INTERMEDIALITÀ

Enciclopedia Italiana - IX Appendice (2015)

INTERMEDIALITA

Massimo Fusillo
Roberto Terrosi

INTERMEDIALITÀ. – Origini e antecedenti. Teorie e tipologie. La mediasfera e la ri-mediazione. Il cinema e gli adattamenti. La videoarte. La regia lirica. L’èkphrasis. Bibliografia. Ipermediazione. Bibliografia. Postmedialità. Bibliografia

Origini e antecedenti di Massimo Fusillo. – Nel 1966 l’artista Dick Higgins, allievo del musicista John Cage e animatore del movimento di avanguardia Fluxus, pubblicò sul primo numero della rivista da lui fondata «Something else newsletter» un manifesto dal titolo Intermedia, che propugnava una fusione capillare fra i diversi linguaggi artistici, cifra di una nuova mentalità tutta protesa verso la fluidità invece che verso la categorizzazione. Il termine proveniva da un saggio del poeta romantico inglese Samuel Taylor Coleridge (On Edmund Spenser, 1812), che lo riprendeva dal lessico chimico per designare un agente che possa fondere la realtà e il simbolo. Il bersaglio polemico più ravvicinato era l’arte modernista, concentrata sulla ricerca dell’essenza delle singole arti, e in particolare il suo più autorevole critico, Clement Greenberg, teorico dell’astrattismo non a caso nemico dichiarato dell’intermedialità. L’insistenza teorica sulla fusione fra i linguaggi porterà sempre più a una smaterializzazione dell’oggetto artistico, presupposto teorico dell’arte concettuale, e di qui poi alla nozione di postmedialità elaborata da Rosalind Krauss (A voyage on the North sea, 2000; trad. it. L’arte nell’era postmediale. Marcel Brodthaers, ad esempio, 2005). In effetti Higgins aveva colto un tratto fondamentale della cultura contemporanea: tutte le esperienze critiche e artistiche dei decenni successivi, classificate sotto le ampie etichette di poststrutturalismo e postmoderno, hanno infatti sempre privilegiato la fluidità dei confini fra le categorie critiche, mentre l’i. è diventata sempre più, soprattutto dopo la rivoluzione digitale, un concetto fondamentale per capire la nostra epoca, la sua estetica, i suoi meccanismi comunicativi.

Se il termine giunge dall’estetica romantica quasi per caso, è però nel pieno Romanticismo che va cercato il precedente storico più significativo dell’i., e nel musicista che per primo riuscì a influenzare tutto il sistema delle arti: Richard Wagner. La sua nozione di opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk), che è ispirata alla tragedia greca e all’Orestea di Eschilo, si propone di rifondare il teatro musicale attraverso una fusione delle arti intesa non come un semplice procedimento estetico, ma come un mezzo per identificare arte e vita, e per creare un organismo vitale contrapposto alla meccanizzazione della società industriale. Quest’utopia wagneriana influenza prima il simbolismo e la sua poetica del la sinestesia, e anima poi tutto il Novecento e le sue avanguardie: il cinema di Sergej M. Ejzenštejn, il teatro della crudeltà di Antonin Artaud, i Merzbau di Kurt Schwitters, l’architettura del Bauhaus, fino ad arrivare agli happenings del Fluxus, del Living Theatre e di Merce Cunningham, o al teatro multimediale della nuova spettacolarità italiana (Mario Marto ne, Federico Tiezzi, Giorgio Barberio Corsetti). Ma l’opera d’arte totale esce presto fuori dall’ambito estetico e diventa una pratica prediletta dalla propaganda dei totalitarismi nazista e stalinista, oltre a ispirare imprese commerciali come Disneyland, dimostrando così quanto sia labile il confine che separa l’utopia dalla disto-pia, il sublime dal kitsch. Oggi il cyberspazio può considerarsi per certi versi una realizzazione tecnologica dell’opera d’arte totale, in cui i diversi linguaggi artistici si combinano e si rimediano continuamente.

