Interesse ad agire [dir. proc. civ.]

Diritto on line (2015)

Maria Francesca Ghirga

Abstract

Viene trattato il tema dell’interesse ad agire quale requisito della domanda giudiziale previsto dall’art. 100 del c.p.c. e implicato dal bisogno di tutela che condiziona il diritto d’azione contemplato nell’art. 24 Cost., della sua ricostruzione in ambito dottrinale e giurisprudenziale, e della sua rilevanza nei diversi tipi di azione. Inoltre si riconosce nell’art. 100 c.p.c., secondo una lettura costituzionalmente orientata e conforme al principio del giusto processo, il fondamento giuridico di un ulteriore requisito della domanda giudiziale, quello della meritevolezza della tutela richiesta. Si offre, quindi, un inquadramento sistematico di questi istituti che spiega anche il loro regime processuale.

La norma e la sua origine storica

L’art. 100 del c.p.c., rubricato Interesse ad agire, recita testualmente così: «Per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse». Siamo di fronte a una norma che non si è esitato a giudicare come da sempre oscura, d’interpretazione particolarmente difficile e contrastata (cfr. Proto Pisani, A., Lezioni di diritto processuale civile, VI ed., Napoli, 2014, 310). Di questa norma ci si occuperà nel tentativo non semplice di attribuirle un significato e una portata precettiva, ricostruendo il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi sulla stessa. Ma prima di tutto pare opportuno chiedersi ove essa affondi le sue radici, e dunque in quale contesto culturale abbia preso forma, ripercorrendo le sue origini storiche.

L’attuale norma codicistica trova il suo precedente nell’art. 36 del c.p.c. del 1865 ed è stata introdotta sulla scia della tradizione dottrinale e giurisprudenziale francese, riconducibile ai celebri brocardi «pas des intérêt pas d’action» o «l’intérêt est la mesure des actions» (sul punto v. per tutti Cadiet, L.-Jeuland, E., Droit judiciaire privé, VII ed., Paris, 2011, § 356). La dottrina, che ha cercato di individuare il terreno storico culturale nel quale sono sorte le massime che sono all’origine della norma, lo colloca, infatti, nella Francia del tempo precedente le grandi codificazioni napoleoniche, influenzata da tendenze razionaliste di matrice cartesiana e giansenista, che ispiravano la ricerca rispettivamente della chiarezza e dell’ordine anche in campo giuridico. E il processo non poteva restare immune da queste influenze, che portarono all’affermarsi di un principio di ragione in forza del quale esso doveva essere liberato di tutte quelle questioni che apparissero puramente oziose o meramente astratte o inutilmente vessatorie. Dunque, in origine non si attribuiva agli aforismi in parola alcun significato euristico o sistematico, ma più semplicemente si riconosceva in essi una regola di buon senso in forza della quale non era consentito rivolgere ai giudici domande oziose, occupandoli in questioni non rilevanti per chi le poneva (sul punto v. per tutti la ricostruzione storico culturale di Marelli, M., La clausola generale dell’art. 100 c.p.c. Origini, metamorfosi e nuovi ruoli, Torino, 2005, 22 ss.).

