INTERESSE

Enciclopedia Italiana (1933)

INTERESSE

Fulvio MAROI
Angelo SEGRE
Gino LUZZATTO
Giovanni DEMARIA

(dal lat. interesse "importare"; fr. intérêt; sp. interés; ted. Interesse, Zinsen; ingl. interest).

Sommario: Diritto e interesse (p. 378); Interesse nel diritto pubblico: Diritto amministrativo (p. 379); Diritto sindacale corporativo (p. 379); Diritto processuale civile (p. 379). - Interesse nel diritto privato (p. 380). - Tasso d'interesse: Nel diritto italiano (p. 380); Storia (p. 381). - Interesse nella dottrina economica (p. 383).

Diritto e interesse. - Nella teoria generale del diritto il termine interesse viene in considerazione principalmente per quanto riguarda la nozione del diritto. In una fase primitiva il concetto di interesse riassume e riflette esigenze di carattere religioso, preoccupazioni di ordine animistico o soprannaturale. Il diritto si esaurisce in norme che garantiscono le esigenze più impellenti della vita degl'individui o del gruppo. In quest'epoca pertanto non si parla di distinzione fra interesse quale scopo del diritto e interesse quale essenza del diritto: scopo ed essenza si confondono. Da un punto di vista storico-sociologico merita perciò accoglimento la dottrina di R. Jhering che fonda la nozione del diritto sul concetto di assicurazione di un interesse, inteso questo termine nel senso più comprensivo di condizione di esistenza dell'individuo o del gruppo sociale. La norma di diritto può pertanto considerarsi originariamente quale norma di protezione d'interessi individuali o sociali, di difesa della persona o dell'aggregato da ogni sorta d'influenze occulte o malefiche (ciò spiega come la norma primitiva di diritto più spesso si traduca nella prescrizione di riti d'igiene magica).

Sarebbe però sterile tentativo costruire oggi il concetto di diritto sullo stesso fondamento della protezione di un interesse; poiché, se è vero che nella società moderna ogni diritto subiettivo ha per suo elemento un interesse e si afferma comunemente che non c'è diritto senza interesse, l'esperienza insegna che a ogni interesse non corrisponde necessariamente una protezione giuridica. La soddisfazione d'interessi umani costituisce oggi solo lo scopo e non l'essenza del diritto: se si concepisse il diritto come un interesse garantito, mancherebbe ogni possibilità di distinguere i diritti subiettivi dagli effetti riflessi del diritto obiettivo, poiché la protezione d'interessi può avvenire senza l'attribuzione di un diritto. Non meno vivamente controverso è nella teoria generale del diritto l'identificazione del concetto d'interesse in rapporto ai concetti connessi di bisogno, di bene, di utilità ai fini della determinazione dei presupposti della tutela penale e civile. Sotto un altro riguardo, infine, viene in considerazione l'interesse nella teoria delle fonti del diritto per quel che si riferisce ai presupposti della funzione normativa; problema particolarmente dibattuto in questa materia è quello che ha rapporto alla funzione del giudice nella valutazione degl'interessi controversi, soprattutto in difetto di una norma di legge.

Interesse nel diritto pubblico. - Consideriamo particolarmente i varî significati che ha il termine interesse nel diritto pubblico moderno. Il diritto pubblico accanto alla tutela dei diritti subiettivi pubblici conosce una tutela degl'interessi giuridici o legittimi, sotto alcuni riguardi più efficace e rigorosa della tutela dei diritti: si pensi alle sanzioni di carattere penale con cui sono protetti gli interessi (a torto qualificati diritti) alla vita, all'onore, alla salute, ecc.; però, sotto altro riguardo, detta tutela è meno assoluta e perfetta, poiché la protezione che l'ordinamento giuridico appresta agli interessi, non importa il diritto di pretenderne il soddisfacimento.

Diritto amministrativo. - La distinzione fra diritto e interesse è tipicamente caratteristica nel campo del diritto amministrativo. La distinzione fra questi due termini, che risale al diritto romano (Dig. XXXVIIII, 2 De damno infecto, 26), quantunque la dottrina tedesca e la francese vogliano rivendicarsene la paternità, è divenuta ormai usuale nella dottrina e nella prassi amministrativa italiane essendo fondata su di essa la diversa competenza del potere giudiziario ed esecutivo e la diversa serie di rimedî giurisdizionali e amministrativi dati a tutela della lesione di un diritto o di un interesse. Invero, mentre a giudicare delle controversie relative a un diritto subiettivo, privato o pubblico, è competente di regola l'autorità giudiziaria ordinaria, competenti a giudicare delle controversie in cui si faccia questione d'interessi lesi sono i tribunali amministrativi (v. giustizia amministrativa). Non senza ragione è stato affermato che la storia del contenzioso amministrativo in Italia può dirsi la storia degl'interessi che cercano di affermarsi e di avere una legale garanzia per farsi valere.

Gl'interessi, ai quali vien riconosciuta garanzia giurisdizionale, sono detti interessi legittimi. La figura di tale interesse, che non è solo di carattere patrimoniale, ma anche morale, è solo indirettamente protetta nell'ordinamento giuridico in quanto la sua tutela non si spinge a concedere al titolare il diritto di pretenderne la soddisfazione, poiché la norma giuridica che accorda protezione all'interesse lascia alla pubblica autorità una potestà discrezionale circa l'obbligo d' informarsi a essi. La differenza fra interesse giuridicamente protetto e interesse legittimo sta quindi in ciò, che mentre del primo è possibile ottenere la reintegra dall'autorità giudiziaria, la tutela giurisdizionale dell'interesse legittimo si esaurisce nell'annullamento dell'atto amministrativo che non risulti conforme alla legge, o perché nell'emetterlo l'autorità amministrativaabbia assunto un potere o una facoltà che non le è riconosciuta dalla legge o perché sia incorsa nell'infrazione di una norma obiettiva riguardante l'osservanza di determinate forme o la competenza di una determinata autorità. In definitiva l'interesse legittimo consiste nel diritto di ogni persona a che l'autorità amministrativa osservi nei suoi confronti il diritto obiettivo e ne ottemperi le norme.

Fra la categoria d'interessi legittimi, per i quali si ha garanzia giurisdizionale nei limiti di cui sopra, e quella degl'interessi di fatto, per i quali non vi è alcuna garanzia, in quanto manca ogni norma a loro tutela, si pone una categoria intermedia d'interessi che l'ordinamento giuridico prende indirettamente in considerazione: sono questi gl'interessi individuali che trovano nella norma di legge una tutela soltanto subordinata e discrezionale (interessi semplici).

Considerati dal punto di vista del loro contenuto gl'interessi si distinguono, infine, in patrimoniali e morali. La dottrina comunemente richiede che l'interesse legittimo debba essere anche individuale sia della persona fisica, sia della persona giuridica. Va rilevato peraltro che nella più recente dottrina e giurisprudenza del Consiglio di stato si va profilando la possibilità della tutela giurisdizionale d'interessi di categoria, considerandosi a ciò legittimato il sindacato.

Diritto sindacale corporativo. - In questo campo la nozione d'interesse che va considerata è quella di interesse collettivo. Lo stato, supremo tutore del bene pubblico, convinto che la pacifica convivenza fra i varî gruppi sociali e il perfezionamento della produzione è un supremo interesse di ordine pubblico, ha avocato a sé, quantunque non direttamente, la tutela degl'interessi collettivi delle singole categorie dei lavoratori e dei datori di lavoro attraverso quell'autodiciplina di categoria che trova la sua più tipica espressione nell'organizzazione della rappresentanza di categoria e nel regolamento collettivo. Con ciò, mentre non s'identificano gl'interessi della nazione, che sono personificati dallo stato, con gl'interessi delle varie categorie economiche che possono potenzialmente concepirsi in conflitto con quelli dello stato, si tiene ben distinto l'interesse collettivo, inteso come interesse di categoria, dall'interesse collettivo, inteso come interesse dei varî gruppi sociali o interesse di maggioranza. Ché anzi la stessa legge (art. 3, legge 3 aprile 1926, n. 563) ha preordinato e voluto tale contrasto considerandolo un conflitto istituzionale.