Teorie e tipologie di Massimo Fusillo. – Il dibattito teorico sull’i. si è sviluppato in modo vertiginoso negli ultimi dieci anni, trasformando talvolta il concetto in un comodo passe-partout. Il motivo di questo successo va individuato in quella svolta radicale che un grande studioso di media come Derrick De Kerchove ha sintetizzato come una nuova «mente cibernetica» (Brainframes, 1993), che succede al cervello alfabetico, intrinsecamente teso al trattamento sequenziale e lineare dei dati reali, e al cervello televisivo, più passivo, olistico e indifferenziato. Come sostiene anche la filosofa femminista Donna Haraway nel suo famoso Manifesto Cyborg (1991), il digitale è il modello anche psicologico di una continua scomposizione e ricomposizione del reale, tipica della nostra epoca caratterizzata da interattività e multitasking. Proprio perché investe dunque una serie di aspetti tecnologici, culturali, economici, sociali ed estetici, il concetto di i. si differenzia dal suo antecedente più diretto, l’intertestualità, che fu coniato da Julia Kristeva negli anni Settanta del Novecento, traendo ispirazione dalle teorie di Michail Bachtin, e diede un grande slancio verso la dimensione sociale agli studi letterari, pur mantenendo comunque un carattere semiotico e strutturale. Rispetto al testo, il medium è una nozione più complessa, che riguarda i materiali costitutivi, il supporto tecnologico e l’istituzione sociale che trasmettono un’opera.

Come ha sostenuto Silvestra Mariniello (in Immagini migranti, 2008), che lavora presso il Centro di ricerca sull’intermedialità di Montréal (cui è legata anche la rivista «Intermédialités»), gli studi sull’i. sono intrinsecamente polimorfici, perché si occupano sia della genealogia e della storia dei media, sia delle varie forme di trasferimento fra un medium e un altro, sia soprattutto degli effetti che la tecnologia e i media hanno sulla concezione del tempo, dello spazio, della vita quotidiana: quindi del loro impatto filosofico.

Esistono ormai numerose tipologie delle diverse forme possibili di i., sicuramente utili, anche se talvolta troppo classificatorie e tassonomiche. Claus Clüver (in Changing borders, 2007) distingue fra il testo multimediale, come il libro illustrato, in cui troviamo elementi individualmente coerenti che provengono da media diversi, e che possono essere facilmente separati perché producono due testi distinti, autonomi e significativi; il testo mediale misto, come il fumetto, in cui gli elementi mediali sono separabili, ma non sono autosufficienti (la loro separazione non produrrebbe nulla di significativo); e infine il testo intermediale vero e proprio, in cui gli elementi dei diversi media non sono separabili e sono totalmente fusi tra loro, come nella poesia visiva. Questa classificazione va integrata con un’altra, proposta da Irina Rajewsky (2002), che ha affrontato le diverse relazioni possibili fra i media, individuando anche lei, secondo il fortunatissimo modello ternario, tre categorie: 1) la trasposizione mediale, in cui il prodotto di un medium (un libro, un film, un quadro) viene trasformato in un altro medium; è il caso diffusissimo e molto studiato degli adattamenti cinematografici di romanzi, ma anche del procedimento opposto, di romanzi tratti da film (la novellizzazione); 2) la combinazione mediale, in cui diversi media contribuiscono insieme a creare un nuovo prodotto, integrando le proprie specificità, come succede nell’iconotesto (un testo nato dalla combinazione sistematica di parola e immagine, per es. il romanzo Austerlitz (2001) di Winfried Georg Sebald, costellato da fotografie scattate dall’autore), ma anche, intrinsecamente, nel cinema, arte sintetica per eccellenza, che combina fotografia, architettura, letteratura, teatro e musica, in questo erede diretto dell’opera d’arte totale di Wagner (come sosteneva in Italia a inizi del Novecento Ricciotto Canudo); 3) il riferimento intermediale, in cui un prodotto mediale descrive, evoca o tematizza un altro medium, sia in generale le sue strutture e le sue tecniche, sia in particolare un suo contenuto specifico. Rientrano in questa tipologia l’èkphrasis, cioè la descrizione letteraria di opere d’arte, la citazione cinematografica di opere pittoriche, la musicalizzazione della narrativa e la descrizione letteraria di brani musicali, i piani-sequenza in soggettiva con cui i film riprendono strategie espressive dei videogiochi, le cut scenes, cioè le sequenze animate non interattive che incorniciano o scandiscono un videogame (spesso riprese da attori e poi digitalizzate, sono quindi vere inserzioni di cinema, chiamate appunto cinematics), e tanti altri esempi simili.