Ben presto il fascino teorico-pratico suscitato dalla massima «pas des intérêt pas d’action» passa dalla Francia – ove la regola si è affermata e ove però la stessa viene consacrata in una disposizione generale, l’art. 31, solo con il nouveau code de procedure civile del 1975 – all’Italia e alla Germania. Prima di occuparci del nostro Paese, nel quale per lungo tempo il dibattito sull’interesse ad agire è rimasto legato alla teorica sul diritto di azione e alle sue dispute, è opportuno ricordare come ciò non sia accaduto in Germania, ove la figura di riferimento è stata quella del Rechtsschutzbedürfnis, o bisogno di tutela giuridica, termine che non compare nelle norme della ZPO, che ne sono matrice, il § 256 e il § 259, ma che è stato coniato da Wach (Wach, A., Handbuch des deutschen Zivilprozessrechts, Leipzig, 1885, 22) quale presupposto del Rechtsschutzanspruch, o pretesa concreta dell’attore a una sentenza favorevole: alla carenza del bisogno di tutela conseguiva l’inesistenza di tale diritto. Come si vedrà, sulla scia del pensiero del Maestro tedesco si porrà Chiovenda e la dottrina italiana. Ma in Germania, quando la teorica del Rechtsschutzanspruch, che Wach aveva contribuito a forgiare, viene abbandonata, non per questo entra in crisi il Rechtsschutzbedürfnis, che ne condizionava l’esistenza. Di esso si rintraccia, infatti, il fondamento dogmatico nello scopo del processo. Questa ricostruzione teleologicamente orientata del bisogno di tutela giuridica,  sviluppatasi durante il nazionalsocialismo e che risente dell’ideologia del tempo, viene riproposta successivamente da Schönke anche in un celebre saggio pubblicato in Italia nel 1948 (Schönke, A., Il bisogno di tutela giuridica - Un concetto giusprocessualistico fondamentale, in Riv. dir. proc., 1948, I, 132 ss.) e che sarà occasione di dibattito con interventi critici di Allorio (Allorio, E., «Bisogno di tutela giuridica?», in Problemi di diritto. L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale e altri studi, I, Milano, 1957, 227 ss.) e Attardi (Attardi, A., L’interesse ad agire, Padova, 1955, passim).

Accanto a questi diversi fondamenti del bisogno di tutela giuridica – Rechtsschutzanspruch e scopo del processo – vanno infine ricordati, per meglio cogliere quanto in seguito si dirà, quello dell’economia processuale, per cui esso funzionerebbe da filtro per evitare un inutile dispendio di attività giurisdizionale e quello che vedrebbe nello stesso il manifestarsi in ambito processuale di istituti tipici del diritto sostanziale quali il divieto dell’abuso del diritto o il dovere di comportarsi secondo buona fede (per questa ricostruzione della dottrina tedesca v. Marelli, M., op. cit., 22 ss.).

Il dibattito dottrinale sull’interesse ad agire e sulla sua portata precettiva

Se nella dottrina tedesca il tema del bisogno di tutela giuridica si è presto svincolato sul piano dogmatico da quello delle condizioni dell’azione, per ancorarsi alla prospettiva dello scopo del processo, in Italia il dibattito sull’interesse ad agire si è sviluppato per molto tempo lungo le direttrici delle dispute sullo stesso concetto di azione. E così se per Chiovenda (Chiovenda, G., Azioni e sentenze di mero accertamento, in Riv. dir. proc. civ., 1933, I, 25 ss.) l’art. 36 del codice previgente – prevedendo che condizione necessaria e sufficiente dell’azione da parte di chi ha un diritto da far valere in giudizio è l’interesse – si pone quale principale base di diritto positivo per dimostrare l’ammissibilità in genere dell’azione di mero accertamento positivo o negativo nel nostro ordinamento, lo stesso fondatore del moderno diritto processuale riconosceva poi che la vera difficoltà stava nel determinare tale interesse. Di esso affermava che consiste in una situazione di fatto tale che l’attore senza l’accertamento giudiziale soffrirebbe un danno e che dunque la dichiarazione giudiziale si presenta come il mezzo per evitare tale danno. Il Maestro aggiungeva che è proprio l’azione di accertamento ad aver fornito i più decisivi argomenti alla dimostrazione del principio dell’autonomia del diritto di azione che ha avuto in Wach il più convincente assertore (Chiovenda, G., op. cit., 25 ss.). In effetti, nella sistematica chiovendiana il diritto d’azione era già ricostruito come un diritto processuale, ma si parlava di azione in concreto, volendosi significare con tale attributo che essa spetta a colui che ha diritto a ottenere una sentenza favorevole e quindi che lo riconosca come titolare del diritto soggettivo fatto valere.