Lo stato, tuttavia, mentre provvede ad assicurare la prevalente tutela degl'interessi nazionali, quando essi siano in antitesi con gli interessi delle sottostanti categorie, non manca di equilibrarli, di disciplinarli e, infine, anche di comporli attraverso la sentenza della Magistratura del lavoro, l'ordinanza corporativa, il regolamento professionale. Trova, così, espressione concreta la solidarietà tra i varî fattori della produzione, mediante quella conciliazione degli opposti interessi fra datori di lavoro e lavoratori e la loro subordinazione agl'interessi superiori della produzione che nel paragr. 4 della Carta del lavoro ha la sua più esplicita conferma. Non va peraltro identificato l'interesse di categoria con l'interesse amministrativo: ciò porterebbe a considerare il diritto corporativo come una branca del diritto amministrativo.

Diritto processuale civile. - La nozione dell'interesse legittimo garantito dal ricorso alla giurisdizione amministrativa va tenuto distinto dalla nozione dell'interesse ad agire nel campo processuale civile: in più riscontri si ha a esso riguardo nel cod. proc. civile.

Fondamentale anzitutto l'art. 36: "Per proporre una domanda in giudizio o per contraddire alla medesima è necessario averne interesse". Applicazioni di detto principio si hanno: 1. nell'art. 201 cod. proc. civ. in cui si consente l'intervento (intervento adesivo) di chiunque abbia interesse (anche di mero fatto): diversamente nel diritto processuale civile tedesco in cui si richiede l'esistenza di un interesse giuridico; 2. negli articoli 203, 205 cod. proc. civ. in tema d'intervento coatto e intervento ordinato d'ufficio in cui è disposto che può essere chiamato in causa il terzo al quale si creda comune la controversia e che può dal giudice ordinarsi l'intervento sol che egli lo ritenga opportuno; 3. negli articoli 469, 470, 471 in cui si accenna all'interesse di più persone riguardo alla riforma o all'annullamento di una sentenza essendo presupposto per la proponibilità del gravame la totale o parziale soccombenza; 4. negli articoli 510, 512, in cui si dispone che un terzo può proporre opposizione a sentenza pronunziata fra altre persone, non solo quando ne sia pregiudicato un suo diritto incompatibile col diritto dichiarato nella sentenza, ma altresì quando esso abbia un interesse contrario alla dichiarazione del diritto contenuta nella sentenza (G. Chiovenda, op. cit. in bibl., p. 1009). Inoltre tra le condizioni per il ricorso in Cassazione è richiesta altresì l'esistenza di un interesse nel ricorrente: si richiede cioè che egli sia gravato dalla sentenza denunziata; né può trascurarsi la menzione del ricorso per Cassazione "nell'interesse della legge", quantunque la pratica quasi la ignori, per cui il Pubblico Ministero presso la Corte di cassazione può denunziare d'ufficio una sentenza, senza però che le parti possano giovarsi dell'eventuale annullamento della sentenza.

Ma se da questi atteggiamenti specifici dell'interesse nel campo processuale si voglia pervenire a una nozione unitaria dell'interesse ad agire e alla sua giustificazione, s'incontra una delle più ardue questioni della moderna dottrina processualistica. Non a torto è stato di recente affermato che il requisito dell'interesse ad agire perde ogni giorno terreno, e invero la più moderna dottrina o ne riduce autorevolmente il campo di applicazione (G. Chiovenda), per cui l'interesse ad agire non consiste soltanto nell'interesse a conseguire il bene garantito dalla legge, ciò che forma il contenuto del diritto, ma nell'interesse a conseguirlo per opera degli organi giurisdizionali; o lo respinge considerandolo superfluo (F. Invrea), sostituendolo con quello di "causa legittima di agire contro una data persona"; o infine (F. Carnelutti, in senso contrario P. Calamandrei), lo identifica col concetto di "sussistenza obbiettiva di una lite". Non manca, peraltro, chi invece difende il concetto d'interesse ad agire (o contraddire la parte del convenuto) inteso come "interesse all'attuazione della legge sostanziale e in ordine a una data ragione mediante un provvedimento giurisdizionale di tipo determinato", differenziandolo dall'interesse che costituisce il contenuto del diritto dedotto in giudizio, in quanto il primo, di natura processuale, avrebbe carattere surrogatorio o sostitutivo rispetto a quest'ultimo che presuppone insoddisfatto, arrivando alla conseguenza che se anche mancasse una norma esplicita in materia, nessuno dubiterebbe che per potere agire sia necessario un interesse valutato dal diritto (E. Betti). Lo stesso vario atteggiarsi della nozione d'interesse ad agire secondo che si tratti di azioni di condanna, di accertamento, di azioni costitutive, di azioni assicurative, nonché l'incertezza sempre più dilagante che domina la dottrina e la giurisprudenza, circa i requisiti dell'interesse (secondo la vecchia dottrina processuale l'interesse ad agire deve essere diretto, legittimo, attuale, economico, e non a scopo di emulazione) sta a dimostrare che la nozione di interesse è forse una nozione più feconda di controversie che di utili orientamenti.

Peraltro la giurisprudenza più recente della Corte di cassazione non tende ancora ad abbandonare il concetto d'interesse ad agire pur connettendolo all'esistenza e alla nozione di un diritto di cui chi agisce abbia la possibilità di essere considerato come soggetto (Cass. 27 luglio 1928, in Foro it., 1929, 65). Essa non ha mancato di respingere come presupposto della domanda ogni interesse semplicemente morale; richiedendo invece un interesse avente consistenza obiettiva e valutabile dal giudice (Cass. 12 settembre 1925, in Foro it., 1926, 17). Né la suprema corte è aliena dal riconoscere l'utilità della figura dell'interesse ad agire per l'ammissibilità dell'azione di accertamento (Cass. 14 gennaio 1931, in Foro it., 1931, 564).

Va rilevato infine che i tribunali si giovano spesso del concetto di interesse ad agire per negare tutela giuridica (sempre che manchi un apprezzabile interesse da far valere) ad azioni emulatorie intentate a solo scopo di nuocere al vicino senza alcuno scopo di giovamento. Il quale indirizzo non è però senza contrasto, in base alla considerazione che l'interesse ad agire non può confondersi col motivo subiettivo interno che sospinge il titolare all'esercizio del proprio diritto.

Interesse nel diritto privato. - Nel campo del diritto privato il concetto d'interesse ha significati non meno varî e applicazioni non meno estese. Nella dottrina delle obbligazioni il termine interesse assume una particolare rilevanza anzitutto nei riguardi di requisiti della prestazione (interesse patrimoniale, interesse morale, ideale o d'affezione); inoltre nella teoria del risarcimento del danno. Chi ha recato un pregiudizio sia al patrimonio d'una persona sia alla sua integrità personale o morale è tenuto al risarcimento del danno. Questo consiste nella prestazione di una somma di denaro rappresentativa non solo della cosa distrutta o deteriorata o della mancata prestazione o del diritto violato o del ripristino divenuto impossibile o ricusato dal danneggiato, ma altresì rappresentativa dell'interesse del danneggiato che l'atto illecito (comprensivo anche della violazione di un rapporto contrattuale) non fosse stato compiuto. La nozione del danno-interesse (id quod interest), la sua misura, le condizioni e i limiti di esso appartengono più particolarmente alla dottrina del risarcimento del danno.

Vogliamo qui solo più particolarmente accennare alla distinzione fra interesse positivo e interesse negativo: il primo, detto anche interesse di esecuzione, è dato dalla valutazione di tutti i danni che il creditore di una prestazione ha subito in caso di inadempimento; il secondo, invece, si limita ai soli danni che sono derivati al creditore per aver fatto assegnamento su di un rapporto obbligatorio che è mancato per colpa del promittente e di cui invece era giustificata l'aspettativa (id quod eius interest contractum initum non fuisse): così, ad esempio, se per colpa del proponente un contratto non sia pervenuto a perfezione o sia annullato per motivi a lui personali o per impossibilità della prestazione a lui imputabile che impedisca il sorgere dell'obbligazione. Si parla più spesso di risarcimento dell'interesse contrattuale negativo a proposito della responsabilità precontrattuale (sul quale argomento e con particolare riguardo alle occasioni perdute come elemento di detto risarcimento cfr. G. Segré, Scritti giuridici, I, Cortona 1930, p. 475, nota 2).

