INGHILTERRA

Enciclopedia Italiana (1933)

INGHILTERRA (ingl. e ted. England; fr. Angleterre; sp. Inglaterra; denominazioni che si equivalgono per il significato, che è "terra degli Angli"; in lat. Anglia; A. T., 47-48)

Roberto ALMAGIA
Pietro SILVA
E. V. GORDON
Herbert John FLEURE
John N. SUMMERSON
Arthur POHAM
Edward DENT
Mario PRAZ
Mario SARFATTI
Alexander HAMILTON-THOMPSON
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È il nome col quale si designa la parte meridionale della Gran Bretagna, divisa dalla Scozia per mezzo dell'intaccatura del Solway Firth, delle dorsali dei Cheviot e del fiume Tweed. Distinta dall'Inghilterra è anche la sporgenza occidentale, tra il Mar d'Irlanda e il Canale di Bristol, detta Galles (ingl. Wales) e occupata per la maggior parte dall'aspro rilievo dei Monti Cambrici. Cosicché l'Inghilterra, in senso stretto, abbraccia un po' meno di 132.000 kmq. su 217.750, area totale della Gran Bretagna. Dalla Scozia e dal Galles si differenzia l'Inghilterra anzitutto per la sua situazione molto più favorevole, perché in contatto quasi immediato coi paesi del continente europeo, dalla Francia alla bassa Germania, onde i rapporti furono facili e frequenti sino da età antica. A tutta quanta l'Inghilterra si era estesa, nell'epoca di massima espansione, la conquista romana, che si arrestò invece contro le alte terre del Galles e della Scozia; e a tutta o quasi l'Inghilterra si estesero, al principio del Medioevo, gli stanziamenti degli Angli e dei Sassoni. E per tutto il Medioevo l'Inghilterra subì, dal punto di vista etnico e culturale, gl'influssi del continente europeo, molto più della Scozia, del Galles e dell'Irlanda.

Ancor più favorita è l'Inghilterra per le condizioni del rilievo poiché, eccezion fatta per i Pennini e i Cumbrian Mountains, che del resto non raggiungono i 1000 m., essa è costituita unicamente da vaste distese pianeggianti e da molli colline. L'agricoltura trovò perciò sempre in Inghilterra larghissime possibilità, al pari dell'allevamento, intenso nelle regioni collinose del centro; e i prodotti del suolo e del bestiame (lane, ecc.) erano sin dal Medioevo oggetto di vivo commercio coi finitimi paesi continentali. Fin da quell'epoca pertanto l'Inghilterra raggiunse un notevole sviluppo economico ed ebbe una popolazione relativamente assai fitta, laddove nella Scozia, nel Galles e nell'Irlanda la vita economica perdurò a lungo in forme rudimentali, con popolazione rada, incolta e rude.

Allorché, dopo la scoperta dell'America, le Isole Britanniche, fino allora situate in posizione marginale rispetto al mondo conosciuto e lontane dai maggiori focolari di civiltà, vennero a trovarsi affacciate a quella sezione dell'Oceano Atlantico che assumeva sempre più la funzione di via maestra dei traffici marittimi, fu ancora l'Inghilterra che ne profittò più presto e più largamente, onde qui si fissò definitivamente anche il centro politico dell'intero arcipelago.

Inoltre il predominio, nell'Inghilterra, delle pianure e delle colline, quasi dappertutto facilmente accessibili (eccetto là ov'erano fitte foreste o zone d'acquitrinî) favorì soprattutto i movimenti e le mescolanze degli abitanti, onde, dalla sovrapposizione e dalla fusione delle diverse genti venute successivamente a stanziarsi nel paese, si plasmò il popolo inglese e si foggiò il suo linguaggio, mentre nelle regioni montuose e segregate della Scozia e del Galles, come in Irlanda, si potevano mantenere presso che intatte le originarie popolazioni celtiche coi loro idiomi, le cui propaggini sono sopravvissute fino ad oggi. L'Inghilterra è perciò in sostanza la patria del popolo inglese e come tale risponde a un concetto storico, etnico, linguistico, che ha tuttavia le sue basi nelle condizioni naturali sopra accennate.

Oggi le differenze, che in passato così nettamente individuavano l'Inghilterra dalla Scozia e dal Galles, si vanno attenuando; l'intenso sviluppo delle industrie che caratterizza ai nostri giorni soprattutto l'Inghilterra centrale (l'economia agricola è rimasta prevalente nella parte meridionale, la Old England o Vecchia Inghilterra) si è propagato infatti alla Scozia meridionale e a una parte del Galles; le moltiplicate comunicazioni vincono gradualmente anche in questi paesi l'isolamento fin dei cantoni più remoti; e perdono terreno, con i residui delle parlate celtiche, anche usi, costumanze, tradizioni che differenziavano fra loro le tre regioni. Ma alcuni indici demografici caratterizzano tuttora il divario profondo fra l'Inghilterra, la Scozia e il Galles. Basti segnalare, ad esempio, che la densità della popolazione è nei tre paesi rispettivamente di 287, 63, e 112 ab. per kmq.; e che l'Inghilterra ha una quarantina e più di città con oltre 100.000 ab., mentre la Scozia ne ha 4, il Galles 2.

L'Inghilterra è divisa in 46 contee: v. gran bretagna, a cui si rinvia per tutta la descrizione geografica particolare del paese.

Sommario. - Storia (p. 232). - Lingua (p. 262). - Etnografia e folklore (p. 266). - Arti figurative: Architettura (p. 268); Pittura (p. 271); Scultura (p. 274); Incisione (p. 276); Miniatura (p. 276); Vetri dipinti (p. 277); Oreficerie, avorî, ecc. (p. 277). - Musica (p. 278). - Letteratura (p. 281). - Diritto (p. 297).

Storia.

Invasioni dei Teutoni. - La fine dell'occupazione romana della Britannia è considerata di solito contemporanea del sacco di Roma (410): dopo quel tempo, la popolazione romano-britannica fu lasciata priva di un presidio militare permanente, preda degli invasori provenienti dalle montagne del nord e dal mare. Ma il ritiro delle legioni acquartierate in Britannia era cominciato probabilmente molto prima. Similmente, non si può assegnare a uno speciale periodo neanche la venuta degl'invasori teutoni, che giunsero certamente a gruppi staccati (v. anglosassoni). L'arrivo nel Kent dei capi iuti Hengist e Horsa nel 449 fu una delle molte spedizioni che si prolungarono durante un secolo e che finirono col dar luogo a stanziamenti permanenti. Iuti (i primi venuti), Angli e Sassoni raggiunsero la costa o penetrarono nell'interno risalendo i fiumi. Di capi delle spedizioni, come Cerdic, il fondatore tradizionale del regno di Wessex, o come Ida, antenato dei re di Northumbria, non si conoscono che i nomi, e alcuni di questi possono anche essere invenzione di epoca posteriore. Essi trovarono una popolazione non adatta alla guerra e di facile conquista, e se pur si verificarono massacri, come quelli di Anderida (Pevensey, nel Sussex) non fu tuttavia seguita una politica di sterminio.

Alcuni elementi della civiltà romana sopravvissero nella struttura sociale del periodo anglosassone (per questa v. anglosassoni) e sebbene gl'invasori preferissero, in massima, di vivere in centri isolati a breve distanza dalle strade romane, vi furono anche città in cui, cessata l'occupazione romana, non si verificarono soluzioni di continuità nel sistema di vita. Le basi dei regni inglesi furono poste durante il secolo tra Hengist e Ida, cioè tra la metà del sec. V e la metà del VI. Nella regione occidentale e sui monti del Galles la popolazione celtica si mantenne in vita conservando la fede cristiana e, favorita dalle condizioni naturali, oppose all'invasore una ferma resistenza. Qua e là sopravvissero, come sulle pendiei estreme della catena dei Pennini, piccoli aggruppamenti celtici. Nel 577 la battaglia di Deorham, combattuta contro i Britanni da Ceawlin, capo dei Sassoni occidentali, spinse verso l'ovest il confine del nascente regno di Wessex fino alla valle del Severn; e fu solo nel secolo seguente che il dominio di Elmet nelle vicinanze di Leeds fu unito al regno di Northumbria. Poco si può dire delle leggende che crebbero intorno al nome di Artù (v. arturo), campione dei Celti cristiani contro i barbari pagani; ma è probabile che tali racconti siano basati sulle reali imprese di qualche principe britannico nel corso delle guerre che tennero gl'invasori lontani dalle regioni occidentali dell'isola. La parte che pose a più dura prova la capacità di penetrazione e di conquista fu però la Scozia, che per secoli continuò a rimanere al di fuori dalla sfera di dominio degl'invasori: troppo vasta e anche troppo ben fortificata dalla natura, perché i re di Northumbria potessero impadronirsene.

I regni inglesi dal sec. VI al X: Northumbria, Mercia, Wessex. - Al principio del sec. VII le bande d'invasori teutonici stabilitisi sul suolo dell'Inghilterra, erano aggruppate in regni locali sotto il governo di capi-tribù. Mentre nel sud è famoso il piccolo regno del Kent per i suoi rapporti con la missione di S. Agostino, inviata da Gregorio Magno, primo passo verso la conversione dell'Inghilterra al cristianesimo, l'evento politico più importante di questo periodo fu l'assurgere del regno di Northumbria (v.) a un'importanza che si mantenne per un secolo. Effettivo fondatore ne fu il guerriero Etelfrido (593-617), nipote di Ida e re di Bernicia, il quale a Dægsastan (603) mise termine alle incursioni degli Scozzesi e poco prima di morire riportò sui Britanni a Chester una vittoria che estese i suoi dominî sino ai confini del Galles. Per un certo tempo, Etelfrido uni al proprio regno quello di Deira, nella Northumbria meridionale. Ma il regno di Deira fu ripreso da uno dei suoi principi esiliati, Edvino, il quale dopo la morte di Etelfrido si annesse il regno di Bernicia e spinse verso nord le proprie frontiere fino al Firth of Forth, dove la città di Edimburgo porta ancora il suo nome. Edvino estese le sue conquiste fino a divenire padrone della metà settentrionale dell'Inghilterra. Durante il suo regno il cristianesimo raggiunse il nord dell'isola per opera della regina Edelborga e del vescovo Paolino: nel 627 Edvino stesso e i nobili del regno si convertirono. Nel 633 Penda, re di Mercia, alleato col re britannico Cadwallon, sconfisse e uccise Edvino a Heathfield, nel Yorkshire meridionale: il regno di Edvino andò in sfacelo. Presto, tuttavia, la sua parte settentrionale fu conquistata da Osvaldo, uno dei figli di Etelfrido, che, combattendo sotto il segno della croce, inflisse a Cadwallon una disfatta a Heavenfield a nord del Tyne (634). Sotto Osvaldo il cristianesimo accompagnò di nuovo lo sviluppo dello stato e il missionario celtico Aidan fu il principale amico e consigliere del re. I regni di Bernicia e di Deira non furono di nuovo uniti, se non dopo la morte di Osvaldo in battaglia contro Penda (642). Tale unione fu compiuta da Oswiu, fratello di Osvaldo, che attaccò il re di Deira, Oswin, facendolo uccidere a tradimento, e vinse poi Penda a Winwaed (655).

Il regno di Oswiu (642-671) segnò per la Northumbria un'epoca di governo stabile. La controversia tra cristiani celti e romani sulla data della celebrazione della Pasqua, che in Northumbria aveva diviso la chiesa, fu composta a Whitby nel 664 in favore della pratica romana: ciò mise il regno in più stretto contatto con i suoi vicini e col continente e diede alla civild e alle arti un forte sviluppo che raggiunse il massimo sotto il regno di Egfrido, figlio di Oswiu, e nel secolo successivo ebbe una magnifica espressione nella scuola di Alcuino nella cattedrale di York. Ma l'importanza politica del regno andò declinando dopo la disastrosa spedizione di Egfrido in Scozia (685) finché, nel sec. IX, la Northumbria, che proprio nei tentativi di padroneggiare la Scozia aveva esaurito le sue forze vitali, fu conquistata dai Danesi.

Già nel secolo VIII la supremazia passò, quindi, dal regno di Northumbria al regno di Mercia sotto Etelbaldo (716-757) e Offa (757-796), discendenti di Penda. Ma fu solo una breve egemonia. Dopo la morte di Offa, il regno rivale del Wessex, fondato nel VI secolo da avventurieri sassoni che avevano risalito le valli del Hampshire e del Wiltshire, assorbì stabilmente i regni competitori, divenendo a sua volta il centro politico dell'isola. Fondatore della grandezza del Wessex fu Egberto (802-829) che nell'823 conquistò il Kent e nell'827, dopo l'annessione del regno di Mercia, fu riconosciuto supremo signore dai Northumbri.

Le invasioni danesi. - Gli effetti delle incursioni danesi iniziate verso la fine del sec. VIII, cominciarono a farsi sentire fortemente prima della morte (858) di Etelvulfo, figlio di Egberto. In quel tempo tuttavia la posizione del Wessex era ancora sicura. Nell'870, anno precedente all'assunzione al trono di re Alfredo (v.) il Grande, i Danesi invasero l'Anglia orientale e i midlands dell'est; e sebbene nell'871 essi subissero ad Ashdown (Berkshire) una disfatta per opera di Alfredo e di suo fratello Etelredo, continuarono per qualche anno a stringere il Wessex, tanto che Alfredo dovette cercar rifugio nelle paludi del Somerset. Ma nell'878 egli prese la offensiva e costrinse Guthrum, generale dei Danesi, a venire a patti. Il Wessex fu sgombrato dai nemici e fu stipulato un trattato con cui si stabilì un confine tra il dominio d'Alfredo e i territorî ad est e a nord conquistati dai Danesi. Questa divisione dell'Inghilterra ebbe l'unico risultato di spostare verso oriente il centro della lotta. Comunque, sebbene alla morte (901) di Alfredo il Grande, la cui figura di statista, di guerriero e di protettore della cultura domina la storia dell'alto Medioevo inglese, l'Inghilterra fosse ancora divisa tra Sassoni e Danesi, la casa del Wessex si manteneva saldamente sul trono. I figli di Alfredo, Edoardo il Vecchio (901-914) e Etelfleda, signora della Mercia, fortificarono le loro frontiere lungo il corso dei fiumi del midland, estendendole fino alla Mersey e al Trent; i successori di Edoardo, Etelstano (924-940) e i suoi fratellastri Edmondo ed Edred non solo tennero soggetto il Danelaw, distretto colonizzato dai Danesi, ma fecero sentire la propria autorità nella Northumbria e sul confine scozzese.

Il regno di Edgardo il Pacifico (959-975) segna l'apice dell'Inghilterra sotto i re del Wessex: cessarono le periodiche turbolenze del Danelaw, l'elemento inglese e il danese venivano amalgamandosi e nella riforma religiosa, guidata da Dunstan, arcivescovo di Canterbury, e da Æthelwold, vescovo della capitale reale Winchester, i monasteri distrutti dai Danesi furono restaurati e l'organizzazione ecclesiastica procedette di pari passo col progresso civile. Ma dopo pochi anni dalla morte di Edgardo, gli attacchi dei Danesi ricominciarono, culminando nel 994 con la duplice invasione dei re norvegesi e danesi Olav Tryggwessøn e Sven. Sotto questa pressione e col debole governo del figlio di Edgardo, Etelredo lo Sconsigliato, fu adottato l'espediente di comprare il nemico. La tassa istituita a tal fine (il Danegeld) rimase in vigore anche dopo cessatone lo scopo come base del sistema finanziario della corona. Durante questo periodo, l'Inghilterra fu senza governo e senza mezzi effettivi di difesa, sicché anche dopo il massacro (1002) degli abitanti danesi le cose andarono di male in peggio. Nel 1012 Etelredo fu deposto e venne accettato come re Sven. La morte di quest'ultimo (1014) riportò sul trono Etelredo che però morì due anni dopo. Edmondo Fianco di ferro (Ironside), cui toccò la successione, resistette per alcun tempo alle pretese di Canuto, figlio di Sven; ma alla morte di Edmondo (1016) Canuto divenne padrone dell'Inghilterra. Il suo regno (1016-1035) costituì, in quel periodo agitato, un momento di respiro, durante il quale la sua saggia politica diede al popolo ordine e leggi (v. canuto, VIII, p. 811).

Il potere che Canuto affifidò ai suoi ministri inglesi fu tuttavia causa di molte agitazioni dopo la sua morte. L'ealdorman, capo militare e ufficiale civile in ognuno dei distretti in cui era diviso il regno, responsabile per l'amministrazione della legge nei tribunali del distretto e per il comando della milizia locale (fyrd), esercitava un potere che un sovrano forte poteva volgere a vantaggio della corona. Sebbene i pericoli di questo strumento di governo fossero stati ampiamente manifesti sotto il debole regno di Etelredo, Canuto non esitò a valersene; sotto di lui l'ealdorman (titolo inglese che fu gradatamente sostituito da quello danese di Jarl), divenne conte. La divisione dell'Inghilterra in quattro parti, di cui tre governate da conti in qualità di viceré, sembra fosse un semplice esperimento temporaneo e durante il regno di Canuto il numero delle contee variò. Due tuttavia assursero a speciale importanza per opera di governanti attivi: quella della Mercia, sotto Leofric, e quella del Wessex sotto Godwin. La rivalità tra le case di Godwin e di Leofric fu elemento principale negli eventi che condussero alla conquista normanna.

Canuto aveva sposato Emma, vedova di Etelredo, e ne aveva avuto un figlio, Harthacnut, che egli designò come proprio successore in Inghilterra. Frattanto i figli che da Emma aveva avuto Etelredo venivano allevati in Normandia, sotto gli occhi del loro zio, il duca Riccardo. Alla morte di Canuto, Harthacnut, candidato della madre e di Godwin, fu messo da parte, e l'influenza di Leofric fece cader la scelta su Aroldo, figlio illegittimo di Canuto stesso. Alfredo, il maggiore dei figli superstiti di Etelredo, venne allora dalla Normandia, ma fu sorpreso da Aroldo a Guildford, dove i suoi partigiani furono trucidati nel sonno; egli stesso fu accecato e rinchiuso nel monastero di Ely, dove morì. Aroldo morì nel 1040, e il regno rimase a Harthacnut, che regnò per meno di due anni. Dopo di lui l'assemblea nazionale (Witan) riconobbe re Edoardo figlio minore di Etelredo e di Emma e la sua pacifica ascesa al trono fu in gran parte opera di Godwin, la cui supremazia sui conti rivali si venne affermando durante i primi anni del regno.

Edoardo il Confessore (1042-1066) cercò più che altro di barcamenarsi, nelle lotte dei suoi cortigiani. Da un lato, l'influenza di Godwin oscurò il trono, da un altro lato Edoardo, educato in Normandia, incoraggiava a corte i favoriti normanni (v. edoardo, XIII, p. 483; godwin). Si giunse, nel 1051, all'esilio di Godwin e della sua famiglia. Ma nell'anno successivo Godwin e suo figlio Aroldo tornarono a capo d'una potente flotta: i favoriti normanni fuggirono, Godwin riebbe il predominio e quand' egli morì nel 1053, il suo posto fu preso da Aroldo, la cui abilità nella guerra e negli affari pubblici lo designava come il sicuro successore del re che non aveva figli.

La conquista normanna: Guglielmo il Conquistatobe. - Nonostante la potenza raggiunta in Inghilterra da Aroldo, rafforzata dai suoi successi sui confini del Galles e dal suo atteggiamento politico verso gli unici rivali temibili, il figlio e il nipote di Leofric, la situazione era troppo grave per le sue forze. Suo fratello Tostig, che nel 1055 aveva ricevuto la contea di Northumbria, era odioso ai suoi sudditi che nel 1065 lo scacciarono, scegliendo in suo luogo Morcar, il più giovane dei nipoti di Leofric e fratello di Edvino, conte della Mercia. Nello stesso tempo, Guglielmo duca di Normandia, interpretando come una positiva promessa di successione quella che nel re poteva essere stata espressione d'un desiderio, si preparava a pretendere, alla morte di Edoardo, il trono d'Inghilterra. Quando Edoardo il Confessore morì (5 gennaio 1066) Aroldo, che pure si era solennemente impegnato ad aiutare Guglielmo nella sua impresa, fu immediatamente eletto re dal Witan. Guglielmo si accinse all'invasione e, dopo una serie di alterne vicende (v. guglielmo, XVIII, p. 222) con la battaglia di Hastings sconfisse definitivamente Aroldo e le sue truppe inglesi: Aroldo e i suoi fratelli Gyrth e Leofwin rimasero uccisi. La conquista completa dell'Inghilterra, disunita e discorde, ancor lontanissima da una rudimentale unità nazionale, non era più che questione di tempo e Guglielmo perseguì il suo scopo senza posa. A Little Berkhampstead, nel Hertfordshire, egli ricevette la sottomissione di Londra e l'offerta della corona; offerta in cui Edgardo Ætheling, che nel frattempo era stato proclamato re, si unì ai nobili e ai vescovi. Il giorno di Natale Guglielmo fu coronato nell'abbazia di Westminster. Nonostante gli sforzi con cui si cercò di dar carattere di regolarità al fatto che la successione fosse raccolta da Guglielmo, rimase palese che il trono era stato ottenuto con la conquista e che il re era un invasore straniero. Durante il suo ritorno in Normandia, nel 1067, si manifestarono sintomi di rivolta. La ribellione nel sud-ovest fu domata con la presa di Exeter (1068); prima però della fine dell'anno Edvino e Morcar si erano ribellati in alleanza con i Gallesi e la Northumbria s'era sollevata in favore di Edgardo JEtheling. Ma anche questa rivolta fu domata dopo poco più di un anno e York conquistata da Guglielmo. Nel settembre del 1069 l'arrivo d'una flotta danese incoraggiò nuove rivolte: il nord si riunì in sostegno di Edgardo, l'ostilità risorse in altre parti dell'Inghilterra, Danesi e Inglesi uniti riconquistarono York. La vendetta di Guglielmo fu immediata: York fu presa e la contea tra i fiumi Humber e Tyne ridotta a un deserto. Seguirono altre riprese dei ribelli nei midlands dell'ovest: la resistenza inglese fu prolungata nei terreni paludosi. Ma con la presa dell'isola di Ely (1071) e col trattato concluso con Malcolm di Scozia (1072) Guglielmo si trovò finalmente le mani libere per organizzare il regno conquistato.

Durante il periodo precedente alla conquista, l'Inghilterra era stata in parte feudalizzata. Di ciò erano segni esterni il fatto che il villaggio o comune inglese veniva assumendo, socialmente ed economicamente, il carattere del castello continentale, col suo signore e i fittavoli, liberi e non liberi, che gli dovevano danaro e servigi. La formazione d'una classe non libera, vincolata alla gleba, e che poteva occupare terreno solo a patto di coltivare i dominî del signore, aveva trovato incremento nei disastri delle guerre danesi, in mezzo ai quali gli uomini ridotti in povertà erano costretti a chiedere protezione e il puro necessario per vivere a signori che divenivano così i loro padroni. Ma se in tal modo si stabilì in Inghilterra la distinzione di classi propria del feudalismo e di esso fu imposto il sistema di vassallaggio agricolo, il carattere essenziale del feudalismo come sistema politico si affermò solo all'epoca della conquista normanna. La teoria secondo la quale ogni parte di terra che un fittavolo tenesse da un signore socialmente più elevato, formava un anello in una catena facente capo al re o ad altro supremo padrone dello stato e comportava l'obbligo di fornire a quel padrone una determinata quota di servizio militare o altra prestazione col servizio militare connessa, era una teoria adottata compiutamente dai Norvegesi che avevano dato il loro nome alla Normandia; e la teoria, con tutte le costumanze inerenti, fu applicata sistematicamente in Inghilterra durante il regno del Conquistatore. Fu su questa base che egli divise la terra conquistata fra i suoi seguaci, come vassalli principali, che a loro volta concessero il proprio dominio in varî feudi a vassalli minori. Mentre l'unità economica del sistema feudale fu il castello (manor), unità politica ne fu il feudo del cavaliere che comprendeva una quota di servigi della quale dovevano rispondere uno o più manors; perché, mentre un manor poteva equivalere all'obbligo di equipaggiare un soldato per l'esercito del re, quest'obbligo era più spesso frazionato, potendo l'intero feudo essere formato da più feudi minori.

La divisione del regno tra i vassalli normanni di Guglielmo risulta dal registro noto col nome di Domesday Book, contenente indicazione dei redditi quali risultavano dalle relazioni dei commissarî mandati da Guglielmo dopo ch'egli ebbe tenuto l'assemblea di Natale a Gloucester nel 1085. Lo scopo originario del Domesday Book fu fiscale: l'indicazione dei redditi mira a sottoporre ogni manor alla tassa originariamente imposta come Danegeld e alla rettifica di essa secondo l'aumento o la diminuzione di redditi verificatisi dal tempo della eonquista. Dei problemi suggeriti da questo registro non è qui luogo di parlare. Ciò che importa è la dimostrazione della divisione d'ogni contea tra il re e i suoi vassalli, laici ed ecclesiastici. Il sovrano si riservava in ogni caso una parte importante del territorio, costituente ciò che fu noto come l'antico dominio della corona; e assegnando ai sudditi più potenti territorî molto lontani fra loro, Guglielmo evitò il rischio di creare quei principati compatti che costituivano inevitabilmente un pericolo per il potere regio. Egli stesso, durante il suo lungo governo in Normandia, aveva sperimentato i pericoli a cui un sovrano era esposto di fronte a feudatarî ansiosi di affermare il loro potere sul signore nominale. Nel 1075 Guglielmo ebbe da lottare contro una cospirazione dei suoi conti normanni del Hereford e del Norfolk; e questa non fu che la prima d'una lunga serie di ribellioni feudali che di tanto in tanto minacciarono il trono inglese. La debolezza inerente al regime feudale, qui come altrove, era l'obbligo di prestare assistenza al feudatario immediatamente superiore, in un sistema che esponeva continuamente la terra a essere frazionata in sub-feudi. Il tributo teoricamente dovuto da ogni territorio alla corona, divenne tributo di cui ogni vassallo minore era responsabile solo verso il suo superiore immediato. Se, col suo sistema di distribuzione delle terre, Guglielmo tenne a bada, fino a un certo segno, questa tendenza, il pericolo rimase. Sotto il timore d'una nuova invasione danese Guglielmo in un'assemblea (1085) di feudatarî e di loro vassalli a Salisbury volle un giuramento di sottomissione e di lealtà contro i suoi nemici. E questo atto è un segno del desiderio di assicurare la lealtà verso il sovrano in ogni contingenza in cui l'infedeltà avrebbe potuto riuscir fatale al potere regio. Il problema principale per i suoi successori fu appunto il mantenimento del dominio della corona contro l'indipendenza e l'opposizione della nobiltà feudale.

Il governo stabilito da Guglielmo fu così concentrato nel potere regio: il re era capo supremo e i magnati che egli associava nella sua amministrazione ne erano gli agenti. Le istituzioni che egli trovò in vigore nell'Inghilterra furono mantenute: il Witan, assemblea nazionale di consiglieri che eleggevano il re e si riunivano al suo invito divenne il concilium magnum che si raccoglieva intorno al re quando egli teneva corte nelle grandi celebrazioni festive, era la curia regis, il corpo giudiziario e legislativo, la cui divisione in sezioni fu, col passar del tempo, una conseguenza dell'accresciuta autorità regia. Ma, sotto l'aspetto feudale, esso era l'assemblea dei principali vassalli del re, raccolta per motivi di servizio personale dovuto al sovrano e non per considerazioni di stato. In tal modo, il potere degli ealdormen locali, che era riuscito tanto pericoloso per l'unità della nazione, declinò. Il conte normanno era un grande magnate territoriale, ma la contea che gli dava il titolo non era governata da lui: agenti reali nelle contee inglesi erano gli sceriffi il cui ufficio, importante durante il periodo sassone perché implicava l'amministrazione locale della giustizia nella contea e nei tribunali di centena, divenne una delegazione conferita direttamente dalla corona in cambio d'un canone annuo ricavato dai proventi della giustizia e pagabile al tesoro reale (Scacchiere). Sebbene dalla complessiva organizzazione feudale derivasse il moltiplicarsi dei tribunali dipendenti dai manors in cui il signore feudale, per le sue franchigie al riparo da ogni interferenza, amministrava la giustizia, tuttavia il potere della corona era così esteso, che l'indebolirsi di quelle immunità sotto la pressione del governo centrale divenne inevitabile.

Il monopolio dell'educazione e dell'istruzione da parte del clero aveva avuto la naturale conseguenza di far prevalere per lungo tempo il potere della Chiesa nel consiglio nazionale. Il primate, come capo del corpo spirituale, era il principale suddito e consigliere del re. Tra i sovrani del suo tempo, Guglielmo il Conquistatore fu caratterizzato dalla sua devozione alla Chiesa: la sua conquista era stata sanzionata da una bolla papale e nella lotta tra Gregorio VII e l'autorità imperiale, Guglielmo fu l'unico sovrano sulla cui lealtà il papa potesse contare. Suo primo ministro era l'italiano Lanfranco a cui egli diede, nel 1070, l'arcivescovado di Canterbury; e sotto l'influsso di Lanfranco la Chiesa inglese fu riorganizzata. Sedi che si trovavano in oscuri villaggi furono trasferite nelle città; i prelati normanni introdussero le costumanze praticate nelle loro cattedrali; nei monasteri, antichi e nuovi, la regola di S. Benedetto, fino allora imperfettamente seguita o soppiantata da usi locali, divenne norma di vita; la riforma e la ricostituzione furono generali. La separazione dei tribunali ecclesiastici da quelli civili fu un provvedimento importante che doveva avere effetti di larga portata nelle relazioni tra Chiesa e Stato. Ma Chiesa e Stato non erano due organizzazioni parallele con interessi separati: la Chiesa era lo stato sotto il suo aspetto spirituale: i vescovi diocesani erano anche magnati che possedevano territorî concessi dalla corona alle identiche condizioni dei baroni laici e in tale qualità erano chiamati anch'essi alla curia regis. Così, se da un lato Guglielmo concedeva nel suo regno privilegi e giurisdizione speciale alla Chiesa, d'altro lato i membri della Chiesa stessa erano sudditi sui quali egli manteneva il proprio potere; e mentre la sua devozione al papato rimaneva fuori questione, egli distinse, tuttavia, tra l'obbedienza spirituale da lui dovuta al papa e l'omaggio che per il proprio regno ne esigeva. Era solo con la conoscenza e l'approvazione del sovrano che, nel regno, il romano pontefice poteva essere riconosciuto e i suoi rappresentanti onorati; precauzione dovuta, senza dubbio, in parte allo scisma che esisteva nel papato. Le costituzioni ecclesiastiche promulgate dall'arcivescovo non potevano essere rese pubbliche senza il consenso e la conferma del re, né senza suo speciale ordine i prelati potevano applicare pene spirituali contro i suoi baroni o ufficiali.

I successori di Guglielmo. - Alla morte di Guglielmo il ducato normanno passò al suo figlio maggiore, Roberto, mentre la corona d'Inghilterra passò al secondo figlio, anch'egli di nome Guglielmo, detto il Rosso (1087-1100), durante il cui regno si produssero scissioni profonde tra il re e i suoi baroni. Guglielmo II, sebbene egoista e di nessun valore, seppe con la sua astuzia mantenere il trono valendosi dell'aiuto dei suoi sudditi inglesi contro la slealtà della turbolenta nobiltà normanna, tanto più che i progetti di Roberto sull'Inghilterra furono temporaneamente sospesi dalla sua partenza per la prima crociata (1095). Il suo regno fu caratterizzato da un'oppressione spietata, da un fiscalismo senza misericordia. Nel 1093 Guglielmo volle che Anselmo d'Aosta accettasse la successione di Lanfranco nell'arcivescovato di Canterbury lasciato vacante alla morte di Lanfranco stesso: la rigida affermazione della giurisdizione papale da parte di Anselmo contro la pretesa del re di procedere alla nomina dei vescovi, fu causa di un dissidio permanente che si prolungò sotto il regno successivo.

Alla morte del Rosso il fratello minore, Enrico, si assicurò il trono. Enrico I (1100-1135), sebbene non meno dispotico del padre e del fratello e altrettanto esigente circa le imposte fiscali per mantenere le sue guerre al di là della Manica, fu tuttavia il primo di quei re i cui provvedimenti amministrativi e giudiziarî posero, in Inghilterra, le fondamenta d'un regno nazionale (v. enrico i). Il suo matrimonio con Edith, figlia di Malcolm di Scozia e della sorella di Edgardo Ætheling fu un atto politico che ricongiunse Enrico ai discendenti superstiti dell'antica dinastia dei re inglesi; e la disfatta e la cattura di Roberto a Tinchebrai (1106) lo rese padrone per tutto il resto della sua vita del ducato di Normandia.

Pur riconoscendo i privilegi feudali dei baroni entro i loro dominî, Enrico infrenò rigidamente l'accrescimento dei possessi feudali, tenendo per sé i feudi confiscati ai ribelli e dividendo a proprio arbitrio l'eredità dei vassalli principali tra i loro figli. Nello stesso tempo, egli limitò l'influenza baronale nella curia regis, incoraggiando una nuova classe di magnati che dovevano la loro elevazione esclusivamente al giudizio del re sulla loro abilità ministeriale. Nell'aristocrazia ministeriale che in tal modo rinsanguò la curia regis, la persona più in vista era Ruggiero, vescovo di Salisbury, a cui fu dovuta l'organizzazione dello Scacchiere e del suo segretariato in tribunale di finanza, primo di quelle sezioni separate in cui venne suddivisa la parte esecutiva della curia regia. La politica di Enrico, quale risulta dalla carta delle libertà emanata al principio del suo regno, era di conceder pieno riconoscimento ai diritti dei feudatarî possessori di terre, che íurono signori supremi nelle loro corti castellane. D'altra parte, il re diede grande importanza al mantenimento della contea e dei tribunali di centena e ricollegò queste istituzioni nazionali col governo centrale per mezzo di visite periodiche eseguite dal justiciar e dai baroni dello Scacchiere. La concessione a Londra e ad altre città che si sviluppavano, di carte che concedevano leggi e usanze per governarsi all'interno in modo autonomo, diede alla corona influsso in distretti da cui essa ottenne aiuti nella successiva lotta contro i baroni; ma nello stesso tempo permise alle città, favorite anche dalla facilità di comunicazioni con il continente, per il dominio normanno sull'una e l'altra sponda della Manica, e dal conseguente sviluppo del commercio, di accrescere la loro prosperità economica e la loro importanza morale. Nei riguardi della Chiesa, Enrico non fu meno arbitrario del predecessore; ma il suo dissidio con Anselmo fu chiuso nel 1107 con un concordato, col quale il re rinunziava alla pretesa d'investitura dei vescovi, ma conservava il loro omaggio per quanto concerneva la loro azione temporale. Nessuno dei provvedimenti d'Enrico dava tuttavia sicura garanzia di sopravvivergli.

Morto Enrico senza eredi maschi, suo cugino Stefano, conte di Blois (1135-1154) riuscì a conquistare il potere nonostante che un forte partito sostenesse i diritti della figlia di Enrico, Maud, vedova dell'imperatore Enrico V e moglie di Goffredo Plantageneto, conte d'Angiò e del Maine. Fin da principio, Stefano si mantenne con un sistema di ricompense e di promesse la cui prodigalità giunse a indebolire la corona; ma l'opposizione baronale era troppo forte per lui e il suo tentativo di vincerla arrestando Ruggiero di Salisbury e suo nipote, il vescovo di Lincoln, fu il segnale della guerra civile. L'anarchia che prevalse dal 1140 in poi, può essere stata meno generale di quanto si suppone e certo essa non impedì la fondazione di monasteri che continuò alacremente. Ma per i baroni, qualunque dei sovrani rivali essi sostenessero, i diritti dei sovrani stessi erano meno importanti della propria indipendenza. I castelli, simboli del dominio feudale, furono fondati per tutto il paese ad arbitrio dei loro proprietarî e senza il permesso del re. Nel 1141 Stefano fu fatto prigioniero nella battaglia di Lincoln e per un certo tempo l'imperatrice Maud ebbe il sopravvento; ma presto egli fu liberato e, sebbene non riuscisse a stabilire una solida autorità, per tutto il resto del suo regno l'influsso della rivale svanì. Nel frattempo, la Normandia era stata conquistata dal conte d'Angiò e fu come duca di Normandia che suo figlio Enrico apparve nel 1153 e costrinse Stefano a riconoscerlo come associato al governo e successore.

I Plantageneti. - Enrico II (1154-1189) ereditò lo zelo amministrativo del nonno Enrico I e il suo regno costituisce un momento importante nella storia delle istituzioni inglesi. Il suo matrimonïo con Eleonora d'Aquitania, moglie divorziata di Luigi VII di Francia, gli portò l'eredità di lei, costituita dal Poitou, dalla Guascogna e dalla Guienna; il suo impeto si estese così, al sud della Loira, fino ai Pirenei. Oltre a queste grandi aggiunte di territorî stranieri, Enrico acquistò anche la signoria dell'Irlanda, dopo che l'isola fu conquistata da avventurieri normanni che attraversarono il Canale d'Irlanda (oggi Canale di S. Giorgio) dalla costa del Galles.

Pur con tanti interessi all'estero, fu però in Inghilterra che Enrico sviluppò le sue attitudini di statista e che il suo influsso fu più profondamente sentito. Egli riprese subito l'opera del nonno, restaurando l'ordine e la legge, ricuperando alla corona quei dominî che Stefano e Maud avevano usato per comprare i loro partigiani, ordinando la distruzione dei castelli sorti illegalmente durante l'anarchia e rafforzando in tutto il regno le fortificazioni delle piazzeforti reali. In quest'opera di riforma, egli fu assistito da ministri e giuristi tra i quali, nella prima parte del suo regno, si distinse Tommaso Becket da Enrico poi nominato arcivescovo di Canterbury. In questo nuovo ufficio Tommaso divenne difensore ardente dei diritti della Chiesa contro i soprusi regi: fra vescovo e re ne nacque un dissidio che culminò con l'assassinio del primo (1170; v. Tommaso di Canterbury, san; enrico 11). Le costituzioni di Clarendon (1164) promulgate durante la fase acuta del dissidio, manifestavano chiaramente la determinazione d'Enrico di governare la Chiesa con autorità suprema. Dopo l'assassinio di Becket, il re rinunziò a parecchie delle sue pretese, segnatamente alla vexata quaestio dei chierici criminali, ma il diritto di patronato dei benefici ecclesiastici, in altri paesi sottoposto alla legge canonica, rimase, in Inghilterra, di competenza del tribunale civile. In questa, come in altre questioni, le migliori energie d'Enrico erano volte a estendere la giurisdizione della curia regis. Egli mantenne e regolò il metodo iniziato da suo nonno, d'inviare giudici viaggianti in giro per le contee dove, in quel tempo, la loro autorità soppiantò quella degli sceriffi. A tal fine, nel 1176 il paese fu diviso in sei itinerarî. Il periodo tra le assise di Clarendon (1166) e la revisione fattane nelle assise di Northampton (1176) fu contrassegnato dalla progressiva istituzione di metodi per i quali le questioni di possesso e di proprietà della proprietà reali venivano giudicate dinanzi ai tribunali del re dopo emissione di ordinanze autentiche da parte della cancelleria regia; la serie fu iniziata con l'ordinanza praecipe che ingiunse di trasferire ogni processo relativo alle questioni suddette dai tribunali locali alla curia regis. Le infrazioni alle disposizioni delle assise utrum e darrein presentment relative al possesso e al diritto di presentazione per le investiture dei benefici ecclesiastici, nonché quelle di n mort d'ancestor e di novel disseisin riguardanti i feudi laici, erano giudicate in base al giuramento di un giurì di dodici membri; per casi implicanti diritti di proprietà fu escogitato il più elaborato sistema delle grandi assise, nelle quali l'antico uso della prova del combattimento fu sostituito dal giudizio di diritto. Le ordinanze, da cui queste procedure trassero origine, misero la giustizia regia in grado di estendersi a tutti i sudditi liberi, e furono moltiplicate per includervi nuovi casi, via via che l'opera del tribunale regio si fece più ampia e definita. I vantaggi che il sistema offriva rispetto all'antica procedura dei tribunali provinciali, condussero alla formazione (1178) d'un tribunale permanente a Westminster, introducendo in tal modo una nuova specializzazione nelle sezioni della curia regis. Questi miglioramenti giuridici furono accompagnati da una vigilanza sulle amministrazioni locali, della quale fu esempio nel 1170 l'inquisizione dei giudici viaggianti contro le malversazioni degli sceriffi. Questi provvedimenti tendevano a indebolire i tribunali locali; ma la giustizia regia era solo per gli uomini liberi, mentre il colono doveva ancora ricorrere al tribunale feudale del suo signore.