Le questioni messe in gioco dal requisito dell’interesse ad agire e condizionate dal modo di concepire l’azione erano, infatti, varie. Si discuteva innanzitutto se esso avesse una rilevanza distinta e autonoma rispetto all’azione. Solo per cenni, basti ricordare come nota al riguardo sia la tesi di Redenti (Redenti, E., Diritto processuale civile, I, Nozioni e regole generali, IV ed. a cura di M. Vellani, Milano, 1995, 66 ss.) secondo il quale l’interesse sarebbe fin dall’origine elemento essenziale del diritto soggettivo primario sottostante e della stessa azione, di talché non ci sarebbe azione sussistente e fondata senza interesse. Se questo avesse una rilevanza autonoma costituirebbe la quinta ruota del carro (v. pure Lanfranchi, L., Note sull’interesse ad agire, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1972, 1093 ss.; Punzi, C., Il processo civile. Sistema e problematiche, I, I soggetti e gli atti, II ed., Torino, 2010, 12 ss.; Monteleone, G., Manuale di diritto processuale civile, I, Disposizioni generali. I processi di cognizione di primo grado. Le impugnazioni, VI ed., Padova, 2012, 195.). Anche per Allorio (op. cit., 227 ss.) la valutazione della sussistenza dell’interesse sarebbe implicita nel fatto che il legislatore ha predisposto una forma di tutela giuridica; egli ha accordato la tutela proprio perché a priori ha riscontrato un interesse a ottenerla. Nello stesso senso si è espresso Garbagnati (Garbagnati, E., Azione e interesse, in Jus, 1955, 316 ss.). In una più recente ricostruzione Sassani (Sassani, B., Note sul concetto di interesse ad agire, Rimini, 1983 e Id., Interesse ad agire,in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 5) afferma che, pur essendo ogni forma di schema legale di azione idoneo a soddisfare l’interesse elevato dalla legge a fine della tutela, ben può accadere che nel caso concreto l’azione esercitata si riveli inadeguata al raggiungimento dello scopo per il quale era stata tipizzata dall’ordinamento. In questo caso la funzione precettiva svolta dall’art. 100 c.p.c. sarebbe quella di imporre il rispetto nel caso concreto dell’effettività della relazione da mezzo a fine stabilita dall’ordinamento tra la tutela esperita e l’interesse tutelato.

Ma anche tra coloro che riconoscono portata precettiva alla norma, questa è poi ricostruita in modo diverso: Attardi (op. cit., 158 ss.) vede nell’interesse ad agire un requisito di ammissibilità delle sole domande di accertamento e cautelari; per Andrioli (Andrioli, V., Commento al codice di procedura civile, I, Napoli, 1954, 278) la nozione di interesse ad agire avrebbe nelle azioni tipiche un significato meramente sistematico, mentre troverebbe il suo campo di applicazione nelle azioni atipiche; per Liebman (Liebman, E.T., Manuale di diritto processuale civile, Principi, VIII ed., Milano, 2012, 146 ss.), che accoglie una nozione astratta di azione, l’interesse ad agire sarebbe un interesse processuale, secondario e strumentale rispetto all’interesse sostanziale primario, che ha per oggetto il provvedimento che si domanda al magistrato e che viene definito in termini di rapporto di utilità tra l’affermazione della lesione del diritto e il provvedimento che si richiede al giudice, nel senso che lo stesso deve essere idoneo a eliminare la lesione del diritto affermata da chi agisce in giudizio per la tutela dello stesso. E, anche nella ricostruzione libmaniana la portata dell’interesse ad agire è circoscritta alle azioni di mero accertamento, mentre nelle azioni di condanna e in quelle costitutive essa non sarebbe appariscente, dandosi per scontata l’affermazione di un diritto non soddisfatto.

È indubbio, peraltro, che il requisito dell’interesse ad agire giochi il suo ruolo principale nelle azioni di mero accertamento; e qui si percepisce un’altra questione posta dalla norma che contempla l’istituto in parola,  ovvero quella del suo essere o meno matrice nel nostro ordinamento della possibilità di esercitare tale azione in assenza di una disposizione generale che lo consenta espressamente. Potendo considerare acquisito allo stato della ricerca questo risultato, anche alla luce del dettato dell’art. 24 Cost., la norma sull’interesse ad agire, se da un lato fonda in positivo la possibilità di agire in mero accertamento, dall’altro e in negativo costituisce un di filtro a tale possibilità, richiedendosi al riguardo un’incertezza obbiettiva e attuale sull’esistenza o inesistenza di un diritto soggettivo, causata da una contestazione o dall’altrui vanto. Anzi, più di recente si è sostenuto, sulla scorta della dottrina tedesca, che nelle azioni di mero accertamento la regola dell’interesse ad agire funzionerebbe da parametro di riferimento alla stregua del quale determinare, in concreto, l’area della tutela giuridica da esso offerta in presenza del requisito di cui all’art. 100 c.p.c. e che potrà avere a oggetto esclusivo e autonomo anche temi di decisione (Vorfragen) o parti di una situazione sostanziale, ontologicamente diversi rispetto al consueto oggetto costituito dal diritto soggettivo o dal rapporto giuridico (Marelli, M., op. cit., 141 ss).