Fra le prestazioni accessorie in danaro che assumono una speciale importanza sono quelle che hanno per oggetto la prestazione degl'interessi (usurae). Sono questi una categoria dei frutti (frutti civili) che rappresentano un corrispettivo o compenso per l'uso del danaro altrui.

Dal diritto romano ci deriva la nozione fra interessi volontarî e interessi legali. I primi sono quelli che derivano da una convenzione (specialmente da mutuo) o da disposizione testamentaria; i secondi sono quelli che sono dovuti ope iuris senza una speciale disposizione tra le parti.

Per il diritto romano vigeva il principio che un semplice patto fosse incapace di far sorgere l'obbligo agl'interessi: esso produceva per diritto classico solo un'obbligazione naturale e quindi l'irrepetibilità degli interessi anche se pagati per errore; occorreva una stipulazione (stipulatio usurarum, stipulatio sortis et usurarum). Il pactum de usuris praestandis diventa produttivo di azione solo in casi eecezionali: nel caso del fenus nauticum; nel caso di mutuo di generi diversi dal danaro e ciò a partire dall'epoca di Alessandro Severo (Cod. IV, 32, de usuris, 11-12); infine nel caso di mutui fatti da banchieri nel diritto giustinianeo (Nov. CXXXVI, 4).

Il codice italiano non richiede alcuna speciale formalità per la stipulazione degl'interessi: basta la volontà privata manifestata mediante negozio giuridico; solo che il legislatore a infrenare ogni abuso ha ritenuto opportuno stabilire che, quando il tasso convenzionale dell'interesse superi la misura legale, esso debba risultare da atto scritto sotto pena per il creditore di perdere il diritto a qualsiasi interesse (art 1831).

Gl'interessi legali si distinguono in interessi moratorî e in interessi corrispettivi: a) I primi nascono ex mora per il colposo ritardo del debitore all'adempimento dell'obbligazione.

Essi sono disciplinati dall'art. 1231 del cod. civ. il quale dispone che, salvo patto speciale e le eccezioni stabilite dalla legge, nelle obbligazioni che hanno per oggetto una prestazione pecuniaria, i danni derivanti dal ritardo nell'eseguirla consistono sempre nel pagamento degl'interessi legali e questi sono dovuti dal giorno della mora senza che il creditore sia tenuto a dimostrare alcuna perdita. In altri termini in tali obbligazioni, sempre naturalmente che il credito sia certo e liquido (in illiquidis non fit mora: peraltro tale massima non si applica quando non occorre una costituzione di mora; contro il suo valore assoluto di norma giuridica è la più recente giurisprudenza della corte suprema; cfr. altresì Montel, La mora del debitore, Padova 1930, p. 281 segg.), il legislatore iuris de iure presume che il creditore per effetto del ritardato pagamento subisca un danno di cui gl'interessi costituiscono il risarcimento. Grave è la questione, invece, se il creditore, che dimostri di aver ricevuto un danno maggiore, possa pretendere dal debitore, non responsabile che di solo ritardo, altro indennizzo a titolo di risarcimento o, che dir si voglia, altra indennità supplementare oltre gl'interessi legali. La dottrina parla in questo caso di interessi compensativi (danni-interessi). Peraltro è da rilevare che la predominante dottrina e la più recente giurisprudenza della Cassazione del regno (22 luglio 1930, in Foro it., 1930, 1075) tende a escluderli di fronte alla chiara perspicua formula dell'art. 1231 che prevede sole deroghe al principio da esso posto nei seguenti casi: convenzione speciale delle parti; società (art. 1710); fideiussione (art. 1915); materie commerciali (articoli 311, 312, 319, 359 cod. comm.). La giurisprudenza della suprema corte è anzi nel senso che anche in materia commerciale trova piena applicazione l'art. 1231, salvo il caso in cui la legge commerciale disponga che oltre gl'interessi moratorî siano dovuti anche i maggiori danni.

Il progetto italo-francese delle obbligazioni (1928) all'art. 202 stabilisce che il giudice può in ogni caso stabilire un risarcimento ulteriore al creditore che dimostri di aver subito per la mora un danno eccedente l'ammontare dei soli interessi legali.

b) Gl'interessi corrispettivi sono dovuti, all'infuori di qualsiasi caso di ritardo colposo o doloso del debitore, in conseguenza soltanto del fatto che il debitore abbia tratto un godimento dall'uso del denaro altrui.

Si tratta perciò di interessi dovuti in considerazione della persona (art. 308, 1397 cod. civ.) o in base al principio di equità (nemo locupletari debet aliena iactura). Il principio riceve numerose applicazioni (articoli 865, 1013, 1144, 1233, 1415, 1509, 1710, 1755, 1915 cod. civ.).

Quanto alla materia di commercio l'art. 41 cod. comm. stabilisce che i debiti commerciali liquidi ed esigibili producono interessi di pieno diritto anche se il debitore non sia in mora e nulla sia stato convenuto.

Tasso dell'interesse. - Nel diritto italiano. - Il tasso legale dell'interesse è oggi quello stabilito dalla legge 22 giugno 1905 n. 268 che ha modificato l'art. 1831 cod. civ.: e cioè il 4% in materia civile e il 5% in materia commerciale. Il tasso legale si applica quando gli interessi sono dovuti per legge e quando le parti, pur avendoli convenzionalmente pattuiti, non ne hanno determinato l'importo; la legge non pone limiti al tasso convenzionale: è decisiva a riguardo la libertà delle parti (art. 1831), salvo talune cautele poste a favore del debitore come remora per gli abusi di creditori usurai e cioè: nella materia civile la misura degl'interessi eccedente il tasso legale deve risultare da atto scritto sotto pena della perdita del credito di qualsiasi interesse; inoltre nei mutui feneratizî il debitore può restituire anticipatamente il capitale portante interesse maggiore della misura legale nonostante qualsiasi patto contrario (salvo le eccezioni poste nell'art. 1833 cod. civ. in parte abrogato dalla legge 16 maggio 1900 n. 173).

Quanto alla disciplina legislativa del cosiddetto anatocismo, consistente nella capitalizzazione degl'interessi scaduti e non soddisfatti allo scopo di renderli produttivi di successivi interessi, valga il rinvio all'art. 1232 cod. civ. nonché la voce anatocismo.

Storia. - Grecia. - Lisia afferma che Solone aveva decretato la libertà del tasso d'interesse; con sicurezza, per questo riguardo, sappiamo soltanto che nell'età soloniana era concessa una moratoria al tasso del 18%, per il caso di scioglimento di matrimonio e mora del marito nel restituire la dote. In Grecia manca una legislazione volta a reprimere l'usura, del tipo di quella romana e di quelle medievali. Si può dire che dalla battaglia di Maratona sino all'età alessandrina il tasso d'interesse in Grecia fosse in gran parte controllato dagli Ateniesi, il cui denaro pubblico era impiegato al 10%. E così pure la banca del tempio di Apollo a Delo mantenne costante questo tasso in tutte le operazioni che ci è dato seguire. Il tasso d'interesse del 10% si ritrova a Ilio, in Amorgo, Arcesine (secoli IV-III) e nella Beozia. Però nel sec. IV-III Arcesine con Amorgo, Egiale e Minoa contrae mutui al tasso del 12% e pure in questo periodo la sola Arcesine mutua all'8¼%, con pattuizioni d'interesse moratorio del 10%. In Grecia, e specialmente in Attica, il tasso d'interesse del 12% seguita a essere praticato di frequente accanto a quello del 10%, e, data la libertà di contrattazione degl'interessi, troviamo accenni a tassi d'interesse assai alti di solito per crediti poco sicuri. Il rischio rende assai elevati gl'interessi del prestito marittimo (ναυτικὸν δάνεισμα) calcolati per la durata del viaggio. Nel sec. II a. C., e al principio del I, le misure che erano normalmente del 10% nei casi più favorevoli, scendono a un livello del 7%-8% e persino al 6⅔%.