La giustizia di Enrico II non conobbe distinzioni di nazionalità: le sue leggi erano per gl'inglesi non meno che per i Normanni. Il suo regno costituì in tal modo un passo verso l'amalgamazione degli elementi che formavano la nazione inglese. Nelle assise delle armi (1181), Enrico diede salda base al mantenimento dell'esercito nazionale: il fyrd dei tempi sassoni e la milizia dell'epoca successiva che poteva essere chiamata a difendere il paese, furono tenute completamente distinte dalle truppe feudali che potevano essere raccolte come forze dei rispettivi signori. Fu dal regno di Enrico I che l'antico contributo d'uomini da parte dei feudatarî venne trasformato in un tributo in danaro; sotto Enrico II questa tassa fu pienamente riconosciuta e col ricavato di essa si assoldavano i mercenarî per le guerre del re in Francia.

L'ultimo periodo del regno di Enrico fu in gran parte occupato dalle guerre fuori dell'Inghilterra; all'interno, dalla preoccupazione di tenere a freno le forze del malcontento feudale; dalla lotta con i figli stessi del re, che, appoggiati dal re di Francia, tenevano in continuo stato di guerra i dominî sul continente. Ma se i dominî continentali erano destinati a dissolversi gradatamente, premuti sempre com'erano dalla monarchia francese, Enrico lasciò il regno guarito dalla debolezza cui lo aveva ridotto l'incapacità di Stefano e, col successo dei suoi sforzi per accrescere il potere della corona, creò un forte contrappeso alle tendenze disgregatrici feudali.

Alla morte di Enrico la successione rimase al secondo figlio Riccardo Cuor di Leone, (v.) il cui regno (1189-1199) fu soprattutto occupato dalla politica estera. In Inghilterra, l'impopolarità del justiciar Guglielmo Longchamp, vescovo di Ely, produsse da parte dei baroni dei torbidi, da cui trasse momentaneo profitto Giovanni detto Senza Terra (v. giovanni d'inghilterra) fratello del re. Al ritorno di Riccardo, i progetti di Giovanni furono sventati, e dal 1194 al 1199, mentre Riccardo era soprattutto assorbito dalla difesa dei possedimenti sul continente, le istituzioni create da Enrico II furono applicate in Inghilterra dai suoi ministri. La successione di Giovanni (1199-1216) dopo la morte di Riccardo frustrava le pretese del loro nipote Arturo di Bretagna. Filippo Augusto si fece immediatamente campione di Arturo, che però fu catturato da Giovanni (1202) e ucciso. Nel 1203 Filippo invase la Normandia e nell'anno seguente conquistò il ducato togliendolo alla corona inglese.

L'ostinazione di Giovanni nel persistere a combattere in difesa dei suoi possessi sul continente, gli alienò il baronaggio inglese. L'opposizione dei baroni era rafforzata dal dissidio del re con la Chiesa e con Stefano Langton nominato arcivescovo di Canterbury da Innocenzo III, contro la volontà del re. Il papa per punire l'ostinazione del re aveva scagliato sull'Inghilterra l'interdetto, che durò dal 1207 al 1213. Alla lunga Giovanni, specialmente sotto la minaccia di una spedizione francese contro l'Inghilterra, si riconciliò col papa, e riconobbe il regno d'Inghilterra come feudo della Chiesa. Tuttavia, la fine dell'interdetto non portò la fine della guerra civile, e Langton, ansioso di assicurare le libertà della Chiesa dalle inframmettenze del re, fu l'ispiratore delle richieste che i baroni avanzarono e che Giovanni dovette accettare nel 1215.

La Magna Charta concessa da Giovanni a Runnymede fu un documento destinato a tutelare l'interesse della classe baronale: non già quello della nazione nel suo complesso e molto meno la causa della libertà popolare. E neppure si può dire che la libertà della Chiesa inglese, garantita dalla clausola iniziale, fosse l'indipendenza d'una Chiesa nazionale autonoma, libera di seguire la propria guida spirituale: la libertà che la Chiesa e il baronaggio cercavano, era semplicemente l'immunità dei loro membri dall'assolutismo della corona. L'importanza della Magna Charta, come concessione ai privilegi d'una classe che nel 1215 era la rappresentante d'una tendenza nazionale, fu messa in rilievo dalla revisione e dalla nuova promulgazione del documento, avvenuta in due occasioni negli anni immediatamente successivi. Essa rimase in prima linea tra le prove di governo costituzionale, come un documento il cui significato fu esteso, col tempo, a includere idee che originariamente non aveva.

Giovanni si valse della riconciliazione col papato per ottenere da Innocenzo III di esser sciolto dal giuramento di tener fede alla Carta. La sua sottomissione ai baroni era stata affrettata dal disastro subito dal suo esercito mercenario nella disfatta di suo nipote, l'imperatore Ottone IV, a Bouvines (1214): disfatta che annientò per Giovanni ogni speranza di ricuperare da Filippo Augusto i territorî perduti. Portando sul trono imperiale il candidato del papa, Bouvines fu vittoria del papato non meno che della Francia; e il papa poteva ben valersi del vantaggio per vincolare strettamente Giovanni coi legami della gratitudine. Giovanni morì nel 1216, in mezzo a nuove ribellioni nelle quali i baroni aiutavano Luigi, figlio di Filippo Augusto, a invadere l'Inghilterra e ad impossessarsi del trono. Tuttavia Luigi fu disfatto a Lincoln e la lealtà di Guglielmo Marshal, conte di Pembroke, secondato dal legato papale Guala Bicchieri, assicurò la successione del figlio giovane di Giovanni e tenne in freno i mercenarî stranieri di cui Giovanni si era servito.

Il lungo regno (1216-1272) d'Enrico III d'Inghilterra (v.) segna un'epoca in cui, nel corso d'una prolungata contesa tra il re e i magnati ebbe impulso la formazione d'istituzioni nazionali e si sviluppò la vita della nazione in genere.

A differenza del padre Enrico III fu cortese e devoto; fu amante delle arti e il suo più durevole titolo alla fama è l'aver iniziato la ricostruzione dell'abbazia di Westminster. Tuttavia, l'amore del re per la bellezza e il conseguente dispendio, furono parte d'un gusto generale per lo splendore e l'ostentazione che impoverì le rendite reali e portò a continue richieste di danaro. Il rinnovarsi dell'anarchia feudale, che minacciava al principio del suo regno, fu evitato. La Magna Charta fu confermata, e venne promulgata la Carta delle Foreste con cui fu mitigata la severità delle leggi che proteggevano i territorî messi a foresta dai sovrani predecessori come riserve di caccia e ne fu arrestato lo sviluppo. Da allora, la continua ripubblicazione di Carte divenne il principale argomento con cui la corona otteneva danaro dal consiglio nazionale dei magnati.

Fu solo nel 1224 che, sotto il justiciar Uberto de Burgh, l'ordine venne restaurato completamente. Nel 1225 il re uscì di minorità e in cambio d'un aiuto per la difesa del regno, emise una nuova conferma della Magna Charta. Negli anni successivi le continue richieste di denaro suscitarono l'opposizione dei baroni e del clero. Il denaro non occorreva solo per il tesoro reale: la fiducia del re nel favore del papato, condusse all'imposizione d'una tassa da parte del papa. Per di più, dopo la rimozione di Uberto de Burgh dall'ufficio di justiciar, Enrico cadde sotto l'influsso di favoriti stranieri, prima di originarî del Poitou, poi dei parenti della regina Eleonora di Provenza. La rapacità di questi stranieri divenne fonte di continue lagnanze; l'impegno, reso pubblico nel 1257, col quale il re si obbligava a pagare al papa 140 mila marchi per la concessione del regno di Sicilia al suo secondo figlio Edmondo, fece traboccar la misura. I baroni lo costrinsero ad accettare un progetto di riforme che doveva esser redatto da ventiquattro consiglieri: dodici scelti dal re e dodici dai baroni. Questo corpo, nominato a Oxford nel giugno 1258, quando i baroni presentarono un elenco delle richieste, elaborò uno schema di governo in base a cui furono nominati altri tre consigli consultivi per i quali fu redatto un programma che ne guidava l'attività. I provvedimenti di Oxford, come fu chiamato questo schema, furono accettati dal re con giuramento e il risultato pratico, di cui essi non erano che un disegno preliminare, fu l'andata in vigore, nel settembre del 1259, dei cosiddetti Provvedimenti di Westminster, richiesti istantaneamente da un partito della nobiltà più giovane il quale aveva l'appoggio del figlio maggiore del re, Edoardo.

Il piano di riforme, dapprima inattuabile, fallì, finché Enrico e i baroni si accordarono per sottoporre il loro dissidio a un arbitrato; ma nel frattempo il re ottenne dal papa il proscioglimento dall'obbligo di mantenere il giuramento e nel gennaio 1264 l'arbitro prescelto, Luigi IX di Francia, pronunziò la propria decisione in favore del re. All'annullamento dei Provvedimenti di Oxford in forza di questo giudizio detto il Patto di Amiens, seguì lo scoppio della guerra civile, in cui il partito dei baroni era guidato da Simone di Montfort, conte di Leicester. Il 13 maggio 1264 il re e il principe Edoardo furono presi prigionieri nella battaglia di Lewes e per più d'un anno il governo rimase nelle mani dei baroni. Ma Edoardo, approfittando d'un dissidio tra Simone di Montfort e il conte di Gloucester, fuggì dalla prigionia, raccolse un esercito con l'aiuto di Gloucester e disfece il figlio di Montfort che si stava affrettando in soccorso del padre. Questi, che stava tentando di sedare delle rivolte nelle regioni occidentali dell'Inghilterra, si vide così tagliate le comunicazioni con la capitale. Alla battaglia di Evesham (4 agosto 1265) Simone di Montfort cadde. L'autorità regia fu restaurata, ai capi della rivolta dei baroni vennero confiscate terre e dignità e a Kenilworth nell'ottobre 1266 furono emanate disposizioni per la pacificazione del regno, offrendo speciali vantaggi agli avversarî del re che avessero deposto le armi.

Questa soluzione va attribuita soprattutto al principe Edoardo, la cui forza di carattere lo aveva messo in prima linea nella lotta iniziatasi contro i Provvedimenti di Oxford. Interamente devoto al padre e alle prerogative reali, egli aveva tuttavia per la legge e per l'ordine un rispetto che gli faceva considerar saggio rafforzare il potere della corona per mezzo di ragionevoli concessioni nel senso d'una riforma. Fu infatti sotto il regno d'Edoardo I (1272-1307) che il re e i suoi ministri maturarono i frutti della riforma costituzionale di cui era stato campione Simone di Montfort.

La caratteristica più importante del regno d'Edoardo fu lo sviluppo delle istituzioni parlamentari in una forma che era stata saltuariamente sperata in tempi precedenti, specialmente da Simone di Montfort. Le assemblee dei magnati, convocate a intervalli dal re per deliberare sulle faccende pubbliche, furono comunemente dette parlamenti, che era stato il loro nome consueto sotto il regno di Enrico III. In relazione con queste assemblee, forma più ampia della curia regis (dopo il differenziamento dei suoi due poteri, finanziario e giudiziario) rappresentanti degli ordini non baronali erano stati di volta in volta consultati, nelle contee e nelle città aventi diritto al titolo di borough, per necessaria conseguenza del fatto che le richieste del re per imposizione di tributi incidevano sull'intera comunità. Nel 1213 Giovanni aveva convocato quattro cavalieri (knights) per ogni contea a una grande adunanza tenuta a St Albans. Al magnum parlamentum che ebbe luogo nel 1265 sotto la direzione di Simone di Montfort, furono convocati, per mezzo degli sceriffi, due cavalieri da ogni contea, e, mediante ordinanze rivolte alle cittadinanze, due cittadini liberi ed elettori (burgess) da ogni borough. L'importanza dell'istituzione consisteva nel fatto che per le negoziazioni separate con le contee e i boroughs si veniva a costituire un'assemblea di rappresentanti dei comuni, la communitas communitatum Angliae, supplementare al parlamento dei magnati. Fu così stabilito un precedente per quelle assemblee di cui il cosiddetto Parlamento modello convocato nel 1295 è un esempio e che negli ultimi anni del regno d'Edoardo I divennero abituali. Allora e per lungo tempo in seguito, il parlamento rimase il concilio dei magnati, dei vescovi, degli abati e dei baroni, convocati per mezzo di ordinanze individuali, come vassalli principali del re. I rappresentanti dei comuni erano convocati per deliberare in separata sede sulle richieste di aiuti finanziarî presentate loro dal parlamento e per determinare l'entità dell'aiuto da concedere. Anche il clero, sebbene di norma i prelati formassero la maggioranza dei magnati, difendeva tenacemente il diritto d'imporsi da sé la tassazione nella propria assemblea convocata contemporaneamente al parlamento. Le tre assemblee presentavano in tal modo un'apparente somiglianza con gli stati generali della Francia, ma il riconoscimento dei tre stati del regno, clero, signori e comuni, fu in Inghilterra uno sviluppo successivo, sorto da questa costumanza. Alle funzioni giudiziarie del parlamento, supremo tribunale del re, e alle sue decisioni legislative, i comuni non partecipavano. Nello stesso tempo, la formulazione di petizioni al parlamento da parte dei comuni, come necessario complemento alla loro concessione di tributi, sebbene nominalmente accordata a titolo di favore, divenne presto un diritto di cui, con l'accrescersi delle richieste che ricevevano, i comuni fecero largo uso. L'inizio della legislazione statutaria mediante petizioni dei comuni e la domanda di accoglimento delle loro richieste come condizione necessaria per le concessioni di danaro, condusse inevitabilmente, dopo un lungo periodo, all'incorporamento dei comuni nel parlamento e al riconoscimento della loro funzione legislativa.

Sebbene la regolare attività del parlamento assumesse questa importanza durante il regno di Edoardo I, tuttavia molta parte della legislazione che meritò a questo sovrano il titolo di Giustiniano inglese, fu concretata non nel parlamento, ma in speciali consigli convocati dal re. Nessun consiglio privato permanente apparve in Inghilterra prima che fosse trascorso un altro secolo, e non si può dubitare che Edoardo in persona fu la forza attiva che promosse la legislazione del suo regno; egli fu però secondato da un corpo di abili ministri a capo dei quali era il cancelliere Roberto Burnell, vescovo di Bath e di Wells. Durante la prima parte del sec. XIII, l'ufficio di justiciar che era stato di tanta importanza sotto i re normanni e angioini, era caduto in oblio e il suo risorgere in forza dei Provvedimenti di Oxford era stato solo temporaneo. Con la sparizione del justiciar, fu il cancelliere, capo della segreteria reale, che divenne virtualmente il personaggio più importante del governo. Inoltre, dal suo inizio al tempo di Enrico I, la divisione in sezioni della curia regis aveva proceduto rapidamente. Mentre la cancelleria del re, alla quale era affidato il gran sigillo regio, era divenuta l'ufficio centrale del governo, il tesoriere, in qualità di presidente dello Scacchiere, fu secondo solamente al cancelliere tra gli ufficiali della corona. Il corpo giudiziario, che risiedeva in permanenza a Westminster fin dal regno di Enrico II, si era gradatamente diviso in due tribunali distinti: quello per le cause civili, che in seguito divenne il Court of Common Pleas, e il Coram Rege, o King's Bench, soprattutto per le cause penali. Sebbene la divisione di questi tribunali, presieduti ognuno dal suo giudice in capo (chiefjustice) fosse esistita già sotto Enrico III, essa non divenne tuttavia chiaramente distinta fino all'avvento di Edoardo I, epoca dalla quale i loro registri separati divengono ininterrotti. In quest'epoca, il re veniva anche formando organismi per l'amministrazione delle proprie rendite. L'organizzazione del guardaroba regio e della camera, sezione per le finanze private del sovrano, da inizî relativamente modesti assurse a notevole importanza durante il regno di Enrico III il quale, nominando a capo di questi uffici domestici degli stranieri, aveva ingenerato una delle prime cause del suo disaccordo con i baroni. Il successivo sviluppo di questi uffici, del consiglio privato e della carica di eustode del sigillo privato, forma un lungo e complicato capitolo della storia del sec. XIV.

Il potere regio, saldamente tenuto da Edoardo I, fu il risultato della guerra con i baroni. Come già aveva fatto Enrico II dopo l'anarchia del regno di Stefano, Edoardo si valse a pieno dell'occasione per reprimere l'indipendenza feudale e impedire invadenze nei diritti sovrani. Subito dopo il ritorno dalla crociata a cui aveva dovuto partecipare salendo al trono, egli ordinò, sulle libertà e sui privilegi esercitati dai signori feudali in tutto il paese, delle inchieste i cui risultati sono contenuti nella raccolta detta Hundred Rolls. A prescindere dall'aumento di giurisdizioni feudali irregolari col conseguente danno dei diritti della corona, il controllo del re sulle proprietà fondiarie feudali era stato seriamente indebolito dalle continue alienazioni di proprietà regie date alle corporazioni religiose col solito obbligo di pregare per il donatore (frankalmoin) e dalla creazione di nuovi castelli per subinfeudazione, ciò che sottraeva le rendite e le prestazioni relative dalla rendita dei vassalli maggiori ai quali esse erano prima dovute. Lo statuto di Mortmain (1279) che infrenava le illimitate concessioni di terre in frankalmoin fu mandato in vigore in parte per ritorsione contro l'arcivescovo Peckham che aveva resistito alla richiesta d'Edoardo d'un sussidio di un quindicesimo da parte del clero; ma l'effetto pratico fu quello di mettere le future concessioni di tal genere sotto il controllo della corona e dei varî organi il cui consenso era necessario. Nel 1290 lo statuto Quia emptores mise fine al sistema per il quale la vendita d'un terreno aveva finito con l'implicare il trasferimento dei diritti e delle rendite feudali all'ultimo venditore, senza nessun risarcimento ai possessori precedenti. D'allora in poi la libertà di vendita fu concessa a condizione che i tributi d'uso fossero riservati al principale signore del feudo. Restringendone in tal modo la successiva crescita, Edoardo preparò al feudalismo la via della decadenza, accentuando la supremazia della corona come vertice della società feudale e compiendo l'opera a cui i suoi predecessori avevano mirato fin dall'apparizione del regime feudale in Inghilterra.

Nonostante i provvedimenti legali e costituzionali che lo caratterizzarono, il regno d'Edoardo I fu un periodo di duro e arbitrario fiscalismo e il re si servi d'ogni espediente per far denaro per le sue guerre. La conquista del Galles, avvenuta nella prima parte del regno, fu seguita dalle guerre con la Scozia e con la Francia; e in conseguenza delle difficoltà che ne derivarono, Edoardo si trovò di fronte a un risorgere dell'opposizione baronale. Egli fu riconosciuto, come pretendeva, alto signore della Scozia da tutti gli aspiranti al trono, che egli assegnò a John Baliol. Questo protetto però gli si rivoltò contro, e nel 1296 Edoardo conquistò la Scozia deponendo Baliol. Ma nel frattempo era sorta la guerra con Filippo il Bello che aveva attaccato i possedimenti inglesi in Guascogna. La guerra contro la Francia, costringendo a far appello alle risorse finanziarie ecclesiastiche, fu il pretesto per la promulgazione, da parte di Bonifacio VIII, della bolla Clericis laicos che vietava all'autorità temporale d'imporre tasse sul clero senza il consenso della Santa Sede; Edoardo si trovò cosi dinnanzi al rifiuto del clero d'accogliere le sue richieste di denaro e, da parte dei baroni, al rifiuto d'un partito, capeggiato dal connestabile e dal maresciallo che erano i conti di Hereford e di Norfolk, di accompagnare il re alla proposta base d'operazioni nelle Fiandre. Edoardo, allora, sequestrò la lana e le pelli in possesso dei mercanti e impose una tassa esorbitante a coloro cui veniva consentito di conservar le proprie mercanzie. Tentò poi di dividere i suoi oppositori e di ottenere aiuto; ma per raggiungere lo scopo fu costretto a promettere una conferma della Magna Charta e della Carta delle Foreste; ciò che infine dovette fare dopo il successo della rivolta scozzese di Guglielmo Wallace (1297).

Con la conferma delle Carte, si cercò di metter fine alla tassazione arbitraria e all'imposizione di altri sussidî finanziarî senza il comune consenso di tutto il regno. In tal modo il parlamento, che fino allora Edoardo aveva adoperato come una macchina utile al potere regio, fu riconosciuto come partecipe attivo nella decisione d'affari d'interesse nazionale. La questione non ebbe nel 1297 sistemazione definitiva e soltanto dopo altre conferme, l'ultima delle quali concessa al parlamento di Lincoln nel 1301, Edoardo accettò con riluttanza il principio implicito nella nuova posizione del parlamento.

La sua vittoria a Falkirk (1298) gli aveva fatto ricuperare l'ascendente sulla Scozia e nel 1299 fu conclusa una tregua con la Francia. Al Parlamento di Lincoln del 1301, i baroni respinsero la richiesta che l'arcivescovo Winchelsey presentò per conto di Bonifacio VIII, il quale esigeva omaggio da parte della corona di Scozia. Questa divergenza d'interessi tra baroni e clero rafforzò la posizione di Edoardo che durante il resto del suo regno riusci a esercitare un miglior potere sui magnati feudali; potere grandemente accresciuto dal fatto che, estintesi le due contee di Norfolk e di Cornovaglia, i territorî ne tornarono alla corona che ebbe anche altre eredità. Nel frattempo il capo dell'opposizione ecclesiastica, Winchelsey, fu costretto ad andarsene in esilio. Il pericolo dalla parte della Francia fu dissipato dalla disíatta che i Fiamminghi inflissero a Filippo il Bello nel 1302 a Courtrai; la Scozia fu riconquistata e per il governo scozzese venne formata una nuova costituzione. Ma la rivolta di Roberto Bruce mutò completamente la situazione della Scozia e Edoardo, mentre si preparava a guidare l'esercito per reprimere questa seria ribellione, morì (7 luglio 1307).

L'indipendenza della Scozia divenne completa dopo la disfatta dell'esercito inglese a Bannockburn (1314), e per circa tre secoli dopo di allora, l'Inghilterra ebbe al suo confine settentrionale un nemico turbolento e ostinato. La battaglia di Bannockburn ebbe un effetto importante anche sulla situazione politica interna. Edoardo II (1307-1327) all'inizio del suo regno abbandonò la guerra con la Scozia guadagnandone una certa popolarità, ma poi il favore mostrato da lui al guascone Pietro di Gaveston, suo compagno di passatempi, alienò al re i magnati che già s'erano mostrati disposti ad accettare il suo governo a titolo di prova. Principali tra gli oppositori erano il conte di Lincoln, che già aveva sostenuto Edoardo I contro i baroni avversi, e suo genero Tomaso, conte di Lancaster e il maggiore proprietario di terre dell'Inghilterra. L'odio dei baroni contro il parvenu Gaveston, fornì un'occasione al risentimento con cui essi consideravano, interpreti anche del generale sentimento della nazione, le abitudini di sperpero e d'estorsione per il mantenimento della casa reale. Il parlamento che si riunì nel 1310, esigendo dal re il consenso di emettere ordinanze per la salvezza della sua persona e della corona, avanzò le sue proposte unicamente col carattere di misure dei baroni, per le quali non erano stati consultati i comuni. I ventuno Lords Ordainers così nominati, si misero all'opera per rimediare alle lagnanze da essi lamentate, secondo l'esempio dei baroni nel 1258. Le loro ordinanze emesse nel 1311, miravano a mettere la corona sotto il controllo d'un consiglio baronale, ed enunciavano il principio, già altra volta enunciato, che il re dovesse vivere del proprio, senza dipendere da ciò che poteva ottenere con le tassazioni e con altri mezzi. Esse si scagliavano anche contro i favoriti del re, chiedendo specialmente l'espulsione di Gaveston. Edoardo sostenne ostinatamente la causa del suo amico che gli Ordainers erano invece decisi ad abbattere. Il re e Gaveston fuggirono da York nel nord dell'Inghilterra inseguiti dalle forze dei baroni; Gaveston fu preso, e mentre veniva ricondotto verso il sud con la promessa di salvezza della vita, fu catturato dal conte di Warwick e decapitato.

Questo atto conquistò al re alcuni partigiani tra i baroni stessi; ma Edoardo non divenne perciò abbastanza forte da opporre una resistenza attiva e fu costretto a far pace col Lancaster e coi suoi partigiani, finché nel 1313 gli fu possibile esigere da loro un pubblico atto di scusa. Ma il fallimento disastroso del suo tentativo di guidare personalmente l'esercito nella battaglia di Bannockburn lo screditò all'esterno. Dal 1314 al 1318 chi virtualmente governò il regno fu il conte di Lancaster; ma per quanto la sua posizione fosse forte, egli non poté dominare lo stato d'agitazione in cui era caduta l'Inghilterra; nel frattempo, nel Galles era sopravvenuta l'anarchia e in Irlanda veniva accettato come re Edoardo Bruce, fratello di Roberto. Nel 1317 il conte di Lancaster venne a guerra con una parte dei baroni guidati dal conte di Pembroke; ma l'anno seguente, avendo il Bruce conquistato l'importante fortezza confinaria di Berwick, il conte di Lancaster fu costretto a venire a patti con i proprî nemici e col re e il posto che egli aveva tenuto nei consigli del regno fu preso dal Pembroke e dai suoi partigiani. I litigi tra i baroni, incoraggiarono Edoardo II a fare preparativi per restaurare il proprio potere fuori d'ogni controllo, e in quest'opera trovò aiuto fattivo nei due Despenser, padre e figlio, nemici implacabili del conte di Lancaster. I Despenser erano stati messi dai loro intrighi nei Galles meridionale in conflitto con i vicini e ne era conseguito che, contro di loro, il conte di Lancaster s'era unito con i suoi ex-nemici. I Despenser furono esiliati; ma la coalizione contro di loro non si mantenne unita e l'incapacità dei baroni a unirsi fu dimostrata quando Edoardo assediò il castello di Leeds nel Kent ed ebbe la cooperazione di Pembroke e di altri magnati. La presa di Leeds offrì al re occasione di richiamare i Despenser dall'esilio e di umiliare i loro nemici sul confine gallese. Il conte di Lancaster, aspettando nel nord un'occasione per muovere contro Edoardo, diede modo al re di prendere i castelli di Tutbury e Pontefract. A Boroughbridge, poi, il Lancaster fu sconfitto e indi decapitato a Pontefract.

La morte del conte di Lancaster suggellò la fine delle ordinanze del 1311 e restituì a Edoardo II il suo pieno potere. Suoi consiglieri divennero i due Despenser. L'opera loro rimase però del tutto inefficace. Gli Scozzesi invasero il nord dell'Inghilterra e poco mancò che non catturassero il re a Byland Abbey. Andrea Harclay, preposto alla custodia del confine scozzese, iniziò negoziati con Roberto Bruce e fu ucciso a tradimento. Nel 1323 fu conclusa una tregua con la Scozia; ma nel 1324, avendo Carlo IV invaso la Guascogna, scoppiò la guerra con la Francia. Fu stabilito che il principe Edoardo, erede del trono inglese, avrebbe reso omaggio allo zio per la Guascogna e per la contea di Ponthieu; tuttavia Carlo si tenne i territorî conquistati in Guascogna e la guerra fu ripresa.

In questa occasione la regina Isabella (v.), indugiandosi in Francia col figlio, aderì ai progetti di rivincita del suo amante, Ruggero Mortimer di Wigmore, un barone esiliato, che nel 1317 aveva represso la rivolta di Edoardo Bruce in Irlanda; e nel settembre del 1326 sbarcò in Inghilterra. La sua dichiarazione di voler vendicare la morte del conte di Lancaster e punire i Despenser, le conquistò l'adesione di Enrico, fratello del morto Lancaster e conte di Leicester. Anche il paese, stanco del malgoverno, si dichiarò per Isabella e il re fu costretto a fuggire a Gloucester. I due Despenser furono decapitati e il re, dopo un tentativo infruttuoso di fuggire per mare, fu catturato nel Galles meridionale e affidato alla custodia del conte di Leicester.

Al parlamento che s'adunò il 7 gennaio 1327 furono presentate accuse contro Edoardo II e la richiesta della sua deposizione fu generale; la deposizione non fu però decretata formalmente. Circa tre settimane più tardi egli rinunziò alla corona e il 24 gennaio gli succedette il figlio col nome di Edoardo III (1327-1377). Da principio il giovane re si trovò interamente sotto il controllo della madre e di Mortimer, il quale eliminò il pericolo d'una reazione facendo uccidere Edoardo II nel castello di Berkeley (settembre 1327). Edmondo, conte di Kent, fu indotto con inganno a partecipare a una congiura contro Mortimer, e venne decapitato. Il conte di Leicester che era stato reintegrato nella contea di Lancaster appartenuta a suo fratello, e che fino a quel momento aveva accettato il mutamento di governo, si volse allora contro Mortimer. Sotto l'influsso del conte di Leicester Edoardo III fece imprigionare Isabella e Mortimer a Nottingham (ottobre 1330). Mortimer fu poco dopo impiccato a Londra senza processo.

La guerra dei cent'anni. - Nel 1328, quando Carlo IV di Francia morì senza eredi maschi ed ebbe per successore il cugino Filippo di Valois, Edoardo III reclamò per sé la corona di Francia, come figlio della sorella di Carlo IV. Per un certo tempo egli abbandonò la sua pretesa e prestò omaggio a Filippo VI per il ducato di Guascogna e la contea di Ponthieu; per quei primi anni di regno fu così mantenuta la pace con la Francia e l'attenzione del re fu assorbita dagli affari della Scozia. L'indipendenza del trono scozzese era stata riconosciuta col trattato di Northampton (1327); ma il tentativo di Edoardo Baliol di arrogarsi i diritti di David Bruce al regno fu sostenuto da Edoardo III, che nella battaglia di Halidon Hill (1334) catturò Berwick e, come prezzo dell'aiuto, ricevette l'omaggio di Baliol e la cessione di un'ampia zona del territorio scozzese di confine. Ma la campagna d'Edoardo contro la Scozia non ebbe frutto durevole: quando egli si ritrasse dalla lotta a causa della guerra con la Francia, Baliol fu deposto e David Bruce restaurato sul trono. Nel frattempo gl'intrighi di Filippo per ottenere il possesso dei dominî inglesi in Aquitania e l'aiuto da lui dato agli Scozzesi, avevano reso imminente la guerra contro la Francia; e con il 1337 il conflitto scoppiò (v. cent'anni, guerra dei).

La lunga serie di campagne che si seguirono nella Francia e che con intervalli di tregue durarono per un secolo sperperò le risorse di entrambi i paesi. La battaglia di Crécy (1346), la presa di Calais (1347), e la battaglia di Poitiers (1356) segnarono altrettante affermazioni delle armi inglesi. Ma i vincitori erano troppo esauriti per sviluppare in conquiste la loro vittoria, alla quale non seguirono che effimeri trattati. La guerra contro la Francia fu ripresa, nel 1369 e negli anni successivi. I Francesi adottarono un sistema di resistenza passiva, lasciando che gl'invasori inglesi sperperassero le loro forze in spedizioni infruttuose; nel frattempo, gli alleati scozzesi della Francia minacciavano l'Inghilterra settentrionale con incursioni continue. L'unico tentativo serio d'invasione da essi compiuto fu sventato dagl'Inglesi con la battaglia di Neville's Cross (1346); il confine scozzese rimase tuttavia in uno stato d'irrequietezza permanente.

Durante questo periodo il tentativo di un energico predominio sullo stato da parte del re fu temporaneamente impedito dall'opposizione dell'arcivescovo Stratford, di cui il parlamento prendeva le parti. E il parlamento stesso nel 1341 affermò il proprio diritto di eleggere i verificatori dei conti regi e di esercitar la propria autorità nella nomina dei ministri responsabili. Questa legge, respinta dal re, fu abrogata nel 1343 e il parlamento del 1344 fece a Edoardo generose concessioni di danaro per la campagna che finì con la battaglia di Crécy e con la presa di Calais. Tali concessioni furono necessarie perché Edoardo non trovava più credito e i suoi creditori principali, che erano i banchieri fiorentini Bardi e Peruzzi, fallirono per il mancato pagamento dei debiti da parte del re. La prosperità dell'Inghilterra risentiva però ben poco della guerra sul suolo straniero, la quale rappresentava una via di sfogo per gli spiriti più avventurosi. Però i mutamenti sociali affrettati dalla pestilenza del 1349 e dai suoi ritorni nel 1361-62 e nel 1369, avevano cominciato a farsi sentire fin da prima. Il risultato immediato delle pestilenze fu una scarsità di mano d'opera che permise ai lavoratori d'imporre le proprie condizioni di remunerazione. La legge del 1351 sui lavoratori e le successive conferme che essa ebbe, tentò di regolare i salari e di costringere gli oziosi a lavorare; ma non riuscì ad arginare l'ondata che minacciava l'antico ordine sociale, e i problemi economici che la legislazione non poteva risolvere, si fecero più acuti durante gli ultimi anni del regno. Tuttavia questa situazione, se colpiva più gravemente i latifondisti feudali, aveva minore importanza per la crescente classe media che viveva di commerci. Un altro segno dell'irrequietezza generale che seguì la pestilenza del 1349, fu lo sforzo del parlamento per opporsi alle richieste del papa sulle rendite ecdesiastiche. La legge dei provveditori (1351) e la legge contro i ricorsi a tribunali stranieri, nota come la prima legge Praemunire, portarono assai scarso vantaggio alla Chiesa e non fecero nulla per diminuire l'autorità spirituale di Roma; né del resto misero fine alla situazione cui si proponevano di rimediare. Esse tuttavia resero possibile alla corona di affermare nelle questioni ecclesiastiche il proprio influsso contro l'autocrazia del papato.

Le vittorie di Crécy e di Poitiers non produssero nessuna conquista decisiva, ma furono accompagnate da un rifiorire di vita cavalleresca, la quale diede alla corte e agli eserciti d'Edoardo III uno splendore che per qualche tempo oscurò l'addensarsi delle difficoltà sociali ed economiche. Tuttavia negli ultimi anni del regno, fra i danni d'uno stato di guerra mal giustificato e infruttuoso, il malcontento prese forza. Il primogenito Edoardo perdette influenza a corte e il suo posto fu preso dal fratello più giovane, Giovanni di Gaunt, il quale, sposando l'erede della casa di Lancaster, aveva acquistato in Inghilterra vasti possedimenti e unendosi poi in seconde nozze con la figlia di Pietro il Crudele, aspirò al trono di Castiglia. Il re cadde sotto l'influsso di cortigiani dominati da Giovanni di Gaunt la cui ambizione fu avversata da un partito cauto e conservatore favorito dal principe Edoardo e capeggiato da Guglielmo di Wykeham, vescovo di Winchester. Il partito di corte, animato da spiriti anticlericali e non alieno dalle dottrine politiche di Giovanni Wycliffe, subì una dura sconfitta nel "buon parlamento", del 1376, nel quale i comuni misero in stato d'accusa e fecero imprigionare due dei membri più influenti del partito stesso, lord Latimer e il commerciante londinese Lyons. Durante le adunanze di questo parlamento il principe Edoardo morì, e suo figlio Riccardo, che aveva dieci anni, fu riconosciuto erede del trono. Ma Giovanni di Gaunt dominava la situazione politica: nel 1377 l'opera del "buon parlamento" fu resa vana e le sue vittime riebbero il perduto favore.

Il 21 giugno 1377 Edoardo III morì e come successore fu proclamato Riccardo II (1377-1399). In un primo momento le redini del potere rimasero nelle mani di Giovanni di Gaunt; ma, quali che potessero essere le sue ambizioni, la sua impopolarità tra i cittadini di Londra, accresciuta dal suo favore per Wycliffe, e l'insuccesso del tentativo di far cadere in disgrazia Guglielmo di Wykeham, indebolirono l'influsso di Giovanni e gradualmente lo indussero a ritirarsi dalla politica inglese per coltivare le sue pretese al trono di Spagna. Frattanto la guerra continuava e gli sforzi continui per la pace approdavano solo alla conclusione di brevi tregue. Durante i primi parlamenti del regno, furono tentati varî mezzi per ricavare denaro da una nazione le cui risorse private erano però esauste. Una capitazione imposta dal parlamento del 1380 fu l'occasione per l'aperta rivolta, scoppiata nel giugno 1381. Questa ribellione, comunemente chiamata "rivolta dei contadini", fu in realtà un insorgere dei piccoli comuni a cui si unirono i coloni che vedevano l'occasione per conquistar la propria libertà sostituendo col pagamento d'un fitto i servigi abitualmente prestati al loro signore feudale. Sebbene manifestazioni sporadiche di malcontento, fomentate da dissidî locali, si verificassero contemporaneamente in varie parti del regno, non vi fu una sollevazione generale e il pericolo della rivolta veniva soprattutto dall'Essex e dal Kent donde gl'insorti marciarono in due schiere separate su Londra. La città era agitata da fazioni municipali e la complicità d'una di queste fazioni aprì le porte ai ribelli del Kent. Per due giorni la citta fu in balia dei rivoltosi: ma poi la rivolta fallì. Anche la ribellione degli uomini di St Albans contro l'abate e il convento, quella consimile a Bury St Edmunds e l'altra verificatasi a Norfolk furono represse non senza difficoltà. La rivolta non portò agl'insorti nessuno beneficio immediato: i capeggiatori delle insurrezioni locali furono giustiziati e le carte concesse dal re vennero considerate estorte con la violenza e ritirate. La decadenza del feudalismo non fu accompagnata da questi soli disordini e da queste sole irrequietezze: la società era turbata dalle contese private tra i grandi proprietarî di terre, e un dissidio tra Giovanni di Gaunt e il conte di Northumberland, capo dei nobili del nord, minacciò la pace del parlamento che seguì alla rivolta dei contadini.

Frattanto la guerra, interrotta da brevi tregue, continuò senza risultati. L'Inghilterra manteneva con vario successo il dominio del mare e un serio tentativo d'invasione da parte della Francia fu evitato per il sopravvenire d'una tempesta che mise in rotta la flotta francese, facendone anche cadere una parte nelle mani degl'Inglesi. Di tanto in tanto, la Francia faceva con successo incursioni sulle coste meridionali, saccheggiando e incendiando le città costiere. Nel 1382 fu intrapresa in unione con i cittadini di Gand una spedizione che dal papa Urbano VI fu benedetta come una crociata contro i partigiani dell'antipapa francese e che fu guidata da Enrico Spenser, vescovo di Norwich. Ma i dissensi tra i capi e la mancanza di disciplina tra gli equipaggi che, allettati dalla concessione d'indulgenze e dalla speranza del saccheggio, erano accorsi numerosi, fecero risolvere la spedizione in un insuccesso completo e il vescovo, al ritorno in Inghilterra, fu messo dal parlamento in stato d'accusa e venne privato dal potere temporale.

A base delle mire di Riccardo II, che assunse la piena responsabilità del regno nel 1381, era una decisa aspirazione alla monarchia assoluta, aspirazione in cui egli era incoraggiato dai principali membri della sua casa, soprattutto da Michele de la Pole, statista e diplomatico, nominato cancelliere nel 1383 e due anni dopo, durante la spedizione in Scozia, a cui partecipò anche il re, creato conte di Suffolk. Questa spedizione fu causa occasionale della rottura tra il re e Giovanni di Gaunt, il cui influsso già da tempo s'era venuto attenuando; e la partenza di Giovanni per la Spagna lasciò campo libero alle ambizioni del più giovane zio di Riccardo, Tomaso duca di Gloucester, il quale, con l'appoggio dei conti di Arundel e di Warwick, si mise a capo d'un partito che voleva sottrarre il re al potere dei favoriti. Nel parlamento del 1386 il conte di Suffolk fu messo in stato d'accusa per varie frodi e rimosso dalla carica mentre veniva nominata con apposita legge una commissione per esaminare e rifomare la casa reale in tutte le sue sezioni. Tuttavia il re lottò per mantenersi vicino il conte di Suffolk e per eludere l'opera della commissione. Col conte di Suffolk e con altri amici intimi egli si ritrasse nelle contee del midland e a Nottingham nel 1387, da un certo numero di giudici appositamente convocati, ottenne il giudizio che i procedimenti del parlamento nella faccenda della commissione costituivano una violazione delle prerogative regie e che gl'istigatori erano meritevoli della, pena di morte. Questi provvedimenti spinsero gli avversarî dei favoriti ad agire. Dopo il ritorno del re il duca di Gloucester e i conti di Arundel e di Warwick raccolsero forze armate al nord di Londra. I Londinesi però si rifiutarono all'ordine reale di muovere contro quelle forze; anzi, con Enrico conte di Derby e figlio di Giovanni di Gaunt e con Tomaso Mowbray conte di Nottingham, essi avanzarono formale accusa di tradimento contro il conte di Suffolk e altri quattro amici del re, cioè: Alessandro Neville, arcivescovo di York; Roberto de Vere, conte di Oxford; il chief justice, Tresilian; Nicola Brembre, noto commerciante londinese. Nel pericolo imminente del partito regio, il conte di Oxford raccolse un esercito nel nord-ovest e avanzò su Londra; ma la sua marcia fu arrestata: a Radcot Bridge, sul Tamigi superiore, le sue forze furono disperse ed egli stesso si salvò a stento. Gli avversarî, vittoriosi, ebbero il re in loro balia: nel parlamento cominciato nel febbraio 1388, i cinque favoriti furono condannati a morte: solo i conti di Suffolk e di Oxford e l'arcivescovo riuscirono a fuggire all'estero, gli altri e parecchi partigiani furono giustiziati.