Gli esempi concreti di i. scaturiti da queste classificazioni dimostrano già in modo chiaro come l’i. comporti sempre la fusione e la sinergia fra linguaggi diversi. Da questo punto di vista si riallaccia chiaramente alla comparazione interartistica, cioè a una branca della comparatistica che indaga i rapporti fra la letteratura e le altre arti; in questo ambito della «reciproca illuminazione tra le arti» (O. Walzel, Wechselseitige Erhellung der Künste, 1917), il termine scientifico intermedialità è stato coniato infatti per la prima volta dallo slavista tedesco Aage A. Handen-Löve. D’altronde già il primo e più famoso studioso di media, Marshall McLuhan, in Understanding media (1964; trad. it. Gli strumenti del comunicare, 1967) scrive un capitolo intitolato Energia ibrida. Les liaisons dangereuses, in cui esalta l’incrocio fra i media, perché capace di produrre nuova energia e nuove configurazioni mediali. Secondo la sua teoria i media compaiono sempre in coppie, in cui uno è la base di un altro.

La mediasfera e la ri-mediazione. – Giungiamo così a un concetto fondamentale delle ricerche contemporanee sull’i., definito e discusso in un libro ormai celebre, Remediation (2003) di Jay David Bolter e Richard Grusin. Secondo i due autori ogni medium si appropria di altri media, delle loro tecniche e dei loro significati sociali, e si mette in competizione con i propri antecedenti e concorrenti. Il mondo è sempre più una mediasfera, un sistema di media ricco di tensioni, conflitti e contaminazioni. Come il cinema ha ri-mediato a suo tempo la fotografia, oggi viene a sua volta ri-mediato dalla videoarte, da videogame e videoclip (v. video), e dai tanti supporti su cui può essere visto e fruito. Nella nostra epoca digitale questo meccanismo di rimediazione, che è sempre esistito, ha assunto proporzioni smisurate e sempre crescenti: se un tempo un film poteva essere fruito solo nella sala buia, in uno stato di regressione ipnotica e onirica, oggi può essere acquistato in DVD, scaricato come file, se ne possono vedere delle sequenze su YouTube, può essere visto su vari supporti, dal cellulare all’Ipad, dal computer alla sala buia. L’immagine digitale ha in sé una duttilità prima impensabile, e la stessa struttura dei personal computer, basata su frammentazione ed eterogeneità, favorisce in modo drastico la convergenza dei media, grazie al sistema a finestre, con cui si fanno dialogare testo verbale, audiovisivo, musica, animazione grafica. Questa tendenza contemporanea alla moltiplicazione dei canali mediali, che i due autori chiamano ipermediazione (v. oltre), coesiste con un’altra tendenza del tutto contraddittoria, quella all’immediatezza e alla trasparenza, e quindi a cancellare il medium. Basti pensare a tutti i programmi e ai giochi che offrono di vivere in soggettiva le situazioni più estreme, o alla web-cam che ci porta immediatamente in case e ambienti a noi sconosciuti. Secondo alcuni teorici questa seconda tendenza porterebbe inevitabilmente a una semplificazione eccessiva dei processi di comunicazione e a un impoverimento cognitivo, ma in realtà si tratta di una strategia esistita da sempre, dai tempi degli antichi retori che auspicavano di portare gli eventi «davanti agli occhi» del pubblico, grazie alla potenza icastica (enàrgheia) della parola. La doppia logica fra ipermediazione e immediatezza, opacità e trasparenza, anima la storia delle forme espressive di tutta la cultura occidentale: i nuovi media l’hanno solo acutizzata.

Il cinema e gli adattamenti. – Secondo André Gaudreault (postfazione a Du littéraire au filmique, 1999; trad. it. 2000) il cinema nasce storicamente da una fase di confusione intermediale, prima di istituzionalizzar si come medium autonomo, prima di diventare cioè cinema a tutti gli effetti; oggi invece sta passando di nuovo a una fase di i. diffusa, a quella condizione che è stata già definita postcinema, o cinema espanso, dato che non è più legato alla sua sede istituzionale, la sala, e al suo supporto canonico, la pellicola, ma è un’organizzazione di flussi audiovisivi che possono concretizzarsi in vari canali. Nel cinema delle origini si incrociavano il melodramma teatrale, la fotografia, la veduta animata, dando vita a prodotti ibridi e instabili: basti pensare alla prassi del Giappone, che prevedeva un narratore orale, capace di trasformare ogni proiezione in un evento diverso e unico.