Caratteristiche della storia del tasso di interesse in Grecia sono: a) la libertà delle usure; b) la stabilizzazione degl'interessi a un livello assai basso del 10% per mutui bancarî e per investimenti pubblici dovuta alla concentrazione dei capitali nelle grandi banche dei templi che esercitano un influsso moderatore sulle usure. Il sec. II a. C. e il principio del I presentano ulteriori ribassi delle usure 7%-8% in Grecia, dovuti, probabilmente, alla scarsa possibilità di impieghi redditizî.

Roma. - Un plebiscito del 357 a. C. (secondo Livio), le XII Tavole e numerosi plebisciti (secondo Tacito) sancivano come massimo delle usure il fenus unciarium cioè il tasso di un'oncia per asse, l'8⅓%; già nel 407-347 a. C. (secondo Livio), dopo le disposizioni delle XII tavole (secondo Tacito) il fenus unciarium è ridotto alla metà, sinché, con la legge Genucia (342) (sempre secondo la tradizione liviana) con una lex Marcia (secondo Gaio) il mutuo a interesse è definitivamente vietato. Le leggi contro le usure non valevano che per i cittadini romani, per cui, sino a che nel 193 con la lex Sempronia il divieto delle usure non fu esteso ai Latini e ai soci, i capitalisti romani potevano intestare i loro crediti a persone non soggette alla lex Genucia. Questo divieto generale degl'interessi, esteso ai Latini e ai soci, dovette, naturalmente, restar lettera morta per la incompatibilità fra queste leggi e lo sviluppo commerciale della Roma repubblicana. Infine il mutuo ebbe una nuova disciplina da Silla, il quale sembra emanasse una lex unciaria nell'88 che concedeva come limite massimo delle usure il decimo (?) del capitale.

In Oriente poi subito dopo Silla lo stato di quelle provincie determina una legislazione speciale. Le prime disposizioni ad hoc emanate da Lucullo contengono i seguenti capi: a) divieto del tasso d'interesse superiore al 12%; b) riduzione degl'interessi eccedenti questo limite per i mutui in corso; c) riduzione delle anticresi dei creditori alla sola quarta parte dei redditi dei debitori; d) divieto assoluto dell'anatocismo. Di queste alcune restarono in vigore solo durante la pretura di Lucullo, altre invece furono conservate con qualche modificazione.

Per tutta l'età repubblicana anteriore al sec. I a. C., mentre conosciamo le usure legali, non sappiamo quali fossero i tassi d'interesse effettivamente praticati. Il nuovo calmiere del tempo di Silla fu abrogato nel 51, data del noto senatoconsulto che limita le usure legali alla centesima mensile, cioè al 12%. Il periodo della lotta fra Mario e Silla, dei triumviri e dell'inizio dell'impero è contrassegnato da forti sbalzi del tasso d'interesse che scende spesso a livelli (fino al 4%) mai raggiunti stabilmente nei paesi di cultura ellenica poiché la spogliazione metodica delle provincie dell'Oriente portava a Roma un flusso variabilissimo di capitali liquidi costituiti specialmente dai metalli preziosi. Già nell'età ciceroniana il tasso delle usure è nettamente più basso che all'età di Silla. Nell'ultimo periodo repubblicano il tasso d'interesse oscillava per investimenti sicuri fra un massimo dell'8% e un minimo del 4%. Il 6% ci è presentato nel 62 da Cicerone come un'usura onesta.

Ben diverse sono le condizioni del credito in questo stesso periodo nei paesi dell'Oriente. Gytheion, ad es., per pagare la taglia imposta alla città da C. Antonio ottenne da due fratelli romani un prestito di 4200 dramme al 48% e l'anno di poi il mutuo fu rinnovato al 24% senza anatocismo e con abbuono di 1500 dramme del debito. Ancora dopo la legislazione del 51, Salamina di Cipro era debitrice verso due negotiatores romani, prestanomi di M. Bruto, per un mutuo, contratto nel 50, al 48%.

Il tasso d'interesse nei primi tre secoli dell'impero si mantiene assai diverso fra provincia e provincia. I prezzi delle merci al pari di quelli del denaro nel sec. I-III d. C. variavano di molto per quanto l'impero avesse unificato quasi tutto l'orbe romano in un unico territorio monetario. Sotto l'impero in Occidente, le centesime (1% al mese) rappresentano un massimo che nel mondo latino non è raggiunto che dagl'interessi moratorî e dagl'interessi nei mutui di consumo di carattere usurario. Nei numerosi documenti del periodo che va dagli Antonini ai Severi, il tasso d'interesse per i crediti sicuri non supera il 6% e non di rado si mantiene sul 5%. Tasso d'interesse e tasso di capitalizzazione tendono a equipararsi e a mantenersi a quell'altezza sino alla metà del sec. III. Il 6% era il limite delle usure oneste; queste sono concesse ai senatori da Alessandro Severo e, cosa assai più significativa, le usure sono praticate in Egitto dal tempio di Giove Capitolino in Arsinoe, cioè da una banca probabilmente impiantata con capitali romani in un paese dove il tasso corrente d'interesse è del 12%. Le fondazioni alimentari, le fondazioni testamentarie, le amministrazioni dei fondi pupillari, come gl'interessi dei mutui ben garantiti, ci dànno tutti press'a poco gli stessi risultati. Non solo, ma in qualche caso perfino gl'interessi moratorî non superano il 6%, e così pure quelli dello stesso fisco sostituitosi al creditore. È assai basso l'interesse del 4% nel sec. II-III d. C. praticato da Antonino Pio e da Severo Alessandro, che sembra abbia ridotto il tasso d'interesse del fisco al 4%.

Nell'età traianea, adrianea e poi degli Antonini, il denaro del fisco, assai abbondante, sembra trovasse difficilmente impiego. In parte esso è devoluto per istituzioni benefiche e in parte fu investito in mutui. L'imperatore costringeva coloro che appartenevano alle classi più ricche ad accettare il denaro a un tasso determinato, dando garanzie reali.

All'infuori dell'Egitto poco o nulla sappiamo delle usure concesse nei mutui di specie: si può supporre ehe per i veri mutui di specie non sieno esistiti i limiti della centesima. Per quanto si riferisce al fenus nauticum, il mutuante che assumeva in esso il premio di assicurazione per la parte preponderante aveva facoltà di determinare liberamente le usure. Cessato però il periodo della navigazione, per il computo degl'interessi ritornava in vigore il senatoconsulto del 51.

Il livello del tasso d'interesse in Grecia e nei paesi dell'Oriente ellenico oscillava normalmente fra l'8 e il 9% per investimenti sicuri. Però la domanda di capitali è scarsa. A Plinio il Giovane (governatore della Bitinia) che domandava se doveva costringere i decurioni ad accettare il denaro al 9% nel caso non si trovassero a collocare i capitali a tali condizioni, Traiano risponde lasciandogli la facoltà di regolare le usure secondo la domanda dei capitali. Si può supporre che in Transilvania la centesima fosse l'usura corrente nell'età degli Antonini.

Mentre durante l'alto impero per gl'investimenti sicuri non si superava l'usura del 6% e per le fondazioni quella del 5%, e nei paesi greci i capitali trovavano una rimunerazione del 9%-8%, nell'età prebizantina la centesima sembra usata anche nelle fondazioni.

Il periodo bizantino è caratterizzato da un più alto contrasto fra il tasso d'interesse ovunque effettivamente aumentato per la scarsezza dei capitali, e le leggi che tentano di abbassare il livello delle usure d'accordo con le dottrine cristiane. Ma le severe disposizioni dei primi concilî, che vietano assolutamente le usure agli ecclesiastici, si vanno temperando, sia in Occidente col terzo concilio di Orléans, sia in Oriente dove il sinodo Trullano (692) concede l'esercizio del mutuo a interesse al basso clero sino all'ordine dei diaconi escluso. La centesima, tasso d'interesse normale e legittimo nell'età bizantina prima della legislazione giustinianea, tende a mantenersi in vigore anche dopo il sec. VI, non ostante i divieti di Giustiniano. Per il mutuo di specie invece l'ἡμιόλιον nell'età bizantina è sinonimo dell'interesse. Ma anche per il mutuo di specie il canone 17 del concilio di Nicea, che proibisce ai chierici di dare denaro a prestito richiedendo le ἑκατοσταί, proibisce di richiedere l'ἡμιόλιον per i mutui di specie: questa proibizione è ripetuta nei concilî posteriori. Le ἑκατοσταί in ogni modo erano divenute ormai dopo il sec. IV un tasso d'interesse onesto e l'ἡμιόλιον in Oriente era ormai praticato regolarmente nei mutui di specie. In Occidente mancano prove sicure dell'esistenza dell'ἡμιόλιον quale interesse dei mutui di specie nei primi secoli dell'età bizantina.