I ribelli non avevano una politica prestabilita e l'allontanamento del conte di Oxford valse a riconciliare con Riccardo i conti di Derby e di Nottingham. Nel maggio 1389 il re riassunse il potere senza difficoltà ed iniziò un periodo di governo nel quale si astenne da ogni tentativo di rappresaglia. Egli non molestò il duca di Gloucester e il conte di Arundel; il fratello di quest'ultimo, Tomaso, che in quell'anno era succeduto al Neville come arcivescovo di York e che nel 1396 divenne arcivescovo di Canterbury, fu richiamato alla carica di cancelliere.

Durante otto anni di relativa tranquillità, il parlamento fu occupato a rimettere in vigore delle leggi concernenti questioni ecclesiastiche. Le leggi di manomorta, che limitavano il lascito di proprietà alle comunità ecclesiastiche, vennero rivedute ed estese alle proprietà alienate da corporazioni laiche. Di fronte alle richieste del papa Bonifacio IX, le leggi sui provveditori furono riconfermate con la comminatoria di gravi pene e fu approvata la seconda legge Praemunire.

Durante questo periodo, il duca di Gloucester non prese parte attiva alla vita pubblica: il duca di York, terzo dei sopravviventi zii del re, non aveva nello stato nessuna importanza. Quanto a Giovanni di Gaunt, che nel 1389 era tornato dalla Spagna, non vittorioso ma con vantaggi diplomatici per sé, appoggiò la politica prudente del nipote e la sua lealtà fu ricompensata nel 1396 con la legittimazione dei suoi figli naturali, i Beaufort. L'opposizione che aveva trionfato nel 1388 era disarmata e Riccardo fu padrone della situazione. Al principio del 1397, i Comuni chiesero una riduzione delle spese della casa reale. Ciò fu considerato dal re come un attacco alle sue prerogative; il chierico Tomaso Haxey, che ne fu ritenuto responsabile, venne condannato a morte e risparmiato solo in grazia della sua qualità di ecclesiastico. Da quel momento il re, con l'appoggio d'un gruppo di cortigiani guidati dal suo fratello uterino Giovanni Holland, conte di Huntingdon e dal nipote Tomaso Holland, conte di Kent, e di attivi partigiani tra i Comuni, manifestò apertamente la propria intenzione di governare da monarca assoluto. Nel luglio 1397 il conte di Warwick fu arrestato; il duca di Gloucester fu preso e assassinato; il conte di Arundel, che aveva affidato la propria salvezza a Riccardo stesso, fu (settembre 1397) condannato a morte e decapitato, il conte di Warwick e l'arcivescovo Arundel vennero banditi. Si abrogò la legge del 1386 e a Shrewsbury nel 1398 il parlamento annullò gli atti del "parlamento spietato" del 1388. Dai docili Comuni ottenne tutto ciò che voleva; il parlamento rimase praticamente sospeso per la nomina d'un comitato che aveva facoltà di trattarne gli affari e i cortigiani del re ottennero in ricompensa ducati ed altri onori.

Nella sua nuova politica, Riccardo faceva senza dubbio assegnamento sull'amicizia della Francia, con cui aveva concluso pace nel 1396, e fu anche incoraggiato da una vana speranza di venir eletto al trono imperiale vacante. Sospettoso di tutti gli antichi avversarî, bandì i conti di Derby e di Nottingham recentemente creati duchi di Hereford e di Norfolk e quando la morte di Giovanni di Gaunt portò al primo la successione del ducato di Lancaster, il re ne fece immediata confisca. Ma durante una visita di Riccardo in Irlanda (1399) lo spodestato duca di Lancaster, accompagnato dall'arcivescovo Arundel, sbarcò nello Yorkshire e marciò verso il centro dell'Inghilterra quasi senza opposizioni. Lo Yorkshire gli si sottomise e i principali agenti del re furono uccisi a Bristol. Quando Riccardo sbarcò sulla costa del Galles, il suo esercito disertò e il re fu costretto ad arrendersi al rivale nel castello di Flint. Fu condotto a Londra, dove consentì ad abdicare. Nel parlamento convocato il 30 settembre 1399, fu decretata la sua deposizione; il duca di Lancaster fu riconosciuto re.

Dopo la temporanea soppressione sotto Riccardo II, il parlamento aveva affermato vittoriosamente il proprio diritto a sostituire un sovrano con un altro, e Enrico IV salì al trono, impegnato a riportare nel regno un buon governo con l'aiuto e il consiglio del parlamento. Sotto l'aspetto ereditario, la successione non era valida: sebbene appartenesse alla linea maschile diretta che discendeva da Edoardo III, Edmondo Mortimer, per mezzo del matrimonio con la figlia ed erede del duca di Clarence, secondo figlio d'Edoardo, rappresentava un ramo più anziano della famiglia reale. Sorgeva così un problema dinastico che, sebbene non del tutto dimenticato da Enrico e dai suoi consiglieri, era per il momento di scarsa importanza in confronto al bisogno d'un re forte e intenzionato a governare costituzionalmente. Tuttavia Enrico, nonostante le sue promesse, era tanto ansioso di conservar le sue prerogative regie, quanto il parlamento era deciso a limitarle. La questione delle spese della casa reale divenne non meno urgente di quanto era stata durante il regno di Riccardo: le concessioni di danaro furono estorte al parlamento con difficoltà, e fu solo a prezzo di concessioni imposte dal "parlamento lungo" del 1406, il quale investì del potere esecutivo il consiglio regio, che Enrico assicurò la successione al trono alla propria famiglia. In mezzo a questi dissidî, l'influsso dell'arcivescovo Arundel, autore principale della rivoluzione che aveva portato al trono la casa di Lancaster, fu a poco a poco sostituito dalla nascente ambizione del fratello uterino del re, Enrico di Beaufort, vescovo di Winchester.

Gli ultimi anni di Enrico furono amareggiati da divergenze col suo figlio maggiore, le quali minacciarono di volgere in aperto conflitto nel 1411, quando il Beaufort, dopo aver chiesto l'abdicazione del re, fu esonerato dall'ufficio di cancelliere a favore di Arundel, e il posto del principe come presidente del consiglio regio fu preso da suo fratello Tomaso, duca di Clarence.

Fin dal suo stesso inizio, il regno fu turbato dalle cospirazioni. Entro i primi tre mesi dall'assunzione di Enrico, i Holland tentarono di suscitare una rivolta per rimettere sul trono Riccardo II; ma il risultato fu fatale sia per loro e per i loro partigiani, sia per Riccardo che fu ucciso in prigione. Il capo gallese Owain Glyndwr minacciò di rendersi padrone del Gallese sul confine scozzese scoppiò la guerra. Nel 1402 il conte di Northumberland, Percy, e suo figlio Enrico l'Impetuoso (Hotspur) sconfissero gli Scozzesi a Homildon Hill, nei monti Cheviot, e ne presero prigionieri i capi. Ma per aver chiesto che gli fossero consegnati i prigionieri, il re perdette l'appoggio del Northumberland e della famiglia Percy, che si alleò con Glyndwr. Nella battaglia di Shrewsbury (1403) il re e il principe Enrico inflissero una disfatta ai Percy: Enrico l'Impetuoso fu ucciso, ma suo padre, conte di Northumberland, trovò modo di far pace col re. Tuttavia il suo posto nella regione settentrionale fu preso dal conte di Westmorland, capo della famiglia rivale dei Neville. Nel 1405 il conte di Northumberland promosse una nuova ribellione alla quale si unirono Riccardo Scrope, arcivescovo di York, e Tomaso Mowbray, conte di Nottingham. Le loro forze furono affrontate da un esercito al comando del Westmorland: Scrope e Mowbray furono presi per tradimento e condannati a morte. Il conte di Northumberland fuggì in esilio, ma si mantenne in comunicazione con Glyndwr e col conte di March, arrivando persino, nel 1406, a concludere con essi un accordo per la spartizione dell'Inghilterra e del Galles tra loro tre. La potenza di Glyndwr nel Galles era però in decadenza e un ultimo tentativo del conte di Northumberland per raccogliere un esercito, finì con una disfatta e con la sua morte a Bramham Moor (1408). Una serie di spedizioni guidate dal principe Enrico, ridussero a poco a poco il Galles in soggezione.

Dopo la caduta di Riccardo II, le inconcludenti ostilità con la Francia erano state riprese, e nel 1406 il duca d'Orléans invase la Guienna e strinse d'assedio Bourg, sulla Gironda. Tuttavia la rivalità fra i duchi di Borgogna e d'Orléans evitò una grave guerra e, dopo l'assassinio dell'Orléans (1407), il governo francese concluse una tregua. La vittoria di Homildon Hill aveva eliminato il pericolo da parte della Scozia e la cattura nel 1406 dell'erede del trono scozzese accrebbe il vantaggio dell'Inghilterra. Negli ultimi tempi del regno, la posizione di Enrico IV si rafforzò molto: le varie ribellioni erano state represse con mano ferma; mediante un giudizioso compromesso erano stati mantenuti tra corona e parlamento rapporti fattivi e la guerra all'estero era, per il momento, cessata.

Enrico V (1413-1422) si era dimostrato soldato abile e il suo influsso negli affari pubblici, sebbene esercitato in opposizione al padre, aveva migliorato la sua reputazione intaccata da voci di giovanile dissolutezza. All'ambizione di conquiste che subito rivelò egli univa una fervente ortódossia religiosa.

I torbidi del regno di Riccardo II erano stati complicati dalla diffusione delle dottrine di Wycliffe e dei suoi discepoli, nelle quali le teorie politiche erano inestricabilmente mescolate con quelle religiose. Il mutamento dinastico del 1399 aveva portato una forte avversione ufficiale contro l'eresia e nel 1401 Arundel aveva tentato di arrestare lo sviluppo del Lollardismo (v.) per mezzo della legge De heretico comburendo, in forza della quale gli eretici ostinati erano dai tribunali ecclesiastici consegnati al braccio secolare per essere puniti col rogo. Ma non fu se non con l'avvento al trono di Enrico V che la corona s'interessò alla repressione dell'eresia che aveva guadagnato terreno nei circoli anticlericali di corte. Sir John Oldcastle lord Cobham, uomo di qualche dottrina, che aveva espresso opinioni non ortodosse, fu processato dinanzi ad Arundel e condannato in virtù della legge sopra ricordata. Egli evase e imbastì un complotto per impossessarsi della persona del re; ma il complotto fallì lo scopo e l'Oldcastle nel 1417 fu preso e condannato.

Gli affari di politica interna furono però oscurati dal rinnovarsi della guerra contro la Francia. Stretta segretamente alleanza col duca di Borgogna, Giovanni Senzapaura, Enrico risuscitò le pretese di Edoardo III alla corona di Francia. La sua richiesta che gli fossero ceduti tutti i dominî perduti dall'Inghilterra nel corso di due secoli, era assurda in sé stessa e non teneva nessun conto né della legge salica, né del fatto che Enrico non era il discendente diretto più anziano di Edoardo III. Tuttavia, favorito dall'anarchia interna della Francia, egli ottenne tali successi (v. cent'anni, guerra dei), che col trattato di Troyes (1420), fu riconosciuto erede del trono di Francia e sposò la principessa Caterina.

Nella lotta che seguì contro le forze raccoltesi intorno al diseredato delfino, Enrico continuò a riportare successi, ma il 31 agosto 1422 morì a Vincennes. Il suo erede Enrico VI (1422-1461) era un bimbo di nove mesi e la reggenza della Normandia fu affidata a Giovanni duca di Bedford, mentre luogotenente in Inghilterra fu Humphrey duca di Gloucester, sottoposto però all'autorità del duca di Bedford, quando questi si trovasse in patria. La politica del duca di Bedford si volse al mantenimento dell'alleanza con la Borgogna, come garanzia della sicurezza inglese in Francia; ma il duca di Gloucester, ostinato ed egoista, mise tale alleanza in pericolo a causa del suo intempestivo matrimonio con Giacomina d'Olanda, moglie divorziata del duca borgognone di Brabante. Guardato con sospetto in Inghilterra dove la sua reggenza era gelosamente controllata dal consiglio, frustrato nei ripetuti tentativi di conquistare i Paesi Bassi come eredità di sua moglie, egli si mise in lotta col più potente ministro inglese, lo zio Enrico di Beaufort che era stato creato cardinale nel 1427.

Ma in Francia nel 1429 l'improvvisa apparizione di Giovanna d'Arco a difesa della monarchia francese, seguita dall'assedio d'Orléans, dalla battaglia di Patay e dall'incoronazione di Carlo VII a Reims, volse la fortuna contro gl'invasori inglesi. Nonostante la tragedia finale di Giovanna, il mutamento da lei operato si mantenne. L'incoronazione del giovane Enrico VI a Parigi, per opera del Beaufort, non fu che una debole dimostrazione; Filippo di Borgogna lasciò cadere l'alleanza con gl'Inglesi e venne a patti con Carlo VII; il duca di Bedford morì nel 1435, e sebbene la guerra continuasse ancora per parecchi anni, l'invasione della Normandia da parte del re di Francia nel 1449-50 e la perdita definitiva nel 1453 di tutto ciò che restava nel dominio inglese della Guienna, ridusse l'Inghilterra a conservare, di tutti i suoi possedimenti francesi, soltanto Calais.

La perdita della Francia fu affrettata dall'inettitudine del governo e dai dissidî interni. Nel 1445 la duchessa di Gloucester, per sposare la quale il reggente aveva abbandonato la sua prima moglie, fu processata sotto l'accusa di usare la magia per determinare la morte del giovane re e venne bandita. Ciò condusse al ritiro del duca di Gloucester dagli affari dello stato e al predominio della fazione del cardinale Beaufort. Dopo l'insuccesso d'una spedizione nella Guienna sotto la guida di Giovanni Beaufort, duca di Somerset e nipote del cardinale, furono aperti negoziati per la pace e per il matrimonio del re con una principessa francese. Fu conclusa una tregua e nel 1445 Enrico sposò Margherita, figlia di Renato duca d'Angiò e titolare del regno di Napoli. La giovane regina, vivace e ambiziosa, s'alleò con i Beaufort e con Guglielmo de la Pole, conte e più tardi duca di Suffolk, che aveva negoziato la tregua e il matrimonio. Ma sebbene non fosse più al potere, il duca di Gloucester era tuttora popolare e si temeva l'opposizione che egli avrebbe potuto fare contro le cessioni di territorio francese alle quali il re era stato impegnato dal Suffolk, allo spirar della tregua con la Francia. In un parlamento convocato a Bury St Edmunds nel 1447, il Gloucester fu arrestato sotto l'accusa di tradimento e morì misteriosamente pochi giorni dopo. Per la morte del cardinale Beaufort avvenuta nello stesso anno, il Suffolk si trovò in mano la direzione degli affari; ma la perdita del Maine nel 1448 e la successiva conquista della Normandia da parte di Carlo VII, gettarono il discredito su di lui e sul suo compagno di governo Edmondo di Beaufort che era succeduto al fratello Giovanni nella contea di Somerset. Il malcontento popolare raggiunse il colmo nel 1450; in varie parti dell'Inghilterra scoppiarono insurrezioni: la ribellione di Jack Cade che affermava di essere membro della casa di Mortimer, minacciava di rinnovare gli eccessi della rivolta dei contadini; i vescovi di Chichester e di Salisbury furono uccisi dalla plebaglia, e lo stesso Suffolk, messo dal parlamento in stato d'accusa e bandito, fu decapitato.

Enrico VI era interamente dominato dalla regina e dai ministri che ella favoriva. La morte di Suffolk lasciava a capo del partito realista il Somerset divenuto duca e rappresentante dei Beaufort come ramo legittimo della casa di Lancaster. D'altra parte, il posto del duca di Gloucester era stato preso da Riccardo, duca di York, figlio di quel conte di Cambridge che aveva cospirato contro Enrico V nel 1415, ed erede per linea materna dei diritti dei Mortimer, ramo più anziano dei discendenti d'Edoardo III. La luogotenenza del duca di York in Normandia era stata l'unico episodio decoroso degli ultimi anni di governo inglese in Francia. La questione della successione al trono venne in primo piano: Enrico VI non aveva figli e i diritti ereditarî del duca di York alla successione potevano essere validamente sostenuti. Ma al potere si trovava il duca di Somerset e quando nel 1451 i comuni chiesero che erede del trono fosse dichiarato il duca di York, la richiesta fu respinta e il parlamento venne sciolto. L'anno seguente il duca di York cercò di toglier di mezzo il duca di Somerset con la forza armata; ma il tentativo non riuscì ed egli fu costretto a giurare di astenersi da nuove ostilità.

La guerra delle Due Rose. - In conseguenza della perdita della Guienna nel 1453, il duca di Somerset fu messo in stato d'accusa e imprigionato. Salì al potere il duca di York e un improvviso attacco di pazzia costrinse il re a ritirarsi, rendendo necessaria una reggenza. Le pretese del duca di York alla successione passarono però in second'ordine per la nascita d'un erede al trono; tuttavia, sebbene Margherita d'Angiò reclamasse la reggenza per sé, il duca di York fu nominato dal parlamento protettore e difensore del regno e riempì il Consiglio di proprî amici e partigiani. Principalissimi tra questi erano il suo cognato Riccardo di Neville, conte di Salisbury, che egli nominò cancelliere, e il figlio di costui, Riccardo conte di Warwick. Ma nel 1454 il re si ristabilì in salute, e il duca di Somerset, liberato dalla prigionia, convocò insieme con la regina un'assemblea di loro partigiani a Leicester, per provvedere alla sicurezza del re contro i suoi nemici.

Il duca di York accettò la sfida e scoppiò così la guerra civile nota col nome di guerra delle Rose (v.). A St Albans nel 1455 il duca di Somerset venne ucciso e il re preso prigioniero. Ma il successo del partito di York fu effimero: dal 1456 al 1459 a capo degli affari fu la regina la quale, nonostante una formale riconciliazione tra le fazioni rivali, si venne preparando per un attacco decisivo contro il duca di York. Nel 1459 le armi furono riprese: la causa di York parve perduta e i suoi amici abbandonarono l'Inghilterra. In un parlamento convocato a Coventry, che metteva York e tutti i suoi partigiani al bando per alto tradimento, fu pronunciato un solenne giuramento di fedelta al re, con il riconoscimento di suo figlio come erede al trono. Ma nel 1460 il conte di Warwick sbarcò nel Kent ed entrò a Londra dichiarando che unico scopo della sua venuta era di giustificare la causa di York. Una battaglia avvenuta a Northampton fece cadere in sua mano il re; nel parlamento che seguì, gli atti dell'altro parlamento di Coventry furono abrogati e inaspettatamente il duca di York reclamò per sé la corona, come vero erede di Riccardo II. Si venne tuttavia a un compromesso per il quale il duca di York fu riconosciuto erede del re; ma nel frattempo la regina raccoglieva un esercito nel nord e si preparava a marciare su Londra per vendicare il diseredamento di suo figlio. Il 30 dicembre 1460 Margherita riportò a Wakefield una vittoria completa: il duca di York fu ucciso e dei suoi partigiani fu fatto un massacro.

Il trionfo del partito dei Lancaster fu però di breve durata: nel febbraio 1461, mentre Margherita si preparava a entrare a Londra, la città inerme trovò difensori nel conte di Warwick e in Edoardo, figlio maggiore del duca di York. Messa del tutto in disparte la questione elettiva, Edoardo fu riconosciuto re per diritto ereditario. Inseguito da Edoardo stesso e dal conte di Warwick, il partito dei Lancaster si ritirò verso il nord, finché, ridotto all'estremo, il 29 marzo 1461 a Towton nello Yorkshire fu completamente disfatto. Enrico VI e Margherita fuggirono in Scozia; ma la loro causa era perduta anche nel nord: la conclusione della pace tra Inghilterra e Scozia li privò di quel rifugio. Margherita e il figlio fuggirono in Fiandra; Enrico, dopo molte vane peregrinazioni, fu catturato nel 1465 e imprigionato nella Torre di Londra.

Edoardo IV (1461-1483) era salito al trono con l'aiuto del conte di Warwick, la cui abilità diplomatica lo aiutò a conservare la corona. Luigi XI di Francia, rendendosi conto che la causa dei Lancaster era irrimediabilmente perduta, e minacciato dalla rivalità del duca di Borgogna, venne a patti con Edoardo. Il conte di Warwick cercò di combinare il matrimonio tra Edoardo e una sorella della regina di Francia; ma Edoardo, suscettibile e amante dei piaceri, aveva sposato segretamente Elisabetta Woodville, vedova d'un nobile del partito dei Lancaster. Il favore ch'egli dimostrò ai parenti della moglie quando il matrimonio divenne noto, gli alienò l'animo del conte di Warwick e il dissidio divenne completo nel 1467, per l'insistenza con cui il re voleva il matrimonio della propria sorella con l'erede del duca di Borgogna, nonostante il vivo desiderio con cui il conte di Warwick mirava alla pace con la Francia. Il Warwick e suo fratello, il cancelliere Giorgio Neville, furono allontanati dalla corte ed Edoardo, fidando sull'alleanza con la Borgogna, dichiarò guerra alla Francia. Il fratello del re, Giorgio duca di Clarence, marito d'una delle figlie del conte di Warwick, strinse apertamente lega col suocero, e la guerra civile scoppiò di nuovo. Il nord dell'Inghilterra insorse; mentre Edoardo cercava di reprimere la rivolta, il conte di Warwick s'impossessò di Londra e il re, catturato nei midlands, rimase per qualche tempo in suo potere. Tuttavia Edoardo si valse della repressione d'una rivolta del partito dei Lancaster nel Lincolnshire per coinvolgere il conte di Warwick e il duca di Clarence in un'accusa di tradimento. I due fuggirono in Francia dove, per influsso di Luigi XI, si riconciliarono con Margherita d'Angiò e si prepararono a rimettere sul trono Enrico VI.

Il progetto riuscì: nel settembre 1470 essi sbarcarono nel Devon con un certo numero di nobili del partito dei Lancaster; Edoardo, abbandonato dal suo esercito, si rifugiò alla corte di Borgogna; il conte di Warwick e il duca di Clarence governarono insieme come luogotenenti e fu promesso aiuto alla Francia per un attacco contro la Borgogna. Margherita, rimasta in Francia, diffidava però del conte di Warwick e la lealtà del duca di Clarence era incerta. Nel marzo 1471 Edoardo sbarcò nello Yorkshire, annunziando che era venuto a reclamare il proprio ducato di York; ma quando egli si diresse verso il sud, il suo scopo apparve chiaro. Il duca di Clarence gli portò in aiuto le truppe destinate al conte di Warwick; Edoardo così entrò a Londra, detronizzò Enrico e il 14 aprile, nella battaglia di Barnet, il conte di Warwick cadde. Nel frattempo, Margherita era sbarcata in Inghilterra e aveva raccolto delle forze in occidente; ma il suo esercito subì il 3 maggio a Tewkesbury una disfatta: nel massacro che ne seguì suo figlio morì, ella stessa fu presa prigioniera ed Enrico VI fu ucciso nella Torre di Londra.

Le continue agitazioni del regno durante il periodo delle sconfitte all'estero e della guerra civile, avevano indebolito il governo costituzionale ed Edoardo IV tenne in proprio dominio il parlamento, la cui esistenza era ridotta a poco più d'una formalità. La naturale simpatia che ispirava lo rese popolare, specialmente tra la ricca classe commerciale che egli accarezzò mentre ne estorceva doni di danaro che erano liberi soltanto di nome ed erano chiamati benevolences. Durante le guerre, egli s'era dimostrato generale abile, sicché l'invasione della Francia, nella quale s'imbarcò nel 1475, prometteva di riuscire. Ma la sua cupidità di danaro permise a Luigi XI di comprarlo e di dissuaderlo dell'alleanza con la Borgogna. Il suo fratello minore Riccardo, duca di Gloucester, guidò nel 1482 una guerra contro la Scozia, durante la quale fu ricuperata sul confine la fortezza di Berwick. La slealtà di Luigi XI condusse Edoardo nel 1483 sull'orlo di una nuova guerra con la Francia; ma la morte d'Edoardo stesso sventò il pericolo.

Durante i suoi ultimi anni, la famiglia era stata divisa da dissidî. Il duca di Clarence, che aveva sposato una figlia e coerede del conte di Warwick, si risentì contro il matrimonio della propria cognata, vedova d'un principe della casa di Lancaster, caduto alla battaglia di Tewkesbury, col duca dì Gloucester. Nel 1478 il duca di Clarence fu arrestato sotto le accuse di usurpazione delle prerogative di giustizia del re e di pratica della stregoneria: ritenuto colpevole di tradimento, fu messo a morte nella Torre di Londra. Da quel momento, il duca di Gloucester divenne il principale consigliere di Edoardo, alla morte del quale sorse tra il duca e la regina la questione della reggenza durante la minorità dell'erede. Il giovane re Edoardo V si trovava sul confine del Galles, affidato allo zio materno lord Rivers che si preparò a condurlo a Londra. Lungo la via trovarono i duchi di Gloucester e di Buckingham: Rivers e suo nipote, sir John Grey, vennero arrestati, mentre il Gloucester prendeva cura del re. La regina madre e il suo figlio più giovane, duca di York, cercarono asilo nell'immunità dell'abbazia di Westminster mentre il duca di Gloucester coronava il suo colpo di stato, ottenendo dal consiglio d'essere riconosciuto come protettore del regno. Il re e suo fratello furono allogati nella Torre di Londra e fu sparsa la voce che essi fossero figli illegittimi. L'amico e ciambellano di Edoardo IV, lord Hastings, fu messo a morte senza processo, altri membri del Consiglio furono arrestati e un'assemblea convocata nella chiesa di S. Paolo senza le formalità delle convocazioni parlamentari, offrì al protettore Gloucester la corona di re. I parenti della regina e i loro partigiani furono giustiziati a Pontefract e ben presto dopo l'avvento al trono di Riccardo III (1483-1485) i principi diseredati furono assassinati nella Torre di Londra.

Gli atti spietati di tradimento con cui aveva inaugurato il suo regno, alienarono da Riccardo anche i suoi partigiani. Il duca di Buckingham, che lo aveva aiutato a salire sul trono, si unì con Giovanni Morton, vescovo di Ely, in un complotto per riunire le case di York e di Lancaster mediante un matrimonio tra Elisabetta, figlia maggiore d'Edoardo IV ed Enrico Tudor, conte di Richmond, la cui madre era l'erede della casa di Beaufort. La rivolta non ebbe successo e il duca di Buckingham fu messo a morte. Ma il conte di Richmond attendeva l'occasione per attaccare l'usurpatore; nel frattempo Riccardo perdeva la moglie e il figlio e la sua causa era indebolita da continue defezioni. Il 7 agosto 1485 il conte di Richmond sbarcò a Milford Haven; durante la traversata del Galles fino a Shrewsbury, le sue forze s'accrebbero e il 22 agosto a Market Bosworth egli si scontrò con l'esercito di Riccardo che aveva il quartier generale a Leicester. A Market Bosworth, nel centro dei midlands inglesi, si concluse la lotta fra le case di Lancaster e di York: Riccardo III fu ucciso in battaglia e una nuova monarchia, fondata sull'unione delle due famiglie rivali, inaugurò un'era nuova nella storia dell'Inghilterra.

L'epoca del feudalismo, cominciata con la conquista normanna, finì virtualmente col regno d'Edoardo I, l'ultimo dei grandi re inglesi che rafforzarono il potere della corona contro le usurpazioni dei baroni feudali. Durante il sec. XIV i baroni continuarono a lottare per affermare le loro pretese e ottennero successi momentanei contro qualche re debole o tirannico; ma il continuo stato di guerra di quel periodo, mentre offriva occasione di sfoggiare gli splendori cavallereschi, indebolì l'influsso baronale nello stato. Nello stesso tempo lo sviluppo d'una classe commerciale aveva rafforzato nella società un nuovo elemento la cui potenza fu visibile nell'accresciuto influsso dei comuni in seno al parlamento. Tuttavia, il sec. XV fu un periodo di transizione e d'incertezza. Il potere conquistato dal parlamento declinò e la politica inglese fu nelle mani di un consiglio privato, dominato dall'ambizione di statisti rivali.

Il periodo dei Tudor. - Con l'avvento della dinastia dei Tudor che da Enrico VI a Elisabetta doveva occupare il trono per circa 120 anni (1485-1603) l'Inghilterra entra in un periodo di decisive trasformazioni.

In quei 120 anni, infatti, la valorizzazione dell'Atlantico in seguito alle grandi scoperte geografiche spinge sempre più gl'Inglesi verso la vita marinara; le attività manifatturiere ricevono il deciso impulso per la creazione della prima grande industria, quella della lana, in seguito all'afflusso degli operosi e abilissimi profughi dei Paesi Bassi spagnoli, che portano oltre Manica il segreto della loro industria. Da paese esportatore di lana e importatore dei prodotti da essa ricavati, l'Inghilterra diviene rapidamente paese esportatore di pannilani superiori ai già celebrati prodotti fiorentini e fiamminghi; e intanto la marina commerciale si forma non solo per svincolare l'Inghilterra dallo sfruttamento che dei suoi porti facevano le marinerie straniere, ma anche per far concorrenza a queste marinerie nei loro paesi d'origine e nelle colonie d'oltreoceano, dove anche navigatori ed esploratori inglesi in gara con spagnoli, portoghesi, francesi riescono a piantare la bandiera britannica e a porre le prime basi del futuro impero: ecco nel 1585 la Virginia fondata da sir Walter Raleigh. Nella politica internazionale da Enrico VII a Enrico VIII, a Elisabetta, si svolge un sapiente e fortunato giuoco di spostamenti e d'interventi nelle grandi lotte continentali di Spagna, Francia, Impero, diretto a impedire il consolidamento di egemonie pericolose e ad assicurare all'Inghilterra le condizioni più favorevoli allo sviluppo della propria indipendenza e potenza. Nella politica interna le conseguenze della trentennale lotta delle Due Rose, che aveva stroncato e dissanguato la grande nobiltà feudale mentre ancora una nuova forte classe terriera e industriale non si era formata, insieme col malcontento diffuso nella massa popolare così contro la nobiltà, come contro il clero regolare e secolare con le gerarchie ricchissime e corrotte, creano le condizioni in cui la dinastia può esplicare l'audace politica del rafforzamento delle proprie prerogative e del proprio potere verso le forme dell'assolutismo, sia organizzando una Chiesa nazionale svincolata da Roma e dipendente dalla Corona, sia eliminando le funzioni e il controllo del parlamento. Da ciò, durante il periodo dei Tudor, la preparazione delle lotte nel campo della fede e in quello della politica che dovevano imperversare durante il periodo degli Stuart, e conchiudersi nel 1688 col consolidamento delle libertà religiose e costituzionali.

Il regno di Enrico VII costituisce il prologo nella serie degli avvenimenti grandiosi e decisivi. Al suo avvento al trono, dopo la vittoria di Bosworth (1485), il paese, travagliato da trent'anni di lotte intestine e di sanguinose tragedie, aveva sete d'ordine e di quiete, e nella sua gran maggioranza era disposto a pagare il conseguimento di tali benefici anche a prezzo dell'assoggettamento a un duro giogo autoritario. Si trattava d'una massa di popolazione di circa 4 milioni di abitanti, il cui nerbo era costituito da piccoli proprietarî e affittuari, da artigiani e da mercanti, che avevan profittato della rovina della vecchia nobiltà feudale durante la guerra delle Due Rose per migliorare le proprie condizioni, e che vedevano istintivamente nel re il presidio contro gli arbitrî e le violenze dei potenti. Così Enrico VII riuscì a svincolarsi progressivamente dal parlamento, convocato non più una volta all'anno, come ai tempi di Edoardo III, ma rarissimamente (una sola volta negli ultimi tredici anni di regno) e a mirare con successo a mettere insieme, mediante tasse e confische, un enorme tesoro reale (quasi due milioni di sterline) prezioso strumento per lui e per il successore Enrico VIII nell'esplicazione della politica assolutista. Questa, che ebbe zelanti fautori e interpreti nei due ministri Edmondo Dudley e Riccardo Empson e nell'arcivescovo Morton, si appoggiò anche sulle funzioni e sulle prerogative sempre più larghe e importanti attribuite al Consiglio privato del re, una delle cui commissioni, composta di funzionari e personaggi fidatissimi e denominata Camera stellata (v. VIII, p. 528), divenne un vero e proprio tribunale speciale, con statuti proprî che le assicuravano amplissime facoltà nel campo giudiziario e in quello politico.

Nel campo internazionale le preoccupazioni più gravi furono costituite dai rapporti con la monarchia francese, che in quel periodo si stava preparando a una vigorosa politica espansionista. L'Inghilterra, che al di qua della Manica possedeva sempre Calais, cercò di premunirsi contro i pericoli di questo espansionismo, prima contrastando anche con le armi, ma invano, l'unione del ducato di Bretagna al regno di Francia, attuata con il matrimonio di Carlo VIII con Anna di Bretagna (1491); poi sviluppando una politica di ravvicinamento con la monarchia spagnola, rivale della francese, politica che condusse nel 1501 al matrimonio di Caterina d'Aragona, in un primo tempo con il figlio primogenito ed erede di Enrico VII, Arturo, e, morto questi, col secondogenito Enrico. Anche verso il regno di Scozia, piccolo ma spesso pericoloso e infido vicino, fu attuata con successo, alla fine d'una serie d'urti che avevano turbato i rapporti tra i due stati, una politica di ravvicinamento, basata sul matrimonio di Giacomo IV Stuart re di Scozia con Margherita figlia di Enrico VII (1503), matrimonio che doveva preparare la futura unione dei due regni. L'Irlanda che già con gli appoggi dati a tentativi di rivolte yorkiste aveva cominciato a esplicare il suo compito, destinato a diventare col tempo tanto più grave e pericoloso, di perturbatrice della politica inglese, veniva posta in una posizione di strettissimo legame e quasi di dipendenza, dopo che nel 1494 Edoardo Poynings riuscì a costringere il parlamento irlandese ed approvare due Atti che rendevano applicabili all'Irlanda tutte le leggi vigenti in Inghilterra e stabilivano il principio che ogni legge, prima di essere portata davanti al parlamento di Dublino, dovesse avere avuto l'approvazione del re. Intanto l'attenzione britannica si volgeva anche alle terre d'oltreoceano di cui giungevano mirabolanti notizie attraverso i viaggi dei primi navigatori. Enrico VII, che nel 1489 aveva accolto con favore e iniziato trattative con Bartolomeo Colombo, venuto alla corte inglese a chiedere appoggio alla grande impresa progettata dal fratello Cristoforo, nel 1497 promosse e finanziò le spedizioni con le quali Giovanni e Sebastiano Caboto giunsero alle coste del Labrador e di Terranova.

La politica di ravvicinamento e d'accordo con la Spagna ebbe un momento d'arresto verso il 1509 (nel quale anno morì Enrico VII e gli succedette il figlio Enrico VIII), quando la Spagna si trovò unita in uno stesso sistema d'alleanza con la Francia, con l'Impero e col papa ai danni di Venezia (Lega di Cambrai). Questo sistema che univa le maggiori potenze continentali, eliminando i contrasti fra i quali l'Inghilterra poteva sviluppare il proprio giuoco di equilibrio, isolava e paralizzava la politica estera inglese. Ma subito dopo la vittoria contro Venezia, l'accordo franco-spagnolo si ruppe per far luogo a una rivalità che, salvo brevi parentesi, doveva continuare per quasi mezzo secolo, attraverso guerre sanguinose. Si ricostituì allora la situazione continentale più adatta allo sviluppo dell'azione equilibratrice dell'Inghilterra, che con abili spostamenti dall'uno all'altro campo riuscì a impedire il consolidamento di egemonie pericolose, e ad aumentare la propria influenza nella politica europea.

Così durante la guerra della Lega Santa, che pose la Spagna e l'Impero con minori alleati contro la Francia, l'Inghilterra si unì all'alleanza ispano-imperiale, compiendo nel 1512-1513 due spedizioni oltre Manica e fronteggiando vigorosamente e battendo a Flodden (1513) le forze della Scozia che, legata in alleanza con la Francia, minacciava il confine settentrionale inglese. Nel periodo di stasi che seguì, l'azione inglese fu diretta a mantenere la pace tra la Spagna e la Francia con l'equilibrio delle forze, riuscendo con ciò ad acquistare tanto peso nella politica continentale che quando, dopo l'elezione di Carlo V a imperatore nel 1519, la pace franco-spagnola si ruppe per dare inizio alle terribili lotte tra Carlo V e Francesco I, l'un contendente e l'altro si volse verso il re d'Inghilterra chiedendone a gara l'alleanza. La decisione inglese fu a favore di Carlo V, sia per i legami di parentela tra le due case regnanti e per le tradizioni dell'amicizia spagnola che, fra l'altro, aveva fruttato all'Inghilterra un vantaggioso trattato commerciale con i Paesi Bassi spagnoli, sia per la politica di prepotenze seguita in quel periodo da Francesco I, sia per i legami tra la Francia e la Scozia, tradizionale avversaria dell'Inghilterra.

Tutta questa interessantissima fase di politica estera è guidata dalla possente figura di Tommaso Wolsey. Ma dopo un ventennio, la collaborazione tra re e ministro cominciò a vacillare e infine si ruppe, nella situazione complicata e pericolosa determinatasi per la volontà del re di divorziare dalla prima moglie Caterina d'Aragona, e insieme per gli sviluppi di tendenze alla riforma religiosa in Inghilterra (v. enrico VIII; Wolsey). Queste tendenze si collegavano in parte alla vecchia propaganda di Wycliffe e al movimento dei Lollardi, in parte agl'influssi giungenti d'oltre Manica, cioè ai movimenti promossi sul continente da Lutero e dagli altri riformatori. E trovavano terreno favorevole nel sentimento di sdegno e d'irritazione che nella maggioranza della popolazione inglese suscitavano le condizioni degli organismi ecclesiastici, troppo spesso opulenti, mondani e corrotti, assorbitori, con le rendite di vastissimi possessi e con le decime di tanta ricchezza nazionale, che in gran parte emigrava poi verso Roma. In questo stato di cose, sopraggiunse l'attrito, presto degenerato in rottura completa, tra il re e il papa Clemente VII, per la questione del divorzio che il re cominciò a chiedere nel 1528 e che il papa era riluttante a concedere. Invano il Wolsey, che presagiva guai dalla tempesta, tentò d'intromettersi oon un'opera di conciliazione: la decisione del papa di esaminare e risolvere direttamente la questione a Roma, convocandovi il re, portò la tensione all'estremo grado, esasperando Enrico VIII, che trovò sostegno anche nell'opinione pubblica, irritata nel suo orgoglio nazionale, perché la decisione del papa sembrava tendere a sottoporre il re d'Inghilterra al giudizio di un'autorità straniera, generalmente invisa. La prima vittima della crisi fu lo stesso Wolsey (1530).

Da questo momento, i problemi dei rapporti col papato e della riforma religiosa assunsero una parte preponderante nella politica inglese, aprendovi una crisi destinata a durar lungo tempo e a produrre mutamenti profondi. Alla docilità dei ministri, come Th. Cranmer, nel seguire il re si accompagnò quella del parlamento, che l'azione del Wolsey aveva piegato già alla sottomissione ed Enrico VIII aveva popolato di proprie creature, e che per di più sentiva fortemente l'influsso delle correnti antipapiste e antiromane, ormai forti in Inghilterra. Queste circostanze permisero al re di basarsi sull'appoggio del parlamento nella politica religiosa, facendola apparire come espressione della volontà nazionale. Per nove anni, dal 1529 al 1536, il parlamento sedette ininterrottamente, confortando della propria approvazione le misure decise dal re, che, inoltre, sulla questione del divorzio si era appellato alle facoltà teologiche d'Inghilterra e degli altri paesi. Dopo di ciò, il divorzio da Caterina d'Aragona e il matrimonio con Anna Bolena, celebrato nel 1533, furono il punto di partenza d'una serie di provvedimenti che trasformarono radicalmente la condizione della Chiesa in Inghilterra e che rappresentarono insieme la tendenza assolutista di Enrico VIII, risoluto a svincolare la sua autorità da ogni controllo per renderla piena e sovrana anche nel campo religioso, e i sentimenti antipapisti e antiromani sviluppatisi nel paese. Strumento intelligente e senza scrupoli di tale politica forte fu Tommaso Cromwell.

