INNOCENZO IV

Federiciana (2005)

INNOCENZO IV

AAgostino Paravicini Bagliani

Sinibaldo Fieschi nacque a Lavagna (Genova) non oltre il 1190 da una delle famiglie più potenti della costa orientale della Liguria che dominava su un'ampia contea.

Le più antiche tracce di una vera e propria ascesa della famiglia dei conti di Lavagna risalgono alla seconda metà del sec. XII. Nel 1161, Federico I Barbarossa investe i Lavagna dei feudi che già controllavano. Nella delegazione appare Rufino, nonno di Sinibaldo (questo atto verrà confermato da Federico II nel 1227). In seguito ad un accordo con i consoli di Genova del 23 novembre 1166, confermato il 13 marzo 1174 da una nuova intesa tra quella città e il capostipite dei Fieschi, il conte Rufino, con i propri figli Ugo e Guirardo, non solo i conti di Lavagna si videro riconosciuto un certo ruolo nel governo locale, ma per il ramo dei Fieschi iniziava una fase importante nella storia della loro famiglia, ossia l'inserimento nella vita cittadina. Secondo la tradizione, Ugo avrebbe sposato una figlia di Amico Grillo, un nobile genovese. Ugo è il primo membro della casata per il quale è attestato l'uso del cognome Fieschi ("de Flesco"), un nominativo che sembra indicare la professione (appaltatore del fisco imperiale) e che avrebbe comunque finito per diventare un cognome (una derivazione toponimica del cognome non può però essere esclusa). L'ascesa dei Fieschi, che s'imparentarono anche con l'importante famiglia genovese dei Bulgaro, fu graduale e conseguente a due fondamentali scelte strategiche: la conversione della rendita fondiaria in capitale finanziario e l'occupazione di posti di rilievo nella gerarchia ecclesiastica.

Dei cinque fratelli di Ugo, due (Tedisio e Guirardo) erano laici e morirono senza eredi; Opizone, Alberto ed Ibletto intrapresero invece la carriera ecclesiastica, forse sulle orme di quel Manfredo, cugino del padre di Rufino, che venne creato cardinale nel 1163 e coprirà fino alla morte (1177) importanti incarichi sia in Curia che come legato. Gli zii ecclesiastici del futuro I. acquistarono posizioni di rilievo entro lo stesso ambito geografico su cui si estendeva il dominio familiare. Opizone (o Obizzo), attestato come canonico di Parma già il 4 settembre 1178, fu vescovo di quella città dal 1195 al 1224.

Le sorti della famiglia ricaddero sulle spalle del padre di Sinibaldo, Ugo "Fliscus", che riuscì ad accrescere notevolmente il proprio rilievo politico. Secondo Salimbene, Ugo ebbe almeno tre figlie e ben cinque (secondo altri sei) figli. Tedisio, che in seconde nozze sposò Simona "de Camilla", fu uno degli ambasciatori inviati alla dieta che Federico II aveva convocato a Ravenna per il 1o novembre del 1231 e uno dei comandanti dei cavalieri genovesi nel 1234, durante la repressione della rivolta rurale nelle valli di Oneglia. Come nella generazione precedente, tre dei figli di Ugo abbracciarono lo stato ecclesiastico: Rubaldo, Rufino e Sinibaldo. Quest'ultimo, il futuro pontefice I., che è generalmente ritenuto il più giovane dei fratelli, fu comunque il più longevo. Le attestazioni che riguardano Rubaldo e Rufino giungono infatti soltanto fino al 1231.

La data di morte di Ugo si colloca dopo il 1201 e prima del 2 marzo 1214, il che significa che Sinibaldo era ancor giovane quando morì il padre. Fu dunque forse a causa della sua condizione di orfano se Sinibaldo trascorse quasi tutta la giovinezza a Parma, sotto la guida dello zio, il vescovo Opizone. Risulta infondata la notizia, riportata da una cronaca trecentesca, secondo cui Sinibaldo sarebbe stato in gioventù "monaco del cenobio di Frutturia"; è invece possibile che abbia trascorso un periodo come puer oblatus presso il monastero anche se di ciò non v'è nessuna traccia nelle fonti coeve. Salimbene de Adam, di solito molto bene informato sulla vita del futuro papa ed in generale sulle vicende della famiglia Fieschi, nulla dice al proposito.