La legislazione giustinianea basata sul principio dell'immoralità dell'interesse del capitale, dovendo conciliare in certo modo le necessità della pratica coi principî della morale, restringe i limiti concessi all'usura nelle legislazioni precedenti. La netta divisione in classi, caratteristica dell'età bizantina, serve all'imperatore per stabilire varî massimi legali nelle usure a seconda delle varie classi sociali (Cod. IV, 32 de usuris, l. 26, del 528). I viri illustres, come già i senatori sotto alcuni imperatori, non possono chiedere interessi superiori al 4%, coloro che sono preposti alle fabbriche o sono in affari (quindi anche i commercianti e i banchieri) si devono contentare dell'8%. L'usura centesima invece è conservata pel solo fenus nauticum e per le usurae rei iudicatae, che prima salivano al doppio della centesima. Per tutte le persone non comprese nelle categorie precedenti è stabilito come massimo delle usure il 6%. Dopo le disposizioni del 528 (che subiscono modificazioni e complementi a seconda delle condizioni particolari del credito o degli avvenimenti) si può scorgere facilmente nella legislazione giustinianea una tendenza a ridurre ancor più il tasso d'interesse, sempre entro il quadro della divisione delle classi. Alle disposizioni del Cod., IV, 32 deroga lo stesso imperatore in casi di necessità.

Nella novella 120 (del 544), ripetuta in parte nei Basilici, si dispone che le chiese e gli altri stabilimenti ecclesiastici non paghino in caso di mutuo più del 3% e che anche nel caso in cui lo stabilimento ecclesiastico dia l'immobile in pegno anticretico, i frutti dell'immobile siano commisurati solo al quarto della centesima. Con le disposizioni delle Nov. CXXXI, 12, 2 (a. 545), XL (a. 536) e CXX, 9 (a. 544) si sancì praticamente una vera inalienabilità del patrimonio ecclesiastico.

La legislazione giustinianea disciplinò anche la pecunia traiecticia (novella 106, a. 540): resta stabilito il tasso di un ottavo del capitale, cioè il 12½% per tutta la durata del viaggio, cioè sino a che la nave non fosse tornata in porto: da allora decorre l'interesse dell'8⅓%. Se la nave invece dopo il ritorno non può più intraprendere un nuovo viaggio, per 20 giorni, destinati alla vendita della mercanzia, non decorrono le usure, ma passato quel termine il creditore ha diritto all'interesse dell'8⅓%. Per le navi che trasportavano i cereali, le condizioni del fenus nauticum sono però alquanto diverse. Il creditore in tal caso riceve il 10% e per ogni solido mutuato ha il diritto di caricare un modio di grano o di orzo sulla nave senza pagare la dogana. Nella legislazione giustinianea è anche caratteristica la decorrenza degl'interessi del 12% solo durante la navigazione della nave, mentre sembra che le antiche usanze lasciassero alle parti completa libertà su questo punto. Alcuni particolari della legislazione giustinianea in tema di fenus nauticum mostrano un certo rispetto per le vecchie costumanze che ripresero del resto ben presto il sopravvento. L'inapplicabilità della regolamentazione giustinianea del fenus nauticum doveva essere assai vivamente sentita da una classe di persone pratica dei commerci. All'abbondanza delle disposizioni legislative nell'età giustinianea contrasta la quasi assoluta mancanza di dati positivi, dovuta certo, almeno in parte, ai travestimenti ai quali il mutuo va assoggettato per sfuggire ai rigori delle leggi.

Anche per il tasso di capitalizzazione, che tende per gl'immobili ad avvicinarsi al tasso d'interesse per investimenti sicuri di lunga durata, non abbiamo praticamente indicazioni che ci possano illuminare.

Egitto. - L'Egitto è l'unico paese del mondo greco-romano che ci permette di seguire con continuità per quasi 10 secoli l'andamento del tasso d'interesse. È molto probabile che la storia del tasso d'interesse in Egitto sia analoga a quelle degli stati ellenistici dell'Oriente. A Babilonia prima della conquista greca le usure correnti erano del 20%. È probabile che nei territorî dell'antico regno persiano, come in quelli dei Tolomei, i Greci abbiano poi investito una parte notevole di quelle ricchezze, che avevano portato via dall'Oriente, e che i sovrani ellenistici, che accentravano le ricchezze mobiliari e immobiliari nelle loro mani, abbiano fatto una politica atta a tenere alto il tasso d'interesse.

Una disposizione legislativa che risale a un διάγραμμα di Tolomeo Filadelfo della prima metà del sec. III a. C. fissa il tasso legale delle usure al 24%, che è probabile si riconnettesse a disposizioni indigene. L'esame dei prezzi degl'immobili fa supporre che anche il tasso corrente di capitalizzazione non fosse molto lontano da quello legale. Questo tasso legale rimane in vigore sino all'età augustea, per quanto gl'interessi normalmente pattuiti siano di solito più bassi, raggiungendo spesso il 12%. Il 24% rimane pur sempre il tasso delle usure moratorie. Nei mutui di generi è stipulata di solito la restituzione dell'ἡμιόλιον senza riguardo per la durata del mutuo che di solito è di pochi mesi.

La conquista romana dopo un periodo di assestamento portò probabilmente dovunque a ribassare il tasso d'interesse e a investire i capitali romani nei paesi meno civili e specie in Oriente, dove il tasso d'interesse era del 12%, superiore cioè anche a quello dei paesi greci. Nell'età imperiale, forse negli ultimissimi anni di Augusto, o poco dopo, il tasso d'interesse legale diventa quello del 12%, che è anche usualmente praticato. Solo banche romane istituite in Egitto prestano il denaro al 6% già al principio del sec. III d. C. Il periodo dell'inflazione monetaria imperiale che s'iniziò verso la metà del sec. III presenta ancora mutui al 12%. L'inflazione non reagisce, almeno apparentemente, aumentando il tasso d'interesse. Si abbreviano invece però di solito i termini dei mutui, si pattuisce la restituzione del denaro a richiesta del mutuante e si ricorre a negozî che mascherano il mutuo, quali le compravendite con pagamento del prezzo anticipato, contratti di somministrazione. Con l'età bizantina le usure legali del 12% s'impongono dovunque. Per cui Oriente e Occidente presentano tassi d'interesse uguali. Il movimento dei capitali è però allora assai scarso, perché è tendenza generale un ritorno all'economia naturale. Questo stato di cose dura anche nell'età bizantina allorché, consolidato in certo modo il corso del solido, permane tuttavia l'impoverimento generale delle popolazioni.

Le disposizioni giustinianee relative alle limitazioni delle usure non hanno vigore in Egitto dove rimangono in uso le centesimae.

Medioevo. - Il divieto canonico dell'usura, esteso - almeno nei primi secoli - a ogni forma d'interesse del denaro, se non ha impedito totalmente questa forma di attività, imposta da bisogni ineluttabili, ha creato attorno a essa un'atmosfera di avversione per cui è molto probabile che in nessuno degli Stati cristiani si volesse assegnarle un carattere di liceità, fissando un tasso legale dell'interesse.

Nell'economia naturale che predomina dopo il sec. VIII non mancano tuttavia i ricordi di mutui e di un vero e proprio esercizio dell'usura collegata, per quanto almeno se ne sa, con la produzione agricola. Nell'età carolingia si parla di mutui di cereali che, in momenti di carestia, un usuraio fa a un agricoltore che ne sia rimasto sprovvisto, fissandone il valore in denaro al prezzo corrente del grano. Al momento del raccolto il mutuatario potrà restituire l'equivalente di quella somma in natura; e poiché nel frattempo il prezzo del grano sarà disceso della metà o dei due terzi, egli restituirà una quantità di grano due o tre volte maggiore di quella che ha ricevuta, cioè, per un mutuo che in apparenza è gratuito, pagherà, dopo pochi mesi, un interesse del 100 o del 200 per cento. Un'altra forma di mutuo gratuito, in cui realmente si corrisponde un interesse rilevante, è quella, derivata da un istituto romano, per la quale il mutuante gode i frutti della terra che dal mutuatario gli è data in pegno.