Non mancano poi autori come Grasso (Grasso, E., Note per un rinnovato discorso sull’interesse ad agire, in Jus, 1968, 349 ss.) e Luiso (Luiso, F.P., Diritto processuale civile, I, Principi generali, VII ed., Milano, 2013, 222 ss.), che hanno ricondotto l’interesse ad agire a un’esigenza di economia processuale, che imporrebbe di considerare il ricorso alla tutela giurisdizionale del diritto l’estremo rimedio per il suo titolare e chi, come Consolo (Consolo, C., Spiegazioni di diritto processuale civile,I, Le tutele (di merito, sommarie ed esecutive) e il rapporto giuridico processuale, Torino, 2014, 561 ss.), ritiene che il bisogno di tutela che si esprime nell’interesse ad agire si specifichi in relazione ai singoli tipi di azione, per cui a ogni tipo di azione corrisponderebbe un certo tipo di interesse ad agire. Quest’ultima affermazione merita di essere approfondita.

L’interesse ad agire nei diversi tipi di azione esercitata

Nelle azioni di condanna e in quelle costitutive

Secondo la dottrina classica l’interesse ad agire nelle azioni di condanna andrebbe individuato nella lesione del diritto affermata; ma a ciò si è obiettato che la nozione di interesse ad agire non avrebbe alcun rilievo nelle azioni in questione perché i casi addotti come fattispecie di carenza di tale requisito sarebbero, invece, riconducibili a ipotesi in cui il giudice avrebbe dovuto rigettare la domanda nel merito per inesistenza del diritto: così nei casi di mancanza di inadempimento o quando il termine o la condizione non si siano ancora verificati. Nel caso delle azioni costitutive si ritiene che l’interesse ad agire sia in re ipsa, trattandosi di fattispecie nelle quali per ottenere il mutamento giuridico occorre rivolgersi al giudice. Peraltro, la stessa conclusione sembra valere anche nel caso in cui si può ottenere il medesimo mutamento in via stragiudiziale, e quindi l’azione debba essere qualificata come costitutiva non necessaria.

Ma, sia che si tratti di azione di condanna, sia che si tratti di azione costitutiva, non si può, invece, escludere che la nozione di interesse ad agire possa giocare un ruolo attivo. Così e con riferimento all’azione di condanna, e posto che la lesione nella quale si concretizza l’interesse ad agire deve essere affermata, si può pensare al caso in cui sia lo stesso attore a dedurre di essere già stato pagato o che il suo credito non è ancora esigibile, non essendo scaduto il termine o non essendo ancora verificatasi la condizione. Non condivisibile è poi l’affermazione della giurisprudenza secondo la quale sarebbe carente di interesse ad agire in condanna colui che abbia già un titolo esecutivo stragiudiziale (ma in senso contrario, da ultime, cfr. Cass., 10.10.2013, nn. 23082 e 23083). Non vi è dubbio, infatti, che l’accertamento contenuto nella sentenza di condanna abbia una sua utilità che è quella di limitare la possibilità per il debitore di opporsi all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. per ragioni di merito e impedire una futura azione di ripetizione dell’indebito, oltre a costituire titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale. Sempre con riferimento alle azioni di condanna, si è affermato che proprio l’interesse ad agire potrebbe limitare la proponibilità di azioni di questo tipo aventi a oggetto obblighi di fare infungibili o comunque non suscettibili di esecuzione forzata, per i quali non fossero concretamente utilizzabili, o non fossero stati invocati dall’attore strumenti di esecuzione indiretta. Più precisamente, si è ritenuto che non si possa escludere tout court l’ammissibilità della domanda di condanna non attuabile attraverso l’esecuzione forzata diretta o indiretta, ma che si debba risolvere il problema tenendo presente che si tratta, nella sostanza e con riguardo all’interesse perseguito dall’attore, di un’azione di mero accertamento, che dovrà essere valutata soprattutto sotto il profilo della sussistenza dell’interesse ad agire (Balena, G., Istituzioni di diritto processuale civile, I, I principi, II ed., Bari, 2012, 42 e 60).

Quanto all’azione costitutiva, per dare rilevo alla nozione di interesse ad agire si può pensare al caso postosi in giurisprudenza in cui, esercitata dagli eredi legittimi un’azione di annullamento di un testamento, risulti al giudice l’esistenza di un precedente identico testamento, revocato dal secondo, ma non impugnato nei termini (v. Consolo, C., op. cit., 565).

Nelle azioni di accertamento

La nozione di interesse ad agire svolge il suo ruolo più rilevante nelle azioni di accertamento. Si è peraltro già ricordato come nel nostro sistema giuridico, che non contempla in una norma generale la possibilità di agire in accertamento, è proprio dalla disposizione sull’interesse ad agire che parte della dottrina ricava l’ammissibilità di questa azione (cfr. per tutti Chiovenda, G., op. cit., 355), purché sorretta dal detto requisito, superando il principio della tipicità delle azioni. Ma è soprattutto l’art. 24 Cost. ad offrire un solido sostegno alla tesi della massima ampiezza dell’utilizzo dell’azione di accertamento; esso con il riconoscere a tutti il potere di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi sembra consentire di estendere l’accertamento, che è una forma di tutela, anche se meno incisiva di altre, a qualunque tipo di situazione giuridica soggettiva. La norma costituzionale viene così a ricoprire un ruolo di garanzia, assicurando che, di fronte al riconoscimento di nuove situazioni giuridiche sostanziali, l’ordinamento offra quantomeno la possibilità di farle oggetto di un processo di cognizione, per ottenere una dichiarazione giudiziale che faccia certezza della loro esistenza (sul punto cfr. Liebman, E.T.,  op. cit., 172). Peraltro, è lo stesso art. 24 Cost., con il suo riferirsi alla «tutela», ad implicare l’esigenza che chi agisce in giudizio esprima un bisogno di tutela giurisdizionale e quindi già a prevedere in nuce la necessità che l’azione sia sorretta dal requisito dell’interesse ad agire. Da questo angolo prospettico si può quindi considerare superato positivamente il dubbio in merito alla possibilità di proporre azione di accertamento quando la situazione di fatto sia già matura per la proposizione dell’azione di condanna.

Dunque l’azione di accertamento, che potrà avere a oggetto tanto un accertamento positivo, quanto un accertamento negativo (sull’oggetto dell’azione di accertamento cfr. da ultimo Motto, A., Poteri sostanziali e tutela giurisdizionale, Torino, 2012, 396 ss.), è ammissibile purché sia configurabile nel caso di specie l’interesse ad agire; e così tutte le volte in cui vi sia incertezza circa l’esistenza o inesistenza, contenuto o modalità di un rapporto giuridico, purché tale incertezza non sia soggettiva, ovvero non risieda nella sfera interna del soggetto che agisce, ma si sia obiettivata nel mondo esterno attraverso comportamenti che vanno dal vanto alla contestazione del diritto altrui. Inoltre, la stessa incertezza deve presentarsi come attuale. È quanto la giurisprudenza richiede con l’affermare che l’incertezza deve essere obbiettiva e attuale e deve produrre un danno, anche se spesso si accontenta di una lesione in senso ampio del diritto, e dunque anche solo potenziale, ovvero di un pregiudizio concreto e attuale che non sia eliminabile senza l’intervento del giudice (cfr.: Cass., 9.5.2012, n. 7096; Cass., 20.1.2010, n. 919; Cass., 28.5.2008, n. 13556; Cass., 26.3.2008, n. 7835; Cass., 22.2.2008, n. 4496, che ha ricavato da questo principio che, in materia di lavoro subordinato, l’azione di accertamento possa riguardare l’esatta determinazione dei compensi spettanti, anche laddove non siano ancora maturati i presupposti di fatto di tutte le voci della retribuzione e il lavoratore non chieda alcuna condanna a carico del datore di lavoro).