La letteratura è certo l’arte con cui il cinema ha avuto il rapporto più complesso e tormentato. Fonte di trame e tecniche narrative, elemento strutturalmente presente nella sceneggiatura, è stata sempre una presenza ingombrante, data la sua antica tradizione e la sua posizione canonica nel sistema delle arti. Nello studio degli adattamenti cinematografici ha prevalso a lungo il falso problema della fedeltà, ancora molto vivo nella sensibilità comune, che dà spesso per scontata la superiorità del libro per pregiudizio logocentrico o per semplice attaccamento al mito dell’originale. Solo in tempi relativamente recenti una bibliografia sempre più fiorente ha superato la logica del rifacimento secondario come pura illustrazione del modello, e ha iniziato a vedere invece l’adattamento come un processo dinamico e autonomo, che ha effetto anche retroattivo, diventando parte della vita e del senso dell’originale. Un saggio di Federico Zecca (2013) ha messo in rilievo come questo nuovo atteggiamento critico abbia molte tangenze con gli sviluppi della teoria della traduzione (d’altronde l’adattamento non è altro che una traduzione intersemiotica), intesa non più come inevitabile approssimazione e degradazione, ma come mediazione culturale, manipolazione, riscrittura per un nuovo pubblico e un nuovo contesto.

La videoarte. – La videoarte è uno dei campi più fertili oggi per le sperimentazioni intermediali. Guardati sempre con un certo sospetto dal cinema mainstream a causa delle loro sperimentazioni ardite, spesso direttamente ispirate dal cinema delle origini, i videoartisti hanno usato il cinema come memoria collettiva, materia da reinventare, ricordo personale. Un esempio famoso è l’installazione 24 hours Psycho (1993) di Douglas Gordon, in cui il capolavoro di Alfred Hitchcock viene presentato al rallentatore facendolo giungere alla durata di un’intera giornata, e producendo ovviamente una modalità del tutto diversa di ricezione. Molto interessante anche The clock di Christian Marclay (premio Biennale di Venezia 2012), dove ogni minuto delle 24 ore è formato da una sequenza cinematografica in cui si vede l’orologio che segna quel preciso minuto o se ne sente parlare, offrendo così un range amplissimo di generi e di immagini montate per attrazioni e contrasti. In altri casi il lavoro sulla memoria cinematografica implica procedimenti tecnologici più complessi, come in Steps (1987) di Zbigniew Rybczyński, in cui una serie di personaggi ‘visitano’ la sequenza più famosa della Corazzata Potëmkin di Ejzenštejn, quella della carrozzina; un video che usa molteplici tecniche di direzione informatizzata della macchina da presa, oltre all’effetto di chroma key (intarsio di sfondo cromatico), per creare uno spazio-tempo virtuale del tutto inedito.

La videoarte ha ripreso e sviluppato molte ricerche espressive delle avanguardie storiche, per es. la scomposizione di quella compattezza del campo che è invece così fondamentale per il cinema narrativo classico, giungendo in tal modo a un’impaginazione dello schermo attraverso il sistema delle finestre. È il caso di un programma prodotto da Channel Four, A Tv Dante (1989), le cui prime otto puntate visualizzano i primi otto canti dell’Inferno e sono dirette da Peter Greenaway e Tom Philipps (seguiranno altri sei canti a firma di Raul Ruiz). Greenaway è stato da sempre un regista cinematografico affascinato dalla pittura e dalle arti visive: qui si appropria di numerosi stilemi della videoarte per comunicare a un pubblico ampio la potenza immaginifica dello stile dantesco, sfruttando molteplici serbatoi iconografici anche attualizzanti; molti di questi stilemi tornano nella sua riproposta shakespeariana Prosper’s Books (1991; L’ultima tempesta).

Anche in epoca di composizione digitale il fascino del set cinematografico e della pellicola non si attenua affatto: basti pensare alla staged photography di Gregory Crewdson, che allestisce complessi set cinematografici, spesso direttamente ispirati al cinema degli anni Cinquanta, per scattare un’unica fotografia. Allo stesso modo un videoartista ormai famosissimo come Bill Viola oggi gira in 35 mm le sue installazioni sempre più ispirate dalla pittura rinascimentale e manierista, e sempre più tese a una dilatazione dei tempi e delle passioni. La figura forse più significativa da questo punto di vista è Matthew Barney: il suo Cremaster è un ciclo di cinque film (1995-2002), fruibili all’interno dell’installazione artistica e di una mostra, o come film autonomi sul grande schermo; una vera e propria opera d’arte totale post-human, che celebra l’indifferenziazione sessuale e la metamorfosi androgina sulla scia di Nietzsche e di Artaud, e contamina antiche saghe celtiche, mitemi dionisiaci, mitologie del modernismo, musical, opera lirica, il non fiction novel di Norman Mailer, l’immaginario bodybuilding.