In altri casi infine il mutuatario doveva corrispondere al suo creditore un certo numero di prestazioni d'opera a titolo d'interesse.

Ma accanto a questa forma di prestiti legati all'economia agraria non dovette mancare l'esercizio professionale del prestito a usura sia per scopi di consumo, sia per scopi commerciali o per necessità politiche e militari; e quest'esercizio dové essere monopolizzato in occidente dai mercanti orientali, siri ed ebrei, (più tardi anche dagl'italiani), i soli cioè che avessero disponibilità di denaro, pratica degli affari e audacia di speculatori e che, per la loro qualità di stranieri, fossero meno vincolati dalle leggi ecclesiastiche e civili. Per questi mutui in denaro sembra che l'interesse abituale e in certo senso legale (dato che la memoria è conservata in un famoso formulario notarile) fosse del 33% all'anno.

La forma del mutuo con godimento del pegno da parte del mutuante, che s'incontra nell'età carolingia, si ritrova in un documento veneziano del 1025, dove però, oltre al godimento della vigna in pegno, il mutuante si riserva un interesse del 20% (de quinque sex ad annum).

Invece in altro documento veneziano di pochi decennî più tardi (1089) s'incontra come abituale, forse attraverso la tradizione bizantina, la vecchia centesima romana (l'1% al mese, secundum usum patriae nostrae).

Ma nel sec. XI, e anche più nel XII, si è entrati ormai, almeno nelle città marittime e in tutti i maggiori centri commerciali dell'occidente, in un'età in cui il denaro e gli scambî hanno assunto un'intensità e una importanza del tutto nuove, e non si possono svolgere senza un largo e continuo ricorso al credito. Prima che la dottrina si adatti alle necessità nuove, e riconosca la legittimità dell'interesse almeno nei casi del "lucro cessante "del "danno emergente" e del "rischio", la pratica e la stessa legislazione avevano fatto molta strada, e sebbene mantenessero quasi dovunque immutato il divieto generico dell'usura, non solo riconoscevano, in moltissimi casi, la legittimità dell'interesse, spesso anche molto elevato, ma arrivavano spesso a determinarne il tasso.

Il riconoscimento ufficiale della legittimità dell'interesse s'incontra soprattutto nel debito pubblico, che dal sec. XII in poi prende uno sviluppo sempre maggiore; nei piccoli prestiti, che si possono chiamare di consumo, e per cui in moltissime città non solo si permettono, ma s'istituiscono d'iniziativa dell'autorità locale pubblici banchi di prestito, affidati a publici usurarii o feneratores; e finalmente in tutte quelle forme di credito, che si possono riassumere sotto il nome di "credito commerciale", e in cui l'elemento predominante è costituito dal rischio.

Per il debito pubblico prima che si arrivi, dove si può arrivare, alla forma dei prestiti obbligatorî, o - comunque - del debito unificato e consolidato, a cui si corrisponde un modico interesse, per lo più del 5%, principi e città sono costretti a contare sui mutui volontarî, per i quali devono pagare interessi assai più elevati e che variano spesso, a seconda delle condizioni del mercato e del tasso praticato dai prestatori di danaro più accreditati. Indubbiamente altissimo doveva essere l'interesse che i sovrani d'Inghilterra, di Francia, di Borgogna corrispondevano nel sec. XIII e XIV ai mercanti italiani; ma convertito, com'era almeno per buona parte, in concessioni di licenze d'esportazione, in appalti di dazî o in altre forme di privilegi, non è facile determinarne, nemmeno approssimativamente, il livello. Per i maggiori comuni invece, nei quali la maggior abbondanza di danaro e la sua più rapida circolazione contribuivano ad abbassarne il costo, e in cui la ricerca e la stipulazione dei mutui e la misura dell'interesse che si corrisponde per essi sono spesso oggetto di pubbliche deliberazioni, il tasso è assai più modesto, e varia - per lo più - dal 6 al 15%, ma è soggetto a frequenti e rapide oscillazioni: a Venezia, ad esempio, nel 1285 si contrae un mutuo all'interesse dell'8%, come esigono in sua statione i banchieri Bollani; tre anni dopo, non essendo possibile trovare un mutuo al 10%, si autorizza la Camera del frumento a pagare l'interesse del 12% ai suoi creditori. Nei piccoli comuni, invece, di carattere prevalentemente rurale, dov'è necessario ricorrere a prestatori forestieri di professione, il tasso d'interesse raggiunge livelli assai più alti, per lo più del 30% all'anno.

Ma i casi più frequenti di determinazione ufficiale del tasso d'interesse riguardano l'esercizio autorizzato del piccolo prestito non tanto nei grandi centri mercantili, dove le occasioni di trovar denaro a prestito erano facili e frequenti, quanto nei comuni minori e negli stati in cui è ancora poco sviluppato il commercio attivo. È frequentissimo, dal Duecento in poi, il caso di privilegi concessi a prestatori singoli o a compagnie di prestatori di aprire sulla pubblica piazza un banco di prestiti, su pegno o anche - più raramente - su carta, per un tempo determinato e a determinate condizioni. Per lo più questi prestatori autorizzati, privilegiati o condotti, sono forestieri, sia perché la deroga alle leggi proibitive è concessa più facilmente a un estraneo che a un cittadino, sia soprattutto perché fra i cittadini non v'è abbondanza di persone che abbiano larghe disponibilità di denaro: sono per lo più Toscani nelle Marche, nel Lazio, nell'Italia meridionale, nel Friuli; sono Toscani, Lombardi, Caorsini in Francia, nei Paesi Bassi, in Inghilterra; sono finalmente Ebrei un po' dappertutto, specialmente dove manchino altri prestatori o dove si voglia porre un freno alle loro pretese eccessive. Per questi prestatori autorizzati il tasso dell'interesse è pubblicamente fissato, o dal privilegio che è loro concesso dalle autorità locali, oppure dagli statuti stessi del comune. Nella misura di questo tasso legale si notano da luogo a luogo e d'anno ad anno differenze assai forti: così, ad esempio, Filippo Augusto di Francia non concede agli Ebrei di esigere più del 10% all'anno; invece poco dopo Filippo il Bello eleva il tasso al 20%; e press'a poco negli stessi anni l'imperatore Ludovico il Bavaro concede ai borghesi di Francoforte ch'essi non possano pagare interessi superiori al 22%. Invece nella stessa città, un secolo e mezzo più tardi, i prestatori ebrei reclamano l'interesse del 32%.

Federico II, per il Regno di Sicilia, impone agli Ebrei di non esigere più del 10%; il Comune di Verona, nel 1228, fissa il tasso legale del 12%, quello di Genova del 15%.

Ma in realtà, tolto il caso di grandi centri commerciali, come Genova, Firenze e Venezia, anche il tasso del 15% risulta alle autorità stesse troppo basso perché esso incoraggi l'esercizio effettivo dei piccoli prestiti. L'"uso senese", a cui si richiamano varie fonti toscane, era di 4 denari per libra al mese; e da 4 a 6 denari mensili per libra (dal 20 al 30% all'anno) varia appunto il tasso legale fissato dalla maggior parte degli statuti cittadini della metà del Duecento e di tutto il Trecento. A Padova, ad esempio, uno statuto del 1263 fissa il 20% per i prestiti su pegno, il 30% senza pegno; e quando nel 1415, Venezia, dopo l'acquisto della terraferma, vuole imporre un interesse massimo del 12%, non si trova nessuno che voglia prestare a quelle condizioni. La stessa misura del 30% si trova negli statuti di Sassari e di Cuneo; mentre quelli di Chieri e d'Ivrea limitano l'interesse al 20%. Gli esempî si potrebbero moltiplicare e indurrebbero tutti alla stessa conclusione che il tasso legale più comune è quello del 30%; conclusione confermata anche dalle numerose notizie che ci son rimaste sul cosiddetto "interesse di mora", sull'interesse cioè che era lecito esigere dal debitore che non avesse restituito alla scadenza la somma mutuatagli gratuitamente, e che era fissato appunto, nella maggior parte dei casi, nella misura di 6 denari per libra al mese. E del resto pare, per quanto si debba giudicare da scarsi indizî, che la stessa misura regolasse anche il cosiddetto dono che il mutuante conteggiava nel suo mutuo gratuito, e che era considerato dovunque come legittimo o almeno tollerato.