Da Parma, il giovane Sinibaldo andò a studiare diritto a Bologna. Il periodo bolognese può essere situato entro un arco di tempo che va dall'autunno-inverno 1213 al 5 dicembre 1223, data alla quale porta il titolo di magister. La decisione del vescovo Opizone di attribuire a Sinibaldo un canonicato a Parma, un titolo attestato per la prima volta nel 1226, deve molto probabilmente essere messa in relazione con la conclusione degli studi a Bologna.

Il 5 dicembre 1223 Sinibaldo porta non soltanto il titolo di magister, ma anche quello di suddiacono papale, il che fa pensare che durante il periodo bolognese egli avesse avuto modo di stabilire rapporti personali con la Curia romana e con lo stesso pontefice (Gregorio IX). È impossibile però, a questo riguardo, confermare la tradizione, risalente al Ciacconio, secondo cui Sinibaldo sarebbe stato accolto fin dal 1217 nella familia del cardinale Ugolino d'Ostia (futuro Gregorio IX) in qualità di segretario del cardinale legato: la povertà delle fonti e l'assenza di ogni menzione in proposito nei registri del cardinale Ugolino tenderebbero ad escludere questa notizia, nata forse per il fatto che nel 1217 o nel 1218 il cardinale Ugolino aveva scelto Parma come sede delle trattative volte a riportare la pace fra genovesi e pisani e fra genovesi e veneziani. Il biografo di I., Niccolò da Calvi, non dice se Sinibaldo abbia conosciuto in questa occasione il potente cardinale; ma è lecito pensare che il nipote del vescovo abbia potuto in qualche modo farsi notare dal futuro Gregorio IX, pur senza diventarne per ciò stesso un familiaris.

Tre anni dopo la prima attestazione di legami con la Curia, Sinibaldo è a Roma. Alla Curia romana ricopre l'ambita funzione di "auditor litterarum contradictarum". È un inizio di carriera curiale di grande prestigio, che conoscerà, subito dopo l'elezione di Gregorio IX (18-19 marzo 1227), una nuova tappa: prima del 31 maggio 1227 Sinibaldo viene infatti nominato vicecancelliere della Chiesa romana. Ma già il 18 settembre di quello stesso anno, Gregorio IX lo crea cardinale prete di S. Lorenzo in Lucina insieme ad un altro cardinale "lombardo" (Goffredo da Castiglione, poi Celestino IV). Siamo nei giorni che precedono la prima scomunica di Federico II causata dalla violazione del voto di partire per la crociata entro l'agosto appena trascorso. Sinibaldo non soltanto controfirma i privilegi papali come gli altri cardinali ma partecipa alla loro redazione e ne cura la registrazione. Nell'ottobre 1234 egli viene nominato da Gregorio IX rettore della Marca di Ancona e qui rimane almeno fino al 1240 quando il papa lo rivuole a Roma "per negozi ardui et urgenti". La città di Roma è assediata da Federico II e, in questo quadro drammatico, la Curia si prepara a convocare un concilio che lanci nuovamente la scomunica contro l'imperatore. Per consentire l'operazione, Genova si assume parte dell'onere del trasporto di un gruppo di prelati. Partiti dalla città ligure e sulle sue navi il 25 aprile 1241, i padri del futuro concilio vengono assaliti con successo dalla flotta imperiale e catturati al largo dell'isola del Giglio (v.) il 3 maggio. Il biografo di I. sembra confermare che Sinibaldo non fu estraneo al progetto di convocare il concilio, disegno che naufragò nell'alto Tirreno. Secondo Niccolò da Calvi, infatti, il concilio era stato convocato per prevenire le mosse di Federico II. È una lettura che serve anche a giustificare una linea di continuità tra il progetto gregoriano e la strategia innocenziana. La politica antifedericiana di I. viene qui letta come culmine di un percorso che, intrapreso dal vecchio Gregorio IX, non poteva essere messo in discussione. Fra i titoli di onore del predecessore di I., Niccolò da Calvi elenca anche la doppia scomunica di Federico per il mancato adempimento del voto di crociata.