L'oro del Reno

La regia lirica. – Nell’ambito della combinazione mediale, il secondo degli ambiti individuati da Rajewsky (2002), non si può non ricordare la regia lirica (v. regia: Opera lirica), che ha avuto negli ultimi decenni uno sviluppo notevole, coinvolgendo numerosi registi di teatro e di cinema (Christoph Marthaler, Peter Stein, Martone, Tiezzi, Toni Servillo, Romeo Castellucci), assieme a scenografi provenienti dalle arti visive (Jannis Kounellis, Anselm Kiefer, Mimmo Paladino), e giungendo spesso a complesse soluzioni intermediali, come nella regia dell’Anello del Nibelungo di Wagner, firmata dal gruppo catalano La Fura dels Baus (Valencia, 2007-09), o nel Flauto magico di Wolfgang Amadeus Mozart, messo in scena dal videoartista William Kentridge (Bruxelles, 2010).

L’èkphrasis. – Infine, a proposito del riferimento intermediale, l’esempio più significativo è sicuramente l’èkphrasis, la descrizione di opere d’arte, una «rappresentazione verbale di una rappresentazione visiva» (J. Heffernan, Museum of words, 1993, p. 3), Questo esercizio retorico antico quanto l’Iliade, diventato poi in età imperiale genere letterario minore, ha conosciuto in età moderna uno sviluppo straordinario, soprattutto a partire dal Romanticismo tedesco, e continua ad affascinare tanti scrittori del mondo contemporaneo, dato che assume sempre nuove valenze in senso intermediale. Descrivere un quadro, una foto, un’immagine, sia che si tratti di un’opera reale sia che si tratti di un’opera inventata – secondo una distinzione fra èkphrasis nozionale ed èkphrasis mimetica di John Hollander (introduzione a The gazer’s spirit, 1995) spesso riformulata e trascesa – è in fondo un atto di ri-mediazione: un passaggio da un medium all’altro che implica sempre ibridazione e riflessione sui limiti e sul senso della rappresentazione. Non a caso se ne occupano gli studi sulla visualità (visual studies), che valorizzano il carattere ibrido e misto di tutti i media, e l’intreccio stretto fra verbale e visivo. La letteratura del Novecento ha ripreso la classica situazione narrativa dell’incontro in pinacoteca, che ritroviamo nel Satyricon di Petronio, per scandagliare situazioni emotive estreme: la perdita della vista e il desiderio di memoria di immagini in Nel museo di Reims (1988) di Antonio Del Giudice; o un amore-odio viscerale nei confronti dell’arte in Alte meister (1985) di Thomas Bernhard, che conclude una trilogia sulle arti. Come sostiene Michele Cometa (La scrittura delle immagini, 2012), l’èkphrasis diventa sempre più una risposta allo strapotere dell’assoluto, una tecnica di compensazione di un’imperfezione umana sentita come condizione antropologica.

Dato che il cinema è un’arte sintetica, la descrizione letteraria di un film è un caso molto specifico di èkphrasis, che si è sviluppato sempre più in età postmoderna, soprattutto nella variante del film immaginario e non reale (Imaginary films in literature, a cura di S. Ercolino, M. Fusillo, M. Lino, L. Zenobi, in corso di stampa). Particolarmente significativo il caso di Underworld (1997) di Don deLillo, vasto affresco massimalista che inizia con il frammento di una riproduzione del Trionfo della morte di Pieter Bruegel che ossessiona Edgard L. Hoover, e ha al suo centro un film immaginario di un grande padre del cinema, Ejzenštejn, Unterwelt, appunto Underworld, un titolo con una ricca carica metaforica. Un esempio ormai canonico che conferma come l’i. non sia una pratica che insidia la tradizione letteraria e la purezza della scrittura: al contrario la potenzia, schiudendo nuove strade inedite.

Bibliografia: J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Understanding new media, Camdridge-London 1999 (trad. it. Remediation. Competizione e integrazione fra media vecchi e nuovi, Firenze 2003); I. Rajewsky, Intermedialität, Tübingen 2002; L. Hutcheon, A theory of adaptation, London 2006 (trad. it. Teoria degli adattamenti. I percorsi delle storie tra letteratura, cinema, nuovi media, Roma 2012); H. Jenkins, Convergence culture. Where old and new media collide, New York 2006 (trad it. Milano 2007); Changing borders. Contemporary positions in intermediality, ed. J. Arvidson, M. Askander, J. Bruhn, H. Führer, Lund 2007; Immagini migranti. Forme intermediali del cinema nell’era digitale, a cura di L. De Giusti, Venezia 2008; P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Roma-Bari 2010; Intermediality and storytelling, ed. M. Grishakova, M.L. Ryan, Berlin 2010; F. Zecca, Cinema e intermedialità. Modelli di traduzione, Udine 2013; M. Cornis-Pope, New literary hybrids in the age of multimedia expression. Crossing borders, crossing genres, Amsterdam-Philadelphia 2014.