Inferiori invece a questi tassi legali sono gl'interessi che esigono nelle maggiori città commerciali i mercanti, che non sono "pubblici usurai" ma impiegano spesso e volontieri una parte dei loro capitali in mutui di natura molto varia. Da un quaderno di memorie di una ditta commerciale di Firenze si è rilevato che sui mutui da essa concessi fra il 1327 e il 1338 l'interesse riscosso variò dal 7 al 15% all'anno. Ma se nelle loro città i mercanti toscani dovevano essere modesti nella misura degl'interessi, essi potevano rifarsi all'estero (e non solo fuori d'Italia) dove la posizione di monopolio permetteva loro di essere assai più esigenti, arrivando al 40, al 50 e talvolta anche all'80%.

Diversa è la situazione della terza categoria di mutui, a cui in senso largo si può dare il nome di commerciali, e in cui l'elemento prevalente è il rischio, ossia la partecipazione indiretta agli utili o alle perdite dell'impresa. Fra questi alcuni hanno la forma vera e propria del mutuo, altri ne hanno la sostanza, sebbene rivestano la fomna dei contratti di commenda, di colleganza, di società, di assicurazione e così via. L'elemento che serve a determinare il carattere feneratizio di questi contratti, per cui un capitalista finanzia un'impresa industriale o commerciale, è la misura prestabilita dell'interesse, la quale varia naturalmente a seconda del rischio: minima per le anticipazioni che singoli soci fanno alla loro società oltre alla loro quota sociale, per le quali si fissavano interessi variabili dal 5 al 6%, massima per il fenus nauticum, in cui spesso si superava il 30%. Ma questa forma, sebbene abbia radici nel mondo medievale, appartiene a un'attività sempre più schiettamente capitalistica, sottratta a ogni regolamentazione e preludente allo sviluppo dell'economia moderna.

Età moderna e contemporanea. - Con gl'inizî infatti dell'età moderna la situazione e la mentalità economiche, che si erano manifestate dopo il sec. XIII in poche grandi città mercantili, si affermano sempre più apertamente in gran parte dell'occidente europeo. La maggiore abbondanza di capitali e le più frequenti occasioni di trovare per essi un impiego fruttifero in mutui a breve e a lungo termine, a privati e a enti pubblici, finiscono per modificarne non solo la pratica di ogni giorno, ma anche l'opinione dell'autorità civile e religiosa sulla liceità dell'interesse del denaro. Calvino si dichiara decisamente favorevole a un modico interesse non solo nei casi ch'erano già stati ammessi dagli scolastici, ma anche in tesi generale, difendendolo con argomenti schiettamente economici. Ma la sua non è la voce di un isolato; la legittimità dell'interesse è sostenuta con efficacia non minore anche da parte cattolica. Ormai nonsi fa più questione di lecito o d'illecito; ma soltanto di misura, sicché vanno moltiplicandosi le disposizioni legislative che fissano il massimo dell'interesse, il quale varia naturalmente a seconda del luogo, a seconda del tempo, e a seconda della qualità del mutuo, se cioè è fatto a privati o a enti pubblici, per necessità di consumo o per scopi commerciali, su semplice carta, o su pegno o ipoteca. In Inghilterra l'interesse massimo fu limitato dopo il 1545 al 10%; nel 1624 all'8%; nel 1652 al 6%, nel 1714 al 5%. In Francia nel 1601 e nel 1627 fu proibito di esigere un interesse superiore al 6%, pena la confisca del capitale. In Olanda, dove l'abbondanza di capitali era assai maggiore, l'interesse legalmente permesso discese nel 1640 al 5% e nel 1655 al 4%. La tendenza è dunque dappertutto alla diminuzione, sebbene di tratto in tratto, per alcune condizioni particolarmente difficili del mercato del danaro, si debba ritornare a tassi legali più alti.

La realtà non corrispondeva però sempre all'intenzione del legislatore, e per lo più gl'interessi effettivamente pretesi erano molto più alti del tasso legale. Non solo questo avveniva per i mutui chirografarî fra privati, in cui l'interesse seguitava spesso a raggiungere livelli altissimi (Ebrei e Lombardi avrebbero preteso in Inghilterra fino al 1600, in media, un interesse del 20 per cento; e gli orefici di Londra sarebbero arrivati fino al 33%); ma lo stato stesso, sui prestiti ch'esso chiedeva, era costretto molte volte, anche negli stati economicamente più progrediti, a concedere un interesse del 7 e dell'8%; mentre in paesi più poveri e più arretrati, o in momenti più diffificili, si arrivava, per tali prestiti pubblici, al 10 e anche al 12%. Eccezionalmente invece in qualche stato, dove l'accumulazione capitalistica fu più rapida e intensa e dove talvolta l'offerta di capitali era superiore alla domanda, l'interesse effettivo scese in qualche anno al di sotto dell'interesse legale: come avvenne in Olanda, dove nel 1660 si sarebbero stipulati dei mutui all'interesse del 3%, e si sarebbe scesi, dopo il 1700, al 2½%. Ma anche in Olanda dev'essersi trattato di casi eccezionali, mentre abitualmente l'interesse sui mutui vi si manteneva a un'altezza maggiore.

La tendenza alla diminuzione nel tasso d'interesse, accentuata nella seconda metà del sec. XVIII, tanto da indurre scrittori autorevoli, come Bentham e Turgot, a farsi propugnatori della libertà dell'usura, viene interrotta dalla Rivoluzione e dalle guerre napoleoniche, che determinano un rialzo altrettanto generale: alla fine di quel periodo Russia, Francia e Austria, dissestate dalle lunghe guerre, devono pagare per i prestiti contratti fra il 1814 e il 1820 un interesse dal 7 all'8%.

Dal 1820 al 1845 si manifesta invece un nuovo ribasso in tutta l'Europa occidentale, dove il tasso medio discende al 5 e anche al 3½%. Trionfa allora l'idea della libertà anche in questa materia; e l'abolizione della fissazione legale del tasso massimo d'interesse è decisa in Inghilterra nel 1854, in Danimarca nel '55 in Spagna, nel Regno di Sardegna, in Olanda e in Norvegia nel 1857, nel Belgio, in Austria e in Prussia tra il 1865 e il 1867.

Ma appunto negli anni in cui si rinunciava alla limitazione legale, la grande richiesta di capitali per le costruzioni ferroviarie, per altre opere pubbliche, per imprese edilizie, e per la rinnovazione e l'ampliamento di tutti gl'impianti industriali, determinava un nuovo movimento al rialzo, per il quale si manifestava, dopo il 1878, una reazione contro l'eccessiva libertà, e si votavano in varî paesi, compresa l'Inghilterra, delle nuove lemi contro l'usura. Non si arrivava, se non in pochissimi paesi, al ristabilimento dei tassi massimi, ma lo stato, o per esso le banche centrali, intervenivano efficacemente con la fissazione del tasso di sconto, sulla base del quale doveva necessariamente regolarsi la misura degli interessi corrisposti sui depositi bancarî, e indirettamente tutto il mercato dei capitali. Sulla base appunto delle variazioni nel tasso dello sconto si può constatare che dal 1875 al 1913 il costo del denaro tende continuamente a diminuire. È vero che anche in questo periodo lo sconto oscilla dal 3 al 7½ per cento; ma guardando alle medie annuali si constata che nei paesi più ricchi esso tende decisamente a diminuire, e con esso discende l'interesse che gli stati devono pagare per il loro debito pubblico: l'Inghilterra può ridurre gl'interessi al 2½, e in Francia la rendita 3% è quotata sopra la pari.

Guerra e dopoguerra, sconvolgendo il mercato dei capitali, hanno determinato il ritorno a tassi del 7 e dell'8%; ma dal 1931 in poi l'offerta dei capitali si palesa di nuovo assai superiore alla richiesta, e tassi di sconto e d'interesse, e lo stesso interesse sui debiti pubblici dimostrano dappertutto una decisa tendenza al ribasso.

L'interesse nella dottrina economica. - È il grado di preferenza per i beni attuali in confronto a un ammontare eguale di beni disponibili in un tempo futuro. Questa preferenza si rivela nettamente negli scambî attraverso il tempo, ossia nei prestiti, ma esiste anche in ogni fenomeno economico connesso col decorrere del tempo. Chi presta 100 oggi per avere dopo un anno 105 attribuisce alla prima quantità un valore eguale o inferiore al valore della seconda quantità. D'altra parte chi toglie a prestito a tali condizioni attribuisce alla prima quantità un valore eguale o superiore al valore della seconda quantità.

Il problema dottrinale - quali siano le cause che determinano l'interesse e come agiscano - è relativamente recente.

La fine del Settecento liberò l'interesse da ogni discussione sulla sua giustificazione morale. L'Ottocento portò la distinzione tra interesse e profitto e le teorie produttivistiche e dell'uso, con le prime delle quali si volle, dal lato dell'offerta, spiegare l'interesse con il sacrificio sopportato dal risparmiatore, chiamandolo a volte astinenza, attesa, lavoro del risparmio. Ma queste distinzioni non giovarono a rendere meno erronea l'ineluttabile conseguenza che basta prolungare l'attesa per aumentare l'interesse. Onde le ricerche si volsero ed espressero nelle restanti teorie, già abbozzate dai Fisiocrati, secondo le quali l'interesse dipenderebbe solo dall'uso del capitale. Ma non si avvertì che così si veniva ad assumere il fatto dell'interesse per provarlo, giacché se raddoppia l'uso del capitale, anche il suo valore raddoppia, rimanendo perciò immutato l'interesse. Allo stesso modo caddero le accuse avanzate dai socialisti che l'interesse costituisca un'estorsione compiuta dai capitalisti ai danni dei lavoratori, in quanto se il lavoratore riceve 1 e non 2, è perché il salario si paga in anticipo e non quando varrà 2. Per questo fu non piccolo merito della teoria generale dell'equilibrio economico l'avere accettato varî elementi di verità racchiusi nelle teorie produttivistiche e dell'uso, considerandoli tutti insieme e misurandone l'influenza nella determinazione del fenomeno interesse. Ma l'opera di questa teoria non può dirsi finita. Restano infatti a esaminarsi le influenze dovute al tempo e a fattori non strettamente economici e a farne la teoria in modo da legarla o da giustapporla a quella economica. In questo senso, di recente, alcuni autori hanno trasportato la teoria nella sfera dinamica esaminando il fenomeno soprattutto alla luce dei fattori che presiedono all'accumulazione e alla luce del profitto, dal quale dipende in gran parte, nelle società moderne, l'entità dell'interesse.

Le forze che determinano il livello del saggio d'interesse sono raggruppabili sotto quattro categorie. Anzitutto la preferenza per i redditi presenti in confronto a quelli che si presenteranno in futuro. Questa preferenza dipende dalla forma, dalla distribuzione nel tempo e dalla probabilità del reddito. La prima, in quanto chi, ad es., possiede redditi bassi ha una preferenza relativamente alta per i redditi attuali, perché pensa soprattutto ai bisogni del momento e pochissimo a quelli futuri. La seconda, perché, ad es., quando il reddito tende a crescere in futuro, si ha una preferenza per i redditi attuali relativamente elevata. L'ultima, perché il rischio di perdere il reddito nel futuro opera generalmente come un virtuale impoverimento del reddito in quel periodo. Perciò è chiaro che ogni individuo ha un suo grado di preferenza e che questo grado varia a seconda delle comunita e delle fasi storiche. Dove, ad es., sono sviluppati il sentimento di previdenza e l'amore per la posterità ivi il saggio d'interesse tende a essere relativamente basso. In Cina, India, Russia, invece, il saggio d'interesse tende per opposte ragioni a essere generalmente molto elevato, e ciò dipende anche dalla povertà delle popolazioni. Esiste tuttavia una tendenza a eguagliare in tutti gl'individui il grado di preferenza. Essa si attua in varî modi, ma i più importanti, e anche i più evidenti, sono due. Il primo consiste nel dare e prendere a prestito capitali, e il secondo nel vendere e acquistare beni fruttiferi. Si supponga esistente un certo saggio d'interesse a cui gl'individui possano liberamente togliere e prendere a prestito. In tal caso coloro i quali hanno un saggio di preferenza, per esempio, superiore al saggio d'interesse, venderanno parte del reddito futuro per ottenere un'addizione al reddito presente, prendendo a prestito un certo ammontare di capitali oppure vendendo quei beni che dànno un reddito ascendente nel futuro per acquistare capitali a redditi declinanti. Questo processo ha per effetto di abbassare il saggio di preferenza fino a raggiungere il livello del saggio d'interesse. Inversamente si dica, ove il saggio di preferenza sia inferiore al saggio d'interesse. Risulta da ciò che in condizioni di equilibrio perfette, quali sono sopra ipotizzate, il saggio di preferenza deve essere per tutti eguale ed eguale pure al saggio d'interesse esistente sul mercato dei prestiti.

La seconda condizione determinante il saggio d'interesse è costituita dal risparmio, il quale più che essere in funzione del calcolo economico (importanza della corrente del reddito e reddito sperato) dipende dal movimento delle classi sociali, da congiunture politiche ed economiche e dal profitto che va all'imprenditore. Nella fase normale dell'economia delle nazioni più civili è una funzione avente generalmente carattere evolutivo. La guerra ultima, però, produsse in tale evoluzione una perturbazione profonda, non solo arrestandone lo sviluppo, ma distruggendo una parte enorme di risparmio. L'influenza del risparmio sul saggio d'interesse è di per sé evidente: a parità di ogni altra condizione, quando aumenta il risparmio, tende a ribassare il saggio d'interesse, fino al punto in cui la nuova domanda di capitali ne pareggia l'offerta.

La terza condizione determinante l'altezza del saggio d'interesse è costituita dalla produttività dei capitali. A parte oscillazioni di breve durata, il saggio d'interesse tende ad aumentare quando cresce tale produttività, inerente a un prolungamento dei processi produttivi, e a diminuire nel caso contrario, in quanto la concorrenza fra gl'imprenditori, aventi possibilità d'impiegare capitali in modo molto produttivo, li porta, per aver codesti capitali, a pagare un saggio d'interesse relativamente elevato. Al limite, questo saggio sarà uguale alla produttività marginale dei capitali presi a prestito. Questo fatto appare in maniera evidentissima dalle statistiche dei saggi dell'interesse e dei profitti messe a confronto dal Bresciani-Turroni (cfr. Giorn. d'Econ., novembre 1916).

Resta da ultimo il livello generale dei prezzi come condizione determinante il saggio d'interesse. In periodi brevi di tempo, il fatto che il capitale appare generalmente in forma monetaria fa sì che l'interesse dipenda dalla quantità maggiore o minore di moneta in circolazione. Considerando periodi più lunghi, l'interesse è relativamente alto quando la massa monetaria aumenta e decresce nel caso contrario. Questo fenomeno è reso evidente anche dal fatto della previsione. Quando sono previsti alti prezzi in futuro, gli uomini d'affari non si ricusano a pagare elevati interessi nominali, per ottenere capitali subito, perché sanno che le somme così ottenute avranno all'epoca del rimborso un valore, misurato in merci, inferiore a quello attuale. Per la stessa ragione, i mutuanti richiederanno un saggio d'interesse superiore a quello che avrebbero richiesto ove non fosse previsto il rialzo dei prezzi. Ma poiché la grande maggioranza dei capitalisti non ha occhio per misurare la portata del movimento dei prezzi, ne viene che l'accrescimento nominale dell'interesse (cioè dell'interesse misurato in moneta) non è mai così alto da compensare il movimento del livello generale dei prezzi. Così pure si dica quando il livello dei prezzi tende a ribassare. Onde la regola che il saggio d'interesse reale (misurato in merci) è pari al saggio d'interesse nominale tenuto conto del coefficiente di apprezzamento o di deprezzamento della moneta.

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