Il 25 giugno 1243 Sinibaldo fu eletto papa in seguito ad una lunga vacanza della Sede Apostolica, nel corso della quale si era ammalato gravemente. Federico II, che non aveva liberato i due cardinali che aveva fatto prigionieri nel 1241 davanti all'isola del Giglio, perché potessero partecipare all'elezione del nuovo papa, salutò la notizia dell'avvenuta elezione con "gaudio magno". In un primo tempo, Federico II accettò le proposte di pace del nuovo eletto, che esigevano la liberazione dei prigionieri dell'isola del Giglio e la libertà di accesso alla città di Roma per il papa, ma improvvisamente, e per ragioni difficili da capire, l'imperatore ritirò i suoi ambasciatori. Il papa entrò a Roma il 20 ottobre 1243. Il 28 maggio dell'anno successivo I. procedette alla nomina di dieci nuovi cardinali. L'imperatore e il papa avrebbero dovuto incontrarsi a Narni il 7 giugno 1244, ma questa volta fu il pontefice a decidere di fuggire da Roma. Una nave genovese lo condusse nella sua città natale, dove cadde malato (luglio-ottobre). In autunno varcò le Alpi in direzione di Lione, città imperiale in prossimità del Regno di Francia, lontana dai conflitti italiani, che offriva perciò facili possibilità di accesso.

Tre settimane dopo il suo arrivo a Lione, il 27 dicembre 1244, I. convocò un concilio per la festa di s. Giovanni dell'anno successivo. Una convocazione fu indirizzata ugualmente all'imperatore. Per la prima volta, i maestri generali degli Ordini mendicanti erano invitati ad un concilio generale. Gli affari di Roma e del Patrimonio erano affidati a quattro cardinali (Rinaldo di Ienne, futuro Alessandro IV, Stefano Conti, Riccardo Annibaldi e Raniero Capocci), tutti di origine romana o almeno laziale.

Ritenendo forse che il palazzo del Laterano non fosse più una residenza sicura e difendibile in caso di aggressioni militari da parte di Federico II, che stava assediando Roma, il cardinale Stefano Conti, nipote di papa Innocenzo III, fece fortificare sul Celio, a non grande distanza dal Laterano, una parte dell'antico convento dei SS. Quattro Coronati, che i documenti di quegli anni definiscono appunto come "palatium". All'interno del complesso, ormai una vera e propria fortezza, fu eretto un oratorio (sorta di cappella privata della residenza del vicario papale), consacrato il 22 marzo 1247 e fatto affrescare dal cardinale con una serie di scene tratte dalla Vita di papa Silvestro I e dalla Donazione di Costantino. In perfetta sintonia con la destinazione ufficiale dell'edificio, il ciclo rispecchia la posizione ideologica di I. e della Curia romana in tema di rapporti tra papato e Impero. Due sono le scene che riguardano la Donazione di Costantino. La prima si svolge davanti ad un'architettura di città o di palazzo, che simbolizza certamente la città di Roma. Costantino esce da una porta; egli non porta la corona, che viene invece tenuta da un accolito che si trova sulla porta della città. L'imperatore conduce un cavallo con la sinistra e porge la tiara al papa che è seduto sul trono. Un altro accolito dell'imperatore porge inoltre al papa un 'baldacchino' rotondo, ossia l''ombrellino' a strisce rosso-gialle. Costantino, che riveste abiti imperiali, piega il ginocchio davanti al papa. Il trono del papa è messo in particolare evidenza, e va indubbiamente interpretato quale segno di predominio del papa sull'Impero e di subordinazione dell'imperatore al papa. La seconda scena è organicamente legata alla prima: l'imperatore, rivestito degli abiti imperiali e con la corona, conduce il cavallo del papa di cui tiene le briglie. È la più antica rappresentazione sicura di questo gesto simbolico di sottomissione dell'imperatore al papa, all'interno di un ciclo di affreschi eseguito a Roma per illustrare la Donazione di Costantino. Un accolito imperiale precede l'imperatore portando la spada. Un chierico papale entra in una grande porta, cavalcando un cavallo di colore scuro e portando una croce processionale. Il papa cavalca un cavallo bianco e ha la tiara sul capo; un accolito porta il baldacchino sopra la sua testa; seguono tre altri chierici con mitra, che cavalcano cavalli di colore scuro.

Tre mesi prima dell'apertura del concilio (13 aprile 1245), il papa rinnovò la scomunica contro Federico II e suo figlio, il re Enzo. Un ultimo tentativo (maggio 1245) del patriarca di Antiochia Alberto, amico dell'imperatore e che godeva di un prestigio indiscusso in seno alla Curia romana, per riavvicinare il papa e l'imperatore svanì di fronte alle esitazioni di Innocenzo IV. Per la prima volta dopo i grandi concili del Laterano, la scena conciliare era occupata da problemi essenzialmente politici e non disciplinari e pastorali, come la riforma della Chiesa e la lotta contro l'eresia.