Ipermediazione di Roberto Terrosi. – Il sostantivo ipermediazione è la traduzione del neologismo inglese hypermediacy, introdotto nel dibattito mediologico alla fine degli anni Novanta da Jay David Bolter e Richard Grusin nella loro opera maggiore: Remediation (1999). Tale termine presenta alcuni problemi di traduzione in quanto, se posto a fianco di intermediacy («intermedialità»), si presta a essere recepito come «ipermedialità». Diversamente, nell’opposizione/correlazione con il termine immediacy («immediatezza»), andrebbe tradotto come «ipermediatezza». Tuttavia, nella traduzione italiana è stata preferita la lettura che lo pone in relazione al termine rimediazione, da cui la dizione ipermediazione.

Il concetto di ipermediazione o ipermediatezza o ipermedialità – tutte e tre le traduzioni sono egualmente ammissibili – nel testo di Bolter e Grusin non può essere compreso senza tenere conto del fatto che fa parte di una triade composta da immediacy (immediatezza), hypermediacy (ipermediatezza) e remediation (rimediazione o riversamento).

La tesi fondamentale è che i cosiddetti nuovi media o media digitali siano caratterizzati da una dialettica di immediatezza e di ipermediatezza. L’immediatezza è una modalità di rappresentazione illusionistica che porta a focalizzare l’attenzione direttamente sull’oggetto rappresentato, come se il medium non esistesse o fosse ‘trasparente’ come una finestra. L’ipermediatezza invece è una modalità anti-illusionistica che porta a soffermare l’attenzione sugli aspetti del mezzo di comunicazione in quanto interfaccia o in quanto supporto, come se questo fosse ‘opaco’ come una lavagna. Per es., la grafica computerizzata tridimensionale può suscitare effetti di grande realismo, ma allo stesso tempo può essere incorniciata da finestre e da menù che ci ricordano che essa sta sullo schermo del computer. Questa differenza è un po’ come quella tra il guardare attraverso la rappresentazione o invece guardare alla rappresentazione come superficie concreta su cui si formano figure grazie, per es., ai pixel. Questi due termini non devono necessariamente essere in contrapposizione tra loro in quanto possono congiungersi o essere funzionali l’uno all’altro. La plasticità creata da questa tensione dualistica rende questi media molto aperti e duttili, soprattutto riguardo alla loro capacità di appropriazione di contenuti esterni provenienti da altri media. In questo senso i due studiosi si rifanno all’assunto di McLuhan (1964) secondo cui il contenuto di un medium è sempre un altro medium (per es., uno scritto è la trascrizione di un discorso che a sua volta potrebbe essere la descrizione di un quadro e così via). Quindi le tecnologie digitali, con la loro vocazione multimediale, hanno una grande capacità di riconvertire le altre riproduzioni mediatiche e in un certo senso hanno bisogno di importare e riconvertire contenuti di vario genere dall’esterno e in questo consiste appunto la rimediazione. In tal senso i digital media non hanno un loro specifico o un loro principio interno, se non paradossalmente in questa apertura verso i materiali esterni che essi rielaborano e che stratificano nell’ipermediazione.

L’ipermediatezza è così anche una caratteristica che rimanda al carattere multimediale e alla capacità di sovraordinare le funzioni di comunicazione a vari livelli tipica dei media digitali, da cui deriva anche l’assegnazione del prefisso iper, come, per es., nell’ipertesto, che nella sua architettura è anche alla base del web. Da questo punto di vista la nozione di ipermediazione è debitrice di quella di ipertesto e soprattutto di quella di ipermedia, entrambe inventate tra gli anni Sessanta e Settanta dal sociologo e sperimentatore americano Theodor Holm Nelson, ma giunte al successo proprio negli anni Novanta. Infine l’ipermediatezza, nel significato assegnatogli da Bolter e Grusin, non è però una caratteristica esclusiva dei media digitali, sebbene sia forse la loro caratteristica più appariscente. Già le miniature medioevali possono essere considerate un esempio di stratificazione mediatica in cui tale artificio non viene nascosto, ma manifestato palesemente con l’ausilio di pregevoli decorazioni. Un altro caso può essere quello dell’immagine nell’immagine, che troviamo spesso nella storia dell’arte, come, per es., in certi quadri di Johann Zoffany raffiguranti collezioni d’arte. Anche le immagini tardogotiche con tutte le scene della narrazione disposte in varie zone dello stesso quadro sono ipermediate, come lo sono i polittici con le predelle d’altare. Infine i nostri autori ricordano i dipinti olandesi in cui compaiono carte geografiche, stampe e specchi in stanze realisticamente dipinte, nelle quali l’immediatezza della verosimiglianza dà man forte all’apparato ipermediale della rappresentazione.