Con l'approvazione dello Statuto dei sei articoli, fatta nel 1539 da un altro parlamento docilissimo ai voleri regi, Enrico VIII intendeva coronare la propria opera di riforma nel campo ecclesiastico, in quanto, dopo aver distrutto tutti i legami di dipendenza da Roma e aver asservito a sé le gerarchie ecclesiastiche, tendeva a fissare principî dogmatici e disciplinari in materia di eucaristia, di confessione, di celebrazione della messa, di celibato ecclesiastico e di voti di castità, simili a quelli della Chiesa romana. Ciò mirava ad arginare e a distruggere le correnti di protestantesimo che, approfittando della situazione creata dalla lotta tra re e papa, cercavano di trascinare l'Inghilterra verso la piena riforma. Enrico VIII non voleva ciò, e se combatteva e sterminava i papisti riluttanti ad accettare le sue riforme, combatteva e sterminava del pari gli eretici, sforzantisi a diffondere in Inghilterra il protestantesimo; se per i primi c'era la forca o la mannaia, per i secondi c'era il rogo; anzi i roghi erano accesi con tanto maggiore frequenza e tanto maggiore severità, quanto più il re s'impegnava a fondo nella lotta antipapista, essendo in lui il desiderio di mostrare che la lotta contro il papa non intaccava il proprio zelo religioso. Ma nonostante l'azione spietata del re, il cattolicesimo papista mantenne salde le radici e il movimento protestante non si arrestò: dal che vennero preparati i perturbamenti e gli sconvolgimenti del periodo successivo alla morte di Enrico VIII. A favorire l'affermazione e lo sviluppo del protestantesimo, si esplicò a un certo momento sottomano l'azione di Tommaso Cromwell. Siffatto atteggiamento del ministro onnipossente era inspirato anche da una concezione di politica estera. Egli voleva l'avvicinamento ai protestanti di Germania, reso secondo lui necessario dalla circostanza che tra Carlo V e Francesco I si era delineato un nuovo periodo di accordi (tregua di Nizza del 1535); il che aveva frustrato la politica inglese di avvicinamento alla Francia, tentata dopo il 1530, e creava la minaccia di nuovi aiuti francesi alla Scozia, il cui re Giacomo V, per quanto nipote di Enrico VIII, era pronto ad attaccare l'Inghilterra anche per zelo cattolico. Il Cromwell ritenne di poter suggellare il successo di tale nuovo indirizzo, inducendo il re, che nel 1536 aveva fatto decapitare Anna Bolena e nel 1537 era rimasto vedovo della terza moglie Jane Seymour, a sposare una principessa tedesca protestante, Anna di Cleves. Ma la nuova sposa cadde quasi subito in odio al re e venne ripudiata, trascinando nella propria disgrazia il ministro che l'aveva fatta giungere al talamo reale e al trono: accusato di alto tradimento, imprigionato, condannato, il Cromwell venne decapitato (luglio 1540). Il posto d'Anna di Cleves fu preso da Caterina Howard che ebbe poi la stessa sorte di Anna Bolena. Con la caduta di Cromwell, salutata del pari con gioia dalla nobiltà e dal clero, cessò l'orientamento della politica inglese verso i protestanti tedeschi e riprese forza l'indirizzo politico di avvicinamento alla Spagna, contro la Francia e la Scozia, i cui legami erano resi più stretti dalla parentela fra le case regnanti (Giacomo V aveva sposato prima una figlia di Francesco I, poi Maria di Guisa) e dal comune zelo antiriformatore. Così ripresero furiose le lotte tra l'Inghilterra, alleata con Carlo V, e la Scozia e la Francia. Giacomo V, battuto nella grande battaglia di Solway Moss, morì di dolore, lasciando erede la bambina Maria nata sei giorni avanti la sua morte (dicembre 1542). Ma la lotta anglo-scozzese non cessò, e s'intrecciò con una lotta anglo-francese che fruttò a Enrico VIII l'occupazione di Boulogne (1544). Intanto una ripresa di azione anticattolica, favorita dall'arcivescovo Cranmer, portava l'anglicanesimo ad avvicinarsi nel campo dottrinale al protestantesimo.

Quando Enrico VIII venne a morte (1547), il regno d'Inghilterra appariva profondamente trasformato non solo dal punto di vista politico per il rafforzamento dell'autorità regia e dal punto di vista religioso per la creazione della nuova Chiesa anglicana; ma anche dal punto di vista della compagine territoriale, giacché nel 1536 il re era riuscito a incorporare completamente nel regno il principato di Galles e la regione detta Marca gallese, equiparandone le condizioni a quelle del resto dell'Inghilterra, e successivamente aveva iniziato con fortuna l'opera d'incorporamento dell'Irlanda, combattendo la potenza della grande schiatta irlandese dei Fitzgerald e favorendo nell'isola lo sviluppo degli elementi inglesi a danno dei celtici.

La morte di Enrico VIII aprì nel regno un periodo di ondeggiamenti religiosi e politici che lo perturbarono e ne misero in pericolo la potenza sotto gl'immediati successori di lui, finché la mano energica di Elisabetta non venne a riprendere vigorosamente il timone e a portare a compimento l'opera politica e religiosa paterna. Nel breve spazio di undici anni si succedettero sul trono due sovrani, anzi tre se si considerano i dieci giorni (10-19 luglio 1553) in cui, dopo Edoardo VI e prima dell'avvento di Maria, portò riluttante la corona la giovinetta Jane Grey.

Per sei anni il trono venne occupato da Edoardo VI, il decenne figlio di Enrico VIII e di Jane Seymour, mentre le due sorellastre di lui, Maria, figlia di Caterina d'Aragona, ed Elisabetta, figlia di Anna Bolena, che il padre aveva in un primo tempo escluso dall'eventuale successione e poi riammesso nei loro diritti secondo l'ordine di nascita, conducevano una vita segregata, lontano dalla corte. Ma accanto al re giovinetto, debole di volontà e assorbito negli studî religiosi che lo portavano verso le idee della Riforma, tennero il governo effettivo, l'un dopo l'altro, i due potenti ultimi favoriti di Enrico VIII: lo zio del nuovo re, Edoardo Seymour conte di Hertford e in seguito duca di Somerset, e John Dudley conte di Warwick e in ultimo duca di Northumberland. Questi grandi e ambiziosi signori s'imposero nel Consiglio di reggenza istituito da Enrico VIII prima di morire, e ne assorbirono le facoltà essenziali. Caratteristica del loro governo fu la tendenza ad accentuare l'avvicinamento e quasi la fusione dell'anglicanesimo alle correnti e dottrine riformatrici trionfanti sul continente e a colpire con nuove misure i cattolici. Il duca di Northumberland, dominatore nel 1552-1553, tentò anche di assicurare alla propria famiglia il trono, inducendo il debole Edoardo VI a modificare la successione a danno delle sorellastre e a favore della cugina Jane Grey, sposa del di lui figlio. Ma pochi giorni dopo la morte di Edoardo VI il calcolo si mostrò sbagliato e preparò la rovina non solo del Northumberland ma anche dell'innocente e ignara lady Jane, perché la gran massa del parlamento e della nobiltà, attenendosi alla regola di successione stabilita da Enrico VIII, si schierò a favore di Maria, che, proclamata regina il 19 luglio, fece il 3 agosto il suo ingresso trionfale a Londra. La disgraziata regina di dieci giorni, lady Jane, abbandonata da tutti fu confinata nella fosca Torre, dove nel 1554 la raggiunse la condanna capitale.

Se il regno di Edoardo VI aveva rappresentato in Inghilterra il flusso dell'ondata riformatrice, quello di Maria rappresentò il riflusso, del pari violento e sanguinoso, del movimento cattolico. L'attaccamento alla religione materna, il desiderio di vendicare l'affronto fatto alla madre e a lei stessa con il divorzio del 1533 e con la conseguente dichiarazione della di lei illegittimità, l'influenza del cardinale Pole che dall'esilio romano fu richiamato in patria con grandi onori e che assunse una posizione predominante, il matrimonio con Filippo II di Spagna celebrato nel luglio 1554, che venne a ricostituire i legami politici e religiosi con la cattolicissima Spagna, costituirono altrettanti impulsi perché la nuova regina secondasse con ogni forza la riscossa cattolica, che il papato promoveva energicamente. I vescovi cattolici come Gardiner, Bonner ritornarono in grazia e in onore, mentre i riformati venivano tolti dalle loro diocesi e cacciati in prigione; le leggi e le forme di rito anticattolico emanate nei due precedenti regni furono abrogate, mentre la messa tornava a essere solennemente celebrata e il parlamento era piegato a invocare dal papa assoluzione per la passata attività eretica. Ma contro tutto ciò si sviluppò inevitabile una reazione, nella quale si trovarono concordi larghi strati della nobiltà e del popolo, preoccupati delle conseguenze non solo religiose ma anche politiche d'un movimento che rischiava di asservire l'Inghilterra a poteri stranieri, quali la Spagna e il papato.

Lo stesso furore della reazione cattolica diffuse nella massa della popolazione sentimenti di orrore e di sdegno, di cui poteva profittare la riscossa protestante. Tanto più che nell'opinione inglese, nella quale ormai maturava il senso di patriottismo e d'orgoglio nazionale, il concetto di reazione cattolica venne indissolubilmente ad associarsi a quello d'umiliazione e di scacco nazionale, per il fatto che tale reazione coincise con l'alleanza politica con la Spagna, accettata nel 1557 dalla regina sia per l'influenza del marito Filippo II, sia per ritorsione contro gli aiuti dati dalla Francia a tentativi di spedizioni di profughi protestanti inglesi, e risultata nefasta all'Inghilterra, in quanto la trascinò a partecipare a fianco della Spagna all'ultima fase della lotta franco-spagnola, fase che se risultò vantaggiosa alla Spagna per la vittoria di San Quintino (1557), costò all'Inghilterra la perdita di Calais, dopo due secoli di possesso, e cioè l'esclusione dal continente (1558). La regina Maria morì sotto l'impressione di questo colpo, risentito profondamente anche da lei, lasciando il paese in difficili condizioni per lo scacco della politica estera e per il travaglio delle lotte religiose interne. La reazione suscitata dalla politica religiosa di Maria si fece sentire attraverso le decisioni del parlamento che si radunò nel 1559. Esse stabilirono la revoca delle concessioni di tributi e di possessi fatta da Maria alla Chiesa romana, il rinnovamento dell'Atto di Supremazia e un Atto di Uniformità che imponeva il libro di preghiere adottato sotto Edoardo VI, sia pure con qualche modificazione e attenuazione. Queste decisioni aprirono la via e fornirono i primi mezzi alla nuova sovrana, per la politica religiosa da essa poi attuata fino alla morte e diretta a fissare la religione ufficiale inglese su basi intermedie tra il cattolicesimo e il protestantesimo acceso, e sopra tutto a consolidare definitivamente i risultati già voluti da Enrico VIII, nel senso di fare dell'autorità religiosa un nuovo strumento del potere monarchico in Inghilterra. La nuova regina Elisabetta fu secondata dalla fortuna che le permise di dedicare allo sviluppo della sua politica un lunghissimo regno (1558-1603) e le assicurò anche la collaborazione di ministri abili e fedeli: in prima linea, Guglielmo Cecil, divenuto poi lord Burghley, devoto e disinteressato collaboratore dall'inizio del regno fino alla morte (1598), quando gli successe nel potere e nello zelo il secondogenito Roberto Cecil; poi, Nicola Bacon, cognato di Guglielmo Cecil, e Francis Walsingham.

La situazione interna era tutt'altro che favorevole, perché le difficoltà finanziarie si univano alle dissensioni e alle agitazioni politiche e religiose, che si estrinsecavano coi soliti metodi delle congiure e dei tentativi insurrezionali. La linea intermedia che nel campo religioso la regina si proponeva di seguire, era minacciata da un lato dai cattolici, irrigiditisi nell'ostilità specialmente dopo la scomunica che nei 1570 Pio V lanciò contro Elisabetta, e dall'altro dalla diffusione delle dottrine calviniste per opera della setta dei puritani, formatasi per impulso dei profughi protestanti tormati in Inghilterra dopo la morte di Maria. D'altra parte ragioni gravi di preoccupazioni sorgevano per le vicende del vicino regno di Scozia, scosso sia dallo sviluppo del movimento di riforma calvinista promosso da John Knox, sia dalle crisi provocate dalla condotta della giovine regina Maria Stuarda (v. scozia; maria stuarda). Il rifugio che questa cercò in Inghilterra nel 1568 costrinse Elisabetta a misure di precauzione, dato che Maria era la presunta erede al trono, come più prossima parente di Elisabetta, ed era, come cattolica, appoggiatissima da Roma. Se lo sviluppo del protestantesimo in Scozia ebbe favorevoli conseguenze politiche per il regno inglese, in quanto contribuì a rompere i legami tradizionali franco-scozzesi e a togliere molti ostacoli alla futura unione fra Inghilterra e Scozia, la presenza di Maria in Inghilterra si rivelò presto pericolosa, in quanto la giovine donna ambiziosa, audace, portata all'intrigo, divenne il centro delle speranze e delle trame dei cattolici che tentavano di sviluppare anche in Inghilterra contro Elisabetta, specialmente dopo la scomunica del 1570, quella lotta che si era ingaggiata violenta e sanguinosa in Francia e nei Paesi Bassi (notte di San Bartolomeo, 1572; assassinio di Guglielmo d'Orange, 1584). Si formarono e presero piede varie congiure, l'ultima delle quali nel 1586 determinò l'incriminazione e il processo per alto tradimento contro Maria Stuarda, supposta complice e beneficiaria del tentativo. E la condanna a morte e l'esecuzione capitale, che Elisabetta presentò come voluta a forza dal parlamento e dal Consiglio privato, chiuse tragicamente l'8 febbraio 1587 la vita turbinosa di Maria.

Le circostanze avevano portato Elisabetta d'Inghilterra ad essere, nella grande lotta ormai scatenata in Europa tra Riforma e Controrifomia, la più alta e caratteristica rappresentante, insieme con Guglielmo d'Orange, del protestantesimo di fronte a Filippo II di Spagna, esponente e campione del cattolicesimo. Cognati, i due sovrani erano di fronte, e ai motivi religiosi e personali del contrasto si intrecciavano anche i motivi politici, in quanto la politica estera inglese aveva ormai assunto direttive antispagnole, come volevano del pari gl'interessi dello sviluppo della potenza inglese e i principî della politica di equilibrio, giacché la Spagna, potentissima dopo il trattato di Cateau-Cambrésis e per l'espansione d'oltreoceano, predominava sul continente e sui mari. Contro siffatta egemonia l'Inghilterra doveva fatalmente lottare, tanto più che la Francia, travagliata dalle guerre di religione, aveva quasi cessato di rappresentare una grande forza nella politica internazionale. La lotta assunse i più varî aspetti, da quello degli aiuti dati ai ribelli dei Paesi Bassi, sorti in armi contro l'oppressione politica e religiosa di Filippo II, a quello dell'incoraggiamento alle imprese dei corsari come Drake, Hawkins, Frobisher, che attaccavano e rapinavano navi e colonie spagnole. E tutto si risolveva a incremento della prosperità inglese: perché se l'amicizia coi ribelli dei Paesi Bassi aveva, tra l'altro, il risultato di fare accorrere in Inghilterra profughi che vi importarono i segreti dell'industria laniera, l'appoggio ai corsari favoriva lo sviluppo d'una potente e audacissima marineria irregolare che fu, accanto alla marina regolare regia fondata da Enrico VIII e sviluppata da Elisabetta, la base su cui si preparò la futura talassocrazia britannica.

L'ora decisiva del conflitto scoccò quando Filippo II stabilì l'invasione dell'Inghilterra per raggiungere il triplice risultato di farvi trionfare il movimento cattolico, di schiacciare il centro che alimentava la rivolta dei Paesi Bassi, di eliminare i pericoli e le insidie alle flotte e alle colonie spagnole. Alla lotta la grande massa della popolazione si preparò sotto la guida della regina con quella energia e quella devozione alle sorti della patria che si ritroveranno poi sempre nelle ore supreme della storia britannica. La catastrofe dell'Invencible Armada fiaccava la potenza navale della Spagna e sulle sue rovine sorgeva la talassocrazia inglese: lo dimostrarono negli anni successivi le audacissime imprese contro le coste spagnole, coronate nel 1596 dall'attacco a Cadice e dalla distruzione della nuova flotta spagnola ivi preparata, il che portò alle speranze di Filippo II e della Controriforma il colpo di grazia.

Il trionfo contro la Spagna diede all'ultimo periodo di regno di Elisabetta un grande splendore. Nello stesso tempo le energie marinare inglesi, incoraggiate dal trionfo, ebbero mirabili impulsi a svilupparsi in tutti i sensi nei nuovi attacchi alle colonie spagnole e nelle attività, poco onorevoli ma lucrosissime, della tratta dei negri e del contrabbando; nelle imprese d'esplorazione e di colonizzazione, d'oltreoceano (Virginia); nell'organizzazione di forze commerciali per i traffici oltremarini (Compagnia dei mercanti di Londra, poi Compagnia delle Indie Orientali). Nella politica internazionale l'Inghilterra vittoriosa della Spagna, mentre la Francia e l'Impero erano nel pieno travaglio delle lotte di religione, acquistò un peso quale mai aveva avuto. Nella politica interna, la regina poté approfittare del rafforzamento che le derivava dal grande successo per assicurare definitivamente l'organizzazione della Chiesa anglicana e per completare l'opera del padre nei riguardi dell'Irlanda, dove agitazioni politiche e religiose imperversavano, specialmente da quando, in piena Controriforma, il papato, con Gregorio XIII, aveva cercato di fare dell'isola cattolica la leva contro la regina eretica (1579). Dopo lunghe lotte le agitazioni furono stroncate, sia pure a prezzo di azioni crudeli che lasciarono strascichi d'odio, e proprio mentre la vecchia regina s'avviava alla tomba, l'Irlanda si poteva dire assicurata all'Inghilterra (1603).

La vita interna si avvantaggiò anche dell'aumento di benessere determinato dalla fioritura dei traffici e delle nuove attività produttive cui s'accompagnò anche una provvida ripresa agricola, così che mentre i centri urbani si sviluppavano e Londra s'avviava ad essere una grande città, anche le campagne avevano nuova vita. La Descrizione dell'Inghilterra, scritta dal pastore puritano William Harrison nel secondo periodo elisabettiano ci dà un quadro delle condizioni inglesi ben diverso da quello fosco tracciato da Tommaso More nella sua Utopia ai primi tempi di Enrico VIII, tutto popolato da scene tristi o truci d'accattonaggio e di brigantaggio. L'aumento del benessere e il miglioramento delle condizioni della popolazione, caratterizzato anche dallo sviluppo della borghesia, ebbero una ripercussione importante e gravida di conseguenze nel campo politico con l'atteggiamento in certo senso più risoluto a difesa delle proprie prerogative assunto dalla Camera dei comuni. Pur rimanendo in sostanza strumento dell'autorità regia, che cercava di popolarlo di proprî fedeli sia con l'elevazione alle parie, sia con la creazione di nuovi collegi elettorali sicuri (novantotto ne furono creati durante il periodo Tudor, dei quali oltre trenta dalla sola Elisabetta), e che lo convocava solo nel caso di necessità (durante il regno elisabettiano si ebbero soltanto tredici sessioni), il parlamento, anche per influso del puritanesimo, strenuo difensore dei diritti civili non si peritò di far sentire la propria opinione talvolta in contrasto con quella della regina, ad esempio quando nel 1601 riuscì a piegare la vecchia Elisabetta a rinunciare alle concessioni di monopolî. Quando, carica d'anni e di gloria, la regina si spense (24 marzo 1603) se l'autoritarismo regio, grande obbiettivo dei Tudor, appariva consolidato, era anche preparata nel parlamento una forza di resistenza e d'opposizione, capace di contrastare e d'infrangere ulteriori tentativi regi nel senso del dispotismo.

A completare il quadro splendido dell'Inghilterra elisabettiana vanno tenuti presenti altri elementi importanti. In quel periodo incomincia a delinearsi quella che il Seeley con acuto senso storico e grande larghezza di visione definì l'influenza del nuovo mondo sul vecchio, determinata dall'iniziata espansione inglese d'oltreoceano e dalla fondazione delle prime colonie, e destinata ad avere tanto peso sia riguardo alla formazione del carattere inglese, sia riguardo alla politica interna ed estera dell'Inghilterra. In quel periodo inoltre si ha la meravigliosa fioritura artistica, letteraria e intellettuale le cui origini erano connesse per tanti legami e contatti e influssi al Rinascimento italiano e che, proprio mentre il regno di Elisabetta era all'apogeo, culminò nei nomi e nelle opere di Spencer, di Marlowe, di Shakespeare e di Bacone.

Le rivoluzioni del sec. XVII. - Dopo la morte di Elisabetta, per circa mezzo secolo, la politica inglese rimase virtualmente estranea alla grande azione internazionale, pur mentre sul continente si dibatteva il formidabile conflitto politico-religioso della guerra dei Trent'anni (1618-1648) e si preparava su basi assolutistiche la politica egemonica della monarchia francese. Ciò fu dovuto alle lotte politico-religiose interne che caratterizzarono l'avvento della nuova dinastia scozzese degli Stuart, succeduta a Elisabetta con Giacomo I, pronipote di Enrico VII e re di Scozia dal giorno della forzata abdicazione della madre di lui Maria Stuarda. Gli Stuart che tendevano a sviluppare un'autorità dispotica, basata nel campo politico sull'annullamento virtuale del parlamento e nel campo religioso sull'appoggio della Chiesa anglicana, non poterono non suscitare contro la loro azione le veementi opposizioni politiche della media aristocrazia campagnola (gentry) e della nuova borghesia cittadina, risolute a difendere i privilegi parlamentari e le libertà civili, e le non meno veementi opposizioni religiose dei dissidenti o puritani, daì quali si era staccata una setta anche più fanatica (gl'"indipendenti") nel senso dell'ostilità contro ogni forma avvicinantesi al cattolicesimo e all'anglicanismo, e tendenzialmente repubblicana. Siffatte opposizioni dovevano prendere tanto maggiore forza, in quanto la meschina politica estera della nuova dinastia che raccolse soltanto scacchi in tentativi d'intervento in Spagna (Cadice 1625) e di soccorso ai protestanti francesi (la Rochelle 1626-1628) eliminava la ragione principale per la quale gl'Inglesi s'erano in sostanza acconciati alle tendenze autoritarie dei Tudor, e cioè la difesa vigorosa e quasi sempre fortunata fatta da quella dinastia degl'interessi inglesi nella grande politica internazionale. Le lotte politico-religiose perturbarono profondamente la vita interna inglese del sec. XVII, ma ebbero il risultato di consolidare il regime costituzionale e il sistema delle liberta civili e politiche, e insieme di temprare la fibra inglese per la nuova vigorosa azione all'estero, anche con l'impulso che esse indirettamente diedero al movimento migratorio e colonizzatore verso l'America Settentrionale, dove colonie vennero fondate da profughi religiosi e politici, quali i puritani emigrati nel 1620 col Mayflower nel Massachusetts, dando un esempio seguito poi tra il 1629 e il 1640 da circa ventimila compatrioti intolleranti del giogo stuardista.

Giacomo Stuart salì al trono inglese nel 1603, senza che ciò significasse riunione dell'Inghilterra e della Scozia in un solo stato. Ma è innegabile che il legame dell'unione personale e il progressivo ravvicinamento nel campo religioso tra l'anglicanesimo inglese e il presbiterianesimo scozzese prepararono la fusione, per il momento in cui le necessità politiche la imposero.

Il regno di Giacomo I (1603-1625) costituì il prologo del dramma che doveva culminare con l'esecuzione capitale del figlio. Il nuovo sovrano rivolse tutte le energie a contrastare al parlamento i tradizionali diritti che ne rendevano indispensabile la convocazione e l'assenso per stabilire nuove leggi e nuove imposte, e a lottare contro le tendenze religiose dei cattolici e dei puritani, del pari avversanti la Chiesa anglicana. I cattolici, accusati d'aver preparato la Congiura delle Polveri (1605), cominciarono ad essere messi in quella posizione ex lege nella quale dovevano rimanere fino al 1829. Meno facile fu la lotta contro il puritanesimo, che nella Camera dei comuni aveva costituito un forte baluardo di resistenza, accoppiando l'opposizione religiosa all'opposizione politica contro l'arbitrio regio. Il sistema di tener quasi sempre chiuso il parlamento suscitava malcontento e sdegno, tanto più per la scandalosa condotta di ministri, come il celebre Francesco Bacone convinto di corruzione, e di favoriti come Giorgio Villiers nominato indegnamente duca di Buckingham. Per tutto ciò alla morte di Giacomo (1625), il figlio Carlo I ereditava una situazione irta di difficoltà, che il temperamento del nuovo re fece precipitare nella crisi (v. carlo i, re d'Inghilterra e di Scozia). La presentazione della Petizione dei diritti (1628) accettata dal re e subito dopo violata, costituì il primo episodio della crisi, aggravatasi durante gli undici anni (1628-1639), in cui il parlamento fu tenuto chiuso.

Fu quello il periodo in cui anche in Inghilterra la monarchia tentò lo sviluppo di quell'autorità assoluta che contemporaneamente stava trionfando in Spagna e in Francia e che anche nell'Impero gli Asburgo cercavano d'imporre con le vittorie contro i principi protestanti. Non mancarono a Carlo I, nel tentativo, collaboratori energici e spregiudicati, quali Tommaso Wentworth creato lord Strafford, e l'arcivescovo Laud, e non mancarono i consessi che appoggiarono la politica regia in assenza del parlamento e che furono la Camera stellata, le cui funzioni dal campo giudiziario si estesero al campo politico, e la Corte di alta commissione investita di vasti poteri nel campo religioso contro i dissidenti. Ma maturavano intanto nel campo politico e religioso le forze e gli uomini di resistenza, quali Giovann Hampden, Giovanni Pym, abilissimo tattico parlamentare, Oliviero Cromwell cui l'ardente fede puritana dava un'energia incrollabile. Per tali forze e per tali uomini l'ora dell'azione venne quando in Scozia scoppiò formidabile il movimento di resistenza presbiteriana contro il tentativo del re e di Laud d'introdurre l'anglicanesimo (1637). Lo scacco della prima spedizione regia per schiacciare il movimento costrinse il re, bisognoso di danaro per una nuova spedizione, alla convocazione del parlamento (1640), una prima volta nell'aprile per sole tre settimane dato il contegno ostile dei deputati (Corto Parlamento), poi di nuovo nel novembre, perché l'avanzata vittoriosa degli Scozzesi verso sud aggravava la situazione rendendo maggiore la necessità di denaro per la difesa. Si aperse allora il Lungo Parlamento, rimasto famoso nella storia inglese sia per la sua eccezionale durata (13 anni), sia per il carattere straordinario degli avvenimenti svoltisi nel periodo. L'incriminazione dei due principali esponenti e responsabili del tentativo assolutista, Strafford e Laud, e la loro successiva condanna a morte; la decisione di non subire alcuno scioglimento forzato; la soppressione dei tribunali e delle imposte illegali, furono i colpi successivi vibrati all'autorità regia dall'opposizione alla cui testa primeggiavano Hampden e Pym. Quando poi, a eccitare gli animi, sopravvenne la formidabile insurrezione irlandese nell'Ulster, col massacro di migliaia di protestanti inglesi e scozzesi colà insediati, e, a torto o a ragione, si credette di vedere in ciò il segreto incitamento regio (novembre 1641), l'opposizione riuscì a dare il colpo decisivo con l'approvazione della rimostranza al re e del divieto al re di organizzare truppe senza il consenso del parlamento. Investito in pieno, il re tentò la rivalsa organizzando un colpo di forza contro i capi dell'opposizione, colpo che fallì, provocando a Londra furiose dimostrazioni popolari a favore del parlamento e contro il sovrano, costretto ad abbandonare la capitale e a cercar le nuove forze per la lotta chiamando alle armi i realisti delle campagne (gennaio 1642).

La lotta politica degenerò allora in guerra civile, perché mentre intorno al re si schieravano anglicani, cattolici, e in maggioranza i gentiluomini (cavalieri); la massa dei borghesi, dei piccoli proprietari rurali, dei puritani e degl'indipendenti, denominati teste rotonde per il fatto che avevano abolito le lunghe capigliature, costituì l'esercito del parlamento. Per tre lunghi anni la guerra civile proseguì con alterne vicende, finché la nuova organizzazione dell'esercito parlamentare attuata da Cromwell e lo spirito di fanatismo religioso che questo capo formidabile seppe infondere nelle forze da lui comandate con grande abilità strategica, assicurarono al parlamento la decisiva vittoria di Naseby (14 giugno 1645), costringendo il re a cercar rifugio presso i sudditi di Scozia, che poi, irritati per il suo rifiuto di aderire al presbiterianismo, lo consegnarono per una somma di denaro prigioniero al parlamento inglese (30 gennaio 1647). Se questo risultato chiudeva la guerra civile, non chiudeva le agitazioni interne, riapertesi per il conflitto di preminenza scoppiato tra la maggioranza del parlamento e l'esercito, ossia tra il nuovo potere politico e il nuovo potere militare sorti dalla rivoluzione vittoriosa, conflitto che ispirò al re prigioniero e non ammaestrato dalle dure lezioni subite, la pazzesca speranza di tentare la riscossa e di riprendere tutta l'autorità perduta, giuocando tra i due poteri in conflitto, mentre l'uno e l'altro tendeva a trovare in lui appoggio, e intanto preparando sottomano la ripresa della guerra civile appoggiata su una insurrezione scozzese. Fu questo giuoco pericolosissimo che preparò l'estrema rovina del re, contro cui era formidabile e attentissimo avversario il Cromwell. Questi sventò il piano regio occupando prontamente Edimburgo, e spinse l'esercito a far violenza al parlamento, dove stavano prevalendo i partigiani della pacificazione col re. La marcia vittoriosa dell'Esercito su Londra, l'espulsione dal parlamento di 145 deputati realisti (dicembre 1648), l'incriminazione del re, il suo processo davanti a una commissione straordinaria e la sua condanna a morte eseguita il 9 febbraio 1649, furono le tappe successive con cui la volontà e l'energia inflessibili del Cromwell schiantarono la monarchia e prepararono la dittatura.

Questa non si realizzò subito, perché fu preceduta da una fase di regime repubblicano, organizzato dal troncone di parlamento rimasto in funzione sotto il controllo dell'esercito dopo l'epurazione del dicembre 1648. La repubblica proclamata da quel parlamento era governata da un Consiglio di stato di 41 membri, fra i quali Cromwell, e si basava sull'appoggio degl'indipendenti e dell'esercito. Fu quindi l'espressione di un'oligarchia religiosa e militare accettata, o meglio subita, dalla massa della popolazione, rimasta nel fondo realista, soprattutto per i successi della politica estera e per l'aumento della potenza marinara e coloniale che sotto la monarchia erano stati realizzati. L'esordio repubblicano fu segnato dalle sanguinose repressioni operate da Cromwell delle resistenze sorte sotto forma d'insurrezioni stuardiste in Irlanda e in Scozia (1649-1651). La repressione irlandese in cui rimase tristemente famosa la strage di Drogheda (1649) portò anche alla spietata espropriazione dei proprietarî terrieri cattolici e all'assegnazione dei loro fondi a signori inglesi, donde l'origine della questione agraria irlandese durata fino ai nostri giorni e l'origine anche dell'odio irlandese contro gl'Inglesi. Tentativi di riscossa fatti dal figlio del sovrano decapitato, Carlo II, riconosciuto dagli Scozzesi come re, furono repressi (vittorie di Dunbar 1650 e di Worcester 1651). Al consolidamento del regime interno attraverso queste vittorie si accompagnò anche un grande provvedimento a difesa e a sviluppo dell'attività marinara e mercantile inglese, imposto dalla minaccia che per tale attività rappresentava la superba espansione dei traffici olandesi. Fu esso l'Atto di navigazione, votato nell'ottobre 1651, in forza del quale in Inghilterra le merci potevano essere importate soltanto da navi inglesi o da navi dei paesi produttori. La resistenza olandese a tali norme determinò una guerra anglo-olandese (1652-1654) in cui la flotta inglese comandata dal Blake ebbe ragione dell'avversaria, pur comandata da un uomo di gran fama quale il Tromp, e impose una pace vittoriosa. Con questo successo, dopo mezzo secolo di passività e di assenza, l'Inghilterra rientrava brillantemente nella grande politica internazionale. L'Atto di navigazione, riconosciuto e accettato, costituì la base d'uno slancio marinaro e commerciale che doveva giungere alle maggiori altezze.

Ma intanto all'interno si compiva la fatale evoluzione dall'oligarchia repubblicana alla dittatura. Cromwell, che era indubbiamente la personalità più rappresentativa e più possente e che aveva l'appoggio indiscusso dell'esercito, era diventato intollerante anche dell'azione pur così ridotta del troncone di parlamento, tanto più data la corruzione di molti membri di esso. Da ciò un contrasto che ebbe il suo epilogo nel colpo di stato del 1653, risoltosi nel licenziamento dei deputati e nell'assunzione di tutto il potere da parte di Cromwell, col titolo di Lord Protettore della repubblica d'Inghilterra, di Scozia, d' Irlanda. Il potere fu tenuto con mano ferrea dal dittatore all'interno e all'estero. All'interno, tutte le possibili resistenze furono frantumate con un regime militare in base al quale l'Inghilterra venne divisa in dodici distretti, governati da generali. All'estero, venne esplicata con grande rigore e fortuna la politica di difesa della causa protestante e insieme di sviluppo dell'espansione marinara e coloniale. Nei cinque anni di dittatura cromwelliana l'Inghilterra poté vantare una serie di successi clamorosi in politica estera: impose al duca di Savoia la cessazione delle persecuzioni contro i Valdesi; segnò la pace vittoriosa con l'Olanda, e trattati vantaggiosi con la Danimarca e la Svezia; si alleò alla Francia contro la Spagna nella guerra che si chiuse con la pace dei Pirenei, e riuscì con ciò ad assicurarsi Dunkerque, cioè una preziosa testa di ponte al di qua della Manica, e la Giamaica, e cioè una magnifica colonia, mentre, in conformità ai tradizionali principî della politica di equilibrio, contribuiva a indebolire la maggiore potenza marinara e coloniale. Dello stesso periodo inoltre sono i primi segni ed episodî, destinati ad aver tanti fecondi sviluppi, d'una politica inglese nel Mediterraneo, con le vittoriose azioni navali del Blake contro una flotta stuardista guidata dal nipote di Carlo I (1650), contro una flotta olandese (1652), contro i pirati tunisini (1654) e infine contro le armate spagnole (1656-58). A questa fortunata attività mediterranea inglese, segno tangibile della rinnovata potenza, si collegavano i nuovi contatti di stati italiani con l'Inghilterra, e gl'inizî d'una politica inglese d'intervento nei problemi della penisola, che nei secoli successivi doveva acquistare tanta importanza: Venezia rivolgeva un appello a Cromwell per aiuti contro i Turchi nella guerra di Candia; Carlo Emanuele II di Savoia calcolava su appoggi inglesi per liberarsi delle pressioni dei potenti vicini di Francia e di Spagna. Per tutto ciò l'appellativo d'inglese si stava avviando a diventar veramente, come voleva orgogliosamente Cromwell, altrettanto grande nel mondo quanto era stato il nome di romano.

Soltanto attraverso tanti successi l'autorità dittatoriale riusciva a mantenersi in un paese che nel suo fondo era legato alle tradizioni della monarchia e del parlamento. Anche Cromwell sentiva ciò, come dimostrarono i suoi tentativi di meglio assodarsi, rifacendo una base parlamentare con la convocazione di parlamenti, e istituendo una nuova dinastia con la designazione del figlio Riccardo a successore (1657). Ma gli sforzi in questo senso risultarono vani al dittatore: i quattro parlamenti da lui successivamente convocati, gli riuscirono dopo breve tempo incomodi e intollerabili, e vennero l'un dopo l'altro licenziati; la successione al figlio, se parve sicura e facile quando Cromwell morì (13 settembre 1658), si rivelò presto, sia per le agitazioni che si manifestarono nel paese, sia per le insufficienti qualità di Riccardo, talmente attraversata da ostacoli, da indurre il nuovo Lord Protettore all'abdicazione dopo appena otto mesi di potere (maggio 1659).

La poca solidità del regime instaurato da Oliviero Cromwell si rivelò in pieno con i torbidi e gl'intrighi che scoppiarono subito dopo l'abdicazione del figlio e che misero gli uni di fronte agli altri monarchici e repubblicani, stuardisti e cromwelliani, l'esercito e i membri del vecchio parlamento sciolto nel 1653 e ora riconvocato, le truppe del sud guidate da John Lambert, e le truppe del nord guidate da George Monk: finché quest'ultimo generale, guadagnato alla causa stuardista, prese la decisione che doveva por fine alle lotte, marciando su Londra e impadronendosi del potere, per procedere alla restaurazione monarchica d'accordo col riconvocato Lungo Parlamento (febbraio 1660). Questo, per rispetto alle forme legali proclamò da sé stesso la propria dissoluzione, lasciando il posto a un parlamento-convenzione, che risultò composto nella sua grande maggioranza da realisti ferventi, e che si affrettò a deliberare, tra l'entusiasmo del paese, la proclamazione di Carlo II (maggio 1660). Nell'atmosfera dell'entusiasmo monarchico e stuardista formatosi per reazione alla dittatura repubblicana, il parlamento-convenzione e il "parlamento cavaliere" che lo seguì nel 1661, svolsero un'azione diretta ad annullare tutte le trasformazioni interne operate da Cromwell ed esplicatasi anche con selvagge vendette, quali il disseppellimento e la profanazione del cadavere del Cromwell e le esecuzioni capitali di molti "regicidi". Nel campo religioso il voto del bill di uniformità che imponeva il culto anglicano fu il segnale d'una serie di persecuzioni appuntatesi contro i puritani, mentre i cattolici venivano meno colpiti essendo difesi dalle simpatie che godevano a corte, dato che la regina era cattolica e che il re e il fratello di lui, Giacomo, simpatizzavano per il cattolicesimo, attratti anche dalle teorie assolutistiche da esso favorite in politica. La restaurazione in pieno del regime monarchico pareva aver ricondotto la situazione al punto in cui era quando Carlo I aveva tentato lo sviluppo della politica assolutista, tanto più che Carlo II accennava a ripercorrere, sia pure con maggiore prudenza, le orme paterne, e tendeva anche egli a liberarsi del controllo parlamentare, convocando il parlamento quanto più raramente e più brevemente fosse possibile.

Ma le conseguenze di rivolgimenti quali quelli che il paese aveva subito nel periodo precedente, non potevano essere tutte annullate, anche se l'apparenza lo faceva credere; i germi d'una nuova coscienza religiosa e politica gettati durante la rivoluzione nella massa del popolo, non isterilivano: fermentavano e si preparavano a dare frutti. Cominciò a mostrarlo la rapidità con cui rinacquero e si fecero sentire ragioni di contrasto e di lotta tra monarchia e parlamento nel campo politico e nel campo religioso. Critiche aspre suscitò la politica estera nella quale Carlo II, dopo aver ondeggiato tra atteggiamenti antiolandesi e atteggiamenti antifrancesi, finì per legarsi al carro di Luigi XIV proprio quando questi affermava la sua politica egemonica sul continente. Già nel 1662 il re aveva compiuto verso la Francia un atto d'acquiescenza da cui il sentimento nazionale inglese era stato molto urtato: la vendita di Dunkerque per 5 milioni di sterline. A placare il malcontento sollevato da tale atto, Carlo II aveva poi ripreso la politica antiolandese attuata da Cromwell con l'Atto di navigazione; ma la nuova guerra contro l'Olanda, intrapresa nel 1665 per imporre di nuovo il rispetto dell'Atto e chiusa nel 1667 dalla pace di Breda, se procurò all'Inghilterra la colonia di Nuova Amsterdam, ribattezzata in Nuova York, non diede tutti i risultati sperati. Una nuova soddisfazione fu allora offerta dal ministero della Cabala (Clifford, Ashley, Buckingham, Arlington e Lauderdale) all'opinione pubblica esasperata anche per le gravi calamità da cui Londra era stata colpita (la pestilenza e un incendio colossale): e fu la partecipazione a una lega con l'Olanda e con la Svezia per arrestare i progressi dell'espansione francese nei Paesi Bassi (1668). Era questo un ritorno alla sola sana politica nazionale, ma fu di breve durata, perché di nuovo nel 1670 il re si diede alla politica filofrancese suggellata dal trattato segreto di Dover, che impegnava Carlo II ad allearsi a Luigi XIV contro l'Olanda e a convertirsi al cattolicesimo alla prima occasione favorevole, e Luigi XIV a pagare una pensione annuale di 200 mila sterline a Carlo II, ad aiutarlo con 6000 uomini contro eventuali rivolte, a cedergli in caso di vittoria contro l'Olanda una parte della Zelanda.

Questa torbida politica, che avrebbe portato il regno d'Inghilterra al vassallaggio sotto Luigi XIV e che Carlo II cercava di giustificare con la necessità di schiantare la rivale potenza marinara e commerciale dell'Olanda, era in realtà dovuta alle simpatie della corte per il cattolicesimo, e al desiderio del re di sottrarsi, mediante le sovvenzioni del re di Francia, alla necessità di convocare il parlamento e di subirne il potere. Ma l'attuazione di essa era appena iniziata con la partecipazione inglese alla guerra dichiarata da Luigi XIV all'Olanda (1672), che il parlamento, alla cui convocazione il re, bisognoso di fondi per la guerra, non poté sottrarsi nel 1673, seppe porvi termine interpretando il vero interesse nazionale. Per impulso dell'opposizione, ormai solidamente organizzatasi col nome di Country Party e che attaccava senza riguardo la scandalosa corruzione della Cabala e della corte, due misure significative seppe infatti imporre il parlamento contro le pericolose tendenze filofrancesi e filocattoliche del re: la pace con l'Olanda e il Test Act, che prescriveva per tutti i funzionarî pubblici la prova di appartenenza alla Chiesa anglicana. La pace inglese con l'Olanda significava un grave ostacolo alla politica egemonica di Luigi XIV e la ripresa dei legami anglo-olandesi, suggellata poi anche col matrimonio tra lo statolder d'Olanda Guglielmo d'Orange e Maria figlia di Giacomo, duca di York, fratello di Carlo II ed erede del trono inglese. Il Test Act, che fra l'altro veniva a togliere a Giacomo, fattosi cattolico, il comando della flotta, significava l'irrigidimento dell'Inghilterra anglicana contro i pericoli di un ritorno del cattolicesimo, a preparare il quale il governo della Cabala aveva varato una cosiddetta Dichiarazione d'indulgenza subito annullata dal parlamento.

Da questo momento l'urto tra la corte e il parlamento riprese in pieno, contrassegnato da episodî quanto mai significativi: l'ondata di furore provocata dalla notizia d'una pretesa congiura papista diretta a ristabilire il cattolicesimo, ondata che produsse, oltre a molte esecuzioni capitali, l'esclusione dei lord e dei deputati cattolici dal parlamento; la presentazione del bill d'esclusione che mirava ad eliminare dalla successione al trono Giacomo, in quanto cattolico; la votazione del bill d'Habeas Corpus che garantiva la liberta personale contro gli arbitrî regi (1679). Intorno al bill di esclusione, non accettato dal re, si scatenarono lotte appassionate, fra gli avversarî del bill, costituiti in gran parte dai seguaci della corte e della Chiesa anglicana e dai gentiluomini di campagna, e i partigiani, le cui schiere si reclutavano tra i presbiteriani e i puritani, tra alcune grandi famiglie dell'aristocrazia e tra la borghesia cittadina. Tra queste lotte vennero per la prima volta in uso, a definire rispettivamente gli avversarî e i partigiani del bill d'esclusione, i nomi di tories e di whigs, che erano i nomignoli dispregiativi con cui s'indicavano i malandrini rurali d'Irlanda e di Scozia, e che dovevano poi restare ai due grandi partiti inglesi, quello sostenitore e quello limitatore delle prerogative reali, partiti la cui formazione si delineò appunto in mezzo alle lotte ardenti degli ultimi anni di Carlo II. Questi riuscì a manovrare assai abilmente: l'emozione suscitata dalla scoperta d'un complotto dei capi dei whigs (1681) gli agevolò il colpo di non più convocare il parlamento e di sviluppare, con l'appoggio d'una piccola armata di fedeli costituita coi sussidî di Luigi XIV, il proprio potere personale in senso sempre più assolutista, finché la morte lo colse nel 1685.

La successione del fratello Giacomo II avvenuta senza gravi contrasti, parve assicurare in Inghilterra il trionfo dell'autorità regia e insieme il ritorno al cattolicesimo, giacché il nuovo re, cattolico fervente, sebbene avesse maritato le figlie Maria e Anna ai principi protestanti Guglielmo d'Olanda e Giorgio di Danimarca, si volse a un'aperta azione a favore del cattolicesimo nei due primi anni di regno, mentre la massa del popolo inglese restava passiva, sia perché terrorizzata dalle misure di repressione, sia perché speranzosa d'una prossima fine del triste periodo, data la successione protestante che sarebbe seguita a Giacomo II, per il fatto delle nozze protestanti delle due figlie eredi. Ma la passività della massa popolare non significava che fossero distrutte tutte le correnti di opposizione politica e religiosa alla corte. Queste si mantenevano salde, e guardavano oltre il confine, verso il genero del re, e cioè verso lo statolder d'Olanda, la cui animosa condotta in difesa delle libertà olandesi e del protestantesimo contro Luigi XIV, sollevava entusiasmo in tutto il mondo protestante.

Quando nel 1688 a Giacomo II nacque un figlio che venne battezzato cattolico, le correnti d'opposizione presero la decisione suprema: l'appello a Guglielmo d'Orange, perché intervenisse a ristabilire la libertà in Inghilterra. La prospettiva di trovare in Inghilterra una nuova forza per la coalizione antifrancese allora formata, spinse lo statolder d'Olanda ad accettare l'appello e a tentare l'impresa, che sembrava audace e che si rivelò di un'estrema facilità. Bastò lo sbarco di Guglielmo e di Maria con un piccolo esercito a Torbay, il 13 novembre 1688, perché il potere di Giacomo II crollasse, e il re fosse costretto alla fuga in Francia.

La riunione d'un parlamento-convenzione nel gennaio 1689 completò rapidamente il rivolgimento. Fissato il principio che Giacomo II con la propria fuga aveva implicitamente abdicato e lasciato il trono vacante, il parlamento offriva la corona a Maria figlia del re fuggito e a Guglielmo suo genero; ma nello stesso tempo redigeva la Dichiarazione dei diritti che, dopo aver specificato le violazioni statutarie perpetrate da Giacomo II, enumerava e ribadiva tutti i diritti riconosciuti al popolo inglese dall'epoca della Magna Charta fino alla Petizione del 1628. Il solenne documento, che mirava a fissare i rapporti tra monarchia e rappresentanza nazionale e a garantire i diritti popolari, venne letto a Maria e a Guglielmo davanti al parlamento nella storica seduta del 19 febbraio 1689. Solo dopo l'accettazione di esso, fatta da Guglielmo in nome proprio e in nome della moglie, avvenne la proclamazione dei nuovi sovrani. La grande rivoluzione iniziata con l'urto tra Carlo I e il Lungo Parlamento aveva così il suo pacifico coronamento nel trionfo delle libertà statutarie e della religione riformata.

Dagli Stuart agli Hannover. - Il periodo, lungo circa un quarto di secolo, che corre dall'avvento di Guglielmo e Maria all'avvento della dinastia di Hannover costituisce una delle fasi decisive nella storia britannica. In politica interna la Dichiarazione dei diritti, fatta accettare dal parlamento ai nuovi sovrani stabilisce il principio del regime costituzionale e insieme con la Legge di successione, votata dal parlamento nel 1701 per fissare i diritti alla successione al trono escludendone i membri cattolici della famiglia Stuart, elimina la concezione della monarchia di diritto divino, attribuendo in sostanza al parlamento la facoltà di decidere nella questione della scelta del sovrano; mentre l'Atto d'unione con la Scozia, la cui elaborazione si svolse tra il 1702 e il 1707 pure in mezzo a grandi resistenze del particolarismo scozzese, crea il nuovo Regno Unito di Gran Bretagna, nel quale le due parti dell'isola, prima contrastanti e talvolta in lotta, si fondono a poco a poco in una unità politica sempre più forte e compatta, specialmente a partire dalla metà del sec. XVIII, quando lo stuardismo perde definitivamente la partita.

Nel campo internazionale, con le due grandi guerre della Lega d'Augusta (1688-1697) e della Successione di Spagna (1701-1713) l'Inghilterra si getta risolutamente a sviluppare la politica delle coalizioni contro la minaccia dell'egemonia borbonica nel continente, nelle colonie, e sui mari. Tale politica antifrancese, che doveva continuare per oltre un secolo fino a Waterloo con la sola parentesi ventennale del periodo tra la Quadruplice Alleanza (1718) e lo scoppio della guerra di Successione d'Austria, oltre a ribadire nell'azione britannica le direttive e le mete che gia conosciamo (acquisti coloniali, fiaccamento della potenza navale più minacciosa, ristabilimento d'un sistema d'equilibrio continentale) l'arricchisce di nuovi elementi destinati ad agire fino ai nostri giorni: la tendenza austrofila, delineatasi in quanto l'Inghilterra vede negli Asburgo d'Austria una forza collaboratrice al mantenimento dell'equilibrio continentale, e l'attività mediterranea, in quanto con l'acquisto di Gibilterra e di Minorca l'Inghilterra entra e s'insedia come grande potenza nel mare interno al quale già aveva volto lo sguardo ai tempi della dittatura cromwelliana.

Tutto questo complesso di eventi importantissimi si compie tra agitazioni e lotte interne sotto i regni di Guglielmo e Maria e di Anna, mentre con le denominazioni ormai entrate nell'uso di tories e di whigs le forze dell'aristocrazia, e cioè le sole forze politiche allora esistenti e in grado di farsi valere in Inghilterra, si organizzano e rivaleggiano per la conquista delle cariche governative, rappresentando i tories la tendenza proclive a lasciare al potere regio una certa estensione e facoltà d'esplicazione, e i whigs invece - nelle cui file si contavano alcuni dei clans aristocratici più ricchi, più nobili e più orgogliosi - mirando a circoscrivere e a limitare il sovrano alle semplici funzioni rappresentative. Il movimento stuardista, forte in Scozia per le tradizioni della dinastia e in Irlanda per la ragione religiosa e alimentato da Luigi XIV con aiuti di denaro e d'armi che permisero a Giacomo II la spedizione in Irlanda (1689-91), procurò più d'una volta preoccupazioni e pericoli con le rivolte irlandesi e scozzesi. Le forze parlamentari, gelose di mantenere e d'aumentare le prerogative assicurate dalla Dichiarazione dei diritti, dopo aver provveduto a tramutare la dichiarazione stessa in legge fondamentale dello stato (Bill dei diritti, 1689) provvidero a rendere necessarie annuali convocazioni del parlamento con le deliberazioni che limitavano alla durata d'un anno i crediti da votarsi per l'esercito e per la causa regia e che fissavano ogni triennio le elezioni ai Comuni, e seppero anche approfittare delle frequenti assenze di Guglielmo dall'Inghilterra e dell'assorbimento di lui nei problemi olandesi per cominciare a sostituire all'uso che lasciava il re arbitro di scegliere a piacimento i ministri, il sistema che limitava la scelta regia nell'ambito della maggioranza del parlamento.

La forte personalità di Guglielmo riuscì a imporsi alla maggioranza dei sudditi attraverso il successo della politica estera antifrancese, la cui prima affermazione si ebbe con la partecipazione dell'Inghilterra alla Lega d'Augusta, che cominciò a colpire in pieno l'egemonia insolente e pericolosa di Luigi XIV (v. alleanza, guerra della gbande; guglielmo 111 d'orange). Con la pace di Ryswick infatti Luigi XIV dovette rinunciare a tutte le conquiste fatte in Europa dopo il trattato di Nimega, tranne Strasburgo, e rinnegare implicitamente la politica d'appoggio alla causa stuardista, riconoscendo Guglielmo come re d'Inghilterra.

Intanto, tra il 1690 e il 1697, furono attuate importantissime riforne e innovazioni finanziarie e politiche: l'organizzazione del debito pubblico col sistema di prestiti regolari garantiti dallo stato; la creazione della Banca d'Inghilterra; l'introduzione della libertà di stampa, che provocò una fioritura d'opuscoli politici e di periodici suscitando sempre più largo interessamento alla vita pubblica. Intanto cominciava a concretarsi il sistema dei governi omogenei di partito e dell'alternativa dei partiti al potere: nel 1693 il re costituiva un gabinetto whig, i cui uomini rappresentativi erano Edward Russell, John Somers, Charles Montagu e Thomas Wharton; quattro anni dopo il potere passava ai tories con Jersey, Tankerville, Godolphin, Bridgewater.

Tutto questo travaglio di trasformazioni e d'innovazioni non avveniva senza difficoltà talvolta gravi, che apparvero in piena luce quando con la morte di Carlo II di Spagna (novembre 1700) venne sul tappeto il problema della successione spagnola. Il parlamento e il governo d'Inghilterra si rivelarono in un primo tempo tutt'altro che disposti ad accettare e a seguire la politica del re, che voleva senz'altro fomiare un'altra coalizione antiborbonica e impedire con la guerra l'avvento di Filippo d'Angiò sul trono di Spagna. Mutarono atteggiamento solo quando Luigi XIV con orgogliosa imprudenza violò l'impegno preso a Ryswick, solennemente riconoscendo come re d'Inghilterra, al posto di Giacomo II morto nel settembre del 1701, il figlio di lui Giacomo Edoardo. Tale atto, che presentava agl'Inglesi il re di Francia nella pretesa di decidere lui chi dovesse regnare in Inghilterra, diede la spinta decisiva alla deliberazione d'intervento nella nuova lotta continentale che si preparava contro Luigi XIV.

Con la preparazione della nuova grande azione bellica contro la Francia, Guglielmo d'Orange prima di morire (1702) aveva reso un ultimo prezioso servigio alla nazione che lo aveva chiamato alla propria testa nel 1688. La partecipazione alla guerra di Successione spagnola assicurò infatti all'Inghilterra il balzo decisivo verso il dominio dei mari e verso l'impero. Oltre un decennio doveva durare la guerra per terra e per mare, aspra e sanguinosa, e costare enormi sforzi d'uomini e di denaro (v. successione, guerra di). Ma le armate inglesi di terra, sotto la guida di capi come lord Marlborough e lord Peterborough, rinnovavano nei Paesi Bassi a Blenheim (1704) e a Ramillies (1706) le glorie di Crécy e d'Azincourt e preannunciavano nella penisola iberica quelle di Wellington; le armate di mare consolidavano di fronte alle flotte francesi il primato che già avevano cominciato a conquistare durante la guerra della Lega d'Augusta, e occupando Gibilterra (1704) e Minorca (1707) si aprivano la via al predominio in Mediterraneo. A questi grandiosi risultati militari non erano inferiori i politici: il Portogallo, col trattato di lord Methuen, era attirato nell'orbita inglese, dalla quale non doveva più uscire; gli Asburgo d'Austria e gli Hohenzollern del Brandeburgo diventavano i fedeli collaboratori della politica britannica d'equilibrio continentale contro le minacce dell'egemonia borbonica; i felici e fortunati colpi vibrati alla Spagna e alla Francia avevano le loro ripercussioni dall'Europa alle colonie, dove l'espansione territoriale ed economica britannica aveva aperto tante possibilità; dopo le disfatte di Ramillies e di Oudenaarde (1708), Luigi XIV vedeva crollato irreparabilmente il proprio sogno egemonico, ed era ridotto a una guerra difensiva per salvare la Francia dall'invasione e dallo smembramento.

Siffatti eventi di straordinaria importanza si svolsero mentre sul trono era la secondogenita di Giacomo II, Anna, in conformità alle norme fissate dall'Atto di successione (v. anna stuart). Ma la sovrana, di poco valore personale e soggetta alle influenze di favoriti e di favorite e agl'intrighi di corte, ben scarso influsso esercitò sulla piega degli eventi, tra i quali campeggiò invece dominatrice la possente personalità del Marlborough. In questa fase venne attuato l'Atto d'unione con la Scozia (1707). La preparazione dell'Atto era stata iniziata fin dai tempi di Guglielmo III e la necessità se ne presentava tanto maggiore, in quanto l'unione poteva servire a ostacolare le correnti stuardiste sempre notevoli in Scozia, e che proprio nel 1707 avevano sembrato favorire un tentativo di sbarco del pretendente, appoggiato da una squadra francese ma stroncato dal pronto intervento d'una flotta britannica.

Il tramonto della fortuna politica di Marlborough e dei whigs nel 1711 preparò la via ai negoziati di pace conchiusi nel 1713 col trattato di Utrecht. Filippo V era riconosciuto re di Spagna, ma con la rinuncia ai proprî diritti al trono di Francia, e con la cessione dei possessi d'Italia, dei Paesi Bassi, di Gibilterra, di Minorca. I Paesi Bassi e i possessi italiani, tranne la Sicilia assegnata al duca di Savoia col titolo regio, passavano agli Asburgo d'Austria; Minorca e Gibilterra all'Inghilterra, che otteneva anche dalla Spagna il monopolio della tratta degli schiavi e il diritto d'inviare ogni anno un vascello a commerciare nelle colonie spagnole, e dalla Francia la cessione dell'Acadia, dei territorî della baia di Hudson, delle isole di Terranova e di San Cristoforo.

Questi risultati compensavano ampiamente i sacrifici e le spese della lunga guerra. Essi significavano il trionfo della politica continentale d'equilibrio e lo schiacciamento del tentativo egemonico francese, l'aumento dell'impero coloniale e il consolidamento della supremazia marittima e commerciale britannica, proprio mentre in Inghilterra prosperavano le compagnie di commercio, prima fra tutte la Compagnia delle Indie Orientali i cui stabilimenti di Madras (1639), di Bombay (1661) e di Calcutta (1685) stavano diventando centri meravigliosi d'arricchimento. La mirabile fioritura intellettuale di quel periodo (Locke, Shaftesbury) e l'influsso che le dottrine inglesi cominciavano a esercitare in Europa, e soprattutto in Francia, facevano degno riscontro allo sviluppo della potenza nel campo economico e politico.

I frutti gloriosi e fecondi raccolti a Utrecht non poterono essere subito apprezzati al giusto valore, perché la vita politica britannica fu subito assorbita nei problemi e negl'intrighi interni, aggravantisi mentre la regina si avviava alla tomba senza eredi diretti; il che creava la paurosa incognita della successione. L'Atto votato nel 1701 stabiliva che ad Anna dovesse succedere l'elettrice di Hannover, Sofia, con la discendenza propria rappresentata dal figlio Giorgio. Ma lo stuardismo era sempre forte e aveva simpatizzanti anche alcuni ministri, fra cui St John visconte di Bolingbroke; la stessa Anna inclinava segretamente verso il fratello Giacomo Edoardo, preferendolo ai cugini tedeschi. Il rifiuto di Giacomo a rinunciare alla religione cattolica, ostacolo principale alla restaurazione stuardista; la repentinità con cui sopravvenne la catastrofe di Anna, colpita da apoplessia il 30 luglio e morta il 1 agosto 1714; le indecisioni di Bolingbroke all'ultimo momento, cui si contrapposero la risolutezza e la rapidità d'azione dei whigs e degli antistuardisti, furono le circostanze che resero possibile alla morte di Anna la proclamazione e l'incoronazione di Giorgio, elettore di Hannover, a re d'Inghilterra.

I Hannover e lo sviluppo del sistema parlamentare. - La nuova dinastia non ebbe facili i primi passi, sia per il proprio carattere straniero, che alimentava molte antipatie e diffidenze, sia per la persistenza di fortissime correnti stuardiste, soprattutto in Irlanda e in Scozia, sempre pronte a sollevare difficolta e a promuovere congiure e vere e proprie rivolte. Siffatte circostanze inerenti al carattere straniero della dinastia e alle ostilità che incontrava nel paese, ebbero conseguenze profonde nell'evoluzione della vita politica inglese e nel consolidamento del regime costituzionale-parlamentare. Molte delle caratteristiche forme di quel regime, che poi divennero esempio e modello anche ad altri paesi, sorsero e si consolidarono spontaneamente, accidentalmente, nella situazione speciale creata dall'avvento della nuova dinastia; il che ribadì nella costituzione e nelle istituzioni politiche inglesi il peculiare carattere di formazione naturale e spontanea e non di sviluppo di schemi prestabiliti (growth not manufactory).

Giorgio I non parlava e non comprendeva l'inglese, il suo successore lo comprendeva e non lo parlava; l'uno e l'altro s'interessavano più alle questioni del loro elettorato tedesco che non a quello del loro regno insulare cui si sentivano estranei. Da ciò nell'uno e nell'altro il nessun desiderio di esercitare il diritto di presenziare e di presiedere le sedute del Consiglio dei ministri, che si cominciarono quindi a tenere senza il re e sotto la naturale presidenza del ministro più autorevole, il quale quindi cominciò a prendere la figura e la posizione di primo ministro, e come tale mantenne il contatto tra il sovrano e i colleghi. Questa posizione assunta dal ministro più autorevole, che era anche il capo della maggioranza in parlamento, unendosi alla scarsa o nulla conoscenza che aveva il re delle condizioni parlamentari, ingenerò l'uso che per la formazione del governo il re si affidasse al capo della maggioranza, lasciandogli la cura di scegliere i proprî colleghi, che, naturalmente, il capo sceglieva tra i proprî compagni e seguaci di partito, costituendo gabinetti omogenei, i cui membri erano solidali fra loro.

Ecco la genesi della figura giuridica e politica del primo ministro, prima ignota nella storia costituzionale inglese; del sistema della corresponsabilità e della solidarietà di gabinetto; dei ministeri omogenei, espressione della maggioranza, costretti a dimettersi se battuti in parlamento. Ecco anche la genesi della progressiva restrizione dell'autorità e dell'ingerenza del sovrano nella formazione e nell'azione del governo, ciò che era conforme alla concezione politica del partito whig, nelle cui file, insieme con gli esponenti del commercio e dell'industria, si trovavano i membri di molte grandi famiglie dell'aristocrazia, inclini per tradizioni a circoscrivere l'autorità regia, che trovava invece più caldi assertori nei tories. Ora i due primi Hannover furono portati ad appoggiarsi sul partito whig, che tenne infatti il potere ininterrottamente per oltre mezzo secolo, anziché sul partito tory, perché i whigs erano tutti risolutamente antistuardisti, mentre fra i tories molti simpatizzavano per la dinastia espulsa, e sarebbero stati pronti a favorirne il ritorno, se avesse abbandonato il cattolicesimo. Sicché, fin quando il pericolo stuardista rimase reale e grave, e cioè fin verso la metà del secolo, i whigs poterono senza ostacoli da parte dei sovrani continuare a sviluppare i nuovi sistemi del regime costituzionale-parlamentare. Iniziatosi sotto la direzione di Stanhope, lo sviluppo si poté dire completo sotto il più che ventennale esercizio del potere di Robert Walpole.

Interessanti e importanti anche i caratteri della politica estera che l'Inghilterra esplicò nella nuova situazione creata dai risultati della guerra di Successione di Spagna. Continuò a essere base di tale politica il mantenimento dell'equilibrio continentale ristabilito dopo lo stroncamento del tentativo egemonico di Luigi XIV, e insieme con esso lo sviluppo dell'attività marinara e coloniale. Ma i campi e le possibilità di esplicazione aumentarono, sia perché nuove forze entrarono nella grande politica europea: la Prussia, la Russia; sia perché l'Inghilterra, insediata a Gibilterra e a Minorca, venne ad essere coinvolta nei problemi mediterranei, dove trovava naturali avversarie, come nei problemi coloniali, la Francia e la Spagna rette da due dinastie borboniche. Le ripercussioni di questa situazione mediterranea dovevano farsi sentire specialmente nell'azione inglese nella penisola italiana, dove l'Inghilterra, per impedire eventuali espansioni della potenza borbonica, fu tratta ad appoggiare e a ingrandire le posizioni non solo degli Asburgo, ma anche dei Savoia, naturalmente se e in quanto Asburgo e Savoia si trovavano a opporsi e a fronteggiare la Francia. La tendenza austrofila della politica inglese, già delineatasî nei problemi continentali nella seconda metà del sec. XVII con la collaborazione con gli Asburgo contro la politica di Luigi XIV, venne quindi a trovare una nuova applicazione, anzi un rafforzamento, con la collaborazione antifrancese nei problemi italiani, così legati alla situazione mediterranea. E alla tendenza asburgofila si accoppiò la tendenza diciamo così sabaudofila, che già aveva avuto modo di manifestarsi durante i negoziati di Utrecht, dove l'Inghilterra aveva sostenuto a spada tratta l'ingrandimento dei Savoia, facendone una delle condizioni essenziali per la pace. Sforzo della politica inglese in Italia durante le lotte contro i Borboni, sarà quindi di costituire e di secondare l'alleanza antiborbonica fra gli Asburgo e i Savoia, come accadrà all'epoca della guerra di Successione d'Austria e dopo lo scoppio della Rivoluzione francese. Tale politica entrerà invece in crisi quando i Savoia e gli Asburgo saranno in lotta fra di loro, e quando o l'una o l'altra dinastia sarà legata alla Francia avversaria dell'Inghilterra.

Nel campo marinaro e coloniale l'azione britannica durante il secolo frapposto tra la pace di Utrecht e il Congresso di Vienna doveva esplicarsi con inflessibile continuità e tenacia nel senso di scrollare e distruggere le posizioni della Spagna e soprattutto della Francia, rimasta in campo come la sola rivale veramente pericolosa, dopo il declino delle altre potenze marinare e coloniali, Olanda, Portogallo e Spagna, le prime due discese alla posizione di satelliti dell'Inghilterra, e la terza colpita da irreparabile decadenza, malgrado i tentativi di risollevamento. Per contro, lo sviluppo e la floridezza delle colonie francesi dell'America Settentrionale (Canada e Louisiana) che fasciavano e premevano tutt'intomo le colonie inglesi, delle Antille francesi, e degli stabilimenti. commerciali francesi in India, minacciosi per Madras e per Calcutta, costituivano per l'espansionismo marinaro e coloniale britannico tanti ostacoli da spezzare, anche per la loro contiguità con le zone d'espansione inglese. Da tutto ciò veniva a crearsi, nel periodo successivo alla pace di Utrecht, per la politica estera britannica la fatalità d'un lungo conflitto con la Francia, in cui ai motivi continentali s'intreciavano quelli mediterranei e coloniali; conflitto che, rimasto latente, anzi mascherato sotto l'aspetto di un'intesa cordiale per circa venticinque anni, doveva esplodere con estrema violenza al momento dello scoppio della guerra di Successione d'Austria e continuare per terra e per mare, in Europa e fuori d'Europa, con brevi parentesi e con alterme vicende, fino a Waterloo.

La parentesi d'intesa franco-britannica nel periodo tra la pace di Utrecht e la guerra di Successione d'Austria, coincise col saldo insediamento dei whigs al potere, mentre il partito tory, impopolare per le sue tendenze stuardiste, vedeva ridotta la propria rappresentanza in parlamento a pochi membri, il cui capo, sir William Wyndham, godeva scarsissima autorità, tanto più dopo la sua compromissione in una congiura giacobita nel 1718. I whigs con l'appoggio del re erano padroni della Camera dei lord ed erano anche predominanti ai Comuni, giacché le grandi famiglie dell'aristocrazia, che costituivano il nerbo del partito, controllavano virtualmente la maggior parte dei collegi elettorali, specialmente quelli dei borghi, che spesso erano costituiti da uno scarsissimo numero di elettori, alla mercé del proprietario locale, messo quindi nella condizione di far eleggere deputato chi meglio gli piacesse, tanto più che il voto non era segreto. I collegi elettorali di siffatta specie, definiti col pittoresco nome di borghi putridi, crebbero a poco a poco di numero al punto da costituire una minaccia di paralisi per il funzionamento sano e veritiero del regime costituzionale-parlamentare, il che spinse fin dal sec. XVIII alcuni spiriti lungiveggenti, come Pitt, a propugnare progetti di rifomie che solo nel secolo successivo dovevano essere attuati. Lo stato maggiore del partito predominante era costituito da un gruppo d'uomini nuovi, giacché i vecchi capi, quali Marlborough e Sunderland, erano stati messi in disparte o in posti secondarî sia pure con tutti gli onori. I nuovi dirigenti erano Townshend, Stanhope, Walpole, Pulteney, Carteret. Tra essi, quello che lasciò impronta maggiore fu Walpole, che diede la definitiva consistenza alla figura e alla funzione del primo ministro, e che per un ventennio, dal 1721 al 1741, rimase alla testa del governo, confinando il re Giorgio I e anche il figlio Giorgio II, che gli succedette nel 1727, a semplici funzioni rappresentative.

Il ventennio di Walpole ha provocato e provoca tuttora giudizî contraddittorî. Ma se i suoi metodi disinvolti di governo fomentarono la corruzione pubblica e crearono il pericolo d'una crisi morale, la politica di pace, di raccoglimento e di riforme da lui promossa favorì il consolidamento del sistema costituzionale parlamentare e lo sviluppo economico del paese. Naturalmente il lungo periodo di governo personale, se assicurò al Walpole clientele fedelissime, finì col suscitargli avversarî fra gli stessi antichi seguaci, determinando scissioni entro la compagine dei whigs, tra le quali più clamorosa e importante quella capitanata dal Pulteney, che staccandosi con molti altri dal vecchio capo e unendosi nella Camera dei comuni alla sparuta schiera dei tories, costituì un partito di regolare e sistematica opposizione, presto dotato anche d'un proprio giornale, il Craftsmann. Sorse così la His Majesty's opposition, la cui opera a poco a poco divenne essenziale per il regolare funzionamento del sistema costituzionale-parlamentare.

Anche nel paese a lungo andare sorsero e si rafforzarono correnti contrarie al governo personale e ai metodi di Walpole. La reazione, oltre che nel campo politico, si fece sentire in quello morale e religioso come sforzo di difesa e di salvezza contro la dilagante corruzione, che aveva preso aspetti e proporzioni allarmanti. Espressione caratteristica di ciò fu l'opera di Wesley e dei metodisti, sorti a combattere l'irreligiosità e l'immoralità, a riformare i costumi e a esercitare con mirabile zelo opere di carità e di pietà. Accanto a questo movimento di rinascita religiosa e morale, si formò e crebbe un movimento politico, nel quale alle preoccupazioni per il risanamento dei costumi parlamentari si univano le preoccupazioni per le conseguenze che la politica di pace e di raccoglimento interno poteva avere a danno della posizione internazionale e coloniale dell'Inghilterra. Ciò specialmente di fronte al fatto che le due potenze borboniche di Francia e di Spagna, ormai unite in uno stesso sistema, si erano senza dubbio molto avvantaggiate in Europa e nelle colonie, come dimostravano i risultati della guerra di Successione di Polonia, dall'abbassamento della casa d'Austria e dalla formazione del regno borbonico di Napoli (1738), e di fronte ai sempre più numerosi ostacoli che la Spagna poneva alle attività britanniche nelle colonie americane, mentre i possessi spagnoli e francesi alle Antille erano più fiorenti di quelli inglesi e in India il dominio francese si estendeva.

La politica di pace tenacemente proseguita da Walpole, cominciò ad essere sempre più attaccata come politica d'umiliazione e di rinuncia, l'intesa con la Francia venne deplorata come esiziale agl'interessi continentali e coloniali britannici. Il movimento in tal senso divenne così forte in Parlamento e nel paese, che il vecchio primo ministro dovette cedere e venire nel 1739 alla decisione di dichiarar guerra alla Spagna per incidenti coloniali. Questa guerra era appena all'inizio con le spedizioni degli ammiragli Vermon e Anson all'istmo di Panama e al Messico, quando sopravvenne la grave crisi europea provocata dalla morte dell'imperatore Carlo VI e dal conseguente scoppio della guerra di Successione d'Austria (1740). Le preoccupazioni suscitate nell'opinione pubblica inglese dall'eventualità che l'Austria potesse essere schiacciata dalla coalizione a cui partecipavano i Borboni di Francia e di Spagna, vennero abilmente sfruttate dagli avversarî di Walpole, durante la campagna per le elezioni ai Comuni nel 1741. I risultati ridussero la già pletorica maggioranza walpoliana a 16 voti soltanto, così che quando la Camera si riunì, il primo incidente che l'opposizione riuscì a far sorgere bastò per provocare la sconfitta del già onnipotente ministro.

La caduta di Walpole significò profondi cambiamenti non solo nella politica interna, ma anche nella politica estera. La sua immediata ripercussione fu l'alleanza dell'Inghilterra con Maria Teresa d'Austria, e quindi la fine dell'intesa con la Francia e l'attivissima partecipazione britannica alla guerra di Successione contro i Borboni in Europa e fuori d'Europa, con la ripresa dei vecchi obiettivi continentali, coloniali, marinari. La lotta infatti assunse presto proporzioni e sviluppi che ricordavano quelli della guerra di Successione di Spagna. In Europa tornarono a essere campi di battaglia i Paesî Bassi, dove gli eserciti francesi ebbero contro, come quarant'anni prima, le forze anglo-olandesi; fuori d'Europa i rivali inglesi e borbonici si scontrarono accanitamente in India, nelle Antille, nel golfo del San Lorenzo. I risultati non furono tutti quelli che l'Inghilterra aspettava. Nei Paesi Bassi, dopo un'alterna vicenda di successi e d'insuccessi, gl'Inglesi subirono la grave disfatta di Fontenoy (1745) che lasciò la regione virtualmente in mano di Luigi XV. Frattanto, incoraggiato da questi eventi, lo stuardismo tentava il suo gran colpo col passaggio al di là della Manica e con l'azione del pretendente Carlo Edoardo, che si rese padrone di tutta la Scozia, invase l'Inghilterra e avanzò fin verso Londra, facendo correre alla dinastia hannoverese l'estremo pericolo, solo sventato dopo la battaglia di Culloden, cui seguì la fuga del pretendente e la spietata repressione operata in Scozia dal duca di Cumberland (1746-47). Fuori d'Europa, se gl'Inglesi riuscirono a espugnare l'isola di Capo Bretone dominante l'ingresso del San Lorenzo, videro però in India espugnata Madras dal valoroso Dupleix, che stava creando ai Borboni un vasto impero sul golfo del Bengala. Ma la pace di Aquisgrana (1748) con cui la guerra si chiuse, non fu certo passiva per l'Inghilterra. La casa d'Austria rimase sostanzialmente integra nei suoi possessi e nella dignità imperiale, il che era essenziale per la politica d'equilibrio continentale; i Francesi sgombrarono i Paesi Bassi, liberando l'Inghilterra da un'intollerabile minaccia; nelle colonie la reciproca restituzione delle conquiste fatte lasciò la partita in sospeso per un'altra lotta, alla quale l'Inghilterra cominciò subito a prepararsi. Nel tempo stesso, dopo Culloden e la crudele repressione operata in Scozia, lo stuardismo era colpito a morte e la vita politica interna era così sollevata da gravi preoccupazioni e problemi.

L'uomo che più aveva contribuito a portare e a guidare l'Inghilterra nella grande lotta era stato lord Carteret, già seguace e collega, poi avversario di Walpole, e divenuto il personaggio più autorevole nel ministero succeduto alla caduta di Walpole. Appassionato ai problemi della politica estera, aveva per programma l'annichilimento dei Borboni, e durante la guerra di Successione aveva promosso in Italia l'alleanza antiborbonica tra l'Austria e i Savoia, da lui considerati gli essenziali collaboratori della politica italiana e mediterranea dell'Inghilterra, tanto da affermare che se non fosse dipeso che dall'Inghilterra l'Italia sarebbe stata tutta dei Savoia. Accanto a Carteret erano saliti ai principali posti di governo seguaci e oppositori del Walpole, tutti appartenenti ai whigs: Pulteney, lord Wilmington, i due fratelli Pelham, uno dei quali assunto alla paria col titolo di duca di Newcastle, e due giovani destinati a percorrere molta strada: Henry Fox e William Pitt, quest'ultimo salito in alta rinomanza per l'integrità personale e per l'energia con cui aveva condotto contro l'onnipotente Walpole la campagna per il rinnovamento e la moralizzazione della vita pubblica, esplicando nel campo politico la stessa azione che nel campo religioso e dei costumi avevano condotto Wesley, Whitefield e i metodisti. Il successo delle due azioni fu decisivo per il rinnovamento e la salvezza dell'Inghilterra. Entrato nel ministero a 38 anni nel 1746, al momento critico della guerra di Successione d'Austria e del tentativo stuardista, Pitt ne divenne subito una delle forze principali, contribuendo potentemente alla felice soluzione delle difficoltà. Mutamenti parlamentari e dissidî coi colleghi lo allontanarono dal potere nel 1754; ma la popolarità e l'autorità che godeva nel paese non ne soffrirono, anzi aumentarono; sicché dopo un triennio egli tornò più forte che mai al governo, a fianco del duca di Newcastle, nel grande ministero che condusse alla salvezza e alla vittoria l'Inghilterra attraverso le tempeste della guerra dei Sette anni (1756-1763).

Anche la nuova formidabile lotta ebbe per l'Inghilterra le cause e le caratteristiche continentali, coloniali e marinare della precedente (v. sette anni, guerra dei). Ma i risultati furono più grandiosi e fruttuosi che non quelli del 1748, come dimostrarono nel 1763 la pace di Hubertusburg che lasciava integro lo stato di Federico II e riconfermava a danno dei Borboni l'equilibrio continentale, e soprattutto la pace di Parigi che restituiva all'Inghilterra Minorca e le assicurava il Canada, i dominî francesi dell'India e del Senegal e la Florida spagnola. Il dominio marittimo e coloniale britannico otteneva così un enorme aumento a spese delle battute e umiliate potenze borboniche.

Anche se al momento della firma delle paci gloriose Pitt non era più al potere, i risultati erano da ascriversi - e la nazione lo riconosceva - all'impulso da lui dato all'azione durante il suo periodo di governo. La caduta del grande ministro era legata al nuovo indirizzo di politica autoritaria e personale che intendeva seguire e sviluppare il nuovo re Giorgio III, succeduto al nonno Giorgio II nel 1760. Ben diverso dai due predecessori, i quali avevano assistito passivi allo sviluppo e al rafforzamento del regime costituzionale-parlamentare che, secondo la teoria dei dominanti whigs, riduceva il sovrano a semplici funzioni rappresentative, il nuovo re, volitivo, orgoglioso, caparbio, portato dalla propria natura e dall'educazione materna a un alto concetto di sé e della sua funzione, intendeva ridare la più ampia estensione alle prerogative sovrane, intendeva non soltanto regnare ma governare, tanto più che, nato in Inghilterra e formato nell'ambiente inglese, non si sentiva certo, come si erano sentiti Giorgio I e Giorgio II, un estraneo, uno spaesato, nel regno che era toccato alla sua dinastia. Le circostanze si presentavano favorevoli al suo tentativo: non esisteva più il pericolo stuardista; si era formato e stava crescendo di fronte ai whigs il partito dei nuovi tories, che, abbandonate le tendenze stuardiste, sviluppava un'azione politica ispirata alle teorie di Bolingbroke, l'antico ministro della regina Anna, fattosi scrittore politico e sostenitore d'una monarchia in cui il sovrano avesse effettivo peso nel governo; i whigs sempre predominanti erano scissi in varî gruppi, contrastanti più per rancori e rivalità di persone che non per teorie politiche, ma paralizzantisi a vicenda, il gruppo dei seguaci di lord Rockingham, quello dei seguaci del duca di Bedford, quello dei seguaci di Pitt, quello dei seguaci di lord Grenville, cognato di Pitt e già suo collaboratore, ma venuto poi in attrito con lui; infine la massa dell'opinione pubblica, stanca e disgustata dei metodi coi quali da tanto tempo governavano i whigs, riducendo il potere a un monopolio di partito che distribuiva ai suoi le cariche, le prebende e gli onori, era instintivamente portata ad appoggiare un'azione diretta a svincolare la corona da una posizione che sembrava asservimento a un partito. In questa situazione la manovra di Giorgio III fu abilissima. Egli cominciò col promuovere nel parlamento, diviso e paralizzato in tanti gruppi e sottogruppi, un raggruppamento che prese il nome di gruppo degli amici del re, staccati sia dai ranghi dei tories sia da quelli dei whigs e dalla disciplina di partito, e pronti a seguire le direttive regie. Manovrando con questo gruppo che radunava una sessantina di membri, e fra i dissidî degli altri gruppi, il re riuscì a logorare e a eliminare i capi politici che intendevano seguire la vecchia pratica dei whigs, e a far prevalere la propria volontà nella formazione dei ministeri. L'azione del re ebbe il successo decisivo nel 1783 con l'avvento di Pitt il giovine, il venticinquenne statista che Giorgio III d'un tratto elevò al potere contro la volontà del Parlamento. L'avvento del giovanissimo capo suscitò le più violente tempeste parlamentari, e offrì lo spettacolo d'un ministero più volte battuto in parlamento e che rimaneva in carica per la volontà del re; ma la situazione tumultuosa finì col trionfo del re e del ministro quando nel 1784, sciolto il parlamento e indette le elezioni, queste determinarono la disfatta degli oppositori e la formazione d'una fortissima maggioranza tory a sostegno del governo. La massa elettorale condannava definitivamente le vecchie fazioni egoistiche e cristallizzate, e sanzionava le direttive di Pitt miranti a far prevalere il potere esecutivo.

Al riconoscimento dell'autorità regia e del potere esecutivo si era però accompagnato in modo quanto mai caratteristico lo sviluppo delle libertà politiche e dei diritti civili dei cittadini. La pubblicistica politica, anche di violenta opposizione al governo, aveva fatto grandi progressi con la famosa serie delle lettere di Junius apparse nel 1769 sul Public Advertiser, con gli scritti di Edmund Burke, con la pubblicità data ai resoconti dei dibattiti parlamentari, con la fioritura dei nuovi giomali quotidiani, quali il Morning Chronicle, il Post, lo Herald. E a salvaguardia dei diritti civili e della libertà personale dei cittadini, era stata ingaggiata dall'opinione pubblica e portata, pur dopo molte vicissitudini, a vittoria la battaglia per il caso di Wilkes, il giornalista illegalmente incriminato dai pubblici poteri per i suoi attacchi al governo e alla corona, e subito difeso contro le persecuzioni e l'imprigionamento arbitrario dalla massa dell'opinione pubblica, che protestò contro il parlamento e il govemo ed elesse il perseguitato giornalista deputato e continuò a rieleggerlo malgrado le invalidazioni della Camera, fin quando la giustizia non ebbe il suo riconoscimento. La lotta intorno al caso Wilkes (1766-1774) fece epoca a simboleggiare la risoluta volontà britannica di far rispettare le libertà costituzionali e le prerogative civili dei cittadini.

Mentre si svolgevano le agitate vicende interne del primo ventennio di regno di Giorgio III, nella politica continentale e internazionale si succedevano, assente e passiva l'Inghilterra, importantissimi eventi, quali l'insediamento francese in Corsica (1768-1769) che rafforzava la posizione mediterranea della Francia, il primo smembramento della Polonia (1773) e il colpo inflitto alla Turchia con la pace di Kučük-Kainarge (1774), che accanto alla Prussia e all'Austria rafforzavano e ingrandivano la Russia, avviandola ad essere, come presagiva lungiveggente il vecchio Pitt sull'orlo della tomba, la pericolosa rivale orientale dell'Inghilterra. La passività britannica di fronte a eventi siffatti era dovuta non soltanto all'assorbimento nelle questioni e nelle lotte interne, bensì anche alla gravissima e pericolosa questione coloniale, sorta col contrasto e col movimento insurrezionale delle tredici colonie americane (v. Stati Uniti).

La lotta iniziatasi in America s'allargò presto in grande lotta europea e coloniale per l'intervento della Francia e della Spagna (1778), e finì con perdite gravi per l'Inghilterra. In Mediterraneo venne perduta Minorca, restituita alla Spagna insieme con la Florida, mentre le tredici colonie venivano dichiarate indipendenti e la Francia ricuperava i possessi del Senegal e della Louisiana. Questi patti della pace di Parigi (1783) costituivano un indebolimento della potenza marinara e coloniale inglese. Ma a compenso di ciò stettero i vasti aumenti dei dominî in India, assicurati dall'opera audace e geniale, anche se spregiudicata, di lord Clive e di Warren Hastings, mentre le esplorazioni fortunate di Giacomo Cook preparavano all'espansionismo britannico un altro vastissimo e ricchissimo campo: l'Australia (Sydney fondata nel 1787).

Intanto in Inghilterra si era preparata e maturava nel campo economico e produttivo una trasformazione d'importanza essenziale per il progresso e l'arricchimento del paese: avveniva quella che si suole a ragione chiamare la rivoluzione industriale, con le grandi scoperte di Arkwright, di Hargreaves, di Crompton, di Cartright e di Watt, che tra il 1760 e il 1785 creano la nuova industria tessile e la contemporanea applicazione del carbone alla lavorazione del ferro che gettò le basi della grande industria siderurgica, e in genere con la creazione e il perfezionamento delle macchine in aiuto e in progressiva sostituzione del lavoro manuale. La produzione prese uno slancio superbo, trasfomando i suoi metodi e i suoi organismi da quelli del lavoro a domicilio e dell'artigianato in quelli delle grandi fabbriche che raggruppavano schiere di operai alle dipendenze dell'imprenditore-capitalista; i prodotti minerarî del sottosuolo aprirono fonti di nuove ricchezze prodigiose; folti agglomerati urbani come per incanto sorsero e si svilupparono intorno ai nuovi centri produttivi: Manchester, Bolton, Birmingham, Sheffield; nuoví mezzi di comunicazione, fra cui, oltre alle strade, una magnifica rete di tremila miglia di canali, resero più frequenti e facili i contatti e gli scambî fra regione e regione; mentre i grandi porti commerciali, Liverpool, Londra, vedevano crescere a dismisura la propria attività, e mentre la popolazione era in rapido aumento, passando dai cinque milioni all'inizio del secolo e dai sei al momento dell'avvento di Giorgio III, ai nove milioni del 1801. Trasformazioni di questo genere non potevano avvenire se non con scosse profonde al vecchio organismo economico e sociale. L'agricoltura era progressivamente trascurata e abbandonata, e l'Inghilterra che fino al 1769 era stata esportatrice di cereali, diventava sempre più importatrice; le campagne si spopolavano a vantaggio dei nuovi agglomerati industriali, dove gli antichi lavoratori dei campi si trasformavano in operai industriali; lo sviluppo della grande industria e del sistema delle fabbriche determinava la rapida proletarizzazione di grandi masse di popolazione con fenomeni spaventosi di pauperismo e di decadenza fisica, contro cui insufficiente e vana riusciva l'azione d'istituzioni filantropiche, sorgenti sempre più numerose anche per effetto della rinascita religiosa provocata dal metodismo: Si formavano così le premesse di gravi problemi politici, economici e sociali la cui soluzione doveva diventare urgente dopo la tempesta della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche.

La lotta contro la Francia rivoluzionaria e napoleonica. - La tempesta scoppiò e si aggravò mentre Pitt, fortissimo al govermo, stava attuando opportune e fortunate riforme finanziarie ed economiche che promovevano la prosperità nazionale (tra queste un trattato di commercio con la Francia nel 1786, a base liberistica) e pensava a preparare anche riforme politiche avvicinantisi ai principî liberali sostenuti dai whigs, cioè a dire esplicava un'attività per la quale era condizione indispensabile un lungo periodo di pace, che il grande statista auspicava con tutto il cuore. Ma gli eventi rivoluzionarî, sia con la piega di selvaggia violenza che assunsero ben presto all'interno della Francia, sia con le nuove tendenze espansionistiche verso i confini naturali alimentate dopo le vittorie di Walmy e di Jemappes e l'invasione del Belgio (autunno 1792), determinarono un radicale cambiamento nella politica interna ed estera dell'Inghilterra. I molti simpatizzanti che la prima fase della Rivoluzione aveva suscitato anche in Inghilterra, sia tra i fautori idealistici della libertà e del progresso, sia tra i politici che consideravano a ogni modo propizie le novità francesi in quanto prevedevano da esse un indebolimento della forza politica internazionale della Francia e quindi un vantaggio per l'Inghilterra, si trasformarono ben presto quasi tutti in avversarî decisi. Indizio del cambiamento, il successo prodigioso conseguito dalla spietata critica antirivoluzionaria sviluppata dal Burke nelle Reflections on the French Revolution, di cui 30 mila copie furono vendute in poche settimane. A ciò seguì una legislazione di severe misure repressive che il governo attuò prontamente di fronte a sporadici movimenti tentati qua e là da elementi rivoluzionarî sognanti d'imitare la Francia; e seguì anche l'abbandono d'ogni proposito di riforme liberali e parlamentari, con gran disappunto dei whigs, ridotti a schiere sparute e impotenti al seguito di Fox. All'irrigidimento della politica interna si accompagnò la decisione d'intervento nelle coalizioni europee, con che l'Inghilterra riaprì il formidabile conflitto continentale, navale, coloniale con la Francia, per chiuderlo soltanto dopo ventidue anni a Waterloo. La storica decisione venne presa da Pitt il 1° febbraio 1793, quando le vittoriose armate francesi dal Belgio minacciavano l'Olanda, e quando l'impressione d'orrore e di sdegno suscitata dall'esecuzione di Luigi XVI e dallo scatenamento del Terrore, aveva paralizzato anche gli ultimi simpatizzanti che la causa della Rivoluzione contava al di là della Manica.

Decisa la lotta, Pitt la condusse con inflessibile energia e tenacia, integrando con sussidî finanziarî agli alleati continentali per l'aumento dei loro eserciti le scarse forze terrestri che l'Inghilterra, priva di un'armata permanente, poteva mettere in campo, e sviluppando soprattutto la grande azione navale di blocco delle coste francesi, d'attacco e distruzione delle flotte avversarie in Mediterraneo e in Oceano, d'occupazione delle posizioni insulari e delle colonie. Nella prima fase della lotta, durata un decennio fino alla pace di Amiens (marzo 1802), l'Inghilterra vide disciolte e battute l'una dopo l'altra le due coalizioni, alla testa delle quali si era messa nel 1793 e nel 1799; e vide la Francia repubblicana e rivoluzionaria completamente vittoriosa per terra, estesa fino ai confini naturali, fiancheggiata al di là del Reno, delle Alpi e dei Pirenei da stati alleati, o per meglio dire vassalli, che le assicuravano il predominio assoluto sul continente. Per contro l'Inghilterra aveva reso incrollabile il suo primato navale, con la distruzione non solo delle flotte francesi, ma anche di quelle della Spagna, dell'Olanda e della Danimarca successivamente alleate della Francia, e ciò attraverso una serie di memorabili vittorie a Tolone (1793), davanti a Brest (i giugno 1794), al capo San Vincenzo (14 febbraio 1797), a Camperdown (11 ottobre 1797), ad Abukir (i agosto 1798), a Copenaghen (marzo 1801); aveva rafforzato la sua posizione marinara e coloniale con l'occupazione di Ceylon, della Colonia del Capo, di Malta, delle Antille francesi e con lo stroncamento dei movimenti di rivolte indiane, che la Francia repubblicana aveva cercato di promuovere e d'aiutare, applicando per la rivincita coloniale in India gli stessi metodi applicati con fortuna dalla monarchia borbonica in America nel 1778-1783. Dura però e in certi momenti pericolosissima era stata la lotta, specialmente dopo Campoformio (ottobre 1797) e Lunéville (febbraio 1801), quando l'Inghilterra, abbandonata da tutti gli alleati, s'era trovata sola di fronte alla formidabile Francia vittoriosa: ripetutamente si era presentata la minaccia d'invasioni francesi, specialmente verso l'Irlanda, campo sempre favorevole a movimenti di rivolta; le spese di guerra, anche per i sussidî agli alleati, erano salite annualmente a cifre enormi, sfiancando il bilancio e mettendo in imbarazzo la Banca d'Inghilterra; fenomeni di disagio e di stanchezza si facevano sentire in tutte le classi, e talvolta prendevano l'aspetto pauroso di rivolte, come nel 1797 con due tentativi d'ammutinamento nelle flotte. Il governo di Pitt teneva fermo e ricorreva a misure eccezionali tra le quali memorabile l'Atto d'unione, fatto votare da Pitt nel 1800 per legare strettamente l'Irlanda all'Inghilterra e render più difficili i tentativi di rivolta, che nel 1798 si erano rivelati particolarmente vasti e minacciosi. La legge, entrata in vigore nel febbraio 1801, tolse all'Irlanda ogni autonomia, e venne così a creare, accanto ai già esistenti aspetti economico e religioso, l'aspetto politico della questione irlandese.

Ma le tendenze pacifiste che si facevano sempre più forti specialmente nei ceti commerciali e industriali, speranzosi di riacquistare dopo la pace gli sbocchi continentali aperti prima del 1792 con gran profitto delle energie produttive britanniche, finirono col prevalere, determinando la caduta di Pitt, indebolito anche per contrasti col re intorno alla questione del trattamento da fare ai cattolici irlandesi, e l'avvento d'un ministero con alla testa Addington, che condusse alla pace di Amiens (25 marzo 1802).

La pace, salutata con grande entusiasmo sia al di qua sia al di là della Manica, si rivelò ben presto inane e caduca, perché non aveva eliminato le più profonde ragioni di contrasto che si trovavano da una parte nell'insediamento francese nel Belgio, intollerabile per l'Inghilterra, e dall'altra nel rafforzamento mediterraneo e coloniale britannico intollerabile per Napoleone, e perché le speranze dei commercianti e degl'industrialì inglesi furono subito distrutte dalla risoluta politica protezionista del primo console. Così appena un anno dopo gli entusiasmi per Amiens, da una parte e dall'altra ricominciavano i contrasti e gli attriti, e la pace si poteva considerare virtualmente rotta, mentre Napoleone avviantesi all'Impero cercava di fomentare rivolte in Irlanda, e il governo inglese, a sua volta, organizzava la caccia marittima ai convogli francesi e favoriva i tentativi realisti in Francia. La ripresa delle ostilità fu segnata nel 1804 dal ritorno al governo di Pitt, al cui fianco e sotto la cui guida giungevano al potere anche giovani destinati a grande avvenire, come G. Canning e W. Huskisson.

La nuova fase della lotta, che si svolse attraverso la nuova serie di coalizioni con la Russia, con l'Austria, con la Prussia, fu diretta a spezzare l'egemonia napoleonica. Anche in questa fase l'Inghilterra dovette per lunghi anni assistere alle sconfitte e ai successivi abbandoni degli alleati continentali, e ad ulteriori espansioni della potenza continentale della Francia; e dovette fronteggiare rinnovati tentativi d'invasione, ai quali si aggiunse la ben più formidabile minaccia del blocco continentale (1806). E anche in questa fase seppe controbilanciare e paralizzare i successi continentali del formidabile avversario, coi proprî successi navali e coloniali, quali Trafalgar (21 ottobre 1805), il completamento della conquista dell'India, l'espansione dei possessi canadesi nelle regioni verso il Pacifico, l'iniziata colonizzazione dell'Australia. Per di più cominciò a fronteggiare vigorosamente la potenza napoleonica anche per terra, con quelle campagne nella Penisola Iberica con le quali le armate britanniche e Wellington in sei anni di lotte (1808-1814) segnate da successi memorabili (Talavera, Busaco, Ciudad Rodrigo, Salamanca, Vitoria) si prepararono al trionfo di Waterloo. Veramente degno d'un grande popolo fu lo spettacolo offerto dall'Inghilterra negli ultimi anni della lotta antinapoleonica, specialmente dopo il trionfo napoleonico di Tilsitt e l'inasprimento del blocco continentale, quando l'Inghilterra, per dirla con Alberto Sorel, rigurgitava di specie e mancava di pane, e imperversavano i flagelli della crisi economica, della carestia, della disoccupazione. Pitt era morto nel gennaio 1806, a quarantasei anni, schiantato dalla notizia del trionfo napoleonico ad Austerlitz e dallo sfacelo della terza coalizione; ma la classe politica dirigente seppe esprimere dal suo seno uomini capaci di continuare la lotta, anche tra le peggiori difficoltà esterne e interne, aumentate queste ultime dal progressivo ottenebramento delle facoltà mentali di Giorgio III, il che rese necessaria nel 1810 l'istituzione d'una reggenza affidata al figlio. Subito dopo la morte di Pitt, i pericoli della situazione determinarono la formazione d'un grande ministero d'unione nazionale, nel quale accanto ai più rappresentativi tories come Grenville, Windham e lord Spencer, antichi collaboratori di Pitt, entrarono i capi dei whigs con Fox, lord Grey ed Erskine. E anche quando, dopo appena un anno, il ministero di coalizione si sciolse, e i tories ripresero da soli le redini del governo, le direttive dell'azione antifrancese furono mantenute salde. Il nuovo stato maggiore dei tories vantava in prima linea Perceval, Canning, Castlereagh, il duca di Portland, il conte di Liverpool, divenuto questi primo ministro nel 1812, con a fianco Castlereagh al Ministero degli esteri, per rimanere ininterrottamente alla direzione degli affari fino al 1827. Fu questo ministero che ebbe la gloria di condurre l'Inghilterra alla vittoria finale e alla parte preponderante tenuta nel Congresso di Vienna, dopo aver anche superato nella ultima fase delle lotte napoleoniche un urto armato con la repubblica degli Stati Uniti d'America, da poco costituita, ma già vigorosa sostenitrice sul mare dei diritti e della libertà dei naviganti contro gli arbitrî dei blocchi britannici (v. americana, guerra).

Adeguati al lungo e formidabile sforzo sostenuto furono i risultati raggiunti attraverso i patti del primo trattato di Parigi (30 maggio 1814), del trattato di Vienna (9 giugno 1815) e del secondo trattato di Parigi (20 novembre 1815): lo schiantamento del nuovo tentativo egemonico francese e il ritorno della Francia nei vecchi confini, rinserrati fra una catena di stati cuscinetto (regno dei Paesi Bassi, Prussia Renana, Svizzera ingrandita, regno di Sardegna ingrandito); il ristabilimento d'un equilibrio continentale fra le maggiori potenze; e soprattutto l'incremento del primato coloniale e marittimo britannico con gli acquisti di Ceylon, della Guiana, di Tobago, della Colonia del Capo, di Helgoland, di Malta e col protettorato sulle Isole Ionie.

Le riforme della prima metà del sec. XIX. - La vecchia Inghilterra era riuscita vittoriosa nella ventennale gigantesca lotta contro la Francia rivoluzionaria e napoleonica. Aveva infranto il tentativo di egemonia continentale; aveva aumentato il suo impero coloniale e la sua potenza navale, per modo che il suo primato nelle colonie e nei mari si presentava incrollabile. Aveva lavorato con successo a Vienna nel senso di creare sul continente europeo un assetto che le permettesse una politica d'equilibrio e d'efficace fronteggiamento di eventuali nuovi tentativi egemonici: gli stretti rapporti rinsaldati con la monarchia asburghese attraverso la quasi costante collaborazione antinapoleonica e nelle discussioni di Vienna, le permettevano di contare su di un ausiliario efficace contro il nuovo pericolo espansionistico che si delineava nel Mediterraneo orientale, e cioè contro l'eventuale avanzata russa nella penisola balcanica, del pari pericolosa per l'Inghilterra quanto l'eventuale avanzata francese nella penisola italiana. Il movente balcanico si veniva così ad aggiungere al movente continentale e italiano, già esistenti dai secoli XVII e XVIII, a rafforzare la tendenza austrofila nella politica inglese. Ma nel quadro della situazione alle tinte rosee si contrapponevano anche colori foschi e ombre. Le condizioni economiche e finanziarie erano scosse e pericolanti per l'immane sforzo sopportato nella lotta contro la Francia, specialmente durante il periodo del blocco continentale, e per i finanziamenti continui con cui l'Inghilterra aveva dovuto alimentare e sostenere le varie coalizioni antinapoleoniche. Il debito pubblico in seguito all'enorme aumento di 630 milioni di sterline dovuto alle spese e ai finanziamenti di guerra, era salito a 868 milioni di sterline. Le industrie e i commerci attraversavano un periodo di crisi, le cui cause, oltre che nella colossale lotta sostenuta dal paese per più di vent'anni, si trovavano anche nel fatto che la produzione si stava attrezzando e trasformando con l'applicazione delle macchine. Il costo della vita era assai forte, dato il costo del pane tenuto alto dalla politica di rigido protezionismo agrario, voluta e attuata dai grandi proprietarî fondiarî dominanti il parlamento: le Corn Laws (leggi dei cereali), promosse e fatte votare da costoro all'indomani della fine della lotta con la Francia, quando, caduto il blocco continentale, sarebbe stato possibile l'afflusso di grano a buon mercato in Inghilterra, costituivano uno sbarramento ferreo contro la discesa dei prezzi.

La crisi delle industrie e dei commerci e l'alto costo della vita rendevano miserrime le condizioni delle classi lavoratrici proprio mentre ad aumentare il disagio, si aveva un rapido incremento demografico che portava in dieci anni, dal 1810 al 1820, la popolazione inglese da meno di 10 milioni a 14 milioni d'abitanti. L'aumento demografico era a tutto vantaggio degli agglomerati cittadini che si sovrappopolavano (Londra nel 1815 aveva circa un milione di abitanti), mentre diventavano spopolate le campagne, dove era sparita quasi completamente la piccola proprietà terriera a vantaggio dei latifondi posseduti dall'aristocrazia e dalla Chiesa anglicana che aumentavano in modo mostruoso. Il contrasto tra l'opulenza dell'aristocrazia fondiaria e le condizioni di miseria delle masse era impressionante, e costituiva un permanente pericolo di rivolgimenti e d'agitazioni.

Anche impressionante era il contrasto tra i progressi tecnici che si riscontravano nel campo della produzione, e l'aspetto arretrato e sorpassato che presentavano gli ordinamenti amministrativi e i congegni politici ed elettorali del paese. A questo riguardo l'Inghilterra era rimasta immobilizzata in forme e in sistemi che già nel secolo XVIII avevano suscitato critiche fortissime e proposte e tentativi di riforme. L'amministrazione locale e l'amministrazione della giustizia erano sempre virtualmente in mano all'aristocrazia fondiaria, la gentry, tra le cui file venivano scelti gli sceriffi, posti alla testa delle contee, e i giudici di pace, incaricati delle funzioni giudiziarie, poliziesche, assistenziali, fiscali. Le funzioni assistenziali per l'aiuto alle masse dei senza tetto e dei senza lavoro, si risolvevano in un sistema d'oppressione e di sfruttamento dei poveri, giacché portavano alla compilazione delle liste degli indigenti per ogni parrocchia; e gl'iscritti nella lista, in cambio dello scarso sostentamento che ricevevano sui fondi della tassa dei poveri, pagata dai proprietarî terrieri, erano costretti a rimanere fissi nei luoghi d'origine, a compiere ogni genere di lavoro che venisse imposto, a lasciare che i loro figli, col pretesto dell'apprendimento di qualche mestiere, ancora in tenera età e senza alcuna tutela di carattere igienico e sociale, fossero dati in balia d'imprenditori e di padroni di fabbriche.

La Camera dei comuni e cioè l'organismo parlamentare elettivo, veniva ancora costituita in base alle vecchie circoscrizioni delle contee e dei borghi, rimaste immutate attraverso i secoli, in onta alle vicende che avevano fatto decadere e talvolta sparire vecchi centri e agglomerati e ne avevano invece sviluppato nuovi importantissimi, per modo che si aveva l'assurdo di collegi elettorali che esistevano ormai solo sulla carta, o nei quali gli elettori si contavano sulle dita d'una mano, e di grandi località, ad esempio i centri industriali sviluppatisi nel secolo XVIII, come Liverpool, Manchester, Birmingham, che non avevano rappresentanza in parlamento. Siffatto regime elettorale lasciava in sostanza la Camera elettiva in balia dei proprietarî terrieri, i cui esponenti erano raggruppati nei tradizionali partiti dei whigs e dei tories, differenziantisi fra loro quasi solo per la diversa concezione delle prerogative e dell'estensione dell'autorità regia di fronte al parlamento, ma costituenti insieme, in fondo, un'oligarchia di fronte alla quale le forze della borghesia industriale e commerciale, ormai in rapido sviluppo, poco potevano farsi valere. L'Inghilterra nord-occidentale in cui tale borghesia aveva i suoi centri, appariva sacrificata di fronte all'Inghilterra terriera e agricola del sud-est.

In stridente contrasto con lo spirito dei tempi nuovi era anche la condizione d'inferiorità politica che continuava a essere fatta ai cattolici; il che per la gran massa degl'Irlandesi aveva creato, dopo l'Atto d'unione del 1800, il danno della perdita del mandato elettorale, danno che, aggiunto a quelli già patiti, era venuto ad aumentare la gravità della questione irlandese (v. irlanda).

Per tutto questo complesso di problemi interni, politici, economici e sociali, la situazione interna dell'Inghilterra era tutt'altro che rassicurante e presentava il pericolo di sboccare in una esplosione rivoluzionaria. Il pericolo fu evitato, soprattutto perché le agitazioni vennero tempestivamente attutite e incanalate in un movimento evoluzionista di riforme, per virtù di alcuni grandi uomini politici, quali Giorgio Canning, lord Grey, Riccardo Cobden, Roberto Peel, la cui opera seppe al momento opportuno preparare e attuare riforme fondamentali. L'evoluzionismo riformatore della politica britannica nella prima metà del sec. XIX, le cui fasi culminanti si hanno tra il 1829 e il 1832 con la concessione dell'uguaglianza politica ai cattolici e con la riforma elettorale, e tra il 1846 e il 1850 con l'abbattimento delle barriere protezionistiche, appare in maggior risalto se contrapposto al carattere della politica francese nello stesso periodo, scossa nel breve giro di meno di vent'anni da due grandi sussulti rivoluzionarî.

All'indomani della caduta di Napoleone la situazione interna era forse più inquietante in Inghilterra che non in Francia. La corona era discreditata dalla condotta di Giorgio IV, che, principe-reggente dal 1810 per la pazzia del padre e re dopo la morte di questi nel 1820, si era attirato la disistima e l'avversione quasi generale. Il partito tory, alla cui testa erano con il vecchio lord Liverpool rimasto ininterrottamente al potere dal 1810 al 1827, l'eroe nazionale Wellington e l'abile manipolatore del Congresso di Vienna Castlereagh, sembrava cristallizzato in una cieca e ostinata opposizione contro ogni idea di riforma. Il partito whig confinato all'opposizione, travagliato da contrasti interni e senza capi autorevoli, s'isteriliva in una critica acre all'opera ministeriale, ma non sapeva contrapporvi un programma fattivo. E intanto il costo della vita aumentava, molte industrie piombavano in crisi sia per la cessazione delle grandi ordinazioni da parte dello stato, sia perché gli sbocchi continentali alla produzione si chiudevano per la politica doganale strettamente protezionista, quale quella instaurata in Francia tra il 1814 e il 1824 e in Prussia nel 1818.

Di fronte a tutto ciò era fatale l'aumento del disagio e del malcontento, che prendeva sia le masse dei contadini e degli operai pagati con salarî di fame e troppo spesso senza lavoro, sia la borghesia che si riteneva sacrificata a vantaggio della grande proprieta terriera. E dal malcontento nasceva l'agitazione politica, che pur muovendo da impulsi diversi, e talvolta estrinsecandosi anche nella predicazione di programmi estremisti di comunismo agrario a base d'espropriazioni forzate dei ricchi latifondisti, si polarizzò essenzialmente sul programma della riforma elettorale, dello smantellamento delle posizioni e dei privilegi parlamentari, dietro cui si trincerava la predominante aristocrazia fondiaria.

La trasformazione del regime elettorale divenne la parola di ordine sia degli agitatori del proletariato, sia dei malcontenti della borghesia industriale e cittadina, e provocò agitazioni contro le quali il governo reagì con repressioni e leggi eccezionali.

Ma intanto nel seno stesso del partito tory, accanto alla frazione irrigidita e ostinata sulle posizioni di resistenza e di reazione, si formava una corrente guidata da uomini più giovani e più intelligenti, quali Giorgio Canning e Roberto Peel, che si rendevano conto delle nuove necessità, tanto più di fronte alla risvegliata attività dell'altro grande partito parlamentare, il whig, che usciva dall'inerzia critica per opera d'uomini nuovi ed energici, Russell, Brougham, Grattan, Romilly, agitanti programmi di vaste riforme nel campo elettorale, scolastico, religioso, giudiziario.

Assunti al governo, e guadagnando ogni giorno maggiore influenza in confronto dei vecchi capi, specialmente dopo il suicidio di Castlereagh (1822), il Canning e il Peel riuscirono a far prevalere presso i colleghi il concetto di riforme sia pure parziali e di carattere secondario, ma indubbiamente utili a diminuire la tensione. Si ebbe così la riduzione dei diritti doganali su molti articoli d'importazione, il miglioramento delle condizioni degli schiavi nelle colonie, la legge che concedeva agli operai il diritto di costituire sindacati e di fare sciopero, l'attenuazione progressiva delle misure legislative contro i cattolici, attenuazione che sboccò nel 1829 nella grande legge d'emancipazione, concedente ai cattolici la piena parità dei diritti politici e civili con gli anglicani, legge resa inevitabile dalla tenace opera di propaganda dell'agitatore irlandese O' Connell, e condotta in porto da Roberto Peel, che nel 1828 di fronte alle proporzioni prese dalla campagna di O' Connell, si rese conto della necessità della riforma, e seppe farla accettare al duca di Wellington, capo del ministero, e al re.

Ma l'attuazione di queste riforme, che si succedettero tra il 1822 e il 1829, non attutiva la forza della corrente sostenitrice della riforma di base, la riforma elettorale, a favore della quale erano le masse proletarie e la borghesia. Fra gli stessi whigs, uomini come lord Grey, capo del partito, e Russell, erano fautori della riforma, per lo meno entro termini moderati; e anche nel partito tory, sempre padrone del governo, la tendenza rappresentata dai seguaci di Canning, morto nel 1827, s'accostava all'idea d'una modificazione del sistema elettorale, sfidando la collera del capo del governo lord Wellington, sempre convinto che il sistema elettorale inglese fosse la perfezione. Alla riforma si arrivò attraverso uno di quegli spostamenti e nuovi raggruppamenti di forze parlamentari che caratterizzano i momenti culminanti della politica inglese nell'ultimo secolo, e che hanno permesso di attuare le più audaci riforme senza bruschi rivolgimenti o sussulti rivoluzionarî.

Sotto l'influenza ammonitrice della rivoluzione francese del luglio 1830, la corrente canningista del partito tory si accostò e si unì al partito whig, tornato più numeroso alla camera dei comuni con le elezioni del 1830. Si formò così una coalizione che con il programma della riforma elettorale e sotto la guida di lord Grey prese il potere e in due anni attuò una riforma elettorale. Questa si basava sopra una revisione delle antiche circoscrizioni dei borghi e delle contee, eliminando molti collegi elettorali che non avevano più ragione d'esistere e assegnando seggi ai nuovi grandi centri, e concedeva il diritto elettorale a chiunque fosse proprietario o locatario d'un immobile che rappresentasse una rendita annua di almeno 10 sterline. Contenuta entro questi termini, la riforma di lord Grey era ben lontana dal costituire il rinnovamento generale auspicato dai radicali; giacché stabiliva un regime censitario che giovava solo alla borghesia abbiente, e manteneva gl'inconvenienti del voto pubblico e delle due specie di collegi elettorali. Era un compromesso tra il vecchio e il nuovo, raggiunto con una formula empirica; un punto di partenza per ulteriori necessarî progressi. Ma pur così imperfetta, la riforma costituì una grande data nella storia dell'Inghilterra; essa portò il numero degli elettori da 430 a 650 mila in una popolazione di circa 16 milioni di abitanti, al momento in cui la Francia, pur dopo la rivoluzione di luglio e l'allargamento del suffragio, con 32 milioni di abitanti aveva appena 250 mila elettori. E ciò che rendeva ancor più significativo e importante l'aumento, era che esso avveniva a vantaggio della nuova Inghilterra industriale, della borghesia delle industrie e dei commerci, mentre la potenza parlamentare dell'aristocrazia fondiaria veniva profondamente scossa. Questo rivolgimento, coincidenza sintomatica, si realizzava proprio nell'anno in cui tra le grandi città industriali, tra Liverpool e Manchester, si aprivano al traffico le linee ferroviarie.

L'evoluzione verso le riforme, che caratterizza la politica interna inglese nel decennio tra il 1820 e il 1830, ha la sua rispondenza negli atteggiamenti della politica estera a favore dei movimenti liberali e nazionali, che cominciarono a scuotere sul continente e nelle colonie l'assetto stabilito nei trattati del 1815. Negli anni immediatamente successivi al Congresso di Vienna il governo tory, e per esso lord Castlereagh ministro degli Esteri, per quanto ufficialmente rimasto fuori dal sistema della Santa Alleanza, lo aveva in sostanza appoggiato, fiancheggiando soprattutto la politica conservatrice dell'Austria. Ma dopo i sussulti rivoluzionarî che tra il 1820 e il '22 scossero la Spagna, l'Italia, la Grecia, e mentre le colonie spagnole d'America lottavano per la loro libertà, l'immobilità sostenuta e propugnata dal Castlereagh subì un mutamento profondo, specialmente quando, scomparso tragicamente il Castlereagh, la direzione della politica estera passò nelle mani di Canning. Costretto a subire l'intervento francese in Spagna, che fu deciso nel Congresso di Verona nel 1822 e che egli seguì con occhio vigile e sospettoso, Canning prese la rivincita sostenendo energicamente la formazione dei liberi stati nell'America Latina; il che ebbe, fra gli altri, per l'Inghilterra il vantaggioso risultato di assicurare ai suoi commerci e alle sue industrie sbocchi e mercati non più ostacolati da inceppi monopolistici. E soprattutto Canning sviluppò un'azione abile e utile nel problema greco, favorendo nel 1826 il movimento per una Grecia indipendente, destinata essa pure a servire di sbocco ai prodotti britannici.

Morto Canning nel 1827, gli ulteriori sviluppi della questione greca sembrarono prendere una piega non del tutto favorevole per l'Inghilterra, mentre si costituiva tra lo zar Nicola e Carlo X di Francia quel sistema di stretto accordo pregiudizievole per l'Inghilterra, anche perché agevolò alla Francia nel giugno 1830 il colpo dell'occupazione di Algeri, e quindi un aumento d'influenza francese nel Mediterraneo occidentale. Ma la rivoluzione di luglio, con l'abbattimento della monarchia borbonica in Francia e coi movimenti e gli sconvolgimenti prodotti in Belgio, in Germania, in Polonia, in Italia e nella Penisola Iberica, creò alla politica estera britannica nuove possibilità di successo, abilmente sfruttate dal nuovo grande uomo politico giunto al potere coi whigs, Palmerston.

La monarchia orleanista sorta in Francia e osteggiata e sospettata dalle potenze centro-orientali, cercava sotto l'impulso di Talleyrand l'accostamento all'Inghilterra, ma poté conseguirlo soltanto sospendendo lo sviluppo dell'azione di conquista in Algeria, rinunciando a porre un proprio rampollo sul trono belga, e accettando il punto di vista inglese per la costituzione, decisa a Londra, d'un regno del Belgio indipendente e neutrale, che significava la sostanziale rinuncia francese ad almeno uno dei punti, e precisamente a quello più sospetto all'Inghilterra, dell'ambizioso programrna dei confini naturali. La collaborazione così stabilita con la Francia si estendeva poi nei problemi iberici, dove Inghilterra e Francia d'accordo sostennero le regine costituzionali Maria di Portogallo e Isabella di Spagna contro i pretendenti reazionarî.

Intanto, nella politica interna britannica maturavano gli effetti della riforma elettorale. I vecchi partiti dei tories e dei whigs entravano in crisi e si trasformavano sotto l'azione delle nuove forze apparse nella lotta politica dopo la riforma. Così, sulle rovine del vecchio tradizionale torismo sorgeva, per merito tutto di Roberto Peel, il nuovo grande partito conservatore, che condannava la tattica dei tories intransigenti ostinantisi a voler l'abolizione delle ultime riforme, e aveva per programma l'accettazione dei fatti compiuti, la soppressione graduale, pacifica e legale di quanto rimaneva del vecchio sistema d'abusi, l'opposizione a ogni sconvolgimento sociale. Per contro molti elementi dei whigs, con Russell alla testa, tendevano all'alleanza sempre più stretta coi radicali per la formazione d'un nuovo grande raggruppamento liberale.

Alle trasformazioni prodotte nel sistema politico dalla riforma elettorale, si accompagnarono quelle del sistema amministrativo in cui riforme successive introdotte dal 1834 al 1839 smantellarono i vetusti congegni che lasciavano le amministrazioni locali in mano all'aristocrazia fondiaria e al clero anglicano, sostituendoli con organismi elettivi a carattere laico.

Ma i problemi più urgenti e più gravi non erano quelli del sistema amministrativo: si presentavano per l'agitazione irlandese tenuta viva da O' Connell, per il movimento delle masse operaie richiedenti nuove concessioni politiche e sociali, e per il disagio economico determinato dall'alto costo della vita. Nella questione irlandese O' Connell, con l'innegabile fascino di tribuno sollevava un vasto movimento politico sul programma dell'abrogazione dell'Atto di unione, e pur fallendo nel tentativo e ritirandosi sfiancato dalla lotta nel 1843, lasciava i germi delle agitazioni successive che nella seconda metà del sec. XIX dovevano portare la questione al primo piano della politica britannica.

Nel campo operaio le agitazioni avevano un doppio impulso, sia per il fatto che la riforma del 1832 si era risolta a favore delle sole classi borghesi, sia per le condizioni veramente terribili di miseria e d'avvilimento in cui le masse continuavano a vivere. Le trasformazioni e lo sviluppo della produzione derivanti dall'industrialismo determinavano squilibrî e ingorghi economici i cui colpi si ripercuotevano soprattutto sulle masse lavoratrici. Spesso gli industriali, dopo aver fabbricato una massa di prodotti eccedenti le possibilità di smercio e di consumo e che quindi si accumulavano nei magazzini, rallentavano o addirittura sospendevano l'attività dei loro opifici, donde fenomeni gravissimi di disoccupazione e di fame nelle masse. Il lavoro negli opifici, non regolato da orarî ragionevoli, né tutelato da misure igieniche e legislative, si protraeva giornalmente per dodici e anche sedici ore, con salarî assolutamente insufficienti a mantenere una famiglia. I cosiddetti quartieri operai, sorti frettolosamente ai margini delle città industriali, erano raggruppamenti di luride e fetide casupole nelle quali le famiglie operaie vivevano ammassate a decine di persone in una sola stanza senz'aria e senza luce, in condizioni igieniche e morali indegne di esseri umani. Le malattie e l'alcoolismo facevano strage in quelle torme di diseredati d'ogni gioia e d'ogni fortuna, mentre insufficienti si presentavano i rimedî escogitati da inchieste parlamentari e da organizzazioni filantropiche. Questa la situazione sociale in cui fu tentato l'esperimento cooperativo-socialista di Roberto Owen, al quale seguì, nel decennio tra il 1838 e il 1848, tumultuoso e rivoluzionario, specialmente per impulso dell'irlandese O' Connor, il movimento cartista stroncato solo nel 1848.

La tumultuaria lotta cartista si sviluppò nello stesso periodo in cui per vie ben diverse e con ben diversi metodi venne condotta la lotta contro le barriere doganali. Punto fondamentale e meta culminante di questa lotta fu l'abolizione delle Corn Laws, ma intorno ad essa e in conseguenza di essa venne in discussione e fu travolto tutto il sistema di barriere protezionistiche sorto dal sec. XVII in poi a difesa delle attività economiche inglesi. La lotta riuscì, non solo perché trovò un animatore e un capo d'eccezionale valore, Riccardo Cobden, ma anche perché a sostegno di essa furono concordi le forze popolari e le forze industriali e commerciali. Le prime infatti si ripromettevano dal successo l'abbassamento del costo della vita e quindi una maggiore potenza d'acquisto dei salarî, e le seconde pensavano alle possibilità di ulteriori sviluppi delle industrie, in conseguenza della possibilità di avere a miglior prezzo le materie prime, e alle possibilità di ulteriori sviluppi dei Commerci per la facilitata conquista dei mercati esteri. Anche questa volta, come nel caso della riforma del 1832, il vittorioso pacifico sbocco della lotta fu dovuto al senso politico e alla saggia e tempestiva decisione d'un grande uomo di stato, quello stesso Roberto Peel che nel 1829 aveva saputo far decidere a tempo l'Atto d'emancipazione dei cattolici, e che poi aveva accettato la riforma elettorale, e adattato alla politica delle riforme necessarie l'azione del partito conservatore di cui era il capo. La sua clamorosa adesione alle idee del Cobden nel 1846 determinò lo sfasciamento della maggioranza conservatrice e il successivo crollo del protezionismo.

Era il trionfo decisivo dell'Inghilterra industriale e commerciale sull'Inghilterra agricola, ed era anche il coronamento dell'opera di riforme che in circa trent'anni aveva cambiato l'aspetto al paese. I risultati che i promotori del libero scambio avevano preveduto e annunciato non tardarono a farsi sentire. All'abbassamento del costo della vita si accompagnò un ulteriore mirabile sviluppo delle industrie e dei commerci, assicurante possibilità di lavoro e di guadagno a masse di popolazione sempre più vaste e anche miglioramenti di salarî. Molti di quei mali che avevano travagliato le classi lavoratrici nei primi decennî del secolo si attenuarono o sparirono addirittura; il miglioramento delle condizioni delle masse distrusse molte cause di agitazioni e di torbidi; l'espansione economica dell'Inghilterra muoveva alla conquista del continente, accompagnandosi a una grande politica estera e coloniale. Tutto questo mentre le forme e le manifestazioni della vita e dell'attività umana diventavano più belle, più ricche, più intense attraverso le conquiste e le applicazioni della scienza e della tecnica che si moltiplicavano in ogni campo, facendo dell'Inghilterra il paese più progredito e più opulento d'Europa. La sensazione esatta di questa superba ascesa dell'Inghilterra fu data al mondo dall'Esposizione universale tenuta a Londra nel 1851.

L'era vittoriana. - Era quello il momento della piena fioritura della vita e della popolarità di Vittoria, della sovrana il cui nome doveva poi essere adottato per definire l'era di potenza e di prosperità raggiunta dall'Inghilterra nel sec. XIX. Giunta al trono diciottenne nel 1837 in condizioni difficili e mentre l'Inghilterra era agitata dal travaglio della trasformazione dei partiti e dalle lotte politiche per la questione irlandese, per il movimento cartista e per il libero scambio, la giovine sovrana aveva avuto il grande accorgimento di accettare in pieno il regime costituzionale-parlamentare lasciando governare il capo del partito prevalente, pur senza rinunciare al diritto di essere tenuta al corrente e di esprimere le proprie vedute su tutte le questioni interne ed estere, diritto che anzi volle esercitare in modo sempre più ampio man mano che con l'età e col successo il suo prestigio cresceva. La fortuna la secondò mettendole al fianco grandi uomini politici come lord Melbourne, Peel, Palmerston, la cui guida le riuscì preziosa, e un marito, Alberto di Sassonia-Coburgo, sposato nel 1840 e appassionatamente amato, che seppe assolvere con gran tatto la difficile parte di principe-consorte, senza urtare la suscettibilità britannica con inframmettenze nella politica interna, e riuscendo nello stesso tempo a esercitare un'azione notevole nella politica estera attraverso l'ascendente sulla moglie. La condotta della coppia reale, l'edificante spettacolo d'amore e di elette virtù famigliari di cui la corte divenne centro, accompagnandosi con l'ascesa della potenza e della prosperità britannica durante il nuovo regno, costituirono il solido piedistallo sul quale si basò e a poco a poco si ingrandì la popolarità e la fama della regina.

Il travaglio interno delle lotte dei partiti e delle riforme non impediva all'Inghilterra di tutelare i tradizionali interessi nella politica internazionale e nella politica coloniale. L'avvento della monarchia di luglio in Francia aveva, come s'è visto, determinato un ravvicinamento franco-britannico che ebbe notevole influenza a favore del consolidamento dei sistemi costituzionali in Belgio e nella Penisola Iberica. Ma quel ravvicinamento subì una profonda scossa nel 1840, quando, al momento della nuova crisi turco-egiziana, la Francia tentò di sviluppare una politica propria a favore del pascià d'Egitto Moḥammed ‛Alī che lasciava la valle del Nilo aperta all'influenza francese. Allora il Palmerston, che guidava la politica estera del governo britannico, riuscì a isolare la Francia e a paralizzarne l'azione costituendo, con le altre grandi potenze, un'intesa che impose a Moḥammed ‛Alī la rinunzia ai piani ambiziosi in Siria. L'anno dopo, il Palmerston riuscì a privare la Russia della maggior parte dei vantaggi raggiunti nel 1833 col trattato di Hunkiār Skelesi, facendo sostituire tale trattato con la Convenzione degli Stretti che toglieva alla flotta russa da guerra del Mar Nero ogni possibilità di uscita. Da questa abilissima politica orientale l'Inghilterra, col trattato del 15 luglio 1840 e con la conferenza di Londra del 31 gennaio 1841, oltre al risultato di sbarrare la via alle pericolose ambizioni francesi e russe, ebbe anche il vantaggio di legare strettamente al proprio sistema l'Impero Ottomano.

L'intesa con la Francia, ricostituita dai conservatori tornati al potere nel 1841, soffrì una nuova crisi quando Luigi Filippo tentò di estendere dall'Algeria al Marocco la politica espansionistica nell'Africa del nord (1844), e si ruppe del tutto nel 1846 per la questione dei matrimonî della regina Isabella di Spagna e di sua sorella, questione nella quale Luigi Filippo volle far prevalere soluzioni contrarie a quelle sostenute dall'Inghilterra. La rottura ebbe conseguenze importantissime anche nei riguardi della questione italiana, quando Palmerston, di nuovo ministro degli Esteri, si mise a sostenere risolutamente nella penisola gli sviluppi del movimento liberale, e ciò in contrasto con la politica conservatrice che la monarchia di luglio, avvicinatasi all'Austria dopo la rottura con l'Inghilterra, sosteneva d'accordo con Metternich. Risultato di questo atteggiamento del Palmerston nelle questioni italiane fu un grande aumento dell'influenza britannica presso i liberali italiani; a detrimento dell'influenza della Francia.

A questa azione nella politica internazionale si accompagnò l'azione nel campo coloniale, che assicurò all'Inghilterra in Oceania la Nuova Zelanda (1840) accanto all'Australia sempre più penetrata dalla colonizzazione; in America lo sviluppo di un Canada britannico accanto all'originario Canada francese, dove fu pacificato il movimento insurrezionale nel 1837 e introdotto un nuovo ordinamento, base della futura costituzione del Dominion; in Africa la creazione della colonia del Natal in aggiunta a quella dal Capo; e in Asia, oltre all'ampliamento del dominio indiano e all'occupazione di punti strategici quali Aden e Singapore, l'inizio della penetrazione in Estremo Oriente con la guerra dell'oppio (1840-42), che non solo impose alla Cina l'acquisto del velenoso prodotto, ma le strappò il possesso di Hong-kong e l'apertura di cinque porti al commercio straniero. L'abolizione della schiavitù decretata nel 1833 e attuata tra il 1833 e il 1837 costituì l'avviamento a una feconda trasformazione economica nelle colonie.

Il passaggio dal protezionismo al libero scambio si era compiuto sotto la prevalenza del partito liberale, che salì al potere nel 1846 dopo la disgregazione del partito conservatore ìn seguito al distacco di Roberto Peel e dei suoi seguaci, e vi rimase per circa un ventennio con brevi parentesi di ministeri conservatori. Palmerston e Russell furono gli uomini più in vista del partito, e accanto a loro cominciò ad emergere Gladstone, venuto come Palmerston al liberalismo dal torismo. Nel ventennio continuò intensa la mirabile ascesa economica e industriale dell'Inghilterra: si raddoppiò la produzione del carbone; la metallurgia in seguito a nuovi processi chimici ebbe un nuovo poderoso impulso, mentre la febbrile costruzione delle ferrovie e delle navi in ferro assicurava alle industrie metallurgiche nuovi sbocchi e guadagni; le esportazioni e le importazioni triplicarono sotto l'egida del liberismo; l'aumento della ricchezza fece sentire i proprî effetti su tutte le classi.

Da ciò fatalmente una ripresa del movimento operaio; ma non più sotto le forme rivoluzionarie e disordinate del cartismo, sì bene attraverso l'azione legale e metodica dei sindacati di mestiere, le Trade Unions, che dal 1851 in poi cominciarono a raggruppare insieme in una sola grande organizzazione di carattere nazionale tutte le unioni locali di appartenenti a uno stesso mestiere, e che nel 1860 tentarono di coordinare entro una sola direttiva la loro azione, mediante la costituzione d'una giunta formata dai segretarî generali delle grandi organizzazioni. Il movimento si mantenne da prima nel puro campo economico e corporativo, mirando soltanto a ottenere aumento di salarî e miglioramento di condizioni di lavoro, ma presto dovette sboccare nell'azione politica per la necessità d'ottenere dal governo e dal parlamento il riconoscimento dell'esistenza legale dei sindacati e provvidenze legislative tutela dei diritti degli operai, che erano troppo alla mercé e al beneplacito dei padroni.

L'opportunità per il passaggio dall'azione puramente economica all'azione politica fu offerta da una ripresa della campagna per lo sviluppo ulteriore della riforma elettorale del 1832, campagna di cui erano assertori molti elementi in vista del partito liberale, cominciando da Russell e da Gladstone e che invece era ostacolata, oltre che dalla massa dei conservatori, dalla recisa avversione di Palmerston. La scomparsa di questo nel 1866 lasciò però la via sgombra ai novatori liberali, che poterono farsi forti anche dell'acquistato appoggio delle organizzazioni operaie, le quali vedevano nella conquista del voto politico il mezzo per far trionfare le proprie rivendicazioni. Questo atteggiamento delle masse lavoratrici si rivelò in modo impressionante quando, presentato per impulso di Gladstone subito dopo la morte di Palmerston un progetto di riforma elettorale, questo venne bocciato dalla maggioranza, sicché il governo passò dai liberali ai conservatori, guidati da lord Derby e da un nuovo leader al quale erano riserbate grandi fortune, Beniamino Disraeli. Al mutamento politico seguì un vasto movimento operaio in tutta l'Inghilteria, promosso dai capi delle Trade Unions a favore della riforma: a Londra si giunse a tentativi di sommossa contro il ministero consenatore.

Anche questa volta la via d'uscita fu trovata in un gesto simile a quelli che avevano costituito la gloria di Roberto Peel: il tempestivo mutamento di concezione e d'indirizzo di una parte della maggioranza conservatrice. Fu Disraeli che ebbe il merito del gesto, del resto in stretta coerenza con l'atteggiamento di difensore dei diritti del popolo da lui tenuto sia nella vita politica, sia nell'attività di romanziere. Sotto la sua influenza fu preparato e fatto approvare un progetto di legge che andava anche oltre il progetto di Gladstone nelle vie della riforma, procedendo a una nuova razionale ripartizione di collegi elettorali, e all'abbassamento del censo a un livello tale da rendere possibile il conseguimento del diritto di voto anche agli strati più progrediti della massa operaia. Per effetto della riforma gli elettori salirono a 2 milioni e mezzo, e furono immesse nella vita politica forze nuove che salivano dal basso dando loro modo di farsi valere senza ricorrere all'azione violenta e rivoluzionaria. Con il sistema delle riforme tempestivamente attuate la vita politica dell'Inghilterra continuava a procedere nelle vie regolari e feconde dell'evoluzionismo. Anche nel campo religioso una trasformazione importante si stava determinando e per vie ben diverse da quelle dei secoli XVI e XVII: la rifioritura di un movimento cattolico, rivelata da conversioni clamorose come quella del pastore Newman e suscitatrice di modificazioni importanti anche nel seno della Chiesa ufficiale anglicana.

In contrasto con questo evoluzionismo caratterizzante la vita britannica stava però la ripresa, con intensità e violenza più che mai grandi, delle agitazioni irlandesi, dopo il periodo di ristagno susseguito alla carestia del 1845-46 e al flusso migratorio in America; ripresa d'una intensità e d'una violenza impressionanti, con azione di società segrete e con attentati, uno dei quali, il tentativo di far saltare una prigione a Londra, commosse e preoccupò tutta l'Inghilterra proprio nello stesso anno della riforma elettorale (1867). Il problema irlandese tornava al primo piano.

Durante questa fase ascensionale della sua prosperità e della sua potenza l'Inghilterra aveva saputo assolvere un compito di prima linea nella grande politica internazionale, dove si presentarono l'un dopo l'altro i formidabili problemi sollevati dall'espansionismo russo nella penisola balcanica, dal movimento unitario italiano e dal movimento unitario germanico, e ciò mentre anche premevano i problemi coloniali soprattutto in Asia. Qui la politica britannica si trovò contemporaneamente di fronte alla necessità di sviluppare la penetrazione in Estremo Oriente, iniziata nel 1840-42 con la guerra dell'oppio e col trattato di Nanchino, e all'altra anche più grave necessità di consolidare il dominio indiano scosso e minacciante crollo nel 1857, in seguito alla terribile insurrezione dei sepoys. L'energia dei difensori dell'India, il pronto accorrere di truppe dalla madrepatria e soprattutto la possibilità e l'abilità di sfruttare i fortissimi attriti e odî tra le varie razze e popolazioni indiane applicando la politica del divide et impera, permisero di localizzare la rivolta nella valle del Gange, e di soffocarla nel breve spazio di poco più di un anno (1858). A ciò seguì, conclusione inevitabile e preparata fin dal Bill del 1784, il definitivo spossessamento della Compagnia delle Indie dai suoi diritti di governo e la trasformazione dell'India in colonia della corona (i novembre 1858).

Strettamente connessa con l'impresa indiana si presenta la guerra, in collaborazione con la Francia, contro la Cina nel 1858-1860, guerra che, attraverso le paci di T'ien-tsin e di Pechino, impose alla Cina l'apertura di nuovi porti e l'accettazione di stabili rappresentanze diplomatiche estere, basi per ulteriore penetrazione economica e politica.

Questi grandi successi coloniali seguirono a breve distanza l'altro ottenuto nella politica internazionale col rintuzzamento dell'ultimo tentativo compiuto dallo zar Nicola I di attaccare e di smembrare l'Impero turco, per aprire alla Russia le vie del Mediterraneo (1853-1855). In questo campo la politica inglese riprese con logica e tenacia inflessibili le direttive antirusse già segnate nella prima metà del sec. XIX. Mancando la diretta collaborazione dell'Austria, la cui politica era imbarazzata dalle preoccupazioni italiane e germaniche e dall'opportunità di non sfidare apertamente la Russia, riuscì all'Inghilterra di ottenere la collaborazione di Napoleone III, desideroso di trovare nella questione d'Oriente la via per una politica di prestigio e d'influenza, che consolidasse l'Impero da poco ricostituito. Aspra fu la guerra, e in certi momenti, sotto le mura di Sebastopoli, micidiale e pericolosa, ma coronata alla fine dalla vittoria e dai risultati del Congresso di Parigi (1856) che riconsolidando l'Impero ottomano, allontanando la Russia dal basso Danubio e dai Principati, disarmandola nel Mar Nero e sbarrandole più che mai gli Stretti, costituì per la politica britannica un clamoroso trionfo. La Russia, umiliata e ricacciata fuori della penisola balcanica, fu spinta a cercare compensi in Asia, avanzando nell'Estremo Oriente con l'occupazione della Provincia Marittima e la fondazione di Vladivostok (1850), proprio mentre anche l'Inghilterra, con l'impresa contro la Cina, si assicurava in Estremo Oriente nuove vie d'espansione. L'antagonismo anglo-russo aveva da ciò un ulteriore aggravamento.

Ma dalla penisola balcanica l'attenzione dell'Inghilterra doveva ben presto spostarsi verso la penisola italiana, dove Napoleone III cercava di profittare delle opportunità offerte dalle ambizioni dei Savoia e dal movimento nazionale antiaustriaco per sviluppare d'accordo col Piemonte una politica mirante a dare alla Francia i confini naturali delle Alpi e a scalzare dall'Italia la dominazione austriaca a vantaggio dell'influenza francese (accordi di Plombières, luglio 1858). Siffatta politica, che avrebbe significato un aumento di potenza francese nel Mediterraneo, e che per di più, in quanto antiaustriaca, era favorita dalla Russia riavvicinatasi dopo il 1856 alla Francia, non poteva essere accetta all'Inghilterra, che vedeva sempre nell'Austria la possibile collaboratrice continentale in senso antifrancese e in senso antirusso. Di qui lo sforzo britannico per favorire l'Austria e impedire lo scoppio della guerra del 1859, attraversando il piano di Napoleone III e di Cavour, sforzo che la precipitazione dell'Austria alla fine d'aprile 1859 rese vano. Ma la politica inglese ebbe la sua rivincita dai giorni di Villafranca in poi, da quando cioè il movimento italiano prese lo sviluppo che oltrepassava e frantumava i piani federalistici napoleonici tendendo alla formazione d'un grande stato unitario. Per la saggezza degli uomini di stato reggenti in quel tempo il governo, Russell e Palmerston, si comprese subito come la formazione di tale stato avrebbe costituito in Mediterraneo non un vassallaggio francese, ma una nuova forza indipendente, capace di fronteggiare eventuali tentativi egemonici della Francia. La politica inglese si volse così a secondare risolutamente lo sviluppo del movimento unitario, favorendo le annessioni dell'Italia centrale l'impresa dei Mille, la spedizione delle Marche e dell'Umbria, dando alla politica di Cavour elementi decisivi di successo. Il pronto riconoscimento inglese del costituito Regno d'Italia nel marzo 1861 fu il suggello di questa accorta e utile evoluzione della politica britannica di fronte al problema italiano dal 1858 in poi, politica che ebbe i suoi ulteriori sviluppi negli altri momenti decisivi del 1866, della questione romana e del 1870.

Appoggio analogo a quello dato al movimento unitario italiano fu dato al movimento unitario germanico promosso dalla Prussia, che l'Inghilterra secondò nella politica del 1866 di fronte all'Austria e soprattutto nella politica del 1870 di fronte alla Francia, considerando il rafforzamento della Prussia verso il Reno il freno efficace alle tendenze ai confini naturali renani e all'assorbimento di una parte almeno del Belgio, rivelatesi nella politica napoleonica.

Al momento della guerra del 1870-71, e della formazione dell'Impero tedesco, la politica inglese più che dalle questioni internazionali era assorbita dalle questioni interne, considerato l'indirizzo impresso all'attività governativa dal partito liberale giunto con Gladstone al potere nel 1868, dopo le elezioni susseguite alla riforma del 1867, e destinato a rimanervi sei anni consecutivi. È tutto un programma di trasformazioni e di migliorie interne che sotto il governo gladstoniano viene posto sul tappeto. Si può affermare che nel primo suo sessennio di governo, Gladstone attuò o per lo meno impostò la soluzione dei principali problemi politici interni, e che nel periodo successivo l'attività riformatrice degli altri governi che si succedettero, sia conservatori, sia liberali, non fece che svilupparsi sulle direttive e verso le soluzioni delineate tra il 1868 e il 1874. L'affermazione vale per la questione della riforma elettorale, che nel 1884 sboccò nella nuova grande riforma, sviluppo e completamento di quelle del 1832 e del 1867, assicurante il suffragio quasi universale; vale per la questione operaia, che ebbe i suoi ulteriori sviluppi con la codificazione della legislazione sociale attuata da Disraeli, e con le sempre maggiori conquiste economiche e politiche delle Trade Unions, fino all'organizzazione delle forze proletarie in un partito politico fondato nel 1903 e destinato a grandi fortune, il Labour Party; vale infine per la questione irlandese, nella quale le iniziative prese da Gladstone nel 1869-70 per togliere la posizione di privilegio che la chiesa anglicana aveva di fronte alla chiesa cattolica in Irlanda e per rendere minori gli abusi del diritto di sfratto pertinente ai proprietarî di fronte agli affittuarî, si svilupparono, dopo il ritorno di Gladstone al potere nel 1880 e anche per effetto dell'abile azione ostruzionistica esplicata in Parlamento da Parnell alla testa del gruppo di deputati irlandesi, fino ai grandi progetti del 1886 per la trasformazione della proprietà terriera e per il Home Rule.

All'assorbimento nei problemi politici interni che caratterizza il governo di Gladstone tra il 1868 e il 1874 si era accompagnato anche lo sviluppo di tendenze e di concezioni che svalutavano l'espansionismo coloniale, considerando le colonie fatalmente destinate a staccarsi dalla madrepatria, e propendevano per una politica di quiete e di raccoglimento in base al trinomio: pace, economie, riforme. Ma siffatto movimento, detto della piccola Inghilterra, non tardò a provocare una reazione a base nazionalista-imperialista del genere di quella che a mezzo il sec. XVIII era sorta contro il pacifismo e il riformismo di Walpole. Ciò tanto più di fronte al fatto che in contrasto con la politica di raccoglimento dei piccoli englandisti, cominciavano a delinearsi dal 1870 in poi sul continente europeo grandi forze espansionistiche, quali la russa tendente alla ripresa dell'imperialismo balcanico e asiatico in nome del panslavismo, e la germanica turgida di energie e di ambizioni dopo la fondazione dell'Impero. L'immobilità e l'assorbimento nei problemi interni, lo straniamento dalla grande politica internazionale, sembrarono allora, a un numero sempre maggiore d'Inglesi, sinonimi di decadenza e di deviazione dalle grandi tradizioni britanniche. Gl'ideali imperialistici ripresero tutto il loro splendore e la loro forza d'attrazione, tanto più che a rappresentarli si levava di fronte al Gladstone, col prestigio di una personalità veramente straordinaria, Beniamino Disraeli, agitante un programma dinamico in cui l'elevamento delle condizioni del popolo si conciliava con l'azione per conservare, anzi per aumentare l'Impero. Le elezioni del 1874 diedero a Disraeli, al suo partito, al suo programma una maggioranza strepitosa che assicurò al leader conservatore la direzione ininterrotta del governo per un periodo uguale a quello dell'abbattuto rivale. Il sessennio di Disraeli fu denso di grandi fatti in politica estera, come quello di Gladstone lo era stato in politica interna. Clamorosi e fecondi di risultati importantissimi furono i gesti del nuovo premier nel campo coloniale: in Asia la proclamazione dell'India a Impero per dare alla regina Vittoria in Asia un titolo pari a quello dello zar (1876), l'azione vittoriosa nell'Afghānistān (1879) sboccata poi nel protettorato britannico; in Africa, la guerra contro gli Zulù, l'estensione dei possessi meridionali, e l'accaparramento della maggioranza delle azioni del Canale di Suez, primo passo sulla via che doveva portare l'Inghilterra al dominio nella valle del Nilo (v. britannico, impero).

A questo dinamismo nel campo coloniale corrispose la politica energica e feconda esplicata nel problema balcanico per paralizzare il successo russo della pace di Santo Stefano e aumentare l'influenza inglese in quel Mediterraneo orientale che l'apertura del Canale di Suez (1869) aveva più che mai reso importante per l'Inghilterra. Così, agendo d'accordo con l'Austria e col fiancheggiamento della Germania, l'Inghilterra preparava il grave scacco russo al Congresso di Berlino (giugno-luglio 1878), e atteggiandosi ancora una volta a salvatrice della Turchia contro le cupidigie russe aumentava la propria influenza a Costantinopoli e si assicurava con Cipro un rafforzamento nel Mediterraneo. "Vi abbiamo riportato la pace con onore" poteva annunciare Disraeli all'immensa folla accorsa ad acclamarlo al ritorno da Berlino. I nuovi impulsi espansionistici che vennero così impressi da Disraeli alla politica britannica non s'arrestarono con la caduta di lui, proprio come la caduta di Gladstone nel 1874 non aveva arrestato gli sviluppi delle impostate riforme. Gladstone, tornato al potere nel 1880 per rimanervi quasi un altro sessennio, se riprese l'attività delle riforme interne soprattutto con la riforma elettorale del 1884 e con i progetti per l'Irlanda, continuò in politica estera e coloniale le direttive disraeliane d'antagonismo con la Russia nei Balcani e in Asia, arrivando nel 1884 sino all'orlo di una guerra, e di ulteriore espansione con le imprese nell'Africa occidentale e meridionale e soprattutto con l'insediamento in Egitto (1882) e con l'occupazione della Birmania (1885); imprese, queste ultime due, che vennero a creare vicino al forte attrito anglo-russo, un non meno forte attrito anglo-francese, donde il risoluto fiancheggiamento britannico alla Triplice Alleanza sorta nel 1882 per fronteggiare Francia e Russia. Allo stesso modo Disraeli nel suo sessennio di Governo, pur promovendo vigorosamente la politica estera e coloniale, non aveva trascurato le riforme interne che erano state la bandiera del liberalismo gladstoniano,. e aveva fatto compiere grandi progressi alla legislazione sociale. Conservatorismo e liberalismo alternandosi al potere imprimevano così alla politica interna ed estera direttive diverse, ma in ultima analisi armonizzantisi per la maggior gloria e fortuna dell'Inghilterra. Questo ritmo quasi meccanico di alternative dei grandi partiti storici al potere cominciò però a essere profondamente turbato nel 1886, dalla scissione scoppiata nelle forze liberali per opera d'un nuovo capo di grande forza e attività, Joe Chamberlain, elevatosi a poco a poco a fianco del Gladstone, e venuto poi in urto irreparabile col vecchio glorioso leader. Due furono i punti fondamentali del dissidio di Chamberlain col liberalismo storico impersonato dal Gladstone: il progetto per il Home rule dell'Irlanda e il regime doganale. Circa l'Irlanda Chamberlain si rivelò risolutamente contrario a ogni autonomia e favorevole al mantenimento dell'unione; circa il regime doganale si fece sostenitore d'una concezione in netta antitesi col liberismo che aveva trionfato nel 1846 e che il partito liberale considerava suo vanto. Chamberlain, diventando con ciò l'esponente di quegl'industriali soprattutto metallurgici che erano sempre più preoccupati della concorrenza americana e tedesca, sostenne la necessità d'una unione doganale tra Inghilterra e colonie, protetta contro le importazioni straniere da un sistema di tariffe elevate, e costituente nel suo insieme un colossale organismo economico unico. La Lega per la riforma della tariffa doganale da lui fondata per la propaganda della sua tesi, divenne così, a quarant'anni di distanza, l'antitesi della Lega di Manchester di cobdeniana memoria. Il movimento capeggiato dal Chamberlain se non trionfò nel campo economico, ebbe una profonda ripercussione nel campo politico, determinando sulla questione dell'autonomia irlandese il distacco d'una forte ala di liberali da Gladstone e l'accostamento d'essa ai conservatori in una coalizione unionista che rovesciò Gladstone nel 1886 impedendogli d'attuare il Home rule, e paralizzò poi anche lo sforzo finale che il vecchio lottatore tentò nel 1892, quando un fugace ritorno di fortune elettorali riportò ancora per tre anni i liberali al potere. Tranne la parentesi 1892-95 in cui i liberali tornarono al potere, prima con Gladstone, che si ritirò dopo che la Camera dei lord ebbe fatto naufragare il progetto di Home rule a stento approvato ai Comuni da una maggioranza liberale-irlandese, e poi con lord Rosebery, la coalizione conservatrice-unionista fu al governo dal 1886 per un ventennio fino alla nuova travolgente riscossa liberale del 1906.

Fu un ventennio di decisiva importanza per l'evoluzione dell'Inghilterra, in quanto in politica interna fu caratterizzato dallo sviluppo del nuovo partito laburista e in politica estera dall'esaurimento degli antagonismi storici con la Francia e la Russia e dall'inizio del nuovo antagonismo con la Germania, mentre sotto l'impulso potente di Joe Chamberlain, che fu la figura politica più rappresentativa della nuova situazione, l'Impero britannico fu portato a nuovi vastissimi aumenti. In questo campo infatti la coalizione conservatrice-unionista, che continuava la tendenza di Disraeli, poté fra l'altro contare al proprio attivo in Asia l'aumento dell'influenza in Estremo Oriente con l'insediamento a Wei-hai-wei e con l'alleanza col Giappone, e in Africa l'occupazione dell'alta valle del Nilo (1898), la formazione di nuove grandi colonie nella zona interna del sud, sull'Oceano Indiano e sul Golfo di Guinea, e l'assorbimento, sia pure attraverso una guerra iniqua e crudele (1899-1902), delle repubbliche boere, così da portare assai vicino al compimento il superbo sogno di Cecil Rhodes della serie ininterrotta di possessi britannici dal Capo al Cairo. La grandiosa opera di conquista si valorizzava poi nel progetto di Chamberlain della nuova organizzazione dell'Impero, in cui i grandi Dominions e le colonie della corona venissero a costituire un tutto economicamente e politicamente legato alla madrepatria. A questo imperialismo coloniale, espressione dello sviluppo delle grandi forze economiche e produttive britanniche, sembrava contrapporsi la contemporanea formazione del nuovo partito politico laburista, che, pure, era anch'esso espressione di tale sviluppo. Il laburismo sorse da un duplice impulso: quello dell'aumento sempre più forte delle Trade Unions, che erano riuscite a inquadrare tutte le forze operaie, e quello della necessità d'una difesa metodica e bene organizzata degl'interessi della classe operaia, che verso la fine del sec. XIX, governando la coalizione conservatrice unionista, si sentì minacciata da una nuova offensiva padronale. Sorse così il partito operaio autonomo, col quale le Trade Unions mirarono a far sostenere e a difendere i proprî interessi in Parlamento. Apparve anche in questo partito, che pur sorgeva dal movimento proletario, il carattere evoluzionista-riformatore contrassegnante tutta la politica inglese. Infatti fin dalla fondazione, nel 1903, la tattica stabilita dalla maggioranza dei dirigenti mirò non alle esplosioni rivoluzionarie, ma all'azione regolare in parlamento per premere sull'attività legislativa in senso favorevole agli operai. Ciò, del resto, si armonizzava con la forma particolare di socialismo propugnata dalla Fabian Society, che voleva applicare al movimento sociale non già i concetti della violenta lotta di classe, ma un metodo opportunista e temporeggiatore (di qui il nome, desunto dal ricordo classico di Fabius Cunctator) per modificare lo spirito della borghesia impregnandolo d'idee socialiste moderate.

Intanto si delineava la profonda evoluzione della politica estera. La coalizione unionista aveva preso il potere al momento in cui nei Balcani e in Asia la tensione anglo-russa e in Africa quella anglo-francese erano assai vive e stavano accentuandosi, il che si verificò dopo la formazione dell'alleanza franco-russa (1893). Per contro, in quel momento erano eccellenti i rapporti fra l'Inghilterra e la Germania, le cui ambizioni navali e coloniali non apparivano ancora preoccupanti per l'Inghilterra e che sotto la guida di Bismarck tendeva piuttosto a una politica di raccoglimento e di pace. In siffatta situazione la direttiva inglese era di cordiale adesione al sistema triplicista, che l'Inghilterra fiancheggiò nel 1887 con un trattato mediterraneo anglo-italo-austriaco, e di amicizia non solo con l'Italia e l'Austria, ma anche con la Germania con la quale venne stretto nel 1890 un trattato sanzionante lo scambio tra Helgoland e Zanzibar e regolante le questioni africane. Ma verso la fine del secolo, sopravvennero gli elementi di turbamento a tale situazione con la politica irrequieta e talvolta provocante di Guglielmo II, accompagnantesi all'enorme e minaccioso sviluppo economico e demografico della Germania, e con la formazione della grande flotta tedesca, strumento di un'espansione marinara e coloniale, che, aggiungendosi alla supremazia continentale innegabilmente esercitata dalla Germania, costituiva per l'Inghilterra il pericolo d'una situazione che richiamava i tempi di Luigi XIV e di Napoleone. Di qui il mutamento di rapporti anglogermanici, dopo un supremo sforzo di riassestamento, tentato dai conservatori inglesi nel 1899-900 al momento della guerra anglo-boera e d'un viaggio di Guglielmo II a Londra. Tale mutamento divenne pericoloso quando, in contrapposizione e in certo senso in conseguenza di esso, si delinearono i movimenti di ravvicinamento anglo-francese e anglo-russo, il primo iniziatosi dopo la crisi di Fashoda con l'accordo africano del 1899, e il secondo dopo che la Russia, battuta dal Giappone (1904-05), rinunziò all'espansionismo asiatico; il che accadde nel tempo stesso che anche nell'Oriente mediterraneo veniva meno o si attenuava la tradizionale rivalità anglo-russa, e ciò per il fatto che nell'Impero ottomano si faceva ogni giorno più forte a danno dell'Inghilterra e della Russia l'influenza della Germania (v. anche guerra mondiale).

Il primo trentennio del sec. XX. - Sotto la spinta di questi elementi si prepara e si concreta la nuova situazione internazionale dei primi anni del sec. XX: l'intesa anglo-francese del 1904, l'intesa anglo-russa del 1907, inquadrate in una serie di accordi mediterranei che involgono anche l'Italia e la Spagna e che s'imperniano sul trinomio Egitto-Libia-Marocco, trovando caratteristica espressione nella conferenza del 1906 ad Algesiras, dove l'Inghilterra si trovò a spalleggiare la tesi francese a fianco della Russia, dell'Italia e della Spagna, mentre la Germania aveva con sé soltanto l'Austria. La formazione della nuova situazione avvenne mentre si chiudeva il lungo e gloriosissimo regno di Vittoria, che si spense nel 1901 carica d'anni e di prestigio e che ebbe a successore il figlio Edoardo VII, rivelatosi subito zelantissimo ed efficacissimo sostenitore e animatore della nuova politica, definita dai Tedeschi politica di accerchiamento della Germania.

Col tramonto del regno di Vittoria si avviò anche all'esaurimento l'attività di governo della coalizione conservatrice-unionista, che perdette, con la scomparsa di Chamberlain dalla politica attiva, il proprio uomo più forte e più rappresentativo e che la guerra contro i Boeri aveva messo in gravi difficoltà, dando buon giuoco alla propaganda contraria sviluppata specialmente tra la media borghesia e le masse operaie dai liberali e dai laburisti. Le elezioni generali del 1906 portarono agli unionisti il colpo di grazia, assicurando una grande maggioranza ai liberali fiancheggiati da forti gruppi di radicali e di laburisti. Il governo che prese il potere in seguito a tale spostamento di maggioranza, risentì del carattere progressista-radicale del verdetto elettorale, perché in esso, sotto la guida del vecchio leader liberale Campbell-Bannerman, presto scomparso e sostituito da Asquith, entrarono radicali segnalatisi nell'opposizione alla guerra boera, come Lloyd George, e antichi socialisti come John Burns, già operaio minatore. Salivano così al governo gli esponenti della media borghesia e del popolo, il che naturalmente si rifletté sul carattere del programma del nuovo ministero improntato alle riforme più radicali nel campo sociale e in quello politico. Così mentre la politica estera guidata da Edward Grey continuava e compieva l'evoluzione già iniziata con gli unionisti, rinsaldando i legami con la Francia e la Russia, i problemi della politica interna tornavano in primo piano con le riforme sociali, i cui fondi dovevano essere trovati mediante un nuovo sistema d'imposizioni a carico delle classi ricche escogitato da Lloyd George; con la riforma della costituzione, diretta a indebolire l'autorità della Camera dei lord; e con la soluzione della questione d'Irlanda ripresa secondo i concetti di Gladstone. Seguirono dal 1908 al 1914 anni di lotte politiche intense, che ricordarono quelli nei quali era stata attuata la prima riforma elettorale. Il rigetto da parte della Camera dei lord, nel 1908, del piano finanziario ideato da Lloyd George, portò la lotta nel campo costituzionale, perché il governo rispose alla sfida presentando il progetto che toglieva ai lord la possibilità di respingere leggi finanziarie votate ai Comuni e restringeva, di fronte alle altre leggi, le facoltà dei lord a un voto sospensivo per non più di due anni. Il progetto, che costituiva la più profonda innovazione nel campo della costituzione inglese dal 1688 in poi e che veniva in sostanza a concentrare tutto il potere politico nella Camera dei comuni, divenne legge di stato dopo un'altra grande battaglia elettorale svoltasi nel 1910 e dopo che le velleità di resistenza dei lord furono fiaccate con la stessa minaccia già agitata nel 1832: quella d'una grande infornata di lord liberali, che avrebbe spostato la maggioranza e la fisionomia della Camera alta. In tutta questa lotta conchiusasi nell'agosto 1911, il governo era stato sostenuto dal gruppo dei deputati irlandesi, il che implicava per conseguenza l'assolvimento delle vecchie promesse di Gladstone all'Irlanda con l'attuazione del Home rule. Anche questa riforma, pure attraverso nuovi contrasti politici, fu attuata con la legge votata nella primavera del 1914, che assicurava all'Irlanda un proprio parlamento e un proprio governo. Ma provocò una resistenza e una reazione fortissima da parte degli unionisti, che trovarono buon giuoco nell'atteggiamento risolutamente contrario al Home rule assunto dagli abitanti della contea irlandese dell'Ulster, pronti a prendere le armi pur d'impedire l'applicazione della legge. La questione d' Irlanda era così di nuovo elemento d'asprissime lotte, e pareva presentare la minaccia d'una guerra civile. Intanto le classi operaie, insoddisfatte delle leggi e delle riforme sociali conseguite, premute dall'enorme rincaro della vita non sufficientemente fronteggiato dagli aumenti di salario, si agitavano con una serie di scioperi minacciosi.

In questa situazione interna agitata era l'Inghilterra, mentre maturava la formidabile conflagrazione mondiale, alle cui basi stava indubbiamente il conflitto anglo-germanico, fattosi man mano sempre più aspro, perché lo sviluppo economico e demografico e la politica continentale, navale, coloniale della Germania rendevano ogni giorno più grandi le ansie e i timori dell'Inghilterra, mentre la politica d'intese e d'alleanze con cui l'Inghilterra stessa era riuscita ad avvolgere la Germania, nell'intento di renderla meno pericolosa, facendo temere ai Tedeschi i pericoli dell'accerchiamento e dello schiacciamento, non poteva che alimentare in essi il proposito di prevenire tali pericoli con un attacco improvviso alla coalizione avversaria. Nel 1912-13 avvenne il supremo tentativo per eliminare o almeno attutire le cause d'attrito, mediante la missione del ministro Haldane a Berlino con le proposte che miravano a trovare basi d'accordo nei problemi navali, coloniali, continentali. Il fallimento del tentativo provocò da parte dell'Inghilterra l'ulteriore rafforzamento degli accordi politici con la Francia, mentre la Germania provvedeva a nuovi aumenti navali e militari. In tale situazione la prima scintilla doveva determinare lo scoppio. Quando il 4 agosto l'Inghilterra si schierò contro la Germania, traendo il motivo dall'invasione tedesca nel Belgio, venne in sostanza a riprendere, come agl'inizî del sec. XVIII contro Luigi XIV e agl'inizî del sec. XIX contro Napoleone, l'atteggiamento di lotta contro il triplice pericolo d'una egemonia continentale, navale, coloniale minacciante l'Impero britannico.

L'enome gravità della lotta impegnata fece passare in seconda linea i problemi interni, politici e sociali, così ardenti nella primavera del 1914, determinando la possibilità d'un governo di coalizione liberale-unionista che simboleggiò l'unione nazionale e che sotto la guida di Lloyd George condusse il paese alla vittoria, attuando fra l'altro il sistema della coscrizione obbligatoria e galvanizzando tutte le forze vive dell'Impero. (v. guerra mondiale).

E come nel 1713-14 e nel 1814-15, nel 1918-19 la vittoria assicurò all'Inghilterra, insieme con lo schiacciamento del pericolo di egemonia continentale e di concorrenza navale, enormi aumenti coloniali rafforzanti il primato britannico sui mari e nei continenti extraeuropei. Ma l'immane sforzo sopportato, insieme con le ripercussioni degli sconvolgimenti politici e sociali determinati dalla guerra in tutto il mondo, ha creato in Inghilterra, come dappertutto, un periodo postbellico agitato da problemi e da difficoltà formidabili. All'interno il governo di coalizione liberale-unionista presieduto da Lloyd George si avviò allo sfacelo per il venir meno della situazione che lo aveva determinato, pur dopo essere riuscito a risolvere, oltre al problema della pace, il problema del completamento delle varie riforme elettorali, con l'introduzione del suffragio universale integrato dal voto alle donne, e il problema dell'Irlanda, che ebbe nel 1921 il suo assetto con la costituzione separante l'Ulster dal resto dell'isola organizzata sotto un proprio governo. Caduto nell'autunno Lloyd George e saliti al potere i conservatori con una forte maggioranza, i tradizionali partiti sembrarono riprendere le vecchie fisionomie e distinzioni. In realtà s'è ripetuto e si ripete per essi ciò che era accaduto al partito whig e al partito tory nel periodo successivo alla grande lotta antinapoleonica: un travaglio di trasformazione riflettente nel campo politico il travaglio delle forze sociali, e provocante scissioni e spostamenti dall'un campo all'altro, mentre a turbare e a modificare sempre più il tradizionale giuoco d'alternative dei due partiti storici veniva in prima linea il nuovo partito laburista, che riuscì ad afferrare il potere nell'autunno 1923, ritornandovi con forze anche maggiori nel 1929. Anche con lo sviluppo del nuovo partito non spariva tuttavia dalla vita politica inglese il fenomeno della possibilità di coalizioni formantisi in determinati momenti e su determinati problemi, e raggruppanti forze di diversa e talvolta contraria origine; l'esempio clamoroso si è avuto nell'autunno 1931 con la formazione d'un governo di leaders laburisti, conservatori e liberali per fronteggiare i paurosi problemi della disoccupazione e del crollo della sterlina, e presentatosi alle elezioni con una lista concordata che ha tolto la maggioranza ai laburisti.

Nella politica estera l'Inghilterra si è trovata di fronte ai problemi dei nuovi rapporti postbellici con le potenze continentali ed extraeuropee e con le colonie. Nel primo campo è apparsa evidente la direttiva tendente a frenare le possibili velleità egemoniche della Francia è ad agevolare il risollevamento economico e politico della Germania, nel che agiva la tradizionale politica britannica d'equilibrio. Tale direttiva si è integrata con l'azione britannica diretta al consolidamento della Società delle Nazioni e al rafforzamento della pace, attraverso le varie conferenze internazionali dal 1920 in poi. Intanto si delineava un distacco dall'alleanza giapponese e un ravvicinamento agli Stati Uniti, sviluppatosi dalla conferenza di Washington del 1922 fino a quella di Londra del 1930, e riflettente il peso sempre maggiore che sull'indirizzo della politica estera britannica vanno acquistando i grandi Dominions, alcuni dei quali sono preoccupati del pericolo giallo. L'importanza dei Dominions nella situazione postbellica si è rivelata anche con la nuova organizzazione dell'Impero, uscita dalle conferenze imperiali del 1923 e del 1929, dopo le quali la madrepatria nei confronti delle colonie appare non più il centro dominatore, ma il centro coordinatore a cui i Dominions sono legati da un vincolo volontario (v. britannico, impero). La nube grave della politica coloniale britannica del dopoguerra è costituita dall'India, dove gli urti fra le varie razze e i movimenti sempre più forti per l'indipendenza contribuiscono a creare una situazione difficilissima, la cui soluzione sta mettendo a dura prova una politica coloniale affinata da secoli d'esperienza e di successo.

All'interno, le difficoltà sono create soprattutto dal problema della disoccupazione e della crisi delle industrie e dei commerci. L'abbandono della parità aurea e un ritorno a sistemi protezionisti hanno costituito dall'estate 1931 in poi i mezzi di lotta contro tali difficoltà. Un secolo fa, dopo le guerre napoleoniche, la vecchia Inghilterra ha attraversato un periodo di asprezze simile in molti punti all'attuale. Allora le vie d'uscita dalla crisi furono trovate nel provvidenziale enorme sviluppo dello sfruttamento delle miniere carbonifere e nelle possibilità migratorie verso le colonie, che si stavano sviluppando. L'enorme slancio produttivo e commerciale seguito alla rivoluzione industriale, e l'espansione e il fecondamento delle colonie portarono l'Inghilterra fuori della crisi, e la fecero diventare il centro animatore del grande Impero britannico.

Oggi, il superamento della formidabile crisi postbellica si presenta ancora incerto e travagliato. Le vicende e le decisioni della conferenza imperiale di Ottawa (luglio-agosto 1932), dove tra metropoli e Dominions è stato concordato e instaurato un sistema di tariffe preferenziali, fanno pensare che la via d'uscita sia da cercare ancora verso le colonie cresciute ormai a organismi di grandi stati autonomi, nel senso di stringerle alla metropoli in un grande sforzo di solidarietà politica ed economica.

Bibl.: Esistono due ottime guide: per il Medioevo, di Ch. Gross, Sources and Literature of English History, 2ª ed., Londra 1915 (fino al 1485); per il periodo degli Stuart, di G. Davies, Bibl. of British hist., Stuart Period, 1603-1714, Oxford 1928. V. anche H. Hall, Select bibliography .... of English mediaeval economic hist., Londra 1914; J. B. Williams, A guide to the printed materials for English social and economic hist., voll. 2, New York 1926; Manvaring, Bibl. of British naval hist., 1930. Inoltre le bibl. inserite nei voll. della Cambridge Medieval e Modern Hist., sui singoli capitoli. Utili le rassegne periodiche di Ch. Bémont nella Revue Historique; e, ancora, la Introduction to the study of English hist. di S. R. Gardiner e J. B. Mullinger, Londra 1894.

Per gli archivî e manoscritti, cfr. A repertory of British archives, I, England, di H. Hall, Londra 1920; R. A. Roberts, The reports of the historical MSS commission, Londra 1920; J. P. Gilson, A student's guide to the manuscripts of the British Musem, Londra 1920.

Tra le riviste principalissima la English Historical Review, Londra 1886 segg. (cfr. il General Index of articles, notes, documents and selected reviews of books in the English Historical Review, dal 1886 al 1915, voll. 2, Londra 1906 e 1916). V. anche le Transactions of Royal Historical Society (fino al 1931 si è giunti al 14° vol. della 5ª serie).

Tra le fonti, fondamentali le raccolte iniziatesi sotto la direzione del Master of the Rolls. Per il Medioevo: Chronicles and memorials of Great Britain and Ireland during the middle ages (o Rerum britannicarum medii aevi scriptores), Londra 1858 segg., 106 voll., il corrispondente inglese alla raccolta muratoriana. Fra le pubbl. documentarie, fondamentali quelle degli archivî della cancelleria, specialmente i Calendars of the Patent rolls (1232 al 1458), voll. 50, 1891-1916, e i Calendars of the Close rolls (1272-1368, 1377-1419), vol.. 33, 1892-1929. V. inoltre i Rotuli litterarum patentium 1201-16, ed. T. D. Hardy (Record Commission), Londra 1835; i Rotuli litterarum clausarum, ed Hardy, voll. 2, Londra 1833-44; i Patent rolls, 1216-32, voll. 2 (Rolls ser.) e Close rolls, 1227-1272, voll. 9 (Rolls ser.), 1902-31. Da queste e altre fonti simili è stata estratta la grande raccolta di scritti ufficiali in T. Rymer, Foedera, voll. 20, Londra 1704-1735. I principali archivî dello Scacchiere, i Pipe rolls, che esistono senza interruzione dal regno di Enrico II, si trovano nella pubblicazione della Pipe roll society; per gli atti del Parlamento, v. Rotuli parliamentorum, voll. 6, con uno d'indice, Londra 1832. V. anche Statutes of the realm, I, II, Londra 1810-16.

Per l'età moderna, la massima raccolta, promossa dal Master of Rolls e dal Record Office è costituita dai Calendars of State Papers, in varie sezioni e concernenti la politica estera e quella interna (in tutto sinora circa 300 voll.). Tra le più importanti serie sono: Calendar for state papers and manuscripts relating to English affairs existing in the archives and collections of Venice and in other libraries of northern Italy, a cura di H. F. Brown e A.-B. Hind, voll. 33, Londra 1864-1932 (dal 1502 al 1661); Calendar of Letters and State Papers, Spanish, a cura di S. A. Bergenroth, P. de Gayangos, e A. S. Hume, voll. 11, Londra 1862 segg. (fino al 1553), l'uno e l'altro di grande importanza. Inoltre Calendar of Letters and Papers, Henry VIII, a cura di J. S. Brewer, J. Gairdner, R. H. Brodie, voll. 21, 1862-1910; Calendar of State Papers, Foreign Series of the reign of Elizabeth, voll. 17, e la serie Calendar of State Papers, Domestic (1 vol. per Elisabetta fino al 1571; 5 per Giacomo I; 23 per Carlo I; 13 dal 1649 al 1660; 22 dal 1660 al 1681; 7 dal 1689 al 1696; 2 dal 1702 al 1704), Londra 1857-1924. Inoltre gli Acts of the Privy council, voll. 50, 1890 segg. Per il periodo più recente: L. e E. Hertslet, Complete collection, Treaties and Convention between Great Britain and Foreign Powers relating to Commerce, ecc., voll. 20, Londra 1827-1895; British and Foreign State Papers, Londra 1870 segg.; i British official documents on the origins of the war (dal 1898 al 1914), Londra 1926 segg. (finora 7 voll., sino ad Agadir). Per la storia parlamentare nei secoli XVI-XVIII, Journal of the House of Lords, 1578 segg.; Journals of the House of Commons, 1547 segg.; e dal 1802 in poi i Parliamentary Debates, ed. da Cobbett e Hansard (finora 7 serie, in 926 volumi).

Per la storia ecclesiastica: D. Wilkins, Concilia Magnae Britanniae, voll. 4, Londra 1737; A. W. Haddan e W. Stubbs, Councils and ecclesiastical documents relating to Great Britain and Ireland, voll. 3, 1869-78. Quest'ultima opera, incominciata come revisione di quella del Wilkins, l'accresce, correggendo nello stesso tempo i testi già stampati con apparato critico molto migliore. Alcune cronache biografiche e opere miscellanee intorno alle diocesi settentrionali in Historians of the church of York and its archbishops, ed. J. Raine, voll. 3 (Rolls ser.), Londra 1879-94; il vol. III comprende una serie utilissima di documenti ecclesiastici, accresciuta dalla collezione fatta per il medesimo editore, Letters from northern registers (Rolls ser.), Londra 1873.

Opere di carattere generale: J. R. Green, History of the English people, voll. 4, Londra 1877-80; J. M. Lappenberg, M. Brosch e R. Pauli, Geschichte von England, voll. 10, Amburgo 1834-98; J. Lingard, History of England, voll. 10, n. ed., Londra 1912; H. T. Buckle, History of civilization in England, voll. 3, 8ª ed., Londra 1902; A. D. Innes, A history of England and the British Empire, volumi 4, Londra 1913-15; A History of England, ed. da C. Oman (voll. 7, Londra 1905 segg., a cura di varî collaboratori, Oman, Davis, ecc.); The Political History of England, ed. da W. Hunt e R. L. Poole (voll. 12, Londra 1905 segg.; 2ª ed., 1920-1929, a cura di varî collaboratori, Hodgkin, Adams, Tout, Oman, Fisher, ecc). Per una prima informazione, le opere più succinte di H. Prentout, Histoire d'Angleterre, voll. 2, Parigi 1920-1922; A. Filon, Histoire d'Angleterre, Parigi 1923; F. York Powell-T. F. Tout, Hist. of England, Oxford 1925 (ed. francese, Parigi 1932). Ottimo per la comprensione dello svolgimento della storia inglese: A. F. Pollard, Storia d'Inghilterra, trad. ital., Bari 1928; e per la storia moderna i celebri saggi di J. Seeley, The growth of British Policy, voll. 2, Londra 1895; The espansion of England, Londra 1883 (trad. it., L'espansionismo inglese, Bari 1925). V. anche G. Slater, The Growth of modern England, Londra 1932; la Cambridge Medieval Hist. (finora voll. 7, Cambridge 1924 segg.) e la Cambridge Modern Hist. (voll. 12 con uno d'indice, Cambridge 1907 segg.).

Per la storia delle istituzioni, fondamentale sempre W. Stubbs, The constitutional history of England, Oxford 1874-78, voll. 3 (completata da C. Petit-Dutaillis, Studies supplementary to Stubbs' constitutional history, trad. ingl. di W. E. Rhodes e altri, voll. 3, Manchester 1908, che riassumono lo sviluppo delle istituzioni particolari con metodo sommario e molto utile); F. Pollock e F. W. Maitland, The history of English law before the reign of Edward I, voll. 2, 2ª ed., Cambridge 1898, considerano le istituzioni pubbliche con conoscenza profonda; T. F. Tout, Chapters in the administrative history of England, voll. 4, Manchester 1920-30, esamina l'origine e lo svolgimento di alcune magistrature e uffizî di stato finora non studiati. Inoltre, F. W. Maitland, The constitutional history of England, Cambridge 1908; W. S. Holdsworth, A history of English law, voll. 9, Londra 1922-27. Per la storia del parlamento, v. soprattutto A. F. Pollard, The evolution of Parliament, Londra 1920. Di grande valore per lo sviluppo del consiglio privato, J. F. Baldwins, The King's council in England during the Middle Ages, Londra 1913. Cfr. anche The parliamentary history of England, ed. da W. Cobbett, vol. 36, Londra 1806-1820; E. Boutmy, Développement de la constitution et de la Société en Angleterre, Parigi 1887; L. O. Pike, Constitutional History of House of Lords, Londra 1894; C. Witte, History of English parliamentary privilege, Columbus (U. S.), 1921.

Per la storia economica, cfr. soprattutto W. J. Ashley, Introd. to English Economic Hist. and Theory, voll. 2, Londra 1888-1893; W. Cunningham, The Growth of English Industry and Commerce during the Early and Middle Ages, 5ª ed., Cambridge 1910; id., Growth of English Industry and Commerce in Midern Times, 3ª ed., Cambridge 1903; id., Progress of Capitalism in England, Cambridge 1916; E. Lipson, An introd. to the economic hist. of England, Londra 1915; L. Brentano, Eine Gesch. der wirtschaftlichen Entwicklung Englands, voll. 4, Jena 1927-29. V. anche E. Martin, Hist. financière et économ. de l'Angleterre, voll. 2, Parigi 1912.

E per questioni singole: E. Baines, History of the Cotton Manufacture in Great-Britain, Londra 1835; L. Dechesne, L'évolution économique et sociale de l'industrie de la laine en Angleterre, Parigi 1900; F. Lohmann, Die staatliche Regelung der englischen Wollindustrie vom 15. bis zum 18. Jahrh., Lipsia 1900; G. Danills, The Early English Cotton Industry, Londra 1920; H. Hamilton, The industrial revolution in Scotland, Oxford-Londra 1932; L. Levi, History of British Commerce, 2ª ed., Londra 1872-80; G. Schanz, Englische Handelspolitik gegen Ende des Mittelalters, Lipsia 1881; J. Mazzei, Politica economica internazionale prima di A. Smith, Milano 1924; A. Andréadès, Histoire de la Banque d'Angleterre, I, Parigi 1904; T. Rogers, History of Agriculturel and Prices in England, Oxford 1882; H. Levy, Entstehung und Rückgang des landwirtsch. Grossbetriebes in England, Berlino 1904; E. C. Gonner, Commons Land and Inclosure, Londra 1912; Bradley, English Inclosures, 1918; W. H. Curtler, Short History of English Agriculture. The Enclosure and redistribution of our Land, Londra 1921; H. Peake, The English Village, the origin and decay of its community, Londra 1922; H. Seé, L'évolution du régime agraire en Angleterre depuis le moyen âge, in Revue de Synthèse Historique, XXXVIII (1924).

Per la storia ecclesiastica: A hist. of the Engl. Church, ed. W. Hunt e W. R. W. Stephens, voll. 9, Londra 1899 (di varî collaboratori). Il miglior lavoro sulle istituzioni storiche della Chiesa inglese è quello di F. Makover, Die Verfassung d. Kirche v. England, Berlino 1894. I saggi di F. W. Maitland, Roman canon law in the Church of England, Cambridge 1898, sono di gran valore per le relazioni fra Inghilterra e papato nel Medioevo: v. anche Z. N. Brooke, The English Church and the Papacy from the conquest to the reign of John, Cambridge 1931.

Per i singoli periodi: Periodo anglosassone: v. anglosassoni.

Periodo normanno-angioino (1066-1216): oltre a J. R. Green, The conquest of England, voll. 2, Londra 1897, e a J. H. Ramsay, The foundations of England, voll. 2, Londra 1898, che valgono anche per il periodo anglosassone, v.: H. Böhmer, Kirche u. Staat in England u. in d. Normandie im XI. u. XII. Jahrhundert, Lipsia 1899; E. A. Freeman, History of the Norman conquest, voll. 6, Oxford 1873 segg.; id., The Reign of William Rufus and the accession of Henry I, voll. 2, Oxford 1882; C. H. Haskins, Norman institutions, Cambridge (Mass.), 1918; W. S. McKechnie, Magna Charta, 2ª ed., Glasgow 1914; id., John Lackland, Londra 1912; K. Norgate, England under the Angevin Kings, voll. 2, Londra 1887; F. M. Powicke, The Loss of Normandy, 1189-1204, Manchester 1913; id., Stephen Langton, Oxford 1928; J. H. Ramsay, The Angevin empire, 1154-1216, Londra 1903; O. Rössler, Kaiserin Mathilde u. das Zeitalter d. Anarchie in England, Berlino 1897; J. H. Round, The commune of London, ecc., Westminster 1899; id., Geoffrey de Mandeville, Londra 1892; J. C. H. R. Steenstrupp, Normannerne, voll. 4, Copenaghen 1876-82; F. M. Stenton, The first century of English feudalism, Oxford 1932.

L'interpretazione del Domesday Book, il cui testo venne stampato nel 1780 (con supplementi, voll. 4, e ind.), si trova in parecchi trattati sul sistema feudale e la sua economia: v. F. W. Maitland, D0mesday Book and beyond, Cambridge 1897; J. H. Round, Feudal England, Londra 1895; P. Vinogradoff, English society in the eleventh century, Oxford 1908; id., The growth of the manor, 2ª ed., Londra 1911; id., Villainage in England, Oxford 1892.

Regni di Enrico III, Edoardo I, Edoardo II (1216-1327): C. Bémont, Simon de Montfort, comte de Leicester, Parigi 1884 (nuova ed., trad. inglese, Oxford 1930); J. C. Davies, The baronial opposition to Edward II, Cambridge 1918; E. F. Jacob, Studies in the period of baronial reform and rebellion, 1258-1267, Oxford 1925; J. E. Morris, The Welsh wars of Edward I, Oxford 1901; K. Norgate, The minority of Henry III, Londra 1912; J. H. Ramsay, The dawn of the constitution, Londra 1908; J. H. Ramsay, The genesis of Lancaster, 1307-99, voll. 2, Oxford 1913; T. F. Tout, Edward I, Londra 1893; id., The place of the reign of Edward II in English history, Manchester 1914.

Regni di Edoardo III e Riccardo II (1327-1399): W. Longman, The life and times of Edward III, voll. 2, Londra 1869; C. Oman, The great revolt of 1381, Oxford 1906; A. Réville, Le soulèvement des travailleurs d'Angleterre en 1381 (Soc. de l'Éc. des Chartes, Mém. et doc., II), Parigi 1898; S. Armitage Smith, John of Gaunt, Westminster 1904; H. Wallon, Richard II, voll. 2, Parigi 1864; H. B. Workman, John Wyclif, a study of the English Mediaeval Church, voll. 2, Oxford 1926; J. Gairdner, Lollardy and the reformation in England, voll. 4, 1908-1913. V. anche cent'anni, guerra dei; lollardi.

Secolo XV: C. L. Kingsford, Prejudice and promise in fifteenth century England, Oxford 1925; J. H. Ramsay, Lancaster and York, 1399-1485, voll. 2, Oxford 1892; C. L. Scofield, The life and reign of Edward IV, voll. 2, Londra 1923; J. H. Wylie, History of England under Henry IV, voll. 4, Londra 1884-98, e The Reign of Henry V, I, II, Cambridge 1914-19.

Età moderna: L. v. Ranke, Englische Geschichte vornehmlich im 17. Jahrh., voll. 9, 3ª ed., Lisia 1877-79. Per il periodo dei Tudors, cfr. J. A. Froude, History of England from the fall of Wolsey to the defeat of the Spanish Armada, voll. 12, n. ed., Londra 1893; W. Busch, England unter den Tudors, Stoccarda 1892; C. H. Williams, England under the Early Tudors, Londra 1925; A. F. Pollard, The Reign of Henry VII from Comtemporary Sources, Londra 1914; J. S. Brewer, The Reign of Henry VIII, Londra 1884; A. F. Pollard, England under Protector Somerset, Londra 1900; A. Zimmermann, Marie die Katholische, Friburgo 1890; E. Marcks, Königin Elisabeth von England und ihre Zeit, 2ª ed., Bielefeld 1926; M. A. S. Hume, The Year after the Armada, Londra 1896; E. Percy, The Privy Council under the Tudors, Oxford 1907; J. Gairdner, History of English Church in the Sixteenth Century, Londra 1900 id., The English Church from Accession of Henry VIII to death of Mary, Londra 1902; A. O. Meyer, England und die katholische Kirche unter Elisabeth, 1911; J. H. Pollen, History of Catholics under Queen Elizabeth, Londra 1921; G. Constant, La Réforme en Angleterre, Parigi 1930; L. Pullan, History of the Book of Common Prayer, Londra 1900.

Per il periodo degli Stuarts: E. P. Cheyney, Hist. of England, 1588-1603, voll. 2, 1914-26; S. R. Gardiner, Hist. of England from the accession of James I to the outbreak of the Civil War, voll. 10, Londra 1883; id., Hist. of the Great Civil War, voll. 9, Londra 1893; id., Hist. of the Commonwealth and Protectorate, voll. 3, Londra 1894-1901 (nuova ed. 1903 a cura di C. H. Firth, con aggiunte); A. Stern, Gesch. der Revolution in England, 2ª ed., Berlino 1898; F. A. Inderwick, The interregnum (1648-1660), Londra 1891; J. N. Bowmann, The Protestant interest in Cromwell's Foreign relations, Heidelberg 1900; C. H. Firth, The last years of Protectorate, voll. 2, Londra 1909; G. M. Trevelyan, England under the Stuarts, 12ª ed., Londra 1925; M. James, Social problems and policy during the puritain revolution, Londra 1930; T. B. Macaulay, The Hist. of England from the accession of James II, voll. 5, Londra 1849-61; G. P. Gooch, Hist. of English democratic ideas in the seventeenth century, Cambridge 1898; G. G. B. Hertz, English public opinion after the Restauration, Londra 1902; L. Charlonne, L'influence française en Angleterre au XVIIe siècle, Parigi 1906; E. Godfrey, Social Life under the Stuarts, Londra 1904; W. C. Sidney, Social Life in England from the Restoration to the Revolution, Londra 1892; J. Hunt, Religious thought in England from the Reformation to the end of the last Century, Londra 1870; W. Shaw, Hist. of the English Church during the Civil War, Londra 1900; W. H. Hutton, The English Church from the accession of Charles I to the death of Anne (1625-1714), Londra 1903; J. S. Corbett, England in the Mediterranean, 1603-1713, Londra 1889; A. T. Mahan, The influence of Sea Power upon Hist., 1660-1783, Londra 1892; W. F. Lord, England and France in the Mediterranean (1660-1830), Londra 1901; C. Brinkmann, The relations between England and Germany, 1660-1688, in Engl. Hist. Rev., XXIV (1909).

Per il sec. XVIII: W. Michael, Englische Geschichte im 18. Jahrh., voll. 2, 1916-1920; O. Klopp, Der Fall des Hauses Stuart und die Succession des Hauses Hannover, voll. 14, Vienna 1875-1888; E. Stanhope, History of England comprising the reign of Queen Anne until the peace of Utrecht 1701-1713, 4ª ed., in 2 vol., Londra 1872; Stanhope, (lord Muhon), History of England from the peace of Utrecht to the Peace of Versailles (1713-1783), Londra 1853; W. E. Lecky, A history of England in 18th Century, nuova ed., voll. 7, Londra 1892; W. F. Lord, Development of Political Parties during the reign of Queen Anne, Londra 1900; T. M. Blauvelt, Development of Cabinet Government, New York 1902; W. Michael, Die Entstehung der Kabinettsregierung in England, in Zeitschrift für Politik, VI (1913); E. R. Turner, The development of the cabinet 1688-1760, in American Histor. Review, XVIII e XIX (1913); id., The origin of the cabinet council [al 1640], in Engl. Hist. Review, XXXVIII (1923); W. C. Abbott, The origin of English political parties, in Amer. Hist. Rev., XXIV (1914); K. Feiling, A history of the Tory party, 1640-1714, Oxford 1925; E. R. Turner, Parliament and Foreign Affairs, 1603-1670, in Engl. Hist. Rev., XXXIV (1919), W. T. Morgan, English political parties and leaders in the reign of Queen Anne, 1702-1710, New-Haven 1920; A. W. Ward, Great Britain and Hanover, Oxford 1899; id., The Electress Sophia and the Hanoverian succession, Londra 1903; G. L. Bela, British Colonial Policy (1754-65), New York 1907; G. B. Hertz, British Imperialism in the Eighteenth Century, Londra 1908; J. S. Corbett, England in Seven Years' War, Londra 1907; K. Hotblack, The Peace of Paris 1763, Londra 1908; W. Michael, Englands Stellung zur ersten Teilung Polens, Amburgo 1890; F. Salomon, Das politische System des jüngeren Pitt und die zweite Teilung Polens; A. T. Mahan, The influence of sea-power upon the French Revolution and Empire, Londra 1893; C. Auriol, La France, l'Angleterre et Naples, 1803-1806, Parigi 1905; J. Stoughton, Religion in England, 1702-1800, Londra 1878; J. S. Simon, Revival of Religion in England in the Eighteenth Century, Londra 1907; A. Toynbee, Lectures on the industrial revolution of the 18th century in England, Londra 1896; P. Mantoux, La révolution industrielle au XVIIIe siècle, Parigi 1906; L. W. Moffit, England on the eve of the Industrial Revolution, Londra 1925; W. Hewins, English Trade and Finance chiefly in the XVII Century, Londra 1892; P. J. Thomas, Mercantilism and the East-India Trade, Londra 1926; Marks, England und Amerika, 1926.

Secoli XIX e XX: R. Pauli, Geschichte Englands seit den Friedensschlüssen von 1814 u. 1815, voll. 3, Lipsia 1865-75; G. M. Trevelyan, British History in the 19th Century, 4ª ed., Londra 1923; The Cambridge History of British Foreign Policy 1783-1919, ed. da A. W. Ward e G. P. Gooch, voll. 3, Cambridge 1922-23; H. Martineau, History of Thirty Year's Peace (1816-1846), Londra 1877; W. N. Molesworth, History of England, 1830-1874, Londra 1876; S. Walpole, History of England from the conclusion of the Great War, Londra 1980; M. Dorman, History of the British Empire in the 19th Century, Londra 1902-04; H. Paul, History of Modern England (1845-1895), voll. 5, Londra 1904-1906; G. C. Brodrick-J. K. Fotheringham, Political History of England, Londra 1906; E. Halévy, Histoire du peuple anglais au XIXe siècle, voll. 5, Parigi 1912-31; J. A. Marriott England since Waterloo, Londra 1913; L. Cahen, L'Angleterre au XIXe siécle; son évolution politique, Parigi 1924; D. Varé, Storia d'Inghilterra (1837-1885), Firenze 1927; C. S. B. Buckland, Metternich and the British Government, 1807-1813, Londra 1932; C. K. Webster, The Foreign policy of George Canning, Londra 1925; H. Temperley, The Foreign policy of Canning, Londra 1925; W. H. Dowson, Richard Cobden and Foreign Policy of Castlereagh, Londra 1925; E. J. Stapleton, The Foreign policy of George Canning, Londra 1925; W. H. Dowson, Richard Cobden and Foreign policy, Londra 1926; Donald M. Greer, L'Angleterre, la France et la Révolution de 1848, Parigi 1925; B. Guttmann, England im Zeitalter des bürgerl. Reform, Stoccarda 1923; J. L. Tildsey, Die Entstehung und die ökonomische Grundsätze der Chartistenbewegung, Jena 1898; F. Dolléans, Le chartisme, Parigi 1912; J. West, A history of Trade Unionism, Londra 1894; S. e B. Webb, History of Trade Unionism, Londra 1894; C. Kent, The English Radicals, Londra 1899; W. Harris, History of the Radical Party in Parliament, Londra 1885; C. B. R. Kent, The English Radicals, Londra 1899; R. Hobbing, Richard Cobden und das Manchestertum, Berlino 1924; C. Duguid, The story of the Stock Exchange, Londra 1901; W. J. Amherst, History of Catholic Emancipation, Londra 1886; E. Overton, The English Church in the XIXth Century, Londra 1910; A. Todd, On parliamentary governement in England, 2ª ed.,Londra 1892; G. L. Dickinson, The Development of Parliament in the Nineteenth Century, Londra 1895; E. Redlich, Recht und Technik des englischen Parlamentarismus, Berlino 1905; A. V. Dicey, Relations Law and Public Opinion in England in the Nineteenth Century, Londra 1905; S. Walpole, The History of Twenty-five Years (1856-1870), Londra 1904; W. Clayden, England under Beaconsfield (1873-1880), Londra 1880; id., England under the Coalition, 1885-1902, Londra 1892; H. Paul, A History of modern England, Londra 1906; J. MacCarthy, History of our own Times, voll. 12, 1890-1907; The reign of Queen Victoria, a survey of 50 years of prosperity, Londra 1888, pubblic. collettiva che illustra i varî aspetti della st. inglese dal 1837 al 1887; H. Whates, Third Salisbury Administration (1895-1899), Londra 1901; T. A. Brassey, Problems of Empire, Londra 1904; Cok, A short history of the British working class movement, I, 1926; H. R. Gretton, History of the English people, 1880-1922, voll. 3, Londra 1912-24; E. A. Pratt, Trade Unionism and British Industry, Londra 1904; J. R. Commons, Trade Unionism and Labour Problems, New York 1905; G. Howell, Labour movement, 2ª ed., Londra 1905; J. Bardoux, L'Angleterre radicale, Parigi 1913 (st. del periodo 1905-13); G. Guyot, L'Angleterre, sa politique intérieure, Parigi 1917; A. Siegfried, L'Angleterre d'aujourd'hui, Parigi 1924; G. De Ruggero, L'impero britannico dopo la guerra, Firenze 1921; R. Casali, I dominions britannici e le conferenze imperiali, Padova 1932; E. Demangeon, L'Empire britannique, Parigi 1923; E. Guyot, Le socialisme et l'évolution de l'Angleterre contemporaine, Parigi 1928; R. Boverat, Le Socialisme Municipal en Angleterre, Parigi 1907; P. Arminjon, L'administration locale en Angleterre, Parigi 1895; P. Bertolini, Il governo locale inglese e le sue relazioni con la vita nazionale, Torino 1899; S. e B. Webb, English local government, Londra 1906; A. L. Lowell, The government of England, voll. 2, New York 1908; P. W. L. Ashley, Local and central, government in England, Londra 1906; A. W. Benn, History of English Rationalism in the Nineteenth Century, Londra 1907; J. H. Overton, The English Church in the 19th Century, Londra 1894; W. Ward, The Oxford Movement, Londra 1889; id., The Catholic Revival, Londra 1893; J. S. Mill, England and Ireland, Londra 1868; C. Simond, Parnell et l'Irlande, Parigi 1891; T. W. Russel, Ireland and the Empire, Londra 1901. E per la politica estera: Rouire, La rivalité anglo-russe au XIXe siècle en Asie, Parigi 1908; H. David, Englands europäische Politik im 19. Jahrh., Lipsia 1924; F. Meinecke, Geschichte des deutsch-englisch Bündnisproblems, Monaco 1927; W. Hermann, Dreibund, Zweihund, England 1880-94, 1929. Per la parte dell'Inghilterra nella guerra mondiale, v. guerra mondiale. Cfr. anche britannico, impero; irlanda; india; scozia.

Lingua.

Tutte le lingue dell'Europa moderna sono d'origine mista; ma di tutte, l'inglese è la più eterogenea. Gli elementi d'origine non locale sono così ingenti, che si è perfino discusso se la lingua inglese attuale sia, in un qualche senso storico, veramente inglese, giacché, nei dizionarî, le parole d'origine latina sono più numerose di quelle d'ogni altra provenienza. A questa constatazione si può opporre che è d'origine prettamente inglese proprio quella parte della lingua che è più largamente usata, sia in letteratura, sia nel parlare quotidiano. Questa parte, cioè, deriva dalla lingua parlata dai popoli inglesi (Angli, Sassoni, Iuti) che si stanziarono nella Britannia nei secoli V e VI. Quando si tenga conto della frequenza dell'uso l'elemento locale ha, senza confronto, la maggiore importanza. Inoltre, la struttura grammaticale è quasi interamente formata su basi locali, e le forme d'espressione più naturali, specialmente nell'uso parlato, appartengono essenzialmente a questa tradizione. Tuttavia, gl'influssi stranieri hanno prodotto nello spirito e nella forma della lingua profondi mutamenti, in parte a vantaggio e in parte a svantaggio. Le fonti straniere hanno ampliato il vocabolario, al punto che l'inglese è giunto a possedere un numero di parole maggiore di quello d'ogni altra lingua e che si ritiene un po' superiore a 300.000. Ma sebbene le sue risorse siano state in tal modo arricchite, la lingua è stata anche ingombrata da parole che sono vive solo a metà, e che si sono male naturalizzate anche per l'uso letterario. Gli elementi presi a prestito da fonti straniere hanno reso l'inglese più vario e flessibile e hanno accresciuto le risorse dello scrittore artista; ma si è avuto anche il risultato non desiderabile d'impoverire la tradizione locale. Per conseguenza, le classi meno colte che si sono attenute a quella tradizione, posseggono risorse linguistiche inferiori a quelle che le medesime classi hanno in altri paesi d'Europa. Più accentuata che in altre nazioni europee è quindi la differenza tra linguaggio delle persone colte e delle incolte, tra lingua parlata e lingua letteraria. Seguiremo ora il processo storico che ha condotto a questi risultati.

Periodo anglosassone (450-1100). - La lingua che gli Angli portarono nella Britannia era uno dei dialetti nord-occidentali del ramo germanico dell'ovest. Suo più prossimo parente tra i più antichi linguaggi germanici è l'antico frisone e, subito dopo, l'antico sassone. All'epoca dell'emigrazione in Britannia, le tribù angliche e quelle frisoni, come anche il gruppo sassone che rimase sul continente, dovevano parlare sostanzialmente il medesimo dialetto (anglo-frisone). È certo che le tribù passate in Britannia usavano un linguaggio quasi completamente uniforme; ma dopo lo stanziamento in Inghilterra si svilupparono differenze dialettali i cui confini coincisero, all'ingrosso, con quelli dei diversi regni. Nei piu antichi documenti scritti, che risalgono ai secoli VII, VIII e IX, si possono discernere quattro dialetti principali che probabilmente erano già distinti fin dal sec. VI. Nella zona degli Angli si trovano i due dialetti della Northumbria e della Mercia; nel sud-est, il dialetto del regno iuto del Kent, e, con esso strettamente imparentato, il sassone orientale; e nel sud-ovest, il dialetto sassone occidentale del Wessex. Durante la diversificazione, le differenze principali sorsero nella struttura fonetica della lingua, perché la diversificazione non agì in maniera identica in tutte le parti del paese. Tra i mutamenti che alterarono profondamente il linguaggio anteriormente all'epoca dei primi documenti scritti, furono: lo "sdoppiamento" delle vocali dinanzi a certe consonanti, fenomeno più accentuato nel sassone occidentale e nel Kent che non in altri dialetti (p. es., alla parola che in sassone occidentale e in dialetto del Kent era ceald = cold, nella Northumbria e nella Mercia corrisponde cald, che è la forma da cui deriva il moderno cold); la metafonia (Umlaut) prodotta da i o j che normalmente scomparvero dopo aver modificato la vocale precedente. Così la metafonia di i in un primitivo *nēadi produsse il sassone occidentale nīed, mentre negli altri dialetti si ebbe nēd, che è la forma da cui deriva il moderno need. Il mutamento di vocale nella parola moderna mouse, col plurale mice, e in pochi altri nomi, è ugualmente dovuto alla metafonia avvenuta nel sec. VI. I mutamenti fonetici più importanti del periodo anglosassone erano, intorno al 600, già compiuti, e i dialetti che allora si formarono sono tuttora la base delle differenze dialettali che si riscontrano nell'inglese parlato d'oggi.

Nella più antica poesia anglosassone conservataci (composta nei secoli VII e VIII), sono evidenti un vocabolario e una sintassi poetici speciali. Dalla ricchezza ed elaboratezza di questo linguaggio poetico, come anche dalla sua parentela col linguaggio poetico dell'antico sassone e dell'antico norvegese, si può vedere che la poesia anglosassone è frutto d'una tradizione molte volte secolare. È altrettanto evidente, però, che la comune base germanica si sviluppò e maturò in Inghilterra assai rapidamente. Un'opera delle proporzioni e della coscienza artistica del Beowulf non fu né avrebbe potuto esser prodotta al suo tempo (circa 750) da nessun'altra nazione di stirpe germanica. Questo linguaggio poetico degli Anglosassoni è notevole per sonorità, per densità di significati e ricchezza di sinonimi. In un eguale numero di versi, si trova nel Beowulf un vocabolario più ampio che nel Paradiso perduto.

Di questa primitiva poesia ben poco ci è giunto; ma la maggior parte di quel che ce ne rimane sembra fosse composto nel territorio degli Angli: pare che in Northumbria sia esistita una scuola poetica particolarmente brillante. La cultura northumbrica fu annientata nel nono secolo dall'invasione dei Vichinghi, e dopo la spartizione dell'Inghilterra tra il re Alfredo dei Sassoni occidentali e gl'invasori vichinghi, il centro letterario si spostò al Wessex. Gl'impulsi che ravvivarono e svilupparono la cultura, vennero dal Wessex o agirono attraverso di esso, e il sassone occidentale divenne a poco a poco la lingua letteraria e ufficiale dell'Inghilterra. Anche la poesia più antica, sebbene composta soprattutto in dialetti angli, ci è giunta solo in copie dei Sassoni occidentali. Gli altri dialetti sono assai scarsamente rappresentati dai documenti, molti dei quali non hanno interesse letterario, consistendo in gran parte di lettere patenti o di glosse a versioni latine dei Salmi o dei Vangeli.

Tra l'epoca dei primi documenti scritti e la fine del periodo anglosassone si verificarono nella lingua grandi mutamenti; maggiori di quanto la tradizione conservatrice dell'ortografia tra i Sassoni occidentali non lasci senz'altro apparire. Già alla fine del sec. X le inflessioni grammaticali erano attenuate e confuse, e durante il secolo stesso, in Northumbria, i generi grammaticali mostravano già la tendenza a cadere. Diffusissimi erano i mutamenti nella quantità delle vocali: per es., le brevi venivano allungate dinanzi a nd, ld e altri gruppi di consonanti, se non erano seguite da una terza consonante. Così la differenza vocalica tra le parole moderne child e children data da quel tempo. La semplificazione dei dittonghi era ben avanzata e forse in alcuni dialetti già compiuta (cfr. l'anglosassone deop e il mod. deep). Tuttavia questi mutamenti non erano di solito indicati da nessuna modificazione ortografica.

In quel periodo, gl'influssi stranieri ebbero sulla lingua scarso effetto. All'infuori dei nomi di luoghi, di monti e di fiumi, i conquistatori inglesi adottarono poche parole dei Britanni. Molto più che da questi, gl'Inglesi subirono (in seguito alle missioni mandate da Iona in Northumbria nel sec. VII) influssi dagl'Irlandesi, dai quali derivarono anche lo stile della scrittura usata nei testi in volgare (il latino veniva più spesso copiato in scrittura continentale) e alcune poche aggiunte al vocabolario ecclesiastico e letterario: per es., cursian (moderno curse). La conversione al cristianesimo e l'organizzazione della Chiesa introdussero naturalmente numerosi elementi latini, soprattutto ecclesiastici e letterarî: vocaboli come munuc (moderno monk), crēda (mod. creed), cleric (mod. clerk). Tuttavia, anche prima dell'arrivo dei missionarî, s'era infiltrato nell'inglese un certo numero di parole latine riconoscibili attraverso le modificazioni di suono, proprie dell'inglese antico, da esse subite. Tali sono, per es., cealc (con "sdoppiamento", dal latino calcem, ingl. mod. chalk); ynce (con metafonia della i; latino uncia, ingl. mod. inch). Dagli stanziamenti vichinghi nel nord e nell'est dell'Inghilterra, avvenuti soprattutto nel periodo 867-950, e dall'influsso danese alla corte di Canuto e dei suoi figli nel sec. XI, derivò l'apparizione nell'anglosassone di circa un centinaio di parole scandinave. Gli effetti linguistici di tali stanziamenti furono però più appariscenti dopo il 1200. Le parole scandinave introdotte durante il periodo anglosassone sono quasi tutte connesse con la guerra, col grado sociale e col governo. Per es., lagu (mod. law), husting (mod. husting); la parola indigena eