambi e nei servizi. I movimenti di capitali sono però di diversi tipi, e una distinzione tra essi è essenziale.

Un primo tipo di flusso internazionale di capitali, di importanza considerevole, è il cosiddetto movimento di valuta a breve termine. In questa specie di transazioni, un acquirente usa una certa valuta per acquistarsi un credito in un'altra valuta: un credito sotto una qualche forma altamente liquida, come ad esempio depositi bancari o carta commerciale a breve termine. Simili transazioni sono un fattore normale delle operazioni di acquisto e di vendita di beni e servizi attraverso le frontiere nazionali. Tali transazioni, però, compaiono a volte, e per un ammontare considerevole, sotto forme che non hanno nulla a che vedere con gli scambi internazionali di beni e servizi. Ciò si verifica ad esempio, quando si diffonde il timore che una delle valute principali stia per mutare il proprio valore. Se ci sono forti motivi per attendersi che il valore del marco tedesco possa crescere in rapporto alla lira, si verificherà un'accentuata tendenza a comprare marchi con lire, ci sia o non ci sia bisogno di lire in connessione con una particolare transazione internazionale. L'ammontare dei flussi di capitali a breve termine per ciascun periodo - dal momento che le transazioni si svolgono attraverso molteplici canali - rimane in genere sconosciuto. In periodi di crisi, tuttavia, come all'inizio degli anni settanta, il flusso normale sui mercati monetari internazionali è cresciuto talvolta di miliardi di dollari USA al giorno, come effetto dell'attenzione rivolta al valore delle valute-chiave.

Un'altra specie importante di movimenti internazionali di capitali è costituita dagli investimenti indiretti a lungo termine. Tali investimenti comportano di norma l'acquisto o la vendita, attraverso le frontiere nazionali, di titoli a lungo termine, come azioni e obbligazioni. Transazioni del genere sono dette ‛indirette' anziché ‛dirette', perché l'investitore, attraverso il possesso di azioni e obbligazioni, acquista un credito indiretto garantito da beni e impianti piuttosto che il diretto controllo su questi ultimi. Un investitore il quale comprasse a Ginevra 100 azioni delle Imperial Chemical Industrial di Londra effettuerebbe di norma una transazione siffatta; e così una compagnia assicuratrice di Parigi che comprasse nuove obbligazioni emesse da un'impresa industriale di Bruxelles. Anche il volume totale di transazioni di questo tipo è sconosciuto, ma dati a disposizione per certe categorie fanno pensare che sia assai grande. Ad esempio, soltanto l'emissione di obbligazioni offerte in vendita fuori del paese d'origine ammontava, nel 1971, a cinque miliardi di dollari USA (v. BIS, 1971, p. 53).

Nel mondo di oggi sono tuttavia più importanti i movimenti internazionali di capitali associati con investimenti diretti a lungo termine. Quando un'impresa di un paese acquista il controllo di imprese in un altro paese, una tale transazione è registrata come un investimento diretto all'estero. Le voci della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e del Giappone informano che una somma pari a circa sei miliardi di dollari USA è stata pagata annualmente da imprese di questi paesi per acquistare o ampliare consociate all'estero (v. GATT, 1971, p. 44; v. UNCTAD, 1971, pp. 15-26; v. U.S. Department of commerce, 1973, pp. 11-41). Oltre a ciò, le imprese madri hanno accresciuto i propri interessi in altri paesi per un valore di parecchi miliardi di dollari all'anno, ricorrendo a mezzi di pagamento che non compaiono nelle voci della bilancia dei pagamenti, come il reinvestimento dei profitti esteri derivanti dalle operazioni in corso.

Essendo così numerosi tanto i privati quanto le imprese che hanno grossi capitali investiti all'estero, il flusso di dividendi e di interessi attraverso le frontiere nazionali ha assunto proporzioni amplissime. Sino a non molto tempo fa i pagamenti di questa specie erano insignificanti rispetto ai pagamenti connessi con la vendita di beni e servizi. Ma all'inizio degli anni settanta il flusso dei pagamenti di dividendi e di interessi negli Stati Uniti e nella Gran Bretagna ha raggiunto livelli che rappresentano circa un sesto delle loro entrate totali derivanti dalla vendita di beni e servizi.

2. Organismi economici multinazionali

a) Generalità

Dato il rapido accrescimento delle transazioni internazionali negli ultimi decenni, anche le relazioni economiche tra le nazioni hanno subito mutamenti profondi. Considerati complessivamente questi mutamenti hanno allargato la sfera dei reciproci interessi e accentuato l'interdipendenza. Quest'ultima è stata il risultato non soltanto della crescita delle transazioni in sé, ma anche del tipo di organismi il cui sviluppo ha accompagnato la crescita. Sempre più frequentemente è accaduto che organismi con una base nazionale si siano collegati attraverso le frontiere nazionali; e in molti casi unità economiche di vari paesi sono divenute parte di una comune struttura multinazionale.

Ricchi e svariati sono gli esempi di quest'orientamento. Imprese nazionali hanno sviluppato consociate e filiali all'estero, finendo poi col fondere le varie unità disperse in un'unica organizzazione funzionale: l'impresa multinazionale. Compagnie come la Ciba-Geigy, la Philips Electric, la Generai Motors e la Alcan possono fungere da esempi. Oltre a ciò, i principali istituti bancari di diverse nazioni si sono uniti per creare consorzi multinazionali, che operano secondo una strategia comune e attingono a risorse comuni. Certi mercati monetari di vari paesi, come il mercato degli eurodollari, hanno stretto tra loro legami tali da diventare in realtà un mercato unico. Anche i sindacati operai hanno cominciato a varcare i confini nazionali, al fine di costituire organizzazioni multinazionali più efficienti, in grado di tener testa alle imprese multinazionali. La varietà e la complessità di quest'orientamento verso la creazione di organismi economici multinazionali possono essere illustrate con due esempi: le imprese multinazionali e i mercati delle eurodivise.

b) Imprese multinazionali.

Un'impresa multinazionale è in genere immaginata come una singola azienda o società, identificata da una qualche denominazione familiare, come BASF o FMC o IBM. Tali imprese invece sono per lo più costituite da un certo numero di corporations distinte di nazionalità diversa.

Le imprese multinazionali, essendo costituite da un gruppo di corporations distinte, godono di tutti i vantaggi di una simile situazione: ogni unità del sistema viene cioè costituita secondo le leggi di un dato Stato sovrano come un'entità separata, dotata dallo Stato di alcuni dei diritti delle persone fisiche, come quello di possedere e di far debiti, e quello di poter chiamare e di essere chiamato in giudizio. Non soggiacendo a taluni vincoli che pesano sulle persone fisiche, ciascuna delle consociate può limitare le proprie responsabilità alle proprie iniziative immediate, senza accollarsi gli obblighi delle altre; e inoltre ognuna può prolungare all'infinito la propria esistenza e crescere senza limiti. Col tempo, ciascuna può creare diramazioni, filiali e consociate a seconda dei propri bisogni: non desta quindi meraviglia che la forma della corporation sia diventata il veicolo preferito del big business nell'epoca contemporanea.

La forza dell'impresa multinazionale non deriva soltanto, però, dal ricorso alla forma della corporation, ma anche dall'utilizzazione delle diverse nazionalità da cui l'impresa multinazionale è composta. L'impresa consiste in genere di una società madre, costituita secondo le leggi di una data nazione, e di diramazioni create secondo leggi di altre nazioni. Tanto la società madre che le sue diramazioni, sebbene operino in paesi diversi, perseguono una comune strategia, obbediscono a un comune centro di comando e attingono a un comune pool di risorse, comprendente capitali, tecnologia e marchi di fabbrica.

Esempi di questo tipo di struttura sono esistiti sin dalla metà del sec. XIX. Società come la Bayer, la Nestlé, la Singer e la General Electric hanno operato come imprese multinazionali per la maggior parte dello scorso secolo. Prima della seconda guerra mondiale, casi del genere erano però poco numerosi. Compagnie che si specializzavano nello sfruttamento di materie prime, come le compagnie petrolifere e minerarie, si trovavano obbligate a stabilire centri all'estero per la ricerca delle materie prime occorrenti. Le imprese manifatturiere, invece, servivano in genere i propri mercati esteri attraverso le esportazioni piuttosto che attraverso la produzione e la vendita ad opera di consociate situate fuori del paese d'origine.

In verità, prima della seconda guerra mondiale i mercati internazionali erano generalmente organizzati in cartelli, specialmente nei settori industriali dominati da imprese di grandi dimensioni. La concorrenza tra i produttori dominanti era in realtà regolata da accordi che, di norma, servivano a garantire che i produttori dominanti di una data nazione non avrebbero invaso i mercati di altre nazioni. Accordi siffatti esistevano, ad esempio, tra i produttori di acciaio, rame, prodotti chimici, petrolio, attrezzature elettriche e in molti altri casi (v. Hexner, 1945). Finché tali accordi rimanevano in vigore, le motivazioni e le opportunità, per una società, di impiantare una filiale all'estero erano per forza di cose piuttosto limitate.

La diffusione delle imprese multinazionali è stata quindi, in larga misura, un fenomeno del secondo dopoguerra. Diedero il via le compagnie americane, che accrebbero rapidamente il numero delle loro consociate produttive in tutto il mondo (v. Vaupel e Curhan, 1969, pp. 122-133). Verso la metà degli anni sessanta si mossero anche le compagnie europee, disseminando le proprie consociate anche fuori d'Europa e negli stessi Stati Uniti. I Giapponesi furono più lenti nel fondare consociate produttive fuori del proprio paese, preferendo curare i propri interessi all'estero attraverso gli scambi anziché attraverso gli investimenti. Ma all'inizio degli anni settanta anch'essi hanno cominciato a impiantare all'estero filiali di vario genere, soprattutto nell'Asia meridionale e sudorientale.

Le imprese multinazionali impiantate negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone presentano alcune caratteristiche comuni.

Una caratteristica rilevante è stata la tendenza a operare in settori industriali altamente concentrati, nei quali cioè a poche società dominanti risale una quota relativamente ampia della produzione del settore (v. Vernon, 1971, pp. 4-18). Tale tendenza è inassima nel caso delle società americane e minima nel caso di quelle giapponesi.

Uno dei settori in questione è quello dell'estrazione di materie prime: petrolio, alluminio e altri metalli non ferrosi. In casi del genere, i vantaggi di una molteplicità sia di fonti di materie prime sia di mercati sono tanto grandi da spingere le imprese verso una struttura multinazionale.

Un altro settore in cui le imprese multinazionali sono ampiamente rappresentate è quello delle industrie nelle quali la differenziazione del prodotto è la regola prevalente del mercato; o, in altre parole, industrie in cui le società tendono a evitare la concorrenza dei prezzi, sforzandosi di mantenere la propria posizione di mercato con altri mezzi. In alcuni casi le società dominanti mettono l'accento sulle continue innovazioni, sperando in tal modo di differenziare il proprio prodotto agli occhi degli eventuali acquirenti. Questo era il caso, ad esempio dei produttori di aerei, macchinari, strumenti scientifici, articoli farmaceutici e di alcuni dei più recenti settori dell'industria chimica. In altre industrie la differenziazione viene mantenuta principalmente mediante grosse spese di pubblicità. Grande importanza alla pubblicità viene data, ad esempio, nel settore degli alimentari, dei cosmetici e di altri generi di consumo. In industrie del genere, imprese multinazionali con una solida reputazione internazionale si trovano per lo più avvantaggiate rispetto a imprese nazionali, e possono penetrare nei mercati esteri sfruttando la propria posizione di vantaggio.

Un altro tipo importante di imprese multinazionali è quello che fece la sua prima comparsa verso la metà degli anni sessanta. Si trattava di imprese la cui speciale forza derivava dall'abilità di esplorare il mondo alla ricerca di possibili luoghi di produzione, in modo da collocare le proprie attività in aree nelle quali i costi di produzione fossero minori. Società di questo genere si trovano specialmente nella fabbricazione di prodotti elettronici relativamente semplici, come radio e parti di apparecchi televisivi. Il loro vantaggio rispetto ai produttori locali consiste nel fatto di disporre di reti distributive ben impiantate nei mercati mondiali.

La crescita di imprese multinazionali di tutti questi diversi tipi ha posto fine agli schemi prevalsi sino alla seconda guerra mondiale. Verso l'inizio degli anni settanta imprese di tutte le nazionalità si trovarono a operare fianco a fianco nei principali mercati e aree produttive del mondo, in base a schemi che non si conciliavano più con il concetto di sfere geografiche di interesse economico. Le imprese dominanti, dunque, non potevano più continuare a spartirsi i mercati sulla base di una suddivisione geografica fatta secondo la nazionalità della società madre.

L'importanza relativa delle imprese multinazionali varia, come abbiamo già notato, a seconda della natura delle varie industrie. Ci sono anche grandi differenze nell'importanza che società del genere hanno nei diversi paesi. L'economia del Canada, ad esempio, è dominata da consociate di compagnie americane: più della metà della capacità produttiva del Canada è rappresentata da tali consociate (v. U.S. Tariff Commission, 1973, p. 733). In Giappone, d'altro canto, le consociate di società straniere occupano uno spazio eccezionalmente ridotto. Tra questi due estremi ci sono casi, nell'America Latina, di economie in cui le consociate di imprese multinazionali sono responsabili di un terzo o un quarto della produzione industriale globale, come ci sono paesi europei nei quali l'importanza relativa ditali imprese è più vicina a un decimo.

Lo sviluppo delle imprese multinazionali ha avuto come conseguenza di rendere le economie nazionali strettamente interdipendenti, come non si era mai verificato nella storia contemporanea. In verità, queste interconnessioni sono diventate così strette che ciò che va sotto il nome di ‛scambi internazionali' e ‛investimenti internazionali' è in gran parte costituito, in realtà, dal movimento di beni, valuta e servizi tra affiliate di uno stesso sistema multinazionale. Il trasferimento di fondi o beni tra la società madre e una sua consociata in un altro paese compare nelle statistiche mondiali come se si trattasse di una transazione tra parti di uno stesso distinto organismo. Il flusso internazionale di beni all'interno delle imprese multinazionali rappresenta probabilmente un quarto dei trecento miliardi di dollari che costituiscono annualmente l'ammontare degli scambi internazionali tra i paesi non socialisti.

c) Il mercato degli eurodollari

Fino alla metà degli anni sessanta, era eccezionale il caso di banchieri di un paese che si impegnassero in grosse transazioni effettuate interamente nella valuta di un altro paese. In Gran Bretagna i banchieri per lo più compravano e vendevano sterline, e prendevano o davano in prestito sterline, i banchieri tedeschi facevano lo stesso coi marchi e così via. Se in una data transazione si trovavano coinvolte valute estere, nella stessa transazione era altrettanto coinvolta la valuta locale.

Verso la metà degli anni sessanta si svilupparono però in alcuni paesi europei mercati monetari che non coinvolgevano direttamente la valuta del paese in cui si effettuava una certa transazione. A Londra, ad esempio, si potevano prendere o dare in prestito dollari o marchi tedeschi senza coinvolgere direttamente la sterlina; in Germania si potevano prendere in prestito dollari o sterline senza coinvolgere direttamente il marco tedesco e così via. Anche se le valute locali non risultavano direttamente coinvolte, l'effetto di tali transazioni era però quello di creare tra i principali mercati monetari mondiali un'interdipendenza quale non s'era mai verificata in passato.

Il mercato europeo dei dollari - cioè il mercato degli eurodollari - illustra la natura e l'estensione di tale interdipendenza (v. U.S. Tariff Commission, 1973, pp. 487-506).

All'inizio degli anni settanta le banche dell'Europa occidentale riferivano che il totale degli obblighi pagabili in dollari USA ammontava a circa otto miliardi. Cifre di quest'ordine, naturalmente, sono sempre frutto in gran parte di un doppio conteggio, nel senso che molte delle banche che avevano debiti da pagare in Europa in dollari avevano in genere contemporaneamente crediti in dollari nei confronti di altre banche europee; ogni anello della catena dei crediti in dollari era quindi registrato come un credito distinto. Il mercato europeo sul quale si prendevano e si davano in prestito dollari era comunque di grandi dimensioni.

Perché si è sviluppato un mercato del dollaro al di fuori degli Stati Uniti? La risposta la troviamo in parte sul lato della domanda e in parte sul lato dell'offerta.

Sul lato dell'offerta, si davano vari casi di persone o enti, non residenti negli Stati Uniti, che acquistavano dollari nel modo abituale: i governi del Medio Oriente, che ricevevano in dollari i loro redditi petroliferi; uomini d'affari europei, che vendevano le proprie imprese a compagnie americane in cambio di dollari, ecc. In molti casi i riceventi desideravano conservare una parte dei loro fondi in dollari, preferendo però depositarli in una banca europea piuttosto che negli Stati Uniti. Tra le ragioni di questo comportamento, una consiste nel fatto che i regolamenti bancari americani limitavano gli interessi che le banche pagano sui depositi; un'altra era che la legislazione americana impone un tributo alla fonte sugli interessi pagati dalle banche; in certi casi, infine, i possessori di dollari sentivano che avrebbero potuto mantenere i loro depositi segreti alle autorità meglio in una banca europea che in una americana. Qualunque ne fosse il motivo, certi possessori di dollari preferivano trasferire i propri fondi americani in un istituto bancario europeo.

Data tale disponibilità di dollari, le banche europee constatarono presto che i loro clienti erano pronti a prendere in prestito questi eurodollari. Taluni preferivano prendere in prestito in Europa perché, pur essendo impiantati abbastanza bene in Europa, non avevano dignità di credito negli Stati Uniti. Altri prendevano in prestito dollari semplicemente per convertirli nella propria valuta; si trattava spesso di mutuatari che dovevano fronteggiare una qualche forma di stretta creditizia nel proprio paese. Una volta sviluppatosi, il mercato di depositi in eurodollari è cresciuto su se stesso. Le banche europee si sono rese conto che gli eurodollari costituiscono uno strumento particolarmente conveniente per il credito a breve termine, un mercato liquido e flessibile sul quale gettare facilmente e per il periodo di tempo desiderato le eccedenze di liquidità, per ritirarle con altrettanta facilità.

Bisogna però sottolineare le implicazioni di istituzioni come il mercato degli eurodollari. Essenzialmente, con l'offrire a prestatori e mutuatari di ogni paese un nuovo mezzo per acquistare fondi, o poterne disporre, tali istituzioni hanno stretto nuovi legami tra le forze operanti nei diversi mercati monetari nazionali. Ogni sforzo da parte delle autorità nazionali per separare e isolare l'economia del proprio paese da quella di altri paesi si scontrava con il rischio di nuove fonti di infiltrazione. Se i mutuatari non potevano acquistare le valute locali a causa dei regolamenti nazionali, potevano sempre acquistare eurodollari e convertirli nelle valute locali. Certo, le autorità locali potevano tentare di chiudere alla propria economia l'accesso al mercato degli eurodollari; ma l'utilità di questi mercati per gli operatori finanziari dei vari paesi era così evidente che simili misure non erano sempre facili da prendere.

Il mercato degli eurodollari rifletteva dunque il paradosso di molte delle nuove istituzioni internazionali degli anni sessanta: se da una parte esse presentavano ovvi vantaggi per i vari Stati nazionali che le utilizzavano, dall'altra la loro esistenza implicava inevitabilmente una diminuzione del potere dei singoli Stati.

3. Controlli nazionali sulle transazioni internazionali.

Ogni Stato sovrano, imponendo restrizioni ai propri confini, separa in qualche misura l'economia nazionale dalle economie del resto del mondo. La natura di tali restrizioni varia enormemente. A un estremo troviamo le economie centralizzate (command economies), come l'Unione Sovietica. Per questi paesi, la regola generale è semplice: ai confini non può aver luogo nessuna transazione con il resto del mondo tranne che per iniziativa dello Stato. All'altro estremo troviamo le economie aperte - come gli Stati Uniti o la Svezia - per le quali la regola è rovesciata: tutte le transazioni possono aver luogo attraverso i confini tranne quelle che siano oggetto di un esplicito divieto dello Stato. Profonde sono le implicazioni di queste diverse concezioni delle transazioni internazionali.

a) Le economie centralizzate.

Nelle economie centralizzate, ad esempio quelle dell'Unione Sovietica e della Repubblica Popolare Cinese, le decisioni da cui dipendono la vendita o l'acquisto di beni sui mercati esteri costituiscono un elemento di un piano centrale. In questo ambito i mercati esteri possono essere usati in vista di un obiettivo strategico di lungo respiro o semplicemente per risolvere problemi nazionali momentanei di sovrabbondanza o di scarsità. Gli impegni di lungo respiro sui mercati esteri sono stati, nelle economie centralizzate, relativamente rari prima dell'inizio degli anni settanta. Ma a partire da quella data apparve evidente che i pianificatori russi e cinesi avevano cominciato a prendere in seria considerazione impegni di questo tipo. L'idea di legami internazionali durevoli creava tuttavia difficoltà alle economie centralizzate poiché le variazioni nella domanda e nell'offerta sui mercati esteri costituiscono una continua minaccia alla stabilità di un sistema centralizzato.

Nella misura in cui transazioni con l'estero si verificano in economie di questo tipo, esse sono in genere condotte da un organo statale espressamente investito di questa funzione. Le imprese i cui prodotti debbono essere inviati sui mercati mondiali non hanno alcun legame diretto con essi; e gli utenti di prodotti stranieri, che debbono ricevere beni dall'estero, non hanno alcun legame diretto con le fonti di rifornimento esterne.

Il bisogno di organi speciali per condurre le transazioni internazionali è soltanto in parte una questione di controllo; esso è dovuto anche al fatto che, all'interno di un'economia centralizzata, il prezzo di un qualsiasi prodotto non ha alcun rapporto necessario né con il suo costo di produzione né con i prezzi di prodotti analoghi in altri paesi. Il prezzo rappresenta invece uno strumento del processo di controllo, una cifra mirante a influenzare la distribuzione di quel particolare prodotto in conformità al piano. Accade così che prodotti che si vendono a prezzi relativamente alti sul mercato interno siano cionondimeno esportati in base a una decisione presa al centro, come anche che si importino prodotti che si vendono a prezzi relativamente bassi. Ad esempio le grandi importazioni di grano effettuate dall'Unione Sovietica all'inizio degli anni settanta possono illustrare questa mancanza di rapporto tra prezzi interni e prezzi esterni, giacché il grano aveva nell'Unione Sovietica un prezzo relativamente basso a paragone di altri prodotti.

Nelle economie centralizzate il concetto di un saggio di cambio ha quindi un significato operativo assai limitato. Siccome le imprese non hanno facoltà di vendere i propri prodotti sul mercato mondiale, non c'è ragione di sviluppare un numerano mediante il quale i produttori locali possano determinare i prezzi esterni. Per la stessa ragione, poiché la decisione di effettuare importazioni non compete a coloro che useranno i prodotti importati, questi utenti non hanno alcun motivo di porsi in grado di confrontare i prezzi esteri e i prezzi locali di prodotti affini. Lo stesso può dirsi del flusso internazionale di capitali. Siccome soltanto lo Stato è autorizzato ad acquistare valute straniere, un saggio di cambio nel senso usuale sarebbe a dir poco superfluo. Per questo i saggi di cambio praticati dalle economie centralizzate servono a soddisfare una gamma relativamente ristretta di bisogni; servono soprattutto a determinare quanto debbano pagare i turisti e i diplomatici stranieri per acquistare le valute locali necessarie per i loro consumi personali. E anche locuzioni familiari come dazi d'importazione, embargo sulle esportazioni, concorrenza, convertibilità perdono il proprio significato ordinario (v. pianificazione).

b) Le economie regolate

Soltanto pochi paesi nel mondo mantengono sull'economia nazionale un rigido sistema di controllo centrale. In un numero assai maggiore di casi troviamo un sistema misto, nel quale l'iniziativa individuale è consentita per alcuni tipi di transazioni ma non per altri. I sistemi misti richiedono in genere estesi controlli sulle transazioni internazionali. Tali controlli sono per lo più rappresentati da restrizioni di vario genere: proibizione di esportare o importare certi tipi di beni; proibizioni riguardanti il movimento di capitali dall'interno all'esterno e viceversa; imposte speciali o altri tributi su certi tipi di transazioni internazionali e sussidi speciali per altri tipi. Le economie regolate di questo tipo presentano dunque un atteggiamento in larga misura negativo nei confronti delle transazioni internazionali; esse fanno cioè assegnamento sulle imprese nazionali per iniziare le transazioni e sul sistema di stimoli e restrizioni controllato dallo Stato per modellare e incanalare le transazioni che effettivamente si verifichino per iniziativa delle imprese.

Estesi sistemi di stimoli e di restrizioni si trovano specialmente nei paesi in via di sviluppo, nella maggior parte dei quali tutte le importazioni ed esportazioni sono in genere soggette a licenza. Le condizioni alle quali vengono rilasciate le licenze non sono per lo più codificate. Le decisioni sono prese dagli uffici governativi in base a criteri che mutano col mutare della politica del paese. Svariate sono le ragioni che determinano le restrizioni. Possono essere imposte per proteggere un'industria locale, per mantenere nel paese la valuta estera, per influenzare i livelli dei prezzi locali, ecc. Possono essere applicate in casi particolari, discriminando tra i singoli importatori ed esportatori, oppure a intere categorie.

In situazioni del genere, le tariffe doganali hanno un'importanza limitata. Si danno tuttavia casi in cui l'incidenza percentuale delle tariffe è altissima, tanto da risultare assolutamente proibitiva (v. Balassa e altri, 1971, p. 56). Un caso fuori del comune era costituito dall'Argentina, famosa per imporre tariffe dell'ordine del 200 o 300%. Nello stesso tempo, però, si sospendevano in tutto o in parte queste tariffe per favorire certi importatori.

Le economie che si affidano alla regolamentazione anziché al controllo centrale considerano in genere utile, per non dire indispensabile, l'esistenza di un saggio di cambio. Nei loro sforzi, abbastanza espliciti, per plasmare il comportamento economico di privati e imprese esse hanno però mantenuto per la compravendita di valuta estera delle forme di autorizzazione, secondo alcuni dei criteri suaccennati (v. IMF, 1971, pp. 1-15). In certi casi, le forme di autorizzazione sono state integrate con altri meccanismi, compreso quello dei saggi di cambio differenziati. In casi del genere, imprese impegnate in un certo tipo di transazioni debbono pagare per l'acquisto di valuta straniera prezzi diversi da quelli pagati da imprese impegnate in transazioni di tipo diverso. Può darsi ad esempio che gli importatori di automobili di lusso paghino per la valuta straniera di cui abbisognano un prezzo maggiore di quello pagato dagli importatori di prodotti farmaceutici; come anche che gli esportatori locali di manufatti ricevano, per la valuta straniera da essi guadagnata, una quantità di valuta locale maggiore di quella ricevuta dagli esportatori di materie prime.

Sebbene siffatti complessi meccanismi di regolamentazione siano frequenti soprattutto nei paesi in via di sviluppo, possono essere ritrovati anche in certi settori degli scambi tra i paesi progrediti. Ad esempio, le nazioni dell'Europa occidentale, come anche gli Stati Uniti e il Giappone, sottopongono a un'estesa regolamentazione le transazioni di prodotti agricoli con l'estero. Aperti veti sulle importazioni o esportazioni di questi prodotti non sono rari in questi paesi. Frequente è anche il caso di pesanti imposte sulle importazioni e di sussidi alle esportazioni. In tutti i casi del genere l'obiettivo è naturalmente quello di isolare i produttori agricoli del paese dalla concorrenza con il resto del mondo. Ma, parlando in generale, i sistemi di controllo delle economie aperte sono meno restrittivi e di natura meno selettiva.

c) Le economie aperte

All'inizio degli anni settanta venivano scambiati tra le economie progredite beni non agricoli per un valore di circa 150 miliardi di dollari. Gli scambi si svolgono per lo più in condizioni tali che le regolamentazioni e le restrizioni governative hanno un'importanza abbastanza limitata.

Certo, anche transazioni di questo genere sono sottoposte di norma a dazi d'importazione. Da un punto di vista storico i dazi sulle importazioni hanno anzi costituito la restrizione commerciale più comune e più universale.

Verso l'inizio degli anni settanta, però, come effetto di una serie di trattative tra i principali paesi commerciali del mondo, i dazi sono scesi a livelli assai modesti. Mentre alla fine della seconda guerra mondiale i dazi sui prodotti industriali erano in genere dell'ordine del 30-50%, i dazi tipici degli anni settanta, per gli stessi beni, si aggirano intorno al 5-15%. Praticamente in tutti i paesi rimangono ancora industrie che sono oggetto di una speciale protezione da parte dei loro governi; ma in generale gli scambi tra i paesi progrediti si svolgono in condizioni di relativa assenza di restrizioni.

Per la lunga esperienza che la maggior parte delle nazioni ha in materia doganale e per il fatto che i sistemi tariffari sono stati oggetto di estese trattative internazionali, gli usi e le tariffe doganali delle nazioni principali sono codificati molto meglio di altri tipi di restrizioni commerciali. Le tariffe, ad esempio, possono essere classificate come specifiche o ad valorem. Le tariffe specifiche sono determinate in base al numero delle unità fisiche del prodotto importato, mentre quelle ad valorem sono concepite in termini di una data percentuale del valore dell'importazione. Le tariffe ad valorem possono essere applicate al valore f.o.b. (free on board) del prodotto, cioè prendendo in considerazione unicamente il valore del prodotto, oppure al valore c.i.f. (cost, insurance, freight), il quale include, oltre al valore del prodotto, quello dell'assicurazione e del nolo. Le tariffe possono essere classificate anche come non discriminatorie o preferenziali: le tariffe non discriminatorie sono applicate a un dato prodotto in modo uniforme, senza tener conto della fonte del prodotto, mentre le tariffe preferenziali sono applicate in base a diversi saggi specifici, a seconda della fonte. Un'altra espressione comune è quella di ‛saggio della nazione più favorita', che è il saggio più basso applicabile a un dato prodotto, qualunque sia la fonte. Esistono poi numerosi altri meccanismi standardizzati, tra i quali i dazi antidumping e i dazi protettivi.

Con la riduzione delle barriere doganali a livelli modesti, le nazioni hanno cominciato a rendersi conto che esiste un'altra specie di restrizioni che ostacola gli scambi internazionali: è una specie più varia e meno visibile delle barriere stesse e si usa a proposito di essa la locuzione ‛barriere non tariffarie'. Ad esempio, la maggior parte dei governi tende ad applicare, nell'acquisto di beni per uso pubblico, la politica del ‛compra a casa tua'. Talvolta, come nel caso degli Stati Uniti, le preferenze verso la politica del ‛compra a casa tua' sono evidenti ed esplicite; più spesso, come nel caso della Francia e del Giappone, la preferenza non è dichiarata in modo esplicito, pur potendo avere un'efficacia restrittiva ancora maggiore. Essendo cresciuta l'importanza degli acquisti fatti dai governi, e concentrandosi d'altra parte tali acquisti su beni di alto livello tecnologico, questo tipo di restrizioni ha attirato un interesse crescente. Un'altra barriera non tariffaria è costituita dal cosiddetto controllo volontario sulle esportazioni. Alcuni paesi avanzati sono riusciti a ottenere da certe nazioni l'autoimposizione di un controllo sulle loro esportazioni semplicemente minacciandole di escludere i loro beni ricorrendo a mezzi più diretti. I regolamenti in materia di sanità e di sicurezza, predisponendo meccanismi discriminatori nel rilascio di patenti e marchi di fabbrica, hanno avuto anch'essi l'effetto di frenare il commercio internazionale. E negli anni settanta i regolamenti nazionali per la salvaguardia dell'ambiente sembrano destinati a provocare un'altra ondata di restrizioni. Eppure, a dispetto di queste molteplici limitazioni, il commercio internazionale riesce a fiorire.

I movimenti internazionali di capitali tra le economie aperte non hanno goduto della stessa libertà dalle restrizioni concessa ai movimenti di beni. Imprese che hanno cercato di prendere in prestito in paesi stranieri grosse quantità di valuta locale, o di investire su larga scala all'estero, sono incorse in misure di controllo formale o di sorveglianza informale da parte di molti governi. Si sono spesso applicate restrizioni nei casi in cui l'impresa che stava cercando di raccogliere capitali o di fare investimenti era di origine nazionale soltanto formalmente; se i suoi veri proprietari risultavano stranieri, scattavano spesso speciali restrizioni. L'IBM francese, ad esempio, incorrerebbe in speciali restrizioni se volesse investire in Francia, pur essendo una società costituita secondo le leggi francesi. Rimangono tuttavia disponibili, per il movimento di capitali attraverso i confini, una sufficiente libertà e sufficienti mezzi indiretti perché l'atmosfera in cui le imprese operano non risulti restrittiva in modo schiacciante.

4. Intese bilaterali e regionali.

a) Accordi bilaterali.

Le nazioni che dirigono la propria economia mediante un rigido sistema di controllo centrale considerano spesso utile, o persino necessario, condurre le transazioni internazionali attraverso accordi da governo a governo. La necessità di accordi siffatti è particolarmente evidente nel caso delle cosiddette economie centralizzate, le economie cioè nelle quali le principali decisioni di produrre, comprare o vendere beni sono prese seguendo un piano centrale particolareggiato piuttosto che in accordo con un sistema di segnali di mercato. Come abbiamo già notato, in questi paesi il sistema dei prezzi interni non è applicabile alle transazioni internazionali, né può offrire segnali utili ai compratori e venditori stranieri. Siccome le imprese direttamente implicate come fonti o come utenti non hanno alcun potere discrezionale nella conduzione delle transazioni internazionali, si rende necessario un apparato decisionale centralizzato. Oltre a ciò, le economie centralizzate si caratterizzano per una carenza di valuta straniera, di modo che sono ansiose di assicurarsi che le loro transazioni con altri paesi non si risolvano in debiti che debbano essere liquidati in valuta straniera. Una tale possibilità può essere evitata se i crediti di ciascuna delle due nazioni nei confronti dell'altra finiscono, entro un certo lasso di tempo, col risultare eguali (v. pianificazione).

Per questa ragione gli scambi tra le economie centralizzate si svolgono in genere nel quadro di accordi da governo a governo (v. Kaser, 1967, pp. 111-125). Questi accordi sono caratterizzati dall'individuazione delle specie di beni da scambiare e dall'assegnazione a tali beni, nel contesto dello scambio, di certi valori, cosicché alla fine risulti che le due parti hanno ricevuto beni per un valore eguale. In pratica, i prezzi stipulati in questi accordi sono stati generalmente più alti di quelli prevalenti sui mercati mondiali, e questo nonostante il fatto che i mercati mondiali siano stati presi per lo più come punto di riferimento per la determinazione del valore relativo delle varie merci implicate nelle transazioni.

Nonostante i vantaggi - sotto il profilo del controllo - che arrecano alle autorità centrali, questi accordi sono spesso apparsi eccessivamente limitativi. La necessità di conseguire tra ogni coppia di paesi scambi bilanciati ha ristretto per i pianificatori la scelta delle fonti e dei mercati. Appunto per questo i paesi dell'Europa orientale e l'Unione Sovietica hanno fatto ripetuti tentativi di integrare gli accordi bilaterali con intese multilaterali di vario genere, sperando per questa via di connettere gli accordi in un sistema capace di offrire una maggiore flessibilità. L'esperienza ha tuttavia mostrato come sia estremamente difficile introdurre negli accordi da governo a governo una flessibilità corrispondente alla flessibilità ottenibile in un sistema di scambi aperti.

Di accordi bilaterali è stato fatto uso non soltanto negli scambi tra coppie di economie centralizzate, ma anche negli scambi tra un'economia centralizzata e una nazione operante normalmente in un mercato concorrenziale aperto. In siffatte situazioni miste, sono sorte frequentemente varie anomalie. Ad esempio le economie aperte hanno riservato, in via eccezionale, settori del loro mercato alle importazioni dall'Unione Sovietica e dai paesi dell'Europa orientale, al fine di garantire, negli scambi con questi paesi, un certo equilibrio tra acquisti e vendite. Tollerando siffatte anomalie, si è reso possibile lo sviluppo di un modesto volume di scambi tra i due tipi di economie; ma le incoerenze di fondo non cessano di produrre i loro effetti, né s'intravvede una soluzione.

Ad accordi bilaterali da governo a governo hanno fatto talvolta ricorso anche coppie di economie aperte. Per un breve periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, gran parte degli scambi dell'Europa occidentale fuori del blocco sovietico si svolsero nel quadro di accordi del genere; e all'inizio degli anni settanta molti dei paesi meno progrediti conducevano i loro scambi, in tutto o in parte, su questa base. In tutti i casi nei quali i regolamenti statali sugli scambi internazionali erano altamente restrittivi, forte era la tendenza a far ricorso ad accordi bilaterali che fornissero una cornice - pur sempre discriminatoria - all'interno della quale effettuare un'attenuazione selettiva della rete di restrizioni. Governi che altrimenti si sarebbero opposti o avrebbero proibito l'importazione o l'esportazione di un certo prodotto, potevano così allentare le restrizioni sulla garanzia, introdotta nelle condizioni di un accordo bilaterale, di un adeguato compenso per la propria economia.

b) Intese regionali.

Nella storia degli scambi e dei pagamenti internazionali si sono verificati ripetuti tentativi, da parte di piccoli gruppi di paesi legati da speciali vincoli di affinità e di cultura, di stringere intese miranti a facilitare il movimento di beni e di valuta attraverso i loro confini. Esempi notevoli furono, nel sec. XIX, lo Zoliverein, precursore della Germania moderna, come anche intese transitorie tra gli Stati scandinavi (v. Viner, 1950, pp. 141-169). Il sistema britannico della preferenza imperiale, che si sviluppò tra le due guerre mondiali, fornisce un'altra importante esemplificazione. Esso si basava sul principio che gli aderenti avrebbero imposto, ciascuno nei confronti delle importazioni degli altri, dazi più bassi di quelli imposti sulle importazioni dai paesi estranei al sistema.

Più recentemente, esempi importanti di intese del genere si trovano nell'Europa occidentale. Sotto lo stimolo del programma di ricostruzione europea - subito dopo la seconda guerra mondiale - le nazioni principali dell'Europa occidentale formularono un codice di liberalizzazione degli scambi, secondo il quale ciascun paese s'impegnava a liberalizzare le restrizioni in materia di autorizzazioni nei confronti di importazioni da tutti gli altri. Accadeva poi in realtà che, siccome il codice si applicava solo a un gruppo limitato di paesi, ai potenziali venditori esterni al gruppo venivano imposte condizioni discriminatorie sulle importazioni. La Francia, ad esempio, consentiva importazioni dalla Gran Bretagna a condizioni meno restrittive di quelle applicate ai prodotti provenienti dagli Stati Uniti o dal Brasile.

Le nazioni dell'Europa occidentale svilupparono nello stesso tempo un'Unione europea dei pagamenti. Secondo le clausole dell'Unione, ciascun paese membro acconsentiva a concedere larghe possibilità di credito a tutti gli altri, così da permettere un più agevole finanziamento di eventuali sbilanci commerciali in ogni coppia di paesi del sistema. L'esistenza di queste intese rafforzò nei paesi partecipanti la propensione a riservarsi reciprocamente condizioni di miglior favore nel movimento dei beni.

L'esperienza fatta dai paesi europei con le intese preferenziali ha spianato il cammino verso una serie di legami più profondi e più organici, che hanno infine trovato espressione nella creazione della Comunità Europea. La prima pietra nella creazione della Comunità Europea fu posta con l'istituzione della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio), proposta dapprima dal primo ministro francese Schumann (1950), e poi realizzata (1952) tra i sei membri originari: Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. In linea di principio, l'intesa mirava a eliminare le barriere nazionali tra i paesi firmatari in materia di scambi di carbone e acciaio; e in effetti questi prodotti poterono muoversi attraverso i confini nazionali come se questi non esistessero.

Nella pratica la realizzazione di intese del genere ha incontrato, naturalmente, difficoltà molto maggiori. La presenza di frontiere nazionali si manifesta in molti modi sottili e penetranti: nell'esistenza di valute distinte; nella struttura dei costi dei trasporti ferroviari e aerei di ciascuna nazione; nelle differenze in materia di legislazione del lavoro e di organizzazione sindacale; nella politica e nella gestione delle organizzazioni commerciali e produttive di proprietà statale, e così via. Tutti questi fenomeni hanno inciso sulle condizioni nelle quali si sono svolti gli scambi tra i paesi della CECA. In alcuni casi le istituzioni e le condizioni proprie dei singoli paesi sono state modificate in modo da adattarle allo spirito multinazionale della CECA; ma in altri casi ciò non è avvenuto. Cionondimeno, la CECA si è dimostrata una preziosa anticipazione di ciò che doveva seguire, e cioè la Comunità Economica Europea (CEE).

La CEE, mentre presenta le caratteristiche tradizionali di un'unione doganale, ne supera però i limiti sotto alcuni aspetti decisivi (v. Swann, 1972, pp. 29-42). Le caratteristiche tradizionali della CEE consistevano nell'impegno dei sei membri originari a eliminare progressivamente le barriere tariffarie e ad applicare una tariffa esterna comune sulle importazioni dal resto del mondo. Queste fasi sono state completate nel periodo di transizione cominciato nel 1959 e terminato verso la fine degli anni sessanta.

L'obiettivo della CEE era però l'unione economica e non l'unione doganale. Ciò significa, tra le altre cose, che il movimento di capitali e di forza-lavoro in tutta l'area dei sei paesi dovrebbe, in linea di principio, godere dello stesso grado di libertà di cui gode all'interno di ciascuna economia nazionale. Progressi considerevoli sono stati compiuti durante gli anni sessanta nella messa in atto di questo principio generale. Il progresso è stato però ostacolato dal fatto che le condizioni predominanti nei mercati di capitali e nei mercati del lavoro variano in misura notevole da una nazione all'altra. In alcuni casi l'armonizzazione delle legislazioni nazionali è stata sufficiente per affrontare il problema; ma in altri si è reso necessario, per sostituire i vari regimi nazionali, formulare regole e criteri validi per l'intera Comunità. Ad esempio, le varie legislazioni in materia di sussidi di disoccupazione e di assistenza sanitaria conservarono un carattere nazionale, mentre i programmi per la riqualificazione dei lavoratori furono introdotti, in qualche caso, su una base comunitaria.

Il più ambizioso dei programmi comunitari era quello riguardante i prodotti agricoli, che si concretava in una politica agricola comunitaria. In base a questo programma, in tutta la Comunità si garantivano ai coltivatori per i loro prodotti prezzi minimi, che erano stabiliti sulla base di criteri comunitari e messi in opera attraverso meccanismi egualmente comunitari. Per difendere gli obiettivi, la Comunità sosteneva i mercati interni dei paesi membri mediante tutta una serie di meccanismi, ivi compresi gli acquisti sul mercato libero. Nello stesso tempo si restringeva l'importazione di prodotti agricoli da fonti extracomunitarie e se ne sovvenzionava l'esportazione. Durante gli anni sessanta e i primi anni settanta, la maggior parte delle risorse finanziarie della Comunità è stata dedicata allo sviluppo e all'esecuzione dei programmi agricoli.

Nonostante l'importanza di programmi siffatti, frequenti erano le occasioni che rammentavano che la Comunità consisteva di Stati sovrani distinti. Si poteva constatare ad esempio la persistenza, tra i membri della Comunità, di politiche monetarie indipendenti e di regimi diversi dei saggi di cambio. Ogni paese continuava a mantenere la propria banca centrale, i propri meccanismi per la restrizione o l'espansione del credito, il proprio sistema fiscale e i propri rifornimenti di riserve di valuta estera. Su tutti questi fronti, strenui sforzi venivano compiuti per coordinare e porre in correlazione le politiche nazionali. Un notevole passo in questa direzione è stato compiuto quando le varie autorità fiscali nazionali, in conformità a un accordo comunitario, hanno adottato la cosiddetta imposta sul valore aggiunto, che per alcuni Stati ha rappresentato un mutamento fondamentale in materia di politica fiscale. Un altro indizio del desiderio di una stretta collaborazione si è potuto vedere nell'elaborazione di un complesso sistema che consenta ai paesi membri di sostenere reciprocamente le rispettive valute e garantisca a ciascuno, in caso di necessità, l'apertura da parte degli altri di larghi crediti nelle valute nazionali.

La fragilità della struttura, tuttavia, si è manifestata in modo evidente nei casi in cui l'una o l'altra nazione si è sentita costretta a prendere iniziative indipendenti nel campo della politica monetaria e nella determinazione del saggio di cambio. Negli anni sessanta è accaduto parecchie volte che l'uno o l'altro dei membri principali della Comunità abbiano modificato il proprio saggio di cambio, creando nuove parità con le altre valute della Comunità. L'effetto di questi mutamenti è stato naturalmente traumatico. Ogni volta che si è verificato uno di questi mutamenti unilaterali, l'ideale comunitario ne ha gravemente sofferto, e talvolta programmi importanti sono stati messi in pericolo. Ad esempio, la validità della struttura dei prezzi comunitari in materia di prodotti agricoli dipende dalla conservazione di un rapporto fisso tra le valute della Comunità. Quando una valuta muta di valore, si altera la delicata bilancia delle importazioni e delle esportazioni tra i coltivatori operanti nelle diverse economie nazionali. Si è reso quindi necessario negoziare una qualche forma di compensazione, che ha assunto in genere la forma di una temporanea reintroduzione di barriere all'interno del Mercato Comune.

All'inizio degli anni settanta il numero dei membri della Comunità Europea salì da sei a nove, con l'adesione della Danimarca, dell'Irlanda e della Gran Bretagna. Con questo ampliamento, una caratteristica della struttura comunitaria, prima solo allo stato germinale, ha assunto un rilievo notevolmente maggiore. Già prima dell'ampliamento, la Comunità aveva stretto con vari paesi estranei una serie di accordi che garantivano a questi ultimi una posizione speciale nei loro rapporti con i membri della Comunità. Ad esempio, la Grecia e la Turchia avevano con la Comunità accordi che stabilivano intese transitorie, suscettibili di sfociare nella piena adesione. A un livello associativo diverso, ai paesi del Maghreb - Algeria, Marocco e Tunisia - erano concessi certi limitati diritti di commerciare con le economie della CEE su una base preferenziale. Su una scala più ampia, quasi una ventina di paesi dell'Africa subsahariana erano legati alla Comunità da un accordo formale, che garantiva alle loro esportazioni libertà di accesso ai mercati della CEE. In cambio venivano accordati agli europei diritti privilegiati di accesso ai mercati africani.

Mentre i tre paesi che aderirono alla Comunità agli inizi degli anni settanta s'impegnarono a una piena adesione, più o meno nello stesso torno di tempo l'elenco delle nazioni legate alla Comunità da vincoli di più incerta natura si arricchiva di una serie di altri paesi. La Svizzera, la Svezia, la Norvegia e l'Austria, ad esempio, stabilirono con la Comunità larghe intese per il libero scambio di prodotti industriali. Da allora il gruppo dei paesi sviluppati legati alla Comunità da vincoli speciali si è molto ingrandito, includendo circa altre 50 nazioni situate in Africa, nella regione caraibica e nel Pacifico. A ingrandire la piramide delle relazioni speciali, praticamente tutti gli altri paesi in via di sviluppo hanno ottenuto certi diritti preferenziali di accesso al Mercato Europeo, sebbene su una base più limitata di quella dei paesi africani. Il risultato netto di queste intese speciali è stato che i confini della Comunità Europea hanno perduto la loro chiarezza originaria, e nuovi problemi sono sorti circa la direzione politica ultima dell'alleanza.

Sebbene la CEE fosse con tutta probabilità la più importante organizzazione regionale operante durante i primi anni settanta, ne esistevano anche altre di un certo rilievo. Ad esempio, un'Area europea di libero scambio (European Free Trade Area, EFTA) era stata creata, verso la fine degli anni cinquanta, da sette paesi europei, che avevano scelto di rimanere fuori della CEE (v. EFTA, 1966). Questa intesa è continuata anche dopo l'adesione alla CEE (1972) di tre di questi paesi e l'estensione da parte della CEE di speciali privilegi commerciali ad alcuni altri. L'EFTA manteneva, tra i paesi membri, un regime di libero scambio dei beni industriali; ma, diversamente dalla CEE, escludeva dall'intesa i beni agricoli e permetteva ai paesi membri di conservare, nei confronti delle esportazioni da altri paesi, strutture tariffarie autonome.

Fuori d'Europa, si possono rintracciare accordi regionali in pressoché ogni area del mondo. Il più importante è l'Area latinoamericana di libero scambio (Latin American Free Trade Area, LAFTA), costituita nel 1960 e comprendente undici paesi (v. Vernon, 1972, pp. 136-144). Questi paesi erano poi suddivisi, a seconda del loro grado di sviluppo, in tre sottogruppi; e ognuno dei tre sottogruppi assumeva impegni di tipo diverso nei confronti degli altri paesi membri.

In linea di principio, la LAFTA mirava a un'intesa tale da permettere alla fine il libero scambio tra i paesi membri. Ma il processo attraverso il quale tale meta doveva essere raggiunta era, assai più delle intese regionali europee, soggetto a vari particolarismi e condizionamenti. Un indizio della natura empirica dell'associazione può vedersi nel fatto che gruppi di paesi sono stati incoraggiati a tentare di formulare, nel proprio ambito, specifici accordi di ‛complementarità': accordi cioè che avrebbero consentito a un paese del gruppo di specializzarsi nella produzione di un dato prodotto, mentre un altro paese si sarebbe specializzato in un prodotto diverso. In accordi del genere veniva consentito lo scambio senza restrizioni dei prodotti in questione tra i paesi che decidevano di aderire a quella particolare intesa complementare. Questo modo di affrontare il problema, quali che siano i suoi meriti in astratto, nella dozzina d'anni in cui è stato applicato non ha portato molto avanti i paesi dell'America Latina.

Tra i paesi membri della LAFTA, cinque nazioni latino-americane della costa occidentale hanno compiuto una scelta molto più avanzata. Questo gruppo, composto da Colombia, Cile, Perù, Bolivia e Ecuador ha costituito nel 1969 il Gruppo andino, che s'impegnava con un trattato a un'intesa più profonda di quella contemplata dalla più ampia struttura della LAFTA. Uno degli aspetti degni di nota degli accordi del Gruppo andino è rappresentato dal trattamento riservato agli investimenti esteri. Secondo tali accordi, senza precedenti sul versante dei paesi ospitanti, le imprese di proprietà straniera esistenti nell'area andina non hanno in genere diritto alle concessioni tariffarie e agli altri privilegi commerciali applicati negli scambi tra i membri del Gruppo, a meno che i proprietari stranieri non si impegnino in un programma di cessione progressiva della proprietà, destinato a trasferire la maggioranza azionaria e il controllo in mani locali. Circa i nuovi investimenti si esige, con qualche eccezione, un esplicito piano di cessione progressiva della proprietà mirante a porre la maggioranza azionaria in mani locali entro un periodo di tempo relativamente breve, in genere dell'ordine di quindici anni. In alcuni settori particolarmente vulnerabili la proprietà straniera è del tutto esclusa. Anche i contratti di assistenza tecnica sono soggetti a un controllo rigoroso. Nei primi anni settanta è rimasto oscuro con quanta efficacia si sarebbero applicati gli accordi del Gruppo andino.

Il carattere condizionato degli impegni regionali, se è evidente in America Latina, lo è ancor di più in Asia e in Africa. La storia postcoloniale del continente africano, che comincia con gli anni cinquanta, ha visto un gran numero di progetti miranti a un accordo regionale preferenziale. Pressoché nessuno di essi è riuscito a prender corpo. Alcuni interessavano i paesi mediterranei francofoni; altri le ex colonie britanniche. Uno di questi progetti, che sembrava all'inizio particolarmente promettente, era la Comunità dell'Africa orientale, composta da Kenya, Uganda e Tanzania; ma anche questa promettente intesa, basata sugli stretti legami che erano esistiti in epoca coloniale, è andata rapidamente indebolendosi nei primi anni settanta.

Ci sono state tuttavia organizzazioni regionali che non si proponevano l'obiettivo di sviluppare aree di scambio preferenziali. Ad esempio, in una serie di regioni sono state create banche per lo sviluppo, il cui principale obiettivo è stato di incanalare fondi a lungo termine verso le economie di una certa area. Banche di questo genere sono state in genere finanziate, in parte, con fondi forniti dai paesi ricchi e da enti internazionali come la Banca mondiale. La Banca interamericana per lo sviluppo, la Banca asiatica per lo sviluppo e la Banca africana per lo sviluppo sono esempi notevoli di istituti del genere; ma altri se ne trovano anche nell'Africa orientale, nell'America centrale e in varie altre aree.

Un'altra rete di enti regionali è costituita dalle diverse commissioni economiche create dalle Nazioni Unite: la Commissione economica per l'America Latina, la Commissione economica per l'Africa, la Commissione economica per l'Asia e l'Estremo Oriente e la Commissione economica per il Medio Oriente. Ognuna di esse ha sviluppato uno stile e obiettivi propri, derivanti dalle personalità dominanti e dagli speciali interessi della regione. Nell'insieme, l'attenzione delle Commissioni si è rivolta alla raccolta di statistiche, all'addestramento di funzionari statali, all'analisi di problemi economici regionali e alla promozione di iniziative in vista della loro soluzione.

5. Organizzazioni globali.

Oltre alle intese regionali discusse sopra, esistono organizzazioni di raggio più ampio, che hanno collegato i paesi in sistemi globali. Nella maggior parte dei casi queste intese mondiali si sono basate sul principio che i diritti e le responsabilità di tutti gli Stati sovrani dovrebbero essere gli stessi, e che ogni deviazione da tale regola dovrebbe obbedire a un qualche principio concordato. Una volta manifestatisi, tali principi hanno condotto alla distinzione tra paesi poveri e paesi ricchi, e al conseguente riconoscimento che i paesi poveri dovrebbero avere diritti più ampi e obblighi meno onerosi. C'è stato anche un generale riconoscimento del principio secondo il quale a gruppi di paesi legati da speciali vincoli regionali dovrebbe essere consentito deviare dal principio della non discriminazione. Le più influenti tra le organizzazioni globali sono forse state le tre organizzazioni nate direttamente dalla pianificazione che caratterizzò la seconda guerra mondiale.

a) Il Fondo e la Banca.

Una delle tre è il Fondo Monetario Internazionale (FMI) (v. Horsefield, 1969). Quest'organizzazione fu concepita come un mezzo per raggiungere una serie di scopi: regolarizzare il processo attraverso il quale le nazioni mutano il valore della propria valuta in rapporto alla valuta di altri paesi; fornire un sostegno a una nazione ogniqualvolta un qualche fattore temporaneo stia per mettere in pericolo il valore della sua valuta; limitare le restrizioni che le nazioni impongono di volta in volta sui diritti di altre nazioni a comprare e vendere le proprie valute, soprattutto in connessione con transazioni internazionali per l'acquisto e la vendita di beni e servizi. I due assunti basilari del FMI durante i primi due decenni della sua esistenza sono stati che la valuta di ogni paese dovrebbe avere un qualche rapporto fisso e stabile con le valute di tutti gli altri paesi, e che le restrizioni sull'acquisto e la vendita di divise estere dovrebbero essere applicate senza discriminazioni.

All'inizio degli anni settanta avevano aderito al FMI più di 125 paesi, tra i quali tutti quelli più importanti del mondo non comunista. In questo lasso di tempo sono emersi due nuovi fattori che hanno profondamente influenzato i metodi operativi e le verosimili prospettive future dell'organizzazione. Il primo fattore consiste nella crescente convinzione, condivisa da uomini politici come da studiosi, che l'esistenza di rapporti fissi tra le diverse valute è a un tempo non desiderabile e non necessaria, almeno sinché ogni nazione conserva il diritto di dirigere la propria economia nazionale. Un altro importante sviluppo è stato il riconoscimento che né il dollaro USA né l'oro possono più svolgere la loro funzione storica di numerario che permetta di calcolare le riserve di divise estere, né quella di segno valutano che permetta di custodire tali riserve. Come parziale sostituzione, ha cominciato a farsi strada l'idea che il FMI stesso possa finire col diventare una specie di banca centrale mondiale. In quanto banca, si potrebbe esigere dal FMI che accettasse in deposito parte delle riserve di divise estere dei singoli paesi, e anche che avesse il potere di creare riserve addizionali nel caso che l'interesse della collettività delle nazioni lo richiedesse. In verità l'avvio a un sistema di riserve mondiali è già stato dato, sotto la forma di circa 10 miliardi di dollari dei cosiddetti ‛diritti speciali di prelievo'. Somme ulteriori, si prevedeva, sarebbero state raccolte di volta in volta e distribuite secondo una formula concordata di proporzionalità. E tuttavia, a dispetto di questi nuovi sviluppi, il sistema attuale dei pagamenti internazionali versa ancora in condizioni di crisi e incertezza profonde.

La seconda istituzione derivante dalla pianificazione del periodo bellico è la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS), nota talvolta col nome di Banca Mondiale (v. Mason e Asher, 1973). Scopo dell'istituzione era di costituire uno dei principali veicoli attraverso i quali potessero essere incanalati gli aiuti finanziari dai paesi ricchi verso i paesi poveri. Mentre il FMI fornisce un sostegno finanziario temporaneo a economie in difficoltà, la Banca Mondiale fornisce un'assistenza a lungo termine per l'edificazione delle infrastrutture necessarie a un' economia moderna. Nei primi anni settanta la Banca ha fatto prestiti ai paesi in via di sviluppo per un ammontare annuo di 2 miliardi di dollari USA. Nello stesso tempo un'affiliata della Banca, l'Associazione Internazionale per lo Sviluppo (International Development Association, IDA), ha concesso prestiti ai paesi più poveri, a condizioni di speciale favore, per un ammontare annuo di 1 miliardo di dollari USA. Durante il corso della sua esistenza, la Banca Mondiale è venuta sempre più identificandosi con i problemi basilari del processo di sviluppo, in quanto distinti dai meri aspetti finanziari. Per questa ragione molti dei programmi recenti, oltre a interessarsi delle infrastrutture fisiche, si sono interessati anche all'istruzione, alla sanità, al controllo delle nascite e a simili problemi sociali direttamente connessi con il processo di sviluppo.

b) Il GATT

Il General Agreement on Tariffs and Trade (Accordo generale sulle tariffe e sul commercio) è la più vasta organizzazione mondiale degli scambi in quanto collega paesi singoli e gruppi regionali per mezzo di una serie di regole comuni e di procedure concordate (v. Vernon, 1972, pp. 117-123). Quando fu costituito, aderivano al GATT soltanto 19 paesi, la maggior parte dei quali apparteneva però al novero delle nazioni industrialmente avanzate. All'inizio degli anni settanta il numero degli aderenti al GATT è salito a quasi un centinaio, e la maggioranza è costituita da nazioni povere.

Il GATT è fondato su pochi principi basilari. Per uno di questi la non discriminazione è il criterio normale secondo il quale le nazioni dovrebbero applicare le restrizioni ai propri confini; ciò significa che una nazione dovrebbe normalmente applicare tariffe, come altre restrizioni sull'importazione di un dato prodotto, sempre della stessa entità, qualunque sia la fonte di una particolare spedizione; e analogamente dovrebbe applicare le restrizioni sulle esportazioni senza riguardo al destinatario.

Le eccezioni alla regola generale riconosciute dall'Accordo sono tuttavia notevoli. I paesi in difficoltà con la bilancia dei pagamenti sono più o meno liberi di fronteggiare tali difficoltà senza tener conto della regola della non discriminazione. Esiste anche la libertà di aderire a intese discriminatorie regionali, purché le intese stesse rispondano a certi criteri minimi. I paesi poveri possono sottomettere a restrizioni le proprie importazioni ed esportazioni, operare discriminazioni a favore di altri paesi poveri e a svantaggio di quelli ricchi e, entro certi limiti, richiedere un trattamento preferenziale per le proprie vendite di beni ai paesi ricchi. Ma nonostante tutte le eccezioni, la regola generale della non discriminazione come norma delle transazioni internazionali conserva una certa validità, specialmente negli scambi di prodotti non agricoli tra i paesi industrialmente avanzati.

Il GATT, oltre a incorporare certe norme internazionali, fornisce anche alle nazioni un meccanismo con il quale conciliare le loro dispute in materia di scambi internazionali. Ad esempio, le nazioni che ritengano il proprio commercio danneggiato dall'azione di altri, possono rivolgersi al tribunale del GATT, richiedendo una qualche forma di indennizzo. La materia del contendere nei singoli casi ha così modo di chiarirsi e il significato delle stesse regole del GATT può risultarne illuminato. E le nazioni che vogliano essere sollevate da qualche impegno previsto dall'Accordo possono valersi di procedure che legittimino la deviazione. Nella storia venticinquennale del GATT, tutte queste possibilità sono state sfruttate da questo o quel paese.

Il GATT si è dimostrato utile anche sotto un altro profilo. Esso fornisce alle nazioni gli strumenti idonei alla preparazione delle trattative importanti in materia di scambi internazionali. Dalla fine della seconda guerra mondiale, ad esempio, ci sono state cinque o sei grandi riunioni, nelle quali i membri del GATT hanno convenuto di ridurre i livelli delle proprie tariffe, voce per voce. Complessivamente, tali riunioni hanno ridotto i saggi tariffari dei grandi paesi industriali a una frazione dei livelli predominanti negli anni quaranta. Mentre a quell'epoca i saggi tariffari ascendevano frequentemente al 30 o 40% del valore delle importazioni, all'inizio degli anni sessanta i saggi tipici erano dell'ordine del 5 o 10%.

L'esistenza del GATT ha reso possibili anche altre iniziative nel campo degli scambi internazionali. Con la netta riduzione dei livelli tariffari internazionali, ad esempio, le nazioni si sono volte a considerare la possibilità di trattative per la riduzione o il controllo delle barriere non tariffarie. Queste ultime, come si ricorderà, includono fattori come le restrizioni governative sulle importazioni in nome della salute e della sicurezza, leggi sui prodotti farmaceutici o misure di sicurezza per le automobili, e disposizioni a favore di produttori locali negli acquisti da parte dei governi, come ad esempio l'obbligo all'osservanza di una lista di fornitori autorizzati. Tali barriere non tariffarie promettono di diventare una nuova materia di discussione nelle trattative sugli scambi degli anni settanta.

c) L'OCSE

Un'altra organizzazione multilaterale di un certo rilievo è l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. A rigore, l'OCSE non è un'organizzazione globale, giacché recluta i propri membri solo tra i paesi ricchi: gli Stati Uniti, il Canada, gli Stati europei, l'Australia e il Giappone.

L'OCSE si sviluppò dalla diramazione europea del Piano Marshall. Una volta che l'Europa ebbe completato, negli anni sessanta, la propria ricostruzione postbellica, l'organizzazione si volse a considerare una quantità di problemi di interesse comune tra i paesi industriali: la promozione della scienza e della tecnologia e delle loro applicazioni; il sostegno e la coordinazione di programmi di aiuti per lo sviluppo ai paesi poveri; le pratiche economiche restrittive sul piano internazionale; la coordinazione di politiche anticicliche; problemi di emigrazione e di turismo, e così via. All'inizio degli anni settanta l'OCSE serviva come organo consultivo e di ricerca, capace di adattarsi ai mutevoli interessi dei paesi ricchi che ne sono membri.

d) Le organizzazioni funzionali

Nello sconcertante labirinto delle organizzazioni economiche internazionali ce ne sono molte che hanno lo scopo di far fronte ai problemi suscitati da talune aree di attività altamente specializzate, aree la cui natura è così peculiare da rendere irrilevanti le regole generali elaborate nel GATT e nel FMI.

Organizzazioni specializzate del genere fecero la loro apparizione già nel sec. XIX, per affrontare problemi internazionali come i diritti degli stranieri in materia di rilascio di patenti, e la creazione di servizi internazionali in materia di comunicazioni postali e telegrafiche e di spedizioni. Nel XX secolo, con l'instaurarsi di una maggiore interconnessione tra le economie nazionali e la liquidazione del sistema coloniale, il bisogno di siffatti meccanismi internazionali si è fatto sentire in molti settori nuovi. C'era bisogno di un qualche meccanismo internazionale, ad esempio, per l'assegnazione di frequenze radio, per regolare le operazioni delle linee aeree, per stabilire misure di sicurezza per il traffico marino, per controllare il movimento internazionale di farmaci, in breve per adempiere molte delle innumerevoli mansioni di regolamentazione economica che i governi nazionali di norma considerano come rientranti nella propria giurisdizione. Tali necessità hanno condotto alla proliferazione di organi identificati da sigle criptiche come ICAO o IMCO, relative alla navigazione aerea e marittima.

La tendenza verso la specializzazione funzionale ha condotto spesso all'istituzione di organizzazioni interamente dedicate a una qualche singola merce specifica. Anche questa specie di organizzazioni ha una lunga storia, a partire dall'accordo europeo del 1902 per lo zucchero. Per parecchi decenni, specialmente nel periodo che va all'incirca dal 1905 al 1945, le intese internazionali del genere rimasero inaccessibili a un esame pubblico, essendo organizzate dai produttori, su base più o meno clandestina, per la difesa dei propri interessi e per sfruttare il proprio collettivo potere monopolistico. Cartelli, sindacati o analoghe organizzazioni hanno dominato gli scambi mondiali di molte materie prime fondamentali, dall'alluminio allo zinco. Gli scambi internazionali di manufatti come prodotti chimici e attrezzature elettriche sono stati oggetto di accordi simili (v. Hexner, 1945, pp. 296, 360). Tali accordi avevano in genere l'intento di alzare e stabilizzare i prezzi attraverso il controllo della concorrenza. Sebbene si facesse uso di molti meccanismi per il controllo della concorrenza, lo strumento più comune era, per i leaders industriali, la spartizione del mercato su basi geografiche.

Dopo la seconda guerra mondiale, l'attuazione di accordi siffatti incontrò difficoltà notevolmente maggiori. Negli anni successivi alla guerra, grandi società stabilirono centri di operazioni ciascuna nel territorio dell'altra. Gli acquirenti, specialmente gli acquirenti industriali, godevano di una posizione che consentiva loro di diventare più facilmente edotti delle condizioni di mercato in molti paesi diversi. Le barriere opposte agli scambi dai governi erano minori di quanto fossero state per un lunghissimo tempo ed erano materia di aperte trattative internazionali. Una tale situazione non favoriva più, come era invece accaduto in passato, la stipulazione di accordi segreti o semisegreti tra i produttori.

In certi casi, furono gli stessi governi a stringere accordi internazionali per stabilizzare il mercato di particolari merci. Più raramente, sia paesi esportatori che paesi importatori convenivano circa la desiderabilità di un qualche provvedimento di pianificazione della stabilità. Accordi del genere furono raggiunti, nel dopoguerra, per regolare i mercati mondiali dello zucchero, dello stagno, del grano, del caffè e del cacao (v. Vernon, 1972, pp. 147-150). Di tanto in tanto, con il sorgere di contrasti circa la ripartizione del mercato tra i produttori o il prezzo che dovevano pagare i consumatori, tali accordi fallivano o venivano lasciati decadere. Nel complesso però, per la maggior parte del dopoguerra, i produttori e i consumatori delle merci in questione trovarono una qualche base di accordo.

Ogniqualvolta, però, i produttori hanno sentito di avere il coltello dalla parte del manico, la tentazione di tornare ai metodi di rapina del cartello clandestino si è rifatta fortissima. Negli anni sessanta e settanta, i principali paesi produttori di petrolio hanno ereditato le funzioni del cartello petrolifero anteguerra, fissando prezzi e coordinando una strategia di contrattazione attraverso l'Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC: Organization for Petroleum Exporting Countries). In una serie di trattative condotte all'inizio degli anni settanta con le maggiori compagnie petrolifere, i paesi del petrolio sono riusciti a elevare lo scarto tra costi di produzione e prezzi di vendita per il petrolio a valori mai visti nella storia mondiale (v. Adelman, 1972, pp. 250-263) e ad assicurarsi la parte del leone di profitti strepitosi. Altre nazioni esportatrici, come quelle che hanno il controllo dei rifornimenti di cacao e di rame, hanno costituito organizzazioni che - essi sperano - potranno un giorno svolgere un ruolo analogo a quello dell'OPEC. Sebbene i cartelli internazionali privati non abbiano più il potere e l'importanza di un tempo, il monopolio e l'oligopolio conservano ancora le maggiori possibilità negli scambi internazionali.

6. Le questioni aperte.

All'inizio degli anni settanta, molte questioni fondamentali relative alle relazioni economiche internazionali rimanevano irrisolte. Una è quella costituita dal problema, di specialissima importanza, di riconciliare i modelli operativi delle economie centralmente pianificate con quelli delle economie di mercato. Un'altra consiste nella ricostituzione di un sistema monetario internazionale così come era stato configurato nella concezione originaria del Fondo Monetario Internazionale, ivi inclusi in particolare l'uso del dollaro USA come valuta di riserva e la preferenza per saggi di cambio fissi tra le nazioni. Altrettanto difficile si presenta il problema di riconciliare l'autonomia delle economie nazionali con le interdipendenze create dalle relazioni e dalle organizzazioni transnazionali. Infine urgente si presenta la battaglia per ridurre le disparità di reddito e di benessere tra i paesi ricchi e i paesi poveri del mondo.

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Diritti codificati e common law

SOMMARIO: 1. Introduzione. □ 2. Filosofie di convergenza: a) ritorno allo jus commune; b) evoluzione giuridica; c) diritto naturale; d) diritto come sovrastruttura; e) transazioni internazionali; f) integrazione internazionale; g) semplicità e certezza. □ 3. Strategie di convergenza: a) unificazione del diritto; b) ‛trapianti' giuridici; c) convergenza passiva. □ 4. Convergenza e divergenza. □ 5. Principi generali del diritto. 6. Norme giuridiche e sistemi giuridici. 7. Conclusione. Bibliografia.

1. Introduzione.

Le differenze tra i sistemi giuridici sono state considerate, almeno dal tempo di Cicerone in poi, come dei mali o degli inconvenienti da superare. Una Babele di leggi sembra provocare divisioni, confusioni, ostacoli: ogni epoca ha i propri difensori di un diritto unificato dell'umanità.

Tutti i sistemi giuridici nazionali del mondo occidentale fanno parte di due grandi famiglie giuridiche: il diritto civile di origine romana e la common law inglese. All'interno di ognuna di queste famiglie i vari sistemi giuridici nazionali condividono alcune caratteristiche che, nonostante le loro molteplici diversità, li contrassegnano come partecipi di una comune cultura giuridica. Le caratteristiche proprie di ciascuno di questi due gruppi servono anche a distinguere il diritto civile e la common law, e gran parte dell'opera svolta dai giuristi che studiano il diritto comparato all'interno di questi due gruppi consiste nell'identificazione e nella discussione delle loro origini e del loro significato. L'altro lato della medaglia è quello della somiglianza: fino a che punto sono simili i sistemi giuridici di queste due grandi famiglie del diritto occidentale? In stretta relazione con questo problema c'è quello della prospettiva di mutamento: il diritto civile e la common law stanno diventando più simili o meno simili tra loro? In una parola, si muovono effettivamente verso la convergenza?

La convergenza tra diritto civile e common law è quindi un argomento abituale di discussione tra i comparatisti. Tale argomento affiora in molti ambienti diversi tra loro, l'ambiente degli affari, l'ambiente accademico e quello statale, i quali contribuiscono a diffondere una vera Babele terminologica in miniatura. Ci si imbatte in termini come unificazione, assimilazione, approssimazione, rapprochement, Angleichung, Annäherung, Anpassung, ‛avvicinamento' dei diritti. Tali termini assumono una varietà di significati più o meno accentuati che, rilevanti in altri contesti, hanno qui minore importanza. Il problema di fondo è se il diritto civile e la common law stiano diventando più simili (convergenti) o meno simili (divergenti). Questo problema ne suggerisce altri: la possibilità di una convergenza giuridica è un problema anzitutto giuridico o piuttosto socio-politico? La convergenza giuridica può essere provocata o è al di fuori della portata dei giuristi, cioè è qualcosa che deve essere realizzata o soltanto qualcosa di cui dobbiamo essere spettatori? In sostanza, è qualcosa di desiderabile e, se lo è, per quale motivo?

2. Filosofie di convergenza.

Le risposte a questi interrogativi dipendono in primo luogo dal punto di vista da cui si considerano il significato e lo scopo della convergenza dei sistemi giuridici. Una breve descrizione delle principali ‛filosofie di convergenza' serve a illustrare la varietà degli atteggiamenti attuali.

a) Ritorno allo jus commune.

Questa tesi suggestiva si fonda su un'interpretazione della storia largamente accettata tra i cultori della scienza giuridica, specialmente in Europa. Prima della formazione degli Stati nazionali, così si argomenta, tutto il mondo civile era governato da un unico sistema giuridico: lo jus commune romano-canonico. I giuristi di tutto il mondo civile frequentavano le stesse università, studiavano sugli stessi libri nella medesima lingua (il latino) e insegnavano con gli stessi sistemi, utilizzando con i loro studenti gli stessi autori. C'era un diritto comune europeo, una letteratura e una lingua comune del diritto, e una comunità internazionale di giuristi.

La formazione degli Stati nazionali dissolse lo jus commune e, alla fine, lo distrusse. Al suo posto è sorto un mondo di Stati nazionali distinti tra loro, ognuno dei quali afferma la propria sovranità giuridica sia all'interno che all'esterno, ciascuno con scuole di diritto nelle quali si insegna il diritto nazionale nella lingua nazionale. Da un'epoca nella quale esisteva un diritto universale, che considerava le consuetudini e le norme locali come elementi molesti, in caso di necessità come eccezioni, siamo passati a un'epoca nella quale esistono sistemi giuridici nazionali che considerano ogni concessione all'internazionalismo come un'indesiderabile, anche se necessaria, infrazione alla sovranità nazionale. Il diritto è divenuto specificamente nazionale; i giuristi non formano più una comunità internazionale.

Molti considerano il sorgere degli Stati nazionali e l'importanza attribuita alla sovranità dello Stato come un'esagerazione, come uno di quei periodi della storia nei quali ci si è sbilanciati troppo in una direzione. Essi vedono nella convergenza dei sistemi giuridici una tendenza a correggere quella posizione estrema e ad accostarsi a un'altra più razionale e moderata. Per lo meno, essi ritengono che ci dovrebbe essere un migliore equilibrio tra gli interessi dello Stato nazionale da un lato e gli interessi della comunità internazionale dall'altro. Nessuno avanza proposte per un ritorno allo jus commune medievale, alcuni però vedrebbero con favore un movimento verso un nuovo jus commune, verso un nuovo diritto comune dell'umanità, liberato da ciò che essi considerano come il frutto di un culto nazionalistico eccessivo. Sotto questo aspetto essi accettano volentieri il tramonto dello Stato. Considerano che in uno sviluppo di questo genere le differenze tra common law e diritto civile verrebbero necessariamente a ridursi; si formerebbe un diritto comune dell'umanità, mentre declinerebbero gli eccessi del nazionalismo giuridico.

Questa tesi presenta delle evidenti difficoltà. In primo luogo, lo jus commune del Medioevo, che fu applicato soltanto all'interno della cristianità, escluderebbe per questa ragione ampie aree del mondo che, secondo i criteri moderni, possono ragionevolmente pretendere di essere considerate ‛civili'. Perfino nell'ambito dell'Europa occidentale non è chiaro se lo jus commune abbia rappresentato la norma. Esso si fondava sull'esistenza e sul potere di una Chiesa universale e sull'esistenza (o la finzione) di un Sacro Romano Impero. C'è qualcosa di incongruo nell'insistenza per un ritorno allo jus commune nei confronti di nazioni che non ne furono mai partecipi: ad es. le numerose nazioni di common law e di diritto civile estranee all'Europa. Perfino nell'ambito europeo è artificioso considerare l'Inghilterra come veramente legata allo jus commune.

Una difficoltà ulteriore discende dal fatto che questa tesi trascura di far menzione degli effetti unificatori di grande rilievo legati al sorgere dello Stato nazionale. Prima della sua formazione, ogni città, comune, ducato e principato aveva le sue leggi particolari. Lo Stato nazionale abolì questa molteplicità di diritti, assunse il monopolio della legislazione e in tal modo realizzò una maggiore uniformità del diritto all'interno della propria giurisdizione. Per alcuni questo costituì un eccesso assai grave, dal momento che, nell'abolire le giurisdizioni locali e il potere giuridico delle associazioni intermedie, lo Stato rendeva il diritto monolitico, insensibile agli interessi locali e di gruppo. Ogni movimento verso la convergenza tra common law e diritto civile, che diminuisse ulteriormente tale sensibilità, che sempre più sacrificasse il particolare al generale, era sotto questo aspetto piuttosto da evitarsi che da considerarsi con favore.

b) Evoluzione giuridica.

Questa tesi afferma che il mutamento giuridico è un processo naturale, la cui intensità e la cui direzione possono essere temporaneamente influenzate dalle azioni umane, ma che alla lunga sono destinate a essere determinate da forze più potenti che sfuggono al controllo dell'uomo. I sistemi giuridici sono quindi più o meno sviluppati o maturi secondo i loro diversi stadi di evoluzione. Quando i sistemi giuridici convergono, ciò accade perché il sistema meno sviluppato raggiunge quello più sviluppato. Questa dottrina della convergenza è particolarmente congeniale ai civilisti, in quanto il diritto civile è molto più antico e, secondo molti, più sviluppato della common law. Così, nel processo di convergenza, la common law diviene sempre più simile al diritto civile.

Diverse prove confortano questa tesi. Per esempio, esiste un'esplicita tendenza verso la codificazione nelle più importanti nazioni che seguono la common law (così i lavori relativi alla codificazione della law commission in Inghilterra o lo Uniform commercial code negli Stati Uniti). Tuttavia vi sono anche tendenze opposte: i giudici di diritto civile stanno diventando più consapevolmente attivi, meno inclini a conformarsi all'immagine di una passiva bouche de la loi e, in tal modo, più simili ai giudici della common law. I diritti dell'imputato, nei procedimenti penali dei paesi di diritto civile, si avvicinano a quelli dei paesi di common law. Questi esempi mostrano che l'evoluzione giuridica, se esiste, non segue un processo lineare. Né è chiaro quale dei due sistemi potrebbe essere configurato con sicurezza come il più sviluppato. In effetti non è affatto acquisito che la nozione di evoluzione giuridica, nel senso di movimento di un sistema giuridico meno sviluppato verso uno di più avanzato sviluppo, abbia una qualche validità. Non esistono misure universalmente accettate di sviluppo giuridico che siano indipendenti da obiettivi sociali, economici e politici. Ciò rende difficile la discussione intorno all'evoluzione giuridica in astratto, senza riferimenti alle caratteristiche e alle tendenze della società all'interno della quale il sistema giuridico opera.

c) Diritto naturale.

L'espressione ‛diritto naturale' sintetizza una molteplicità di dottrine che hanno in comune la premessa secondo la quale gli esseri umani, singolarmente presi e in società, posseggono alcune caratteristiche naturali comuni che determinano somiglianze nelle strutture sociali, ivi comprese le leggi e i sistemi giuridici. Le differenze significative tra i sistemi giuridici sono, in questa prospettiva, una negazione di quanto vi è di comune nella natura umana. La convergenza dei sistemi giuridici rappresenta la tendenza verso una condizione nella quale la comune natura degli esseri umani è rispettata ed espressa dal diritto.

Le difficoltà di principio nei confronti del diritto naturale inducono a pensare, a proposito della convergenza dei sistemi giuridici, che sia la mancanza di accordo sulle caratteristiche comuni degli esseri umani e dell'umana società che determina, o dovrebbe determinare, le caratteristiche del sistema giuridico. Nell'ambito delle nazioni sia di common law che di diritto civile si verifica un'ampia varietà di opinioni divergenti sulla politica, sulla società e sull'economia. Questo disaccordo verte prevalentemente sulla natura dell'uomo e della società. L'argomento che vi è qualcosa di comune in tutti noi non ci fa progredire di molto se vi è poi un sostanziale disaccordo sulla natura di quel qualcosa di comune.

d) Diritto come sovrastruttura.

La tesi marxista secondo la quale il diritto è una semplice sovrastruttura e le realtà che governano la vita degli uomini si trovano del tutto al di fuori del diritto, cioè nell'economia, può essere espressa in termini generali nella definizione del diritto come prodotto sociale. Secondo questo modo di considerare la questione, le nazioni strutturate secondo sistemi e ideali simili in campo economico, sociale e politico dovrebbero presumibilmente sviluppare ordinamenti giuridici simili. Quindi le nazioni occidentali capitalistiche e borghesi avranno i medesimi sistemi giuridici borghesi e capitalistici con tendenze convergenti, mentre le società effettivamente socialiste, per esempio, avranno sistemi giuridici divergenti, che riflettono la diversa natura di un'economia, di una politica e di una società socialiste. Le differenze tra i sistemi giuridici socialisti e quelli occidentali sono, secondo tale argomento, fondamentali e inconciliabili; mentre, per esempio, le differenze tra i sistemi giuridici della Francia e dell'Inghilterra sono superficiali, semplici sovrastrutture.

Se è vero che le differenze giuridiche tra le nazioni che seguono la common law e quelle che seguono il diritto civile sono spesso semplici questioni di sovrastruttura, allora è più facile realizzare la convergenza; non si richiede alcun sacrificio di principio, non occorre che sia compromesso alcun interesse di grande rilievo. Tuttavia l'importanza della convergenza come obiettivo politico diminuisce grandemente; sembra poco importante che delle semplici sovrastrutture assomiglino l'una all'altra. Nulla di essenziale viene raggiunto da una convergenza di questo genere. Al contrario, se le differenze giuridiche tra nazioni di diritto civile e quelle di common law esprimono delle caratteristiche sociali e non sono delle semplici sovrastrutture, allora l'effettiva convergenza dei sistemi giuridici può essere raggiunta soltanto attraverso un mutamento sociale convergente. Se le nazioni cominciano a divergere politicamente, economicamente e socialmente, allora i loro sistemi giuridici diventeranno essi pure necessariamente meno simili tra loro.

e) Transazioni internazionali

Siano o no le differenze tra i sistemi giuridici delle semplici sovrastrutture, esse hanno importanti conseguenze pratiche. Complicano e ostacolano le comunicazioni, i viaggi e il commercio internazionali. L'eliminazione delle differenze tra i sistemi giuridici nazionali facilita le transazioni internazionali, aumenta il benessere generale, promuove la diffusione della cultura e guida a una reciproca comprensione in campo internazionale.

L'eliminazione delle divergenze superficiali al fine di facilitare le transazioni internazionali è relativamente poco costosa. Ma quando l'origine delle divergenze tra i sistemi giuridici è più profonda, la convergenza diviene un'impresa più costosa e più problematica. I benefici delle transazioni internazionali più facili devono essere posti a confronto con i costi rilevanti ai quali si va incontro per modificare quegli aspetti del nostro sistema giuridico che abbiano radici profonde in campo culturale, politico, sociale o economico. Inoltre è probabile che vi sia un inerzia di carattere conservatore, una tendenza a rimanere fedeli a quanto ci è familiare e a considerarlo organicamente radicato nella cultura piuttosto che semplice sovrastruttura. I giuristi sono portati a considerare i loro sistemi giuridici come qualcosa di importante. Essi tendono generalmente a resistere di fronte al tentativo di privare il loro ordinamento giuridico nazionale delle sue caratteristiche precipue. Bisogna ricorrere a un notevole sforzo di persuasione per superare questo genere di nazionalismo giuridico.

f) Integrazione internazionale.

La tendenza sempre crescente verso una formale integrazione internazionale in campo economico, sociale e politico, espressa nel modo più vistoso in Occidente con la creazione della Comunità Europea e la sottoscrizione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, parla in favore di una convergenza dei sistemi giuridici degli Stati membri. Le politiche comuni richiedono per la loro realizzazione delle norme, delle istituzioni e delle procedure giuridiche simili, e l'armonizzazione delle leggi degli Stati membri. Da quando ha avuto luogo l'ammissione del Regno Unito e della Repubblica d'Irlanda nella Comunità Europea, questo processo d'integrazione giuridica costituisce un fattore importante per la convergenza tra diritto civile e common law.

Questo genere d'integrazione internazionale implica un'azione armonizzatrice tra i sistemi degli Stati membri, come pure l'adozione di norme vincolanti per tali Stati, anche al loro interno. Per avere interpretazioni provviste di autorità dei trattati costitutivi e delle leggi dell'organismo integrato sono necessarie le decisioni giudiziarie di un tribunale non nazionale. L'opera di organi quali la Commissione e la Corte europea dei diritti dell'uomo e la Corte di giustizia della CEE rappresenta un'azione giuridica unificatrice, che avvicina sempre di più i sistemi giuridici degli Stati membri, siano essi di common law o di diritto civile.

Nel mentre si persegue il processo d'integrazione economica, si rivela come necessaria una certa misura d'integrazione sociale e, durante il processo d'integrazione economica e sociale, l'integrazione politica e giuridica diviene una meta prevedibile. Una visione ottimistica del processo verso un'integrazione internazionale lascia quindi supporre una confluenza finale tra common law e diritto civile. A sostegno di un tale ottimismo vi sono valide prove, particolarmente in Europa, dove si è indiscutibilmente verificato un progresso verso l'integrazione giuridica. Eppure gli scettici sostengono che quanto si è fatto in Europa è meno di quello che era stato preventivato e prevedono per il futuro un tasso di sviluppo più lento. Al di fuori dell'Europa, è poco percettibile in Occidente un movimento verso l'integrazione economica, sociale e politica sul terreno dei rapporti tra diritto civile e common law; i sistemi giuridici nazionali seguono le loro vie particolari, relativamente estranee all'opera delle Nazioni Unite o di organizzazioni regionali, quale l'Unione Panamericana. Perfino nell'ambito dei paesi di diritto civile, tentativi come il Central American Common Market hanno segnato il passo. La forza dell'integrazione internazionale nell'indurre alla convergenza dei sistemi giuridici è stata insomma facilmente sopravvalutata.

g) Semplicità e certezza.

In alcuni casi il desiderio di una convergenza dei sistemi giuridici non esprime altro che un'aspirazione alla semplicità. Esso risponde a uno scontento popolare nei confronti di una situazione di complessità e cerca di portare ordine dove vi è una diversità disordinata. Questo atteggiamento nei riguardi della diversità giuridica meriterebbe a malapena di essere notato e discusso - dal momento che è poco più che un'espressione della frustrazione di fronte al fatto che il mondo è complicato, disordinato e incerto - se non avesse radici così profonde nella psicologia umana. Esso è strettamente connesso a un eccessivo bisogno di certezza del diritto. Il fondamento psicologico ditale atteggiamento è stato studiato con risultati interessanti da J. Frank, e la ricerca di questo genere di certezza è stato uno degli obiettivi di principio del movimento del realismo giuridico negli Stati Uniti, movimento di cui Frank fu uno degli antesignani. Tra i giuristi del diritto civile, Jhering considerava l'idea di un diritto universale come un'aspirazione alla pietra filosofale.

La varietà delle dottrine che vi sono sottintese complica la discussione sulla convergenza, dal momento che il significato del concetto varia in maniera così vistosa. Considerare il rapprochement come un abbandono degli eccessi del nazionalismo giuridico è una cosa; vederlo come la semplice eliminazione di sovrastrutture è un'altra. Operare per rimuovere gli ostacoli alle transazioni internazionali è ragionevole, ma sembra futile cercare di mutare la direzione o il ritmo di un'evoluzione giuridica che si sottrae al controllo umano, o di perseguire un rapprochement giuridico allorché i sistemi sociali, politici ed economici sottintesi sono così drasticamente differenti come lo sono, per esempio, a Cuba e nella Nuova Zelanda. Di conseguenza, sembra più opportuno tralasciare la discussione delle dottrine della convergenza rinunciando a dimostrare la prevalenza o la preferibilità di uno dei punti di vista in contrasto. Ognuno ha la propria area di valida applicazione. In ognuno manca un esame adeguato di numerosi aspetti della questione.

3. Strategie di convergenza

Le strategie, o modelli, di convergenza tra common law e diritto civile si articolano in tre categorie principali: programmi attivi per l'unificazione del diritto, ‛trapianti' di istituzioni giuridiche e tendenza delle nazioni che hanno caratteristiche politiche, economiche e sociali simili a sviluppare sistemi giuridici simili (un processo questo che potrebbe essere definito come ‛convergenza passiva').

a) Unificazione del diritto

Di queste tre categorie è più facile illustrare la prima perché viene realizzata attraverso istituzioni internazionali specificamente intese a promuovere l'unificazione del diritto. Esempi di tali organismi sono: l'Istituto internazionale per l'unificazione del diritto privato a Roma (Institut International pour l'Unification du Droit Privé - UNIDROIT), la Conferenza dell'Aja sul diritto internazionale privato e la Commissione delle Nazioni Unite per il diritto commerciale internazionale. Inoltre, i programmi delle organizzazioni internazionali che si propongono scopi più ampi includono spesso tentativi di generalizzare o uniformare norme e pratiche giuridiche. Ciò è vero, per esempio, per la Comunità Economica Europea. Allo stesso modo, importanti elementi di unificazione giuridica sono presenti nei programmi di varie organizzazioni internazionali, come l'Organizzazione degli Stati Americani, la Commissione europea per i diritti dell'uomo, l'Organizzazione Internazionale del Lavoro e molte altre.

Le tecniche di unificazione del diritto comprendono una legislazione sovranazionale e decisioni giudiziarie che impegnino i singoli Stati e siano applicabili al loro interno; rientrano in questo ambito i regolamenti della Comunità Economica Europea e le decisioni della Corte di giustizia; le clausole dei trattati e delle convenzioni multilaterali (come la Convenzione internazionale sui diritti d'autore); le proposte per una legislazione uniforme che siano adottate all'interno di due o più Stati singoli (come il Diritto internazionale per la vendita dei beni). Lo scopo di tali provvedimenti può essere quello di risolvere problemi di giurisdizione, stabilire principi concordati che regolino la scelta del diritto applicabile alle transazioni internazionali o fornire le norme applicabili del diritto sostanziale e procedurale.

La strategia per l'unificazione del diritto ripone grande fiducia nella forza della legislazione e solleva una serie di problemi circa la possibilità e la desiderabilità di riforme ispirate a tradizioni straniere, problemi che furono discussi in Europa agli inizi dell'Ottocento nel contesto del dibattito Savigny-Thibaut.

Inoltre, il movimento per l'unificazione del diritto, storicamente, ma forse anche necessariamente, si incentra sulle norme giuridiche, e dipende quindi per l'uniformità nell'interpretazione e nell'applicazione di tali norme dalle diverse strutture, istituzioni e procedure giuridiche esistenti all'interno delle diverse nazioni. Da queste considerazioni derivano grossi interrogativi circa la misura nella quale l'unificazione del diritto ha probabilità di essere raggiunta al di fuori di poche aree ristrette, nelle quali vi sia un sufficiente consenso internazionale e identità di interessi (soprattutto nel commercio internazionale) per assicurare una comprensione comune e uno sforzo costante che permettano di raggiungere effettivamente simili risultati.

L'esperienza degli Stati Uniti riguardo al movimento per l'uniformità del diritto statale chiarisce assai bene i limiti e la complessità di una strategia per l'unificazione del diritto perfino in una società altamente omogenea come quella statunitense.

b) ‛Trapianti' giuridici

Il trapianto giuridico ha una lunga storia. Una tecnica comune è stata l'imposizione del diritto del conquistatore sul conquistato a seguito di una conquista militare. L'estensione del diritto romano durante l'espansione militare dell'Impero romano, l'imposizione del diritto francese in Europa durante le conquiste napoleoniche e la diffusione dei sistemi giuridici delle potenze colonizzatrici nell'epoca dell'imperialismo moderno ne sono degli esempi. Tutte le ex colonie mostrano segni evidenti di ‛trapianti' nei loro attuali sistemi giuridici, e in alcuni casi il risultato è stato quello di combinare elementi del diritto civile e della common law in un'unica giurisdizione; gli esempi più noti sono la Repubblica Filippina, il Quebec, la Luisiana e Porto Rico. In ognuna di queste cosiddette giurisdizioni ‛miste', dalla combinazione di influssi storici è nato un sistema giuridico ibrido, e ciascuno di essi rappresenta l'evolversi di un intenso processo di reale convergenza tra common law e diritto civile.

Il trapianto può avvenire attraverso una scelta consapevole: una nazione indipendente decide di importare una norma giuridica o un'istituzione o un codice. La motivazione consiste spesso nel desiderio di una nazione in via di sviluppo di modernizzare il suo sistema giuridico imitando, con quel trapianto, qualche aspetto del diritto di una nazione più sviluppata. Ne è un esempio l'adozione da parte dell'Etiopia di codici di tipo europeo, ivi compreso un codice civile fondato sul Codice napoleonico. Un altro esempio è l'adozione da parte della Colombia dell'Uniform negotiable instruments law degli Stati Uniti; l'adozione di sistemi giuridici unificati, un capo dell'Esecutivo eletto per un periodo prefissato, costituzioni rigide e una revisione giudiziaria dell'attività legislativa e amministrativa, diffusa in molte nazioni dell'America Latina sul modello degli Stati Uniti, rappresentano ulteriori esempi di questo fenomeno. In effetti, il modello francese di codificazione e il modello di costituzione degli Stati Uniti costituiscono i trapianti giuridici più largamente diffusi nella storia moderna.

I trapianti giuridici tra common law e diritto civile vanno evidentemente nella direzione di una convergenza dei due sistemi. Il numero e la varietà di tali trapianti non sono mai stati adeguatamente descritti, e sarebbe difficile compilarne una lista esauriente. Sembra probabile che l'influsso dei trapianti giuridici sulla convergenza dei due sistemi sia stato maggiore di quello esercitato dal movimento per l'unificazione del diritto, anche se spesso vi è stato disaccordo circa il ‛successo' di questi trapianti giuridici e la valutazione di tale successo nei diversi casi. Si può rilevare, ad esempio, che l'adozione diretta del sistema britannico di procedura penale da parte della Francia subito dopo la Rivoluzione fu un fallimento. I Francesi ritennero subito necessario modificare il sistema in armonia con le proprie tradizioni di procedura penale, anche se alcune vestigia di questo tentativo di trapianto inglese sopravvivono ancora. È un fatto storico che non sorprende nessuno il completo fallimento in Colombia della Uniform negotiable instruments law, largamente diffusa invece negli Stati Uniti. Si sa che i codici etiopici non hanno avuto una penetrazione profonda se non nell'oligarchia cosmopolita della capitale. D'altro canto, il meccanismo di revisione giudiziaria nato dal tentativo di trapiantare il modello degli Stati Uniti sembra operare bene in alcune nazioni latino-americane. Alcuni aspetti del trust, questo particolare istituto del diritto anglosassone, sono stati adottati in numerose nazioni di diritto civile e vi svolgono un ruolo importante. Il diritto commerciale, che deriva dal diritto civile, nel XVIII secolo è stato innestato con successo nella common law. Il condominio, concetto che si è sviluppato nell'ambito del diritto civile, è stato largamente adottato negli Stati Uniti senza alcuna sostanziale difficoltà. Lo stesso può dirsi del sistema della comunità dei beni, estraneo alla common law e adottato in molte giurisdizioni americane.

Ancora più importante è la questione, del tutto irrisolta, se i trapianti realizzati ‛con successo' abbiano sortito effetti benefici o dannosi. Tutto questo argomento è stato ridiscusso recentemente da J. H. Beckstrom e A. Watson e nel dibattito tra Watson e O. Kahn-Freund. Un aspetto importante e fondamentale della discussione si esprime nella diversa valutazione storica. Coloro che sono entusiasti del trapianto mirano all'introduzione di codici dell'Europa occidentale in Cina, in Giappone, in Turchia e in Etiopia. Quanti invece sono scettici argomentano che queste ‛recezioni' hanno avuto nel migliore dei casi soltanto un successo parziale, hanno richiesto un enorme sforzo e un enorme investimento di risorse e possono essere state di minore efficacia e aver richiesto costi maggiori che non le strategie alternative di riforma giuridica. Non v'è una via facile per risolvere la questione.

c) Convergenza passiva

Secondo questa tesi, come le società divengono sempre più simili tra loro, così anche i loro sistemi giuridici tenderanno a divenire sempre più simili. La maggior parte delle nazioni di diritto civile e di common law sono democrazie occidentali borghesi a struttura capitalistica, almeno per quanto concerne la forma costituzionale. Ci sono forze operanti nel mondo che tendono verso un'ulteriore omogeneizzazione di queste culture: l'aumento delle comunicazioni e dei viaggi internazionali, l'accresciuto commercio internazionale, lo sviluppo del numero e dell'estensione delle organizzazioni internazionali, l'accresciuta internazionalizzazione degli affari e della tecnologia, la sempre maggiore consapevolezza delle conseguenze internazionali di fenomeni un tempo considerati come nazionali (per es., l'inquinamento, il controllo delle risorse energetiche, la proliferazione nucleare ecc.), l'incremento degli scambi nel campo delle arti, dell'istruzione e degli studi. Queste tendenze contribuiscono allo sviluppo di una cultura internazionale comune alle nazioni occidentali.

La tendenza del diritto civile e della common law verso la convergenza non dipende in generale da deliberati tentativi per imporre l'unificazione e neppure da forme di ‛trapianto', ma soltanto dal fatto che nazioni simili tra loro per aspetti importanti tendono ad avere problemi simili e ad arrivare a sistemi giuridici simili nell'affrontare tali problemi. Si possono facilmente fornire degli esempi: la tendenza piuttosto diffusa tra le nazioni occidentali, sia di diritto civile che di common law, a fornire all'imputato una forma di tutela simile nei procedimenti penali; una tendenza analoga, nell'ambito delle due tradizioni giuridiche, verso l'estensione dell'assistenza legale a individui bisognosi; l'adozione diffusa di un'imposta progressiva sul reddito; uguali controlli sugli affitti delle unità abitative nei centri urbani; una crescente uniformità nella definizione e nella protezione dei diritti individuali; la recente tendenza in molte nazioni di diritto civile verso un attivismo giudiziario caratteristico della common law; la rapida diffusione in questo secolo di una revisione giudiziaria della legislazione; altri esempi potrebbero essere facilmente aggiunti.

Questo è sufficiente per dimostrare che le principali e costanti tendenze verso la convergenza giuridica (assumendo come stabile la situazione politica) sorgono da una convergenza culturale e la seguono. Per chi concepisca il diritto come un prodotto sociale, come qualcosa che si sviluppa naturalmente dalla vita stessa del popolo al quale esso viene applicato, questa forma di convergenza risulta come la più convincente di tutte.

Una conferma negativa di questa conclusione si può ricavare dalla proposizione contraria: nazioni che sono sostanzialmente differenti nel loro orientamento avranno con probabilità sistemi giuridici divergenti. Ciò è particolarmente vero se le nazioni prese in esame si riconoscono diverse e sentono la necessità di porre in risalto, e perfino di esagerare, queste differenze. Ciò è stato più volte notato nei riguardi dell'Unione Sovietica, dove gli studiosi insistono in modo particolare sul carattere fondamentale delle divergenze esistenti tra il loro sistema giuridico e quelli del mondo occidentale non socialista. Dal momento che il sistema giuridico sovietico si è sviluppato, dal punto di vista storico, dal diritto civile del quale conserva molte caratteristiche, vi sono fondati motivi per affermare che il diritto sovietico, in fondo, non è sostanzialmente differente dal diritto occidentale. Tuttavia non si può negare che la ‛socializzazione' ha allontanato il diritto sovietico dalla ‛via maestra' del diritto civile. Non soltanto sono identificabili dei concetti giuridici che assumono un significato diverso nell'ambito del sistema sovietico, ma sono anche emersi molti nuovi istituti e concetti, peculiari al diritto sovietico, che non hanno equivalenti funzionali nei sistemi occidentali. Si pensi, per esempio, alla Soviet Advokatura, al ruolo dominante del partito, ai kolchoz e ai sovchoz, all'uso dell'Artibrazh per definire dispute tra unità economiche impegnate nelle operazioni di produzione e di mercato, alla struttura del diritto di proprietà, secondo la quale tutta la terra è posseduta dallo Stato, e così via.

La convergenza passiva è senza dubbio il metodo più efficace di convergenza dei diritti, superiore, per la profondità e per la costanza delle sue conseguenze, sia al trapianto giuridico che a un'attiva unificazione. Trapianto giuridico e unificazione dei diritti sono spesso solamente dei modi per formalizzare un consenso giuridico già raggiunto attraverso un rapprochement politico-culturale. Sempre più raramente trapianto giuridico e tentativi per l'unificazione attiva del diritto influenzeranno in misura sensibile l'intensità e la direzione del mutamento giuridico nelle nazioni di common law e di diritto civile. In tal senso, lo spazio per una convergenza puramente giuridica, indipendente dal movimento delle forze economiche, sociali e politiche, è uno spazio ridotto. Entro questo spazio la convergenza tra diritto civile e common law è un obiettivo che i giuristi, in quanto tali, possono responsabilmente e fruttuosamente cercare di raggiungere. L'esistenza di ampie aree di consenso culturale, sociale e politico induce a pensare che lo spazio per un'attiva convergenza giuridica tra le maggiori nazioni occidentali sia relativamente ampio. L'esperienza dei trapianti giuridici e dell'unificazione dei diritti tra le maggiori nazioni occidentali indica che perfino in tali favorevoli condizioni il progresso verso la realizzazione della convergenza attraverso metodi attivi è penosamente lento.

4. Convergenza e divergenza.

Due forze opposte sono all'opera nell'ambito della società internazionale. Una forza, che opera per una forma di unificazione universale, vistosamente espressa nella creazione e nell'opera delle Nazioni Unite e del Mercato Comune Europeo, spinge le nazioni a divenire più simili. Oggi le regioni del mondo divengono sempre più interdipendenti, gli affari e la tecnologia sempre più internazionalizzati, la gente e l'informazione conoscono spostamenti sempre più rapidi e sempre più liberi. Estrapolando da questi fenomeni si potrebbe prevedere con tranquillità (e molti lo hanno fatto) il sorgere di una vera comunità internazionale, uno Stato mondiale e una common law dell'umanità.

Tuttavia, perfino nell'ambito di nazioni geograficamente simili, strutturate secondo sistemi economici, sociali e politici simili, e che hanno in comune la stessa tradizione culturale complessiva, vi sono forze tendenti a provocare una divergenza dei sistemi giuridici. Kahn-Freund definisce questi fattori come fattori ‛politici' opponendoli ai fattori ‛ambientali'. La distinzione fu fatta da Montesquieu, per il quale i fattori ambientali includevano gli influssi geografici, sociali, economici e culturali, mentre i fattori politici si riferivano alla natura del governo. Kahn-Freund accetta ed elabora la distinzione, dilatando il ‛politico' fino a includervi la natura, la varietà e la portata degli interessi organizzati che operano all'interno di una nazione (affari, agricoltura, lavoro, organizzazioni dei consumatori, gruppi religiosi, opere assistenziali e così via) i quali, pur non facendo parte formalmente del governo, esercitano un'importante influenza sul modo in cui il governo opera. Il numero, la distribuzione, la relativa ricchezza e potenza ditali interessi varieranno da un paese all'altro, anche tra nazioni con sistemi politici formalmente simili. Tali differenze politiche interne avranno importanti influssi sui sistemi giuridici nazionali, e tenderanno a dar luogo a pluralismi e diversità, piuttosto che a somiglianze.

Una fonte di divergenza a questa connessa è l'importanza che nelle nazioni occidentali viene data al decentramento e alla differenziazione all'interno dei governi nazionali. Queste forze sono particolarmente importanti oggi nell'Europa occidentale, e un fenomeno simile - lo Home rule movement (Movimento per il governo locale) - si verificò negli Stati Uniti nella seconda decade di questo secolo, determinando una sostanziale ridistribuzione del potere tra lo Stato e i livelli locali. L'impulso verso il decentramento è di grande importanza, esplicitamente fondato sulla premessa secondo la quale gli interessi e le esigenze locali sono di volta in volta diversi e richiedono una regolamentazione locale indipendente. Si tratta di una significativa tendenza ad abbandonare l'universo giuridico semplificato sorto con la Rivoluzione francese, nel quale esistevano soltanto l'individuo e lo Stato. La rinascita di istituzioni intermedie di governo, sotto forma di regioni, province, comuni, contee e città, provviste di un potere legislativo sostanziale, complica il sistema giuridico, introduce una varietà disordinata dove esisteva una precisa uniformità, limitando in tal modo l'area di una possibile convergenza.

Una forza potente opera quindi in direzione del particolarismo, una forza che si oppone all'uniformità, alla standardizzazione, alla perdita di quelle caratteristiche con le quali i popoli si definiscono e determinano la loro specifica identità. Riscontriamo ciò nell'importanza data ad attributi specifici di politica, storia, lingua e cultura. Quello che più ispira la devozione dei popoli è connesso con legami regionali, etnici, organizzativi, religiosi, di lavoro, di classe, di sesso, di età, come pure con altre determinazioni sociali, politiche e ideologiche. Gli Scozzesi e i Gallesi in Gran Bretagna, i Bretoni in Francia, i Baschi e i Catalani in Spagna, gli abitanti del Quebec in Canada, sono soltanto alcuni dei possibili esempi dell'aspirazione a un riconoscimento etnico in termini politici.

Un'interpretazione di tutto questo è che, dopo secoli di statalismo, sia oramai in fase di declino l'importanza esagerata attribuita allo Stato. Da un'epoca in cui tutto il potere politico e giuridico era accentrato nello Stato, ci si sta ora muovendo verso una più uniforme distribuzione del potere, secondo un ventaglio che va dal singolo individuo, titolare dei diritti individuali, alle organizzazioni sovranazionali, passando attraverso governi locali, organizzazioni intermedie e Stati. Se questo è effettivamente quanto sta accadendo, allora parlare della convergenza dei sistemi giuridici statali significa assumere una visione parziale e distorta del problema. La ridistribuzione della sovranità - quindi dell'autorità politica e giuridica - non è un processo unidirezionale. Alla domanda se i sistemi giuridici, e in particolare il diritto civile e la common law, siano convergenti, la risposta deve essere affermativa. Ma essi sono anche divergenti; entrambi i processi si stanno verificando contemporaneamente. Se riusciamo a immaginare questa realtà, e se ammettiamo che essa possa svilupparsi, il frutto della tendenza attuale potrebbe essere quello di un sistema giuridico nello stesso tempo universale e altamente pluralistico.

Se queste due forze operano in effetti più o meno simultaneamente, diviene allora interessante cercare di scoprire se esse influenzino tipi differenti di interessi in modo diverso. A questo fine si può proporre una distinzione tra questioni giuridiche di interesse prevalentemente locale o transnazionale e affermare che la convergenza ha maggiori probabilità di verificarsi nei riguardi delle seconde. Una tale distinzione tra interessi locali e interessi transnazionali diviene facilmente una distinzione di misura; sembra probabile che tutte le questioni giuridiche abbiano un qualche significato transnazionale in quanto influenzano, anche se in maniera assai debole e attenuata, delle istituzioni straniere. Invece di due distinte categorie, locale e transnazionale, vi è un continuum. Così, per dare un esempio limite, i regolamenti automobilistici del traffico locale di un remoto villaggio dell'Athabaska nel Canada nordoccidentale preoccupano poco l'automobilista italiano medio, ma si può statisticamente prevedere che, con il passar del tempo, un certo numero di automobilisti italiani in viaggio transiteranno attraverso quel villaggio. Se quei regolamenti sono da considerare inconsueti rispetto ai modelli internazionali, è presumibile che sia da loro violato un legittimo interesse internazionale.

La misura dell'interesse transnazionale per quanto riguarda le questioni regolate dal diritto locale è quindi soltanto una variabile di rilievo nella discussione sulla desiderabilità e probabilità della convergenza dei diritti. Ugualmente importante come variabile è la forza dell'attaccamento verso norme e istituti giuridici locali. Il ‛campanilismo' giuridico deriva dall'orgoglio della propria cultura e delle proprie tradizioni, dall'attaccamento a una specifica dottrina economica, politica e religiosa, dalle basi stesse dello Stato nazionale e dalla sfiducia verso idee e influssi stranieri, comune a ogni tipo di popolazione, eccezion fatta per le più cosmopolite. Questa tendenza varia anche tra un livello relativamente basso e uno molto accentuato, e appare ovvio che, quanto maggiore sarà l'attaccamento verso il diritto locale, tanto meno facile sarà la realizzazione della convergenza.

Queste proposizioni possono essere illustrate da una semplice tabella, in cui F significa ‛forte' e D ‛debole'; ogni quadrante di questa tabella rappresenta una combinazione di due forze: il grado dell'interesse transnazionale (che provoca una ‛spinta' verso la convergenza) e il grado del ‛campanilismo' giuridico (che provoca un ‛allontanamento' dalla convergenza).

Tabella

Il primo quadrante (D, D) rappresenta il caso in cui sia la spinta verso la convergenza sia la resistenza nei suoi nguardi sono deboli; è il caso che, dal nostro punto di vista, presenta minor interesse. Il secondo quadrante rappresenta il caso in cui la convergenza è meno probabile: il ‛campanilismo' giuridico è forte e l'interesse transnazionale è debole. Il diritto che regola l'organizzazione giudiziaria potrebbe essere un esempio lampante di questo caso. I Francesi sono attaccati al loro Conseil d'État e alla Cour Suprème de Cassation; gli Americani alla loro Supreme Court. Nessuno dei due desidera indurre l'altro a imitarlo. Il terzo quadrante presenta il caso più accentuato di convergenza: un debole ‛campanilismo' e un forte interesse generale. Il diritto che regola i titoli di credito (bills of exchange) ne è un esempio rilevante, come pure numerosi altri aspetti del diritto che sono strettamente connessi al commercio internazionale.

Infine, il quarto quadrante illustra il difficile caso di un forte interesse per la convergenza e di una forte resistenza ‛campanilistica' nei suoi riguardi. Le leggi sul rispetto dei diritti umani ne sono forse i migliori esempi: presentano infatti un consenso internazionale piuttosto accentuato a sostegno di tali diritti (e della loro protezione giuridica) e una notevole resistenza alla loro effettiva applicazione all'interno di molte nazioni. Un altro esempio potrebbe essere quello delle leggi per il rispetto dell'ambiente: la preoccupazione per il grado d'inquinamento dell'atmosfera e dei mari e per la possibile irreversibilità di questi fenomeni è molto accentuata, ma vi è di contro un forte interesse nazionale per la conservazione dell'autonomia relativamente alle acque territoriali e all'atmosfera.

Questa semplice analisi degli interessi serve soltanto a illustrare in che misura le discussioni sulla convergenza tra diritto civile e common law possano risultare fuorvianti in quanto distolgono l'attenzione dalle forze di divergenza. Queste forze sono costantemente all'opera. A mano a mano che i diritti individuali ottengono in Occidente crescenti riconoscimenti giuridici e protezioni, una componente sostanziale della sovranità giuridica passa dallo Stato alla persona, ampliando la sfera dell'individualismo giuridico. Via via che aumentano il numero e l'autonomia delle organizzazioni private giuridicamente riconosciute, il potere statale si trasferisce effettivamente ad amministrazioni private che esercitano un grande peso giuridico su numerosi gruppi di persone e su ampie parti della ricchezza; corporazioni, partiti politici e organizzazioni di lavoro ne sono esempi importanti. Col trasferimento del potere dello Stato alle amministrazioni locali e regionali si allarga l'ambito dell'espressione giuridica dei molteplici interessi particolari e locali. Questi processi, che si attuano in tempi diversi nelle singole nazioni, rendono più ricche le strutture dei sistemi giuridici occidentali, e inoltre le rendono più complesse e interessanti, più eterogenee di quanto non fossero un secolo fa. Il movimento tende a una diversità e a una complessità interne, e il fatto che esso si produca più o meno simultaneamente nelle nazioni occidentali dimostra che per alcuni aspetti importanti questi sistemi giuridici sono divergenti.

5. Principî generali del diritto

Il Codice civile austriaco del 1811 elenca ‟i principi del diritto naturale" come principale strumento di interpretazione. L'art. 12 delle norme preliminari sul diritto in generale del Codice civile italiano del 1942 si riferisce, a questo stesso fine, ai principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato". Il Codice civile spagnolo del 1888 cita i ‟principî generali del diritto" nell'art. 6, par. 2. In ogni caso i riferimenti ai principi generali del diritto sono decisamente in aumento. Nella loro opera, i tribunali nazionali si rifanno con sempre maggiore frequenza ai principî generali del diritto: il Conseil d'État francese costituisce un esempio eminente di queste tendenze. L'art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia cita ‟i principî generali del diritto riconosciuti dalle nazioni civili" come una fonte del diritto. I trattati della CEE (art. 215) e dell'EURATOM (art. 188) menzionano i ‟principî generali comuni delle leggi degli Stati membri" come fonti del diritto che disciplina la responsabilità per gli atti illeciti compiuti dalle istituzioni comunitarie, e la Corte di Giustizia della comunità si serve di quel concetto anche in altri contesti come di una fonte del diritto. Un obiettivo del diritto comparato comunemente condiviso alla fine del XIX secolo consisteva nell'identificare e restaurare i principî generali del diritto servendosi dei metodi della scienza giuridica. Recentemente R. B. Schlesinger ha diretto un qualificato gruppo di studiosi per una ricerca su ‟l'essenza comune dei sistemi giuridici".

A livello nazionale, il concetto di ‟principî generali del diritto" può riferirsi al diritto naturale cattolico romano, come avviene nel Codice civile austriaco; ai principî positivistici indotti dai metodi della scienza giuridica (nel Codice civile italiano); al contenuto di uno specifico documento storico, come fa il Conseil d'État francese con le Dichiarazioni dei diritti dell'uomo e del cittadino (nel preambolo alle Costituzioni del 1958 e 1946). Da un punto di vista storico questi principî generali ‛nazionali' sono stati sia strumenti che risultati di quelle unificazioni che diedero origine agli Stati moderni dell'Europa. Essi hanno prodotto un certo grado di consenso giuridico e l'impulso verso un consenso maggiore; in tal modo i principî generali hanno avuto una funzione importante in questo primo rapprochement giuridico a livello nazionale.

Una notevole aspirazione a principî generali che trascendessero i limiti dei sistemi giuridici nazionali iniziò ad affermarsi nella seconda metà del secolo scorso con la creazione a Parigi, nel 1869, nella Societé de Législation Comparée, seguita ben presto da organizzazioni simili in altre nazioni e dal Congresso di diritto comparato che si tenne in occasione dell'Esposizione internazionale di Parigi del 1900. Le premesse intellettuali di questo movimento furono create da Hegel, da Savigny, dalla Scuola Storica e dalla scienza giuridica tedesca. Pur se mosso in parte da motivi pratici più immediati, il movimento fu anche alimentato dalla visione di una convergenza giuridica (e politica), e l'identificazione e la restaurazione dei principî generali del diritto comuni alle diverse nazioni rappresentarono un obiettivo importante per gli studiosi del diritto comparato dell'epoca. Anche oggi esso costituisce un importante motivo di interesse per gli studiosi del diritto comparato (e sovranazionale).

L'importanza della ricerca di principî generali del diritto per uno studio della convergenza tra common law e diritto civile è assai complessa. Da un lato, l'identificazione e la restaurazione di tali principî contrassegnano le aree che i differenti sistemi giuridici hanno in comune. Dall'altro, determinare i confini delle aree di accordo incoraggia gli sforzi diretti a colmare gli spazi vuoti al loro interno e a precisare e regolare questi stessi confini; si determina in questo modo un processo di rapprochement interstiziale. In terzo luogo, quando tali principî siano chiaramente e autorevolmente determinati, di essi si possono servire con fiducia i tribunali (e le altre istituzioni giuridiche) e la consuetudine del loro uso in alcuni casi può incoraggiare presumibilmente il desiderio di averne in numero maggiore. In sintesi, l'interesse per i principî generali del diritto è contemporaneamente misura della convergenza delle norme giuridiche e, in condizioni favorevoli, stimolo per una convergenza ulteriore.

I principî generali, quando derivino da un'effettiva pratica giuridica all'interno di una molteplicità di sistemi, posseggono un'ulteriore funzione valida: precisano la distribuzione del potere giuridico tra interessi locali e interessi generali, aiutando così a risolvere il problema di come generalizzare e, nello stesso tempo, regolare la crescente tendenza verso il pluralismo giuridico. Lungo questa strada un certo aiuto viene fornito dall'esperienza delle nazioni a base federale, come la Germania Occidentale, la Svizzera e gli Stati Uniti. In ognuna di queste nazioni si conserva un equilibrio tra interessi nazionali, statuali e locali, e tra ordinamenti pubblici e privati dei rapporti giuridici. Per definizione, tuttavia, si tratta di soluzioni ‛nazionali' del rapporto tra pluralismo e generalizzazione. Nell'area transnazionale si vengono ad aggiungere ulteriori elementi di complessità e i principî generali del diritto validi, per esempio, tra le nazioni del Mercato Comune o tra gli aderenti alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo sono, sotto questo aspetto, di un ordine differente. Un processo di partecipazione totale a questi tentativi sovranazionali non implica soltanto un ‛trapasso di sovranità' dalla nazione all'organizzazione sovranazionale; comprende anche un accordo sui principî del diritto che possono essere applicati ai popoli e alle organizzazioni delle nazioni partecipi di questi tentativi senza ostacolare indebitamente le loro molteplici autonomie; in altre parole, senza una seria riduzione delle loro possibilità di pluralismo giuridico. Questi sono i più seducenti ‛principî generali del diritto' e l'esperienza dei tentativi (non sempre coronati da successo) di dar loro sviluppo nell'ambito della Comunità Europea offre un sobrio antidoto contro un indebito ottimismo nei confronti dell'unificazione del diritto, del trapianto degli istituti giuridici e della tendenza verso uno spontaneo rapprochement dei sistemi giuridici.

In questo senso, i principî generali del diritto riconosciuti dalle nazioni di diritto civile e da quelle di common law contrassegnano i limiti entro i quali i sistemi giuridici nazionali e subnazionali dei due gruppi intendono di solito operare (se si esamina il diritto soltanto ‛nella teoria') o effettivamente operano (se si considera il diritto nella realtà). Essi sono analoghi alle disposizioni costituzionali; in questo senso un principio generale del diritto appartiene alla categoria delle norme fondamentali. Qualora rientri in un trattato multilaterale o sia promulgato da un potere sovranazionale, un tale principio generale contempla una vasta gamma di metodi per la sua applicazione e ne lascia la scelta, entro certi limiti, all'orientamento prevalente a livello nazionale e subnazionale. Se il principio generale nasce invece come risultato di un'induzone ricavata dai sistemi giuridici che operano all'interno delle singole nazioni, esso astrae dalla varietà delle loro norme e pratiche particolari quanto essi hanno in comune - quella che Schlesinger definisce la loro essenza comune. In breve, i principî generali del diritto rappresentano un modo per sintetizzare l'equilibrio esistente tra le forze di propulsione e quelle di resistenza.

All'interno di ogni sistema giuridico, le singole norme sono in rapporto, spesso in forme molto complesse, con altre norme, e il procedimento con il quale si ricava un principio generale rischia di separare tale principio dal contesto che gli dà significato. Si consideri, per esempio, la norma esistente negli Stati Uniti secondo la quale l'imputato in un processo penale non ha bisogno di testimoniare in tale procedimento e nessuna deduzione di colpevolezza può essere ricavata dal suo rifiuto. In molte nazioni di diritto civile l'imputato in un processo penale può essere sottoposto a interrogatorio sia durante la fase istruttoria che al processo, e possono essere tratte deduzioni dal suo rifiuto di comparire. In questo caso non sembrerebbe esservi alcun fondamento comune. La norma applicata negli Stati Uniti, tuttavia, rappresenta il risultato di molteplici premesse: l'esigenza che l'imputato in un processo penale, se testimonia, lo faccia sotto giuramento; il privilegio costituzionale contro l'autoincriminazione; la redazione di un verbale scritto durante lo stesso processo, piuttosto che in una precedente fase istruttoria; l'interrogatorio diretto e in contraddittorio durante lo svolgimento del processo. Il criterio proprio del diritto civile si ispira alla norma in base alla quale l'imputato non è sotto giuramento e non è potenzialmente colpevole di spergiuro qualora egli menta, e alla mancanza di sorpresa e di spontaneità che caratterizzano la fase del dibattimento. Si può generalizzare affermando che, in un processo penale, nessuno dei due sistemi pone all'imputato la scelta tra rischio di essere incolpato per spergiuro e rischio di autoincriminazione. Se le cose stanno in questi termini, abbiamo identificato un principio generale del diritto, ma chiunque abbia familiarità con procedimenti penali nei due sistemi giuridici troverà scomodo questo principio. Troppe cose ne rimangono escluse e, nello stesso tempo, esso si presta facilmente a incomprensioni e ad applicazioni erronee.

Generalizzazioni di questo tipo implicano quindi notevoli lacune sia d'informazione che di significato. Per quanto attentamente quel principio venga espresso, per quanta sensibilità si ponga nel desumerlo dal contesto proprio dei differenti sistemi, una distorsione è inevitabile. È importante proteggere la concretezza contro la spinta verso l'astrazione; il particolare contro l'impulso alla generalizzazione; l'eccezione contro la norma. Anche se l'interesse alla convergenza è limitato alle norme giuridiche, la deduzione di principî generali del diritto rappresenta un'impresa rischiosa.

La ricerca di principi generali del diritto condivisi dalle nazioni di diritto civile e da quelle di common law rappresenta quindi il contrario di un trapianto giuridico. L'identificazione e l'affermazione di un principio generale astraggono la norma dal suo contesto originale e in tal modo inevitabilmente la distorcono; il trapianto immette la norma in un contesto estraneo e quindi inevitabilmente la trasforma. L'unificazione del diritto incontra le stesse difficoltà; la norma ‛uniforme', recepita in contesti diversi, significa inevitabilmente cose diverse. Le norme dipendono da altre norme per il loro significato e questo pone un limite importante agli sforzi verso la convergenza. Se la nozione di diritto viene estesa dalle norme fino a includere altri aspetti dei sistemi giuridici, l'importanza del contesto come fattore che limita la convergenza diviene anche maggiore.

6. Norme giuridiche e sistemi giuridici

Le norme giuridiche sono ciò che la maggior parte delle persone considera come leggi, e buona parte del lavoro degli studiosi di diritto comparato è dedicata alla descrizione e alla valutazione di tali norme. Molte delle divergenze tra i sistemi giuridici sono espresse in termini di norme e lo sforzo verso l'unificazione del diritto è orientato per lo più in senso normativo. Ma vi è un aspetto molto importante rispetto al quale una concentrazione sulle norme risulta superficiale e fuorviante: superficiale perché le norme si trovano propriamente alla superficie dei sistemi giuridici, le vere strutture dei quali sono altrove; fuorviante perché siamo indotti ad affermare che, se si fa in modo che le norme si assomiglino tra loro, si è compiuto un passo avanti significativo sulla strada di un rapprochement.

La determinazione della norma è più rigida nella cultura che si fonda sul diritto civile rispetto a quella che si fonda sulla common law; questo avviene per il carattere particolare e per la straordinaria fortuna della codificazione francese (normativa) e della scienza giuridica tedesca del XIX secolo (anch'essa normativa). Quella determinazione fu con facilità e naturalezza trasferita nel diritto comparato continentale del XIX secolo (chiamato in quell'epoca ‛legislazione comparata', indicandosi così tanto il particolare rilievo attribuito alle norme quanto la propensione a considerare la legislazione come loro fonte principale). Poiché il diritto comparato come campo di ricerca è nato in Europa, non meraviglia scoprire che il rispetto per le norme e la relativa carenza di attenzione per gli altri aspetti del diritto sono attributi preminenti dell'opera di tutti quei giuristi che si sono occupati di diritto comparato. Il diritto comparato arriva tardi a un qualche scetticismo nei confronti della norma.

Parlare di convergenza dei sistemi giuridici presuppone l'esistenza di importanti differenze tra loro. La concentrazione dell'interesse sulle norme restringe l'attenzione a un solo tipo di differenze e rende uguali, fino a confonderli, ‛sistema giuridico' e ‛norme giuridiche'. Una più appropriata definizione di ‛sistema giuridico' dovrebbe invece includere molti altri elementi: estensione giuridica, penetrazione giuridica, cultura giuridica, strutture giuridiche, operatori giuridici e processi giuridici. Si tratta di concetti che sono strettamente connessi tra loro, ciascuno dei quali è ulteriormente collegato alla forma e al contenuto delle norme giuridiche di un determinato sistema. Come altri sistemi sociali, il sistema giuridico è limitato e le sue componenti sono legate da una logica interna. L'estensione e la penetrazione giuridiche servono a stabilire i confini del sistema giuridico; la cultura giuridica ne costituisce la logica interna; le strutture giuridiche, gli attori e i processi giuridici illustrano le sue parti costitutive e il modo in cui esse operano.

In ogni società è notevole la parte lasciata alle consuetudini e alle tradizioni, alla religione, alle trattative e agli accordi informali, alle convenzioni sociali e alle influenze della stessa natura, ma la determinazione dei confini tra tali interessi non giuridici e quelli giuridici con ogni probabilità non sarà sempre ed esattamente la stessa. L'entità delle differenze diviene particolarmente importante se identifichiamo il diritto con il sistema giuridico ufficiale, diretto e amministrato dallo Stato; la misura nella quale quel sistema si sforza di penetrare e controllare la vita sociale è spesso del tutto diversa dal grado in cui ciò realmente avviene. Per esempio, molti Guatemaltechi, Brasiliani, Etiopi e Congolesi conducono una vita relativamente libera da ogni contatto effettivo con il sistema giuridico ufficiale; tale sistema si applica effettivamente con maggiore efficacia all'oligarchia urbana, mentre perde rapidamente il suo potere man mano che si discende la scala socio-economica e ci si allontana dalle principali città. In molte di queste nazioni il sistema giuridico scritto può apparire assai simile a quello della Francia, della Spagna, dell'Italia, dell'Inghilterra o degli Stati Uniti; ma se si osserverà il ruolo effettivo svolto dal diritto nell'esistenza di larghi strati di quella popolazione, la somiglianza risulterà soltanto superficiale.

Pertanto, lungo queste due dimensioni, gli aspetti della vita sociale che il diritto intende influenzare e la misura in cui ciò effettivamente avviene, il grado di divergenza tra l'estensione giuridica e la penetrazione giuridica in quelle società può essere, e spesso è, sostanziale. Influenza sociale e presa sociale del diritto sono entrambe variabili importanti.

Per ‛cultura giuridica' si intendono quegli atteggiamenti storicamente condizionati e profondamente radicati che riguardano la natura del diritto, la struttura e il funzionamento propri di un sistema giuridico, e che sono prevalenti in una determinata società. Il diritto è, tra l'altro, un'espressione della cultura; le idee sul diritto sono parte della storia intellettuale di un popolo. Tali idee sono molto forti; limitano e indirizzano la riflessione sul diritto e in tal modo influiscono profondamente sulla composizione e sul funzionamento del sistema giuridico. Esempio preminente di queste realtà sono le differenze di opinione sul ruolo dei giudici nel diritto civile e nella common law; ma ve ne sono molti altri: gli effetti dell'esistenza di tribunali di diritto e di equità durante il periodo formativo della common law; il conflitto nella Francia prerivoluzionaria tra il re e i parlements provinciali; il ruolo della giuria popolare nella common law; la resistenza alle influenze del diritto romano in Inghilterra durante il periodo formativo della common law; l'elenco potrebbe non avere fine. Le diversità nei sistemi giuridici moderni possono spesso essere spiegate soltanto in rapporto a questi influssi socio-cuturali che conservano ancora oggi un peso rilevante.

I tribunali, i corpi legislativi, gli uffici amministrativi, le facoltà giuridiche e le associazioni degli avvocati rappresentano tutti esempi ben noti di strutture giuridiche. Tali strutture sono le unità complesse che rendono operante il sistema; la loro composizione e i loro attributi variano grandemente nei diversi sistemi giuridici: si può, per esempio, porre a confronto il sistema tedesco dei tribunali supremi federali e la Corte Suprema degli Stati Uniti. Per ‛operatori del diritto' si intendono i ruoli professionali svolti da quanti partecipano al sistema: avvocati, notai, funzionari di polizia, giudici, funzionari amministrativi, professori di materie giuridiche ecc. Anche in questo caso vi sono sostanziali aree di divergenza: si pensi al notaio e al giudice istruttore del diritto civile che non hanno alcuna figura corrispondente nella common law. Per ‛procedimenti giuridici si intendono le azioni legislative e amministrative, i procedimenti giudiziari, l'ordinamento privato dei rapporti giuridici e l'istruzione giuridica. In questi casi, il grado di divergenza è esemplificato dal contrasto che esiste tra i procedimenti penali nei tribunali inglesi e italiani o, per quanto concerne l'istruzione giuridica, per esempio, tra il Belgio e la Nuova Zelanda.

Ognuno di questi aspetti del sistema giuridico è una dimensione potenziale di convergenza e di divergenza. Ognuno di essi è più essenziale delle norme giuridiche per una discussione sul rapprochement tra diritto civile e common law. Questo punto può essere spiegato con una metafora: consideriamo il complesso delle strutture giuridiche, degli operatori e dei processi giuridici come il meccanismo del diritto, come la macchina giuridica. Alcuni tipi di norme, quelle che H.L.A. Hart chiama ‟norme primarie di obbligazione", sono generalmente il punto focale degli studi giuridici accentrati sulla norma. Il codice civile tipo è formato, prima di tutto, da tali norme che possono essere considerate come affermazioni di esigenze poste alla macchina giuridica. Un esempio di norma di questo genere è l'art. 1382 del Codice napoleonico, che riguarda il caso di chi, avendo recato offesa ad altra persona, è tenuto al risarcimento. Così, se X senza giustificazione offende Y (il ‛se' fa parte della norma), ne seguirà allora che Y sarà risarcito (l'‛allora' fa parte della norma).

Tuttavia questo risultato non è una conseguenza necessaria. Si deve promuovere una certa azione giudiziaria per giungere a tale soluzione. La macchina giuridica dev'essere messa in moto, in questo caso da una specifica azione da parte di Y contro X nel tribunale francese competente. Alla fine, se la macchina funziona in modo adeguato, sarà emessa una sentenza allo scopo di stabilire che X deve a Y una certa somma di denaro come risarcimento. Se X non paga, Y può avanzare un'ulteriore richiesta alla ‛macchina' perché la proprietà di X venga sequestrata e venduta al fine di soddisfare la sentenza. Poi, se la macchina funziona in modo adeguato (e se X ha proprietà nell'ambito della giurisdizione del tribunale che possano essere sequestrate e vendute a questo scopo), Y può essere risarcito.

È importante che la società possa contare su norme primarie di obbligazione adeguate, nel senso che siano norme dirette a controllare i comportamenti sociali indesiderabili e a incoraggiare le persone a fare ciò che è socialmente utile. Decidere quali tipi di condotta incoraggiare e quali scoraggiare è materia molto complessa e spesso controversa. Ma per quanto possano essere attraenti tali problemi, non si tratta di veri problemi giuridici; sono anzitutto problemi sociali, economici e politici. Per esempio, nell'ambito della politica legislativa, la questione se ci debba essere una norma che esiga che X risarcisca Y, qualora abbia arrecato danno alla proprietà di Y, è una questione solo incidentalmente giuridica. Lo stesso avviene per la maggior parte delle altre norme fondamentali del diritto.

L'aspetto ‛giuridico' di una norma giuridica fondamentale consiste nel fatto che essa presuppone o chiama in causa la macchina giuridica. È tale macchina che compie l'opera giuridica per conto della società, consuma le energie, determina come e fino a qual punto il precetto stabilito nella norma fondamentale debba tradursi in conseguenze sociali. La norma giuridica fondamentale è essenzialmente l'affermazione di un risultato sociale desiderato. La macchina giuridica è il meccanismo che assolve questo compito. Lo studio delle norme giuridiche fondamentali è lo studio delle richieste poste dalla società. La richiesta in se stessa influenzerà naturalmente in qualche misura il comportamento sociale (anche se si conosce molto poco della natura e dell'intensità di questa influenza). Ma se abbiamo un interesse reale alla conoscenza del sistema giuridico di una determinata società, dobbiamo rapidamente estendere il nostro esame fino a includervi la macchina giuridica: il complesso delle strutture, degli operatori e dei procedimenti giuridici. Non andremo molto lontano nel nostro tentativo se ci limiteremo a studiare le norme del diritto.

Esistono chiaramente delle importanti correlazioni in ogni società tra l'estensione e la penetrazione del diritto, la cultura giuridica, la macchina giuridica e le norme giuridiche. Comunque, è sufficiente un esame empirico superficiale per stabilire che le norme giuridiche di due società possono apparire molto simili senza che questo ci garantisca che altri aspetti dell'ordinamento giuridico siano equivalenti tra loro. Può accadere che norme primarie simili esercitino una profonda influenza convergente, ma è ugualmente possibile che i medesimi termini abbiano significati funzionali totalmente dissimili nei due sistemi.

In breve, un esame adeguato della convergenza tra common law e diritto civile esige che si presti attenzione a ogni aspetto del sistema giuridico e nello stesso tempo non si nutra una particolare fiducia nelle norme giuridiche. Ciò è particolarmente fastidioso, perché è facile reperire le norme e leggerle, mentre è molto difficile trovare nelle biblioteche giuridiche una valida informazione sull'estensione del diritto e sulla sua penetrazione, sulla cultura giuridica e sulla struttura, composizione e funzionamento della macchina giuridica.

Queste idee possono essere illustrate da un esame empirico delle varie macchine giuridiche esistenti nelle diverse nazioni che generalmente si presumono come giuridicamente simili. La tab. I illustra questo aspetto. Se si esaminano i codici di diritto sostanziale e processuale di queste sei nazioni a diritto civile, si riscontrerà un alto grado di somiglianza nella terminologia, nell'organizzazione e nella sostanza, sostenuta in ognuna di queste nazioni da una letteratura scientifica simile. In effetti tali corpi di norme giuridiche sono a mala pena distinguibili tra una nazione e l'altra. Ma se, al contrario, si prende in considerazione un'analisi completa delle strutture giuridiche, degli operatori e dei procedimenti giuridici, si osserverà ben presto un'ampia divergenza. I termini giuridici, ciò che la società formalmente richiede al sistema giuridico, sono simili; le macchine giuridiche e i loro risultati sono diversi.

Tabella 1

All'interno di questo gruppo di sei nazioni esiste inoltre una sostanziale differenza nel grado della penetrazione giuridica. In Italia, in Spagna, in Costa Rica e nel Cile le popolazioni sono relativamente omogenee e sono state effettivamente assorbite dalla partecipazione alla cultura dominante e alle istituzioni dello Stato. In Perù e in Colombia, invece, gran parte della popolazione è rimasta estranea alla cultura ‛nazionale' e alle istituzioni dello Stato moderno. Il sistema giuridico ufficiale non arriva in profondità. Questi paesi hanno culture e macchine giuridiche proprie, come pure norme giuridiche proprie. Anche tra le popolazioni ‛europee' di queste nazioni (e in nazioni con popolazioni omogenee) l'accesso al diritto (alle istituzioni, agli operatori e ai processi giuridici) viene influenzato dall'appartenenza a una determinata classe e dalla ricchezza, secondo modi che l'estensione progressiva dell'assistenza giuridica ha fin qui lasciato inalterati.

Queste frammentarie osservazioni empiriche ci rivelano che gran parte del dibattito sulla convergenza tra i sistemi giuridici si svolge a un livello semplicistico e dottrinario, che consente ai partecipanti di ignorare una questione fondamentale: che cosa si ottiene armonizzando i termini legali nei vari sistemi giuridici, quando questi hanno macchine giuridiche diverse e presentano notevoli differenze nell'ambito delle culture giuridiche, della penetrazione giuridica e dell'estensione giuridica? È una domanda alla quale è difficile dare una risposta.

7. Conclusione.

Una possibile conclusione è che la somiglianza delle norme non rappresenta un rivelatore attendibile della convergenza o divergenza dei sistemi giuridici. La norma ha un potere evocativo che va al di là della sua formulazione letterale. L'art. 1382 del Codice civile francese richiama alla mente dell'esperto francese un gran numero di casi giuridici e una vasta letteratura scientifica. Il riferimento a Treu und Glauben nel Bürgerliches Geseztbuch richiama alla mente dello studioso tedesco gran parte della storia giuridica (economica e politica) come pure molte controversie e un gran numero di casi giuridici e di discussioni teoriche. Per il giudice inglese, la Rule against perpetuities ha ramificazioni storiche e giuridiche assai estese. Per un altro sistema giuridico, l'adozione di una qualunque di queste nozioni richiede, se ci dev'essere una convergenza sostanziale, che essa sia ‛recepita' nel suo contesto, accompagnata dagli elementi che le danno significato nel sistema d'origine. Altrimenti essa sarà anomala e finirà per avere un significato differente per la nazione importatrice.

In alcuni casi, invece, il peso specifico di una norma dal punto di vista culturale è scarso; essa si presta a essere accolta facilmente in modo simile in un altro contesto. Tali norme vengono in un certo senso ‛secolarizzate' e rese indipendenti da qualsiasi specifico bagaglio culturale. Gran parte della dottrina dei glossatori e dei commentatori ebbe questo genere di obiettivo di secolarizzazione, e il successo della loro opera è indicato dalla diffusione del diritto civile romano in sistemi giuridici lontani da Roma nel tempo e nello spazio. L'adozione di tali norme secolarizzate indica con ogni probabilità una convergenza genuina; l'adozione relativamente diffusa di norme simili per le questioni concernenti il commercio internazionale ne offre un esempio attuale. La loro fortuna nel condurre a un'unificazione o armonizzazione dipende dal fatto che esse si sono liberate dei loro valori culturali e sociali specifici e sono divenute compatibili con una grande quantità di macchine giuridiche.

Ciò lascia supporre che il processo di secolarizzazione sia una premessa necessaria per una convergenza delle norme giuridiche che voglia realizzarsi con successo attraverso l'unificazione o il trapianto. Ma chi lo farà? Chi sono i glossatori e i commentatori di oggi? A quale corpo di leggi e di letteratura equivalente al Corpus juris Civilis applicheranno la loro funzione purificatrice? Forse il diritto commerciale internazionale? Schlesinger e i suoi colleghi, l'Istitut International pour l'Unification du Droit Privé (UNIDROIT) e la United Nations Commission on International Trade Law (UNICITRAL), sono questi i nostri moderni glossatori e commentatori?

Anche se le parole sono le stesse e hanno il medesimo significato nei diversi sistemi, che cosa accade per il resto? Quale tipo di meccanismo giuridico esiste per dare attuazione a queste norme? Quanto profondamente penetreranno nella società? Fino a che punto il fatto che si tratti di norme ‛giuridiche' limiterà la loro diffusione all'interno di uno spazio sociale ristretto? Le risposte a tali domande sono tutt'altro che semplici: differiscono da un sistema giuridico all'altro e hanno evidentemente un rilievo notevole rispetto al problema della convergenza.

Se vi fosse nel mondo una generale tendenza verso una qualche uniformità sociale e culturale, un indirizzo lineare verso una comunità mondiale, sarebbe facile prevedere che le differenze giuridiche, a somiglianza di altre differenze, sarebbero alla fine destinate a scomparire. Vi sono invece indirizzi diversi e molteplici i cui punti d'arrivo si collocano in direzioni opposte, sia verso forme di particolarizzazione che di generalizzazione. Nel corso del progresso umano, i sistemi giuridici sono divenuti più sensibili alle sfumature e agli interessi di gruppi particolari, differenziandosi in tal modo tra loro. La tendenza verso la particolarizzazione è favorita dal declino della religione di Stato e dalla conseguente ridistribuzione del potere di legiferare secondo uno spettro che, partendo dall'individuo (per es., il crescente peso giuridico del concetto di diritti umani individuali), attraverso i gruppi intermedi (governi locali, associazioni private), arriva ai corpi sovranazionali (per es., la CEE).

L'ingresso dell'Inghilterra nel Mercato Comune è stato un evento di grande rilievo nella storia giuridica. Ma, per un aspetto importante, esso ha solamente reso più acuto un problema che già si presentava alle nazioni e alle istituzioni comunitarie: quale debba essere la ridistribuzione del potere giuridico per adattarsi agli obiettivi della Comunità e conservare nello stesso tempo l'attenzione necessaria verso le esigenze giuridiche dei gruppi e degli interessi nazionali e subnazionali. È questo un problema di grande rilievo, anche per le nazioni che hanno in comune la tradizione del diritto civile; l'inclusione nella Comunità di nazioni che seguono la common law complica certamente la questione. La situazione però non cambia in modo sostanziale; la Comunità rappresenta l'area più importante nella quale è in corso un processo generale di ridistribuzione pluralistica del potere giuridico, sia nell'una che nell'altra direzione. In questo contesto il problema della convergenza è sentito in modo particolare come un problema di sensibilità, per non dimenticare anche quanto vi è di particolare e specifico.

Se il processo di ridistribuzione del potere giuridico dello Stato avviene in modi simili sia nelle nazioni di common law che in quelle di diritto civile, allora la complessità e la varietà che ne risultano possono essere interpretate, curiosamente, come una prova di convergenza. Se si determina una crescente protezione giuridica dei diritti umani, una sempre più ampia decentralizzazione del diritto e dell'autorità governativa, e tende ad allargarsi lo spazio occupato dalla creazione e dall'attività di associazioni politiche, sociali, culturali e commerciali, come avviene per esempio in Germania e in Inghilterra, si potrà dire allora che i loro sistemi giuridici convergono. Se i servizi giuridici divengono accessibili a settori sempre più vasti delle popolazioni di quei paesi attraverso l'assistenza giuridica o servizi giuridici di gruppo, si potrà allora affermare l'esistenza di un altro punto di somiglianza. Questi processi di sviluppo servono a illustrare un consenso crescente per una specifica estensione del diritto all'interno della società. Essi dimostrano gli sforzi tendenti a fare in modo che il diritto penetri più completamente a tutti i livelli socio-economici della popolazione. Questi processi stanno a indicare l'esistenza di una cultura giuridica comune sempre più vasta che si risolve in una sempre più ampia partecipazione negli atteggiamenti fondamentali verso la natura del diritto e verso la struttura e il funzionamento specifici del sistema giuridico. Se si considera questo processo in una prospettiva a breve termine, si deve riconoscere che esso si sta sviluppando in modo irregolare e incostante; se lo si considera invece nel mondo occidentale e in una prospettiva a lungo termine, non si può negare che il suo sviluppo è massiccio e chiaramente inevitabile.

L'affermazione secondo cui un'area sempre crescente di diversità, complessità e particolarismo nel diritto occidentale sia prova di un indirizzo convergente non è, di conseguenza, internamente contraddittoria. Tale sembra essere solo qualora si identifichi il diritto con le norme primarie e si misuri la convergenza attraverso l'ampiezza delle loro somiglianze nelle due famiglie giuridiche. La somiglianza delle norme primarie non è in se stessa indesiderabile o irrilevante, In molti casi può essere particolarmente utile trovare determinati problemi analoghi trattati in modo uniforme nei diversi sistemi giuridici. Inoltre, norme simili sono spesso prova di una più profonda somiglianza giuridica. L'adozione di norme uniformi per un obiettivo di convergenza o di unificazione può, in circostanze adatte, rappresentare una spinta verso il rapprochement. Tuttavia, una misura più convincente della convergenza è il grado di realizzazione dei valori fondamentali della cultura occidentale nei sistemi giuridici delle nazioni di diritto civile e di common law. Il peso sempre maggiore dato alla protezione giuridica dei diritti umani e la cura giuridica sempre più attenta per particolari interessi regionali e sociali all'interno dei sistemi giuridici delle due famiglie stanno a indicare che diritto civile e common law si avviano per la medesima strada, verso uno stesso destino.

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