Federico II, domata nel 1246 la congiura di Capaccio (v.), nella quale il ruolo del papa era stato decisivo, decise di presentarsi di persona a Lione. Ma, su istigazione dei parenti di papa Fieschi, Parma si rivoltò il 16 maggio 1247, obbligando l'imperatore a interrompere il suo viaggio verso la città conciliare. Il 18 marzo 1248, la città di Vittoria (v.), costruita dall'imperatore per assediare Parma, fu presa d'assalto. La sconfitta costituì una svolta decisiva nel regno di Federico II. La mediazione del re di Francia fallì ancora una volta ed il papa rinnovò la scomunica. Il 1o novembre 1248, Guglielmo d'Olanda fu proclamato re ad Aquisgrana.

Se il IV concilio lateranense (v.) si impose per il suo poderoso programma legislativo, il I concilio di Lione (v.) va ricordato soprattutto per i problemi politici che fu chiamato ad affrontare. Scomunicando Federico II, Gregorio IX aveva lasciato intravvedere l'idea che soltanto un concilio avrebbe potuto tentare di risolvere il conflitto con l'imperatore. Convocato due anni più tardi, il concilio non poté aver luogo, sia per le rappresaglie dell'imperatore, sia per la morte del papa.

Oltre al conflitto con l'imperatore, problemi politici più generali richiamavano l'attenzione: nell'estate del 1244, Gerusalemme era stata occupata; nell'autunno, l'esercito cristiano era stato battuto a Gaza; le rivelazioni dell'arcivescovo dei ruteni, Pietro, a proposito dell'invasione mongola della sua patria, avevano ricordato l'attualità della questione dei tartari.

Il concilio di Lione tenne una sessione preliminare il 26 giugno 1245 nel refettorio della collegiata di S. Giusto. Il pontefice pronunciò un discorso sui "dolori del papa": la corruzione morale, l'insolenza dei saraceni, lo scisma con la Chiesa greca, i problemi dell'Impero latino d'Oriente, la minaccia dei tartari e, naturalmente, la persecuzione della Chiesa da parte dell'imperatore. Contro Federico II il papa rinnovò le accuse tradizionali di violazione del giuramento, di sospetto di eresia e di sacrilegio.

Contrariamente alla testimonianza di Matteo Paris, il I concilio di Lione non si pronunciò sulla deposizione dell'imperatore. La ragione va forse ricercata nel fatto che secondo I., la sua bolla del 13 aprile 1245 non aveva bisogno di una conferma conciliare. Il papa, da solo, era legittimato a deporre l'imperatore, che I. considerava come una creatura del papa. I. ne dette spiegazione nel suo Apparatus: "Bisogna ricordare per quale diritto il papa depone l'imperatore: il Cristo, figlio di Dio, mentre era ancora in vita, e da ogni eternità, era il signore per natura; così, egli avrebbe potuto, per diritto naturale, lanciare una sentenza di deposizione e di condanna contro gli imperatori ed ogni altro sovrano, poiché si trattava di persone che egli aveva creato ed arricchito di doni della natura e della grazia. Per la stessa ragione, il suo vicario lo può ugualmente". Il concilio contribuì soltanto parzialmente a risolvere i grandi problemi di cui soffrivano le Chiese d'Occidente, a causa della centralizzazione romana che aveva conosciuto un'importante evoluzione proprio sotto I.: l'imposizione fiscale istituita dal papato, le ricadute locali della politica beneficiale della Curia romana, la progressiva limitazione della libertà di scelta dei capitoli cattedrali nelle elezioni vescovili, la politicizzazione della Chiesa romana ed altro ancora. Indubbiamente, il I concilio di Lione segnò la "fine di un'epoca dominata dal papa e dall'imperatore". L'unità della cristianità si realizzava, a prima vista, sotto l'autorità del papa, "verus imperator", ma di fatto la via era libera per l'esplosione di nuove energie, che condurranno a entità nazionali con potere legislativo. Per la Chiesa romana, la vittoria sancita dal I concilio di Lione implicava un rischio di progressiva politicizzazione della sua iniziativa, soprattutto nel Regno di Sicilia.