Oggi l’ipermediazione è divenuta ormai una caratteristica familiare a tutti, non solo perché la troviamo nel personal computer (PC), nella TV e talvolta perfino nel cinema, ma soprattutto per la diffusione degli smartphone e dei tablet. Questi concentrano sempre più l’attenzione sullo schermo e sul medium come oggetto da personalizzare e abbellire, grazie anche a numerose soluzioni software e fisiche come, da una parte, i temi del desktop, che possono essere anche animati o, dall’altra, le covers esterne e i tanti gadget che si possono aggiungere all’apparecchio, per potenziarlo o renderlo più personale e gradevole.

Bibliografia: M. McLuhan , Understanding media. The extension of man, New York 1964 (trad. it. Gli strumenti del comunicare, Milano 1967); J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Understanding new media, Cambridge (Mass.) 1999 (trad. it. Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano 2002); Digital media revisited. Theoretical and conceptual innovations in digital domains, ed. G. Liestøl, A. Morrison, T. Rasmussen, Cambridge (Mass.) 2003; N. Taylor, Cinematic perspectives on digital culture. Consorting with the machine, Basing stoke 2012.

Postmedialità di Roberto Terrosi. – Il termine postmedialità è utilizzato oggi in una varietà di accezioni che vanno da quella medio-logica a quella artistica. La sua comparsa si fa risalire all’espressione era post-media usata da Pierre-Félix Guattari in una conferenza a Tōkyō nel 1985 e in successive occasioni, in cui ipotizzava l’avvento di una nuova era che avrebbe visto la riappropriazione dei mezzi di comunicazione da parte delle minoranze. Questa circostanza avrebbe implicato, secondo Guattari, la produzione di nuove forme di soggettività, in grado di segnare il declino dell’egemonia dei mezzi di comunicazione di massa, come la televisione, interessati al governo del consenso. Nonostante in questa tesi sia stata vista una precognizione dell’avvento di Internet, più verosimilmente Guattari aveva in mente l’esperienza delle cosiddette radio libere italiane, cui aveva dedicato alcune riflessioni. Successivamente, nel 1998, l’attivista inglese Howard Slater giunse a conclusioni simili parlando di «operatori postmediali» che mirano ad attuare strategie di comunicazione laterali, anautoriali e comunitarie, nel tentativo di ricucire il gap creato dalla comunicazione istituzionale, la quale, invece di veicolare significati, cerca di produrre forme di intrattenimento a fini utilitaristici.

Nel 1999 la postmedialità fece invece la sua comparsa nell’ambito dell’arte contemporanea con l’espressione postmedium (tradotta in italiano con «postmediale») usata dal critico d’arte statunitense Rosalind Krauss non in riferimento ai mass media, bensì alla poetica della medium specificity teorizzata dal critico Clement Greenberg riguardo al modernismo. Secondo tale teoria l’arte doveva analizzare criticamente sé stessa nel senso kantiano di esposizione delle proprie modalità essenziali riferite alla specificità del mezzo usato. La pittura, quindi, doveva esporre la piattezza della superficie del quadro come oggetto concreto coperto di colore, rifuggendo da ogni tentazione illusionistica. Questa riduzione ebbe inizio con l’espressionismo astratto e procedette con l’astrazione postpittorica che, giungendo alla semplificazione del monocromo, mise in mostra il valore concettuale dell’opera d’arte in generale. Si arrivò in tal modo a una riflessione analitica dell’arte sull’arte stessa, in cui centrale è l’idea e non più il medium, come evidenzia il passaggio da Ad Reinhardt a Joseph Kosuth. Tuttavia, Krauss ha individuato il modello del postmediale non in Kosuth, bensì in Marcel Broodthaers, in quanto artista alieno da esigenze analitiche e proteso verso una riconsiderazione dei mezzi colti nella loro molteplicità e nella loro obsolescenza, al servizio di un’ironica poetica retro. Krauss è ritornata poi su questo tema nel 2012 parlando però dell’esigenza di reinventare il medium ormai svincolato dalle tendenze riduzionistiche, in polemica con la postmedialità associata alle installazioni multimediali.

Rispetto a queste due accezioni principali emerge poi un’area intermedia, tesa a contemperare l’istanza artistica e quella mediale che si impernia sull’ambito dell’arte multimediale, ipermediale, intermediale e della cosiddetta New media art. Su questo fronte troviamo nel 2001 l’intervento del teorico dei media Lev Manovich, il quale, in un saggio intitolato Post-media aesthetics, critica la tendenza a considerare l’arte tecnologica in relazione alle varie peculiarità mediali (video art, net art ecc.). Egli ritiene necessario il superamento di queste categorie che legano l’arte alla specificità del supporto e parla di un’estetica post-digital e post-net. Rispetto a essa occorre semmai portare le categorie del pensiero tecnologico nell’arte in generale usando la terminologia informatica anche verso l’arte del passato, per es. parlando di Giotto in termini di immagini 2D o 3D.

Nel 2002 il critico spagnolo Jose Luis Brea tentò di ricongiungere le questioni poste da Krauss con il multimediale e la New media art. In sostanza per Brea la postmedialità consiste nella rivoluzione mediatica suscitata in arte come altrove dall’impatto dei new media. Nel 2005, l’artista e teorico austriaco Peter Weibel ha cercato invece di dare una propria definizione della condizione postmediale dal punto di vista dell’arte tecnologica. Secondo Weibel quest’ultima risente di una svalutazione storica che affonda le sue radici nel mondo classico e in quello medioevale, con la distinzione tra artes liberales e mechanicae. Questa posizione di inferiorità della tecnica è stata risollevata solo dall’Illuminismo e dalle avanguardie. In ogni caso, lo sviluppo delle tecnologie mediatiche (come la fotografia, la televisione e il computer) ha mutato nel profondo tutto il modo di concepire l’arte anche non tecnologica, per cui tutta l’arte oggi è postmediale. Ma l’arte è postmediale anche perché supera la specificità del medium nell’equivalenza e nella mescolanza dei media. In questo modo l’arte perde la sua aura e torna a riavvicinarsi alle tecniche.

Negli ultimi anni la riflessione si è concentrata soprattutto sulla postmedialità in relazione alla New media art, con esiti problematici, anche perché se i media tradizionali divergevano in modo netto tanto nell’uso quanto nel tipo di tecnologia (per es., la fotografia, l’incisione discografica e la videoregistrazione erano tre tecnologie differenti che oggi possono essere riunite in un’unica tecnologia digitale anche in differenti formati come il tablet o lo smartphone), oggi invece, essendo essi sempre multi-funzionali, hanno solo diverse preferenze d’uso e si basano fondamentalmente su una tecnologia comune. Quindi, una volta acquisito che i media stessi sono postmediali, occorre andare oltre questa stessa constatazione al fine di dedicarsi alla comprensione delle nuove possibilità offerte da questa situazione.

Bibliografia: F. Guattari, Vers une ère post-média, «Chimères», 1996, 28, http://www.revue-chimeres.fr/drupal_chimeres/files/termin51.pdf (15 giugno 2015); H. Slater, Post-media operators, 1998, http://infopool.antipool.org/Stamm.htm (15 giugno 2015); R. Krauss, A voyage on the North sea. Art in the age of the post-medium condition, London 1999 (trad. it. L’arte nell’era postmediale. Marcel Broodthaers, ad esempio, Milano 2005); L. Manovich, Post-media aesthetics, Karlsruhe 2001; J.L. Brea, La era postmedia. Acción comunicativa, prácticas (post)artísticas y dispositivos neomediales, Salamanca 2002; P. Weibel, The Postmedia condition, in Postmedia condition, catalogo della mostra, Madrid, Centro cultural Conde Duque, Madrid 2006, p. 98; D. Quaranta, Media, new media, postmedia, Milano 2010; R. Krauss, Under blue cup, Cambridge (Mass.) 2011 (trad. it. Milano 2012); Provocative alloys. A post-media anthology, ed. C. Apprich, J. Berry Slater, A. Iles et al., London-Lüneburg 2013.

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