Sussiste un’incertezza pregiudizievole che legittima l’esercizio dell’azione di accertamento anche nei casi di apparenza giuridica: esempi sono offerti in materia contrattuale, ove sia l’azione di nullità del contratto, sia quella di simulazione, sono azioni di accertamento fondate non su un vanto o su una contestazione, ma sull’apparenza giuridica creata dal contratto. Si è così ritenuto che il criterio dell’apparenza giuridica possa essere utilizzato per valutare l’esistenza dell’interesse ad agire in mero accertamento in casi atipici, e dunque non previsti dal legislatore (cfr. Consolo, C., op. cit., 567 s.). Applicazioni di questo criterio si riscontrano nella giurisprudenza giuslaburistica, anche se con risultati contraddittori e spesso motivati adducendo che l’azione di accertamento deve avere a oggetto un diritto soggettivo e non profili del singolo rapporto giuridico (così Cass., 4.5.2012, n. 6749, ha escluso l’interesse ad agire del lavoratore che, dimessosi, aveva chiesto l’accertamento dell’illegittimità del trasferimento disposto nei suoi confronti quale inadempimento datoriale, senza aver formulato domande di condanna o di accertamento del diritto al risarcimento del danno; cfr. anche Cass., 27.1.2011, n. 2051; Cass., 23.12.2009, n. 27151).

Nelle azioni esecutive e in quelle cautelari

La nozione di interesse ad agire non rileva quando viene esercitata un’azione esecutiva. In questo caso, infatti, l’interesse ad agire, quale bisogno di tutela giurisdizionale esecutiva, è assorbito nel fatto che il diritto è accertato come eseguibile in un titolo esecutivo, che rappresenta l’unica condizione necessaria e sufficiente per procedere ad esecuzione forzata (cfr. per tutti Mandrioli, C.-Carratta, A., Diritto processuale civile, IV, XXIV ed., Torino, 2015, 19 ss.).

Nelle azioni cautelari l’interesse ad agire opererebbe, manifestando uno dei suoi principali ambiti di applicazione, identificandosi con il requisito del periculum in mora (Salvaneschi, L., La domanda e il procedimento, in Il processo cautelare, a cura di G. Tarzia e A. Saletti, Padova, 2011, 392).

L’art. 100 c.p.c. quale parametro di controllo anche della meritevolezza della tutela richiesta

L’indagine sulla nozione di interesse ad agire ha evocato anche i temi dell’abuso del processo e della buona fede. Chi scrive, indotta da una rivisitazione dei limiti dell’autonomia privata, sia in campo sostanziale, sia in campo processuale, e dalla constatazione delle difficoltà incontrate dalla giurisprudenza nel verificare la sussistenza dell’interesse ad agire nel caso di azioni costitutive, come quelle di disconoscimento della paternità o di impugnazione delle delibere assembleari, ma anche di condanna nel caso di azione promossa frazionando il credito, ha tentato di dare una lettura più ampia dell’art. 100 c.p.c. (cfr. Ghirga, M.F., La meritevolezza della tutela richiesta. Contributo allo studio sull’abuso dell’azione giudiziale, Milano, 2004).  Sulla scorta dell’insegnamento di Carnelutti (Carnelutti, F., Istituzioni del processo civile italiano, I, Roma, 1956, 325 ss.), che ha indicato in questa norma la necessità che anche la domanda giudiziale sia sorretta dal requisito causale, si è ritenuto di poter ricondurre alla mancanza di tale requisito fattispecie altrimenti qualificate come di abuso dell’azione giudiziale. Ed infatti, considerare la causa come requisito autonomo della domanda introduttiva del giudizio, non assorbito dall’indagine sulla sussistenza dell’interesse ad agire, ha portato a ritenere che il giudice non possa limitarsi a verificare, sulla base della domanda formulata, l’utilità per l’attore della tutela richiesta in astratto, operazione questa che secondo l’opinione della dottrina maggioritaria, seguita spesso della giurisprudenza, si esaurirebbe nella verifica della corrispondenza dell’azione esercitata a un tipo legalmente previsto. Secondo la tesi proposta è necessaria un’ulteriore verifica: il giudice è chiamato a considerare se, a prescindere dalla tipicità o meno dell’azione esercitata, nel caso di specie, e quindi in concreto, essa possa considerarsi compatibile con l’ordinamento e con l’insieme dei valori che lo stesso esprime, non solo in una prospettiva giuridica, ma anche socio-economica, dovendosi valutare così la meritevolezza della tutela richiesta. A questa indagine offre una collocazione sistematica il ricorso alla nozione di causa, quale requisito autonomo della domanda introduttiva del giudizio, pur sempre riconducibile all’ambito applicativo dell’art. 100 c.p.c., secondo una lettura della norma conforme al dettato costituzionale, e in particolare all’art. 24, co. 1, Cost. e all’art. 111 Cost., e dunque al principio del giusto processo quale canone di interpretazione delle norme processuali.

L’inquadramento sistematico dell’interesse ad agire e della meritevolezza della tutela richiesta e il loro regime processuale

L’interesse ad agire e la meritevolezza della tutela richiesta, insieme alla legittimazione ad agire, sono condizioni dell’azione, intesa questa come diritto astratto a ottenere una sentenza di merito e quindi come diritto a un giudizio sulla fondatezza o meno della domanda fatta valere (sulla possibilità giuridica cfr. Ghirga, M.F., op. cit., 337). È questo il risultato cui è pervenuta la dottrina che, rimeditando i rapporti tra diritto sostanziale e processo, e constatando che solo al termine dello stesso si potrà sapere se chi ha esercitato l’azione ha ragione o torto, ha abbandonato l’idea dell’azione quale diritto a ottenere un provvedimento favorevole. Del resto la nozione di azione qui sposata è quella che pare scolpita nell’art. 24 Cost., ove il riconoscere a «tutti» il potere di rivolgere le loro domande al giudice significa attribuire all’autorità giudiziaria il compito di accoglierle o respingerle a seconda che siano fondate o meno: solo così, infatti, l’ordinamento può assicurare a chi ha ragione la possibilità di farla valere in giudizio. Dalla lettura della stessa norma costituzionale, come si è anticipato, si possono ricavare in nuce le condizioni dell’azione: la legittimazione ad agire, implicata dall’affermazione secondo la quale si può agire in giudizio per far valere i propri diritti soggettivi o interessi legittimi, l’interesse ad agire evocato dalla tutela di cui gli stessi necessitano, la meritevolezza della tutela richiesta quale parametro di realizzazione di un giusto processo. Si tratta di requisiti di esistenza dell’azione, che contrapposti ai presupposti processuali nella sistematica chiovendiana, ancora difesa da Liebman (op. cit., 146 ss.), oggi si tende a collocare sul loro stesso piano, come condizioni di decidibilità della causa di merito (Consolo, C., op. cit., 531 ss.). Essi vanno accertati in giudizio preliminarmente all’esame del merito, perché solo in loro presenza sorge per il giudice il dovere di provvedere sulla domanda per accoglierla o respingerla.

Al riguardo, la giurisprudenza più recente ritiene che le condizioni dell’azione debbano essere accertate sulla base della loro affermazione contenuta nell’atto introduttivo del giudizio, nell’ambito di una preliminare valutazione formale dell’ipotetica accoglibilità della domanda (cfr. Cass., 19.1.2013, n. 2046).

Quando mancano le condizioni dell’azione, o una di esse, si parla di carenza di azione e il giudice non dovrà pronunciarsi sul merito, limitandosi a dichiarare inammissibile la domanda. Tale assenza potrà essere rilevata anche d’ufficio in ogni stato e grado (Cass., 12.11.2010, n. 22999, afferma che il difetto di interesse ad agire è rilevabile anche in Cassazione, non implicando l’accertamento di una questione di merito e, se accertato, comporta la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata in quanto la causa non poteva essere proposta), sempre che non vi sia stata al riguardo una statuizione positiva non impugnata.

La carenza originaria di tali requisiti di esistenza dell’azione al momento della proposizione della domanda non implica l’inammissibilità della stessa se la condizione richiesta sopravviene nel corso del processo e sussiste nel momento in cui la causa viene decisa.

Le decisioni sulle condizioni dell’azione sono decisioni sul processo e comportano l’applicazione della lex fori qualunque sia la legge che regola il rapporto oggetto del giudizio.

L’interesse a contraddire

La seconda parte dell’art. 100 c.p.c. sembra riferire la necessità della presenza dell’interesse anche all’attività difensiva del convenuto. L’interesse sarebbe specularmente richiesto, configuarandosi in capo all’attore come interesse ad agire e in capo al convenuto come interesse a contraddire (v. sul punto Liebman, E.T., op. cit., 148, il quale afferma che l’interesse è un requisito non della sola azione, ma di tutti i diritti processuali: e così del diritto di contraddire e di difendersi, del diritto di proporre un’eccezione in senso stretto, del diritto di impugnare; nello stesso senso Monteleone, G., op. cit., 195; in argomento v. anche infra in questo paragrafo e nel seguente). Tuttavia tale interesse a contraddire è tradizionalmente ritenuto privo di significato poiché è per il solo fatto che una domanda sia stata formulata nei confronti del convenuto che sorge nello stesso l’interesse a difendersi (cfr. Proto Pisani, A., op. cit., 313). La stessa giurisprudenza sembra orientata a ritenere che l’interesse a contraddire non operi sullo stesso piano dell’interesse ad agire e debba essere verificato con minor rigore in quanto in presenza della legittimazione passiva della parte convenuta esso sussisterebbe per il semplice fatto della formulazione di una domanda nei suoi confronti.

Ma non sono mancati tentativi di dare un contenuto a tale disposizione: così quello che individua nella stessa un criterio di legittimazione passiva e quindi di ricerca e individuazione del convenuto (v. per tutti Monteleone, G., op. cit., 196). Così quello che, facendo leva sull’art. 306 c.p.c. – norma che richiede per l’operatività dell’estinzione che la rinuncia agli atti del giudizio sia accettata dalle altre parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione – sostiene che la funzione dell’interesse a contraddire consisterebbe nel rendere attuale il diritto del convenuto alla sentenza di merito, sottraendolo alla precarietà derivante dalla volontà dell’attore di proseguire il giudizio (sul punto cfr. Chiovenda, G., Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli, 1947, 293; Sassani, B., Interesse ad agire, cit., 13). La tesi è stata criticata perché la norma invocata presuppone che il convenuto si sia difeso esclusivamente o principalmente nel merito, avendo quindi interesse a ottenere una sentenza che gli fornisca un’utilità superiore a quella che dichiara l’estinzione del giudizio, ovvero una pronuncia che dichiari l’inesistenza del diritto fatto valere (Attardi, A., op. cit., 296, nt. 43). Quando, invece, il convenuto si sia difeso soltanto o principaliter in rito, facendo valere il difetto di una o più condizioni di decidibilità della causa nel merito, egli è privo dell’interesse alla prosecuzione del giudizio, ma non certamente dell’interesse a contraddire e a difendersi (Luiso, F.P., op. cit., II, 262).

Infine, occorre ricordare che parte della dottrina ha cercato di dare corpo alla figura dell’interesse a contraddire ricollegandola al complesso delle attività difensive del convenuto e in particolare al rilievo delle eccezioni in senso proprio. L’art. 100 c.p.c. consentirebbe così al giudice di negare l’ingresso nel processo a un fatto oggetto di eccezione per difetto del diritto a contraddire in ragione di un giudizio di irrilevanza (Andrioli, V., op. cit., 279; Proto Pisani, A., Sub art. 100, in Comm. c.p.c. Allorio, I, 2, Torino, 1973, 1083 s.; contra: Attardi, A., op. cit., 296 ss.).

L’interesse a impugnare

Merita un cenno l’interesse a impugnare, se non altro perché una parte della dottrina e la giurisprudenza sogliono considerarlo una manifestazione del generale principio dell’interesse ad agire, che andrebbe desunto dall’utilità concreta o giuridica che dall’eventuale accoglimento del gravame possa derivare alla parte che lo propone (cosi, Cass., 15.5.2013, n. 11540; Cass., 12.4.2013, n. 8934; Cass., 25.3.2013, n. 7477; Cass., 28.9.2012, n. 16517). Si tratta di un tema di confine per il quale si rinvia alla voce specifica.

Fonti normative

Art. 24, co. 1, e Art. 111, co. 1, Cost.; art. 100 c.p.c.

Bibliografia essenziale

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