Tra la prima e la seconda sessione (5 luglio), al fine di provare la legittimità della sua azione, I. fece copiare tutti i privilegi e tutti gli atti favorevoli alla Chiesa romana, promulgati nel corso dei secoli precedenti da imperatori e re. Novantuno documenti furono così copiati (si tratta dei cosiddetti transumpta di Lione), dal privilegio di Ottone I a quelli di Federico II (ben trentacinque). Questa raccolta, munita dei sigilli di quaranta prelati, fu presentata alla terza sessione del concilio (17 luglio), non mancando di suscitare reazioni. I vescovi inglesi protestarono contro l'inserimento nei transumpta dell'attestazione di Giovanni Senzaterra che poneva il suo Regno sotto la sovranità apostolica. Il rappresentante dell'imperatore, Taddeo da Sessa, grande giudice alla corte imperiale, affermò che la convocazione del 27 dicembre 1244 non era valida, protestò contro l'autenticità di certi privilegi, e annunciò la sua decisione di fare appello contro la condanna nell'ambito di un futuro concilio. Come risposta, il papa fece leggere all'assemblea la bolla di deposizione di Federico II, intonò subito dopo il Te Deum e chiuse così la terza e ultima sessione del concilio.

I. decise di ritardare la pubblicazione dei canoni conciliari per apportarvi delle correzioni ed aggiunte. Ne fece del resto lui stesso un commento, nel suo Apparatus. La diffusione dei canoni conciliari approfittò dell'esistenza, ormai consolidata, delle collezioni di decretali. Ventitré decreti completarono il Liber Extra di Gregorio IX e saranno ripresi, ad eccezione del secondo, e con estratti della bolla di deposizione Ad Apostolicae dignitatis, dal Liber Sextus di Bonifacio VIII.

Nel 1245, a Lione, I. istituì uno Studium generale che aveva il compito di seguire le peregrinazioni della Curia romana. Gli insegnanti e gli studenti avrebbero goduto degli stessi privilegi dei loro colleghi negli Studia generalia. Il termine Studium generale era già stato usato da canonisti importanti (Goffredo da Trani, Bernardo da Botone), ma non da un'autorità come il papato; per di più mai prima di allora lo Studium di Parigi era stato indicato come un modello. Scuole private di diritto, sia civile che canonico, esistevano già prima in seno alla Curia romana. Anche dopo l'istituzione dello Studium curiae, le scuole di diritto continuarono a funzionare su basi private. Queste scuole servivano a diffondere l'opinio curiae in materia di legislazione canonica. Era un insegnamento destinato a procuratori, avvocati, notai, "iurisperiti curiam sequentes", e agli stessi curiali, professionalmente interessati a seguire l'evoluzione della giurisprudenza pontificia. Soltanto il lettore di teologia, il futuro "magister sacri palatii" era un funzionario di Curia, membro della familia papale.

In occasione della visita effettuata da I. a Cluny (1246), i cardinali portarono per la prima volta il cappello rosso che il papa aveva loro concesso un anno prima, in occasione del I concilio di Lione. Secondo l'Ostiense, i cardinali, che avevano ricevuto il cappello rosso nel 1245 da I., "sono tenuti ad esporre la vita per il nome cristiano, giacché ciò denota il colore rosso", ma in quanto a innocenza di vita, essi devono essere "più bianchi della neve".

Lione era diventata "meta di fedeli giunti da ogni parte del mondo", ossia un'altra Roma ("Roma altera"). Sono espressioni del biografo di I., Niccolò da Calvi. Ma lo stesso pontefice aveva stabilito un'identificazione esplicita tra i "limina" degli apostoli romani (Pietro e Paolo) e l'ubicazione del papa. Per "limina" degli apostoli, egli intendeva "dove è il papa" ("ubi papa est"). Nessuno prima di lui si era spinto così lontano. La frase di Niccolò da Calvi sull'"altra Roma" è testimonianza importante per comprendere come nel corso del Duecento la persona del papa sia riuscita ad attrarre spazialmente il legame con Roma, che non è dunque più a Roma, ma "dove è il papa".

Subito dopo essere giunto a Lione, I. donò una rosa d'oro a Raimondo Berengario, conte di Provenza. Lo sappiamo grazie ad una bolla con cui lo stesso I. concesse indulgenze ai fedeli che avrebbero visitato la tomba di Raimondo nella chiesa di Saint-Sauveur a Aix-en-Provence, alla quale il conte aveva consegnato la rosa d'oro ricevuta dal papa. I. donò una rosa d'oro anche ai canonici di Saint-Just di Lione, come segno di gratitudine per l'ospitalità ricevuta durante il suo lungo soggiorno in quella canonica. Per quasi sei anni, la canonica si era trasformata in residenza papale. Di questa rosa d'oro, oggi perduta, si conosce la forma grazie ad un disegno del Settecento, che dimostra che il gioiello si conservava allora nella canonica: una sola rosa esce da un unico stelo.

Il 13 maggio 1250, a Lione, il cardinale Giovanni Gaetano Orsini legge in concistoro, quasi d'improvviso, un memorandum che il grande studioso inglese e vescovo di Lincoln Roberto Grossatesta aveva poco prima consegnato a tre cardinali e allo stesso papa Innocenzo IV. Il testo contiene una delle più severe denunce della politica curiale che siano state pronunciate ad un così alto livello. Ad un certo punto, l'argomentazione investe la persona del sommo pontefice: "Coloro che presiedono a questa sacra sede rivestono la persona di Cristo in modo singolarissimo tra tutti i mortali; importa quindi che in essi [nei papi] le opere di Cristo brillino nel modo più alto e che non vi sia in loro nulla che possa essere contrario alle opere di Cristo. Così, nello stesso modo in cui tutti devono obbedire a Gesù Cristo, tutti devono obbedire a coloro che presiedono a questa sacra sede, proprio in quanto rivestono Cristo e vi presiedono con verità. Se uno di loro ‒ e ciò non sia mai ‒ dovesse indossare il vestito di parenti o della propria carne o del mondo o di qualsiasi altra cosa che non sia Cristo [...] allora questi si separa da Cristo e dal suo corpo, che è la Chiesa [...]". "Anche se non aggiungono altre malizie, i pastori che non annunciano la persona di Gesù Cristo che rivestono, sono degli Anticristi".

Il papa è o Cristo o Anticristo. Come "persona Christi", il papa è tutto; rivestito "della propria carne" il papa non è più nulla. Per essere "persona Christi", il papa deve "svestirsi della propria carne". È in questa novità che risiede il grande interesse storico del memorandum del grande vescovo inglese. Mai prima di allora la potenziale dicotomia tra "persona Christi" e "persona di uomo" era stata sottoposta alla diretta riflessione di un pontefice romano in termini così radicali.

Il viaggio di ritorno di papa Fieschi da Lione a Roma (1251) si trasformò in un trionfo, che Salimbene racconta in modo assai suggestivo: "Nello stesso anno messer papa Innocenzo IV venne da Lione, città della Francia che è in Borgogna, dove era stato molti anni, nella città di Genova, dove era nato. Arrivò là nel mese di maggio e diede moglie a un suo nipote, e prese parte alle nozze con ottanta vescovi e con i suoi cardinali. E in quell'occasione furono servite molte pietanze e portate varietà di cibi. E vini diversi, prelibati ed esilaranti. E ogni portata di vivande costava molto denaro. In nessun luogo al tempo nostro furono celebrate nozze tanto solenni, sia per i convitati che per le portate di cibo; tanto che anche la regina di Saba, se avesse visto, ne sarebbe stata meravigliata".

Aperto sul mondo grazie alla sua origine sociale e geografica, I. si interessò ad accrescere le conoscenze, soprattutto per quanto riguarda i tartari e l'Estremo Oriente, e mise perciò in moto un'ampia azione diplomatica. Altre missioni I. affidò agli Ordini mendicanti. Il ministro generale dei Francescani, Giovanni di Parma, fu incaricato di recarsi nel 1249 alla corte di Giovanni III Duca Vatatze, imperatore bizantino di Nicea, per convincerlo a ritirare il suo sostegno a Federico II, di cui era genero, e per sondare la possibilità di aprire negoziati di pace e di unione. Nel quadro di un'azione diplomatica e missionaria di grande impegno, I. inviò nel Maghreb uno dei suoi principali consiglieri, il francescano spagnolo Lope Fernández de Ayn. Munito di poteri plenipotenziari, questi doveva tentare di negoziare con il califfo la concessione della libertà di culto e l'attribuzione di un certo numero di luoghi per facilitare ai cristiani, in caso di conflitto e di pericolo, l'organizzazione del ritorno nel loro paese d'origine.

Nel 1215, il IV concilio lateranense aveva sanzionato ufficialmente la concessione di un'indulgenza plenaria ai crociati, non senza esprimere paure circa i pericoli che il ricorso eccessivo alle indulgenze avrebbe fatto incorrere alle pratiche penitenziali. I. concesse invece l'indulgenza plenaria alle vedove e ai procuratori dei crociati. Nel 1249, volle che dieci giovani studenti si recassero a Parigi per apprendere l'arabo e altre lingue orientali.

Dopo Gregorio IX, anche I. fu indotto ad intervenire, non di propria iniziativa, ma su domanda del cancelliere e dei dottori reggenti dell'Università di Parigi, nella questione del Talmud che era esplosa con rara violenza verso la metà degli anni Trenta in seno allo Studium. Secondo I., il Talmud conteneva "affabulazioni inestricabili e manifeste" relative a Maria ed espressioni blasfeme nei confronti del "vero Dio e Cristo", ed era perciò condannabile. Il papa intimò al cardinale legato Odone di Châteauroux che, dopo un esame da parte sua, il Talmud avrebbe dovuto essere tollerato nelle parti che non contenevano ingiurie alla fede cristiana. Il cardinale legato capovolse però la posizione del papa, affermando che questi libri "erano così pieni di affermazioni controverse da non poter essere tollerati senza pericolo per la fede cristiana" e decise di non restituire questi "libri intollerabili" ai rabbini ma di condannarli ufficialmente. I. non prese alcuna decisione per estendere l'inchiesta al di là di Parigi e non fece appello a nessun altro sovrano, al di fuori di s. Luigi.

Verso la metà del secolo, allorché esplose il celebre conflitto tra i maestri secolari e mendicanti (1253-1259), il papa, dopo qualche esitazione, finì per prendere posizione a favore degli Ordini mendicanti. Il prestigio dei frati in seno alle scuole parigine e le loro posizioni teologiche ottenevano così un riconoscimento ufficiale del massimo livello. Nel mese di aprile 1253, i maestri secolari avevano deciso di non accettare più nessuno nella loro corporazione che non avesse dapprima prestato giuramento ai loro statuti. Questa misura mirava ad eliminare i maestri domenicani e francescani. Il 1o luglio 1253, il papa, operando un voltafaccia spettacolare, ordinò ai maestri secolari di accettare i maestri degli Ordini mendicanti. Nel 1254, però, I., desiderando "governare in modo che nessun critico curioso trovasse nulla da ridire", si dichiarò favorevole alle domande dei secolari, di dare assistenza finanziaria a Guglielmo di Saint-Amour e di imporre restrizioni ai Mendicanti.

I. fu uno dei più insigni papi giuristi del Medioevo centrale. Al momento della sua elezione, Sinibaldo stava componendo il suo capolavoro, il commento alle decretali di Gregorio IX, chiamato Apparatus in quinque libros decretalium, un'opera difficile, persino per i contemporanei. La sua legislazione pontificia comprende tre collezioni di decretali. Le due prime avrebbero dovuto essere aggiunte al Liber Extra, ma il papa preferì inviare allo Studium di Bologna un elenco definitivo e separato delle sue decretali ufficiali, che furono chiamate Novellae e conobbero una diffusione indipendente. La maggior parte fu incorporata in seguito nel Liber Sextus (1298). Con la costituzione Ad extirpandam (1252), I. considerò legittimo l'uso della tortura nei processi dell'Inquisizione contro gli eretici.

Per I., la formazione canonistica è un tutt'uno con il suo governo. Sinibaldo e Innocenzo IV non possono essere disgiunti. Il giurista e il papa scrivono ed agiscono secondo schemi analoghi. Il papa doveva assumere un ruolo di coordinamento generale, di istanza suprema ‒ e dunque anche giudiziaria ‒ della società cristiana. Sinibaldo è canonista e per questo papa, giudice e legislatore supremo che ha ricevuto da Dio l'incarico di spiegare ed armonizzare il mondo, un mondo che egli identifica, sulla scia di Innocenzo III e dei papi del periodo gregoriano, con una cristianità potenzialmente illimitata. È una visione di papato che si fonda sul concetto che il mondo ha bisogno di un "regimen unius personae". Proprio per questo, I. si serve di una nascente diplomazia per ottenere una convivenza pacifica, premessa di una cristianità coestesa "al cono d'ombra gettato sul mondo dalla potestà papale" (A. Melloni, Innocenzo IV, Genova 1990).

L'Eger cui lenia (o Eger cui levia, secondo alcuni manoscritti) è stato per lungo tempo ritenuto un testo fondamentale sulle concezioni teocratiche di Innocenzo IV. Conservato nella raccolta di lettere papali composta a Lione da Albert Behaim, cappellano del cardinale Raniero Capocci, appare al seguito di due lettere di protesta di Federico II contro la condanna pronunciata al concilio di Lione. L'autore vi refuta sistematicamente tutti gli argomenti avanzati dalla propaganda imperiale (Pier della Vigna) all'indomani del I concilio di Lione e giunge persino ad affermare che "non riconosce il figlio di Dio erede dell'universo come Dio e signore colui che si pretende esente dalla sottomissione al suo vicario". Il papa, vicario di Cristo, possiede una "delegazione generale" del re dei re, dal quale ha ricevuto "la pienezza del potere [...] di modo che nulla si sottrae ad un potere che abbraccia tutto l'universo". La sovranità del papa è totale e illimitata, tanto più che "la Sede apostolica non ha ricevuto da Costantino il principato dell'Impero", perché "(essa) lo aveva già da prima [...] per natura e allo stato potenziale", poiché Cristo ha "costituito a favore della Sede apostolica una monarchia non soltanto pontificia ma reale". Cristo affida "alla Sede apostolica le redini dell'Impero sia terrestre che celeste, il che viene indicato dalla pluralità delle chiavi. La prima gli conferisce infatti il potere di esercitare la sua giurisdizione sulla terra per le cose temporali; l'altra sul cielo per le cose spirituali". Per molto tempo, la paternità di questo pamphlet era stata attribuita ad I. soprattutto a causa di una testimonianza di Tolomeo da Lucca, secondo il quale I. avrebbe scritto un libello sulla giurisdizione dell'Impero rispondendo agli errori di Pier della Vigna. Da parte sua, Albert Behaim introdusse la trascrizione di questo testo nella sua raccolta dicendo che si trattava "di un responso da parte del papa alle precedenti lettere [dell'imperatore]".

L'esistenza di paralleli tra sei passi di questa lettera e un pamphlet anonimo proveniente dalla letteratura escatologica della prima metà del Duecento ‒ lo Iuxta vaticinium Ysaiae ‒, generalmente attribuito al cardinale Raniero Capocci di Viterbo o ad uno dei membri del suo entourage, ha però indotto a chiedersi se l'autore non debba essere ricercato in seno al collegio dei cappellani di quel cardinale, uno dei più tenaci nella lotta contro Federico II. Confrontando la dottrina della lettera e quella del commentario canonistico di Sinibaldo Fieschi, si è pensato invece di poter trovare in ogni differenza la riprova della sua autenticità. Destinato ad affermare che l'imperatore, con i suoi errori e i suoi eccessi, si era reso "indegno dell'Impero, di ogni onore e di ogni dignità" e che il Signore lo aveva privato "della dignità dell'Impero e dei regni", la Eger cui lenia non contraddice ciò che Sinibaldo Fieschi aveva affermato nel suo Apparatus, a proposito della distinzione dei due poteri. In caso di vacanza dell'Impero, come dopo la deposizione di Federico II da parte del I concilio di Lione, il diritto di supplenza apparteneva al papa. Ma anche per quanto riguarda l'interpretazione della Donazione di Costantino e la figura di Melchisedech, non vi sono contraddizioni con le tesi espresse da I. nell'Apparatus. Se in I. il riferimento a Cristo/Melchisedech condiziona l'ecclesiologia innocenziana, in Eger anche Melchisedech è spogliato degli aspetti escatologici e ridotto ad elemento legittimante dell'Impero costantiniano.

I. morì a Napoli il 7 dicembre 1254 e fu sepolto nell'antica cattedrale di questa città (distrutta nel 1294). All'inizio del XIV sec., l'arcivescovo Umberto d'Ormont (1308-1320) fece trasferire la tomba nella nuova cattedrale. La tomba attuale è quasi interamente opera del Cinquecento, come anche il gisant.

Fonti e Bibl.: sulla figura complessiva di I., e per più ampie indicazioni bibliografiche, v. A. Paravicini Bagliani, Innocenzo IV, in Enciclopedia dei papi, II, Roma 2000, pp. 384-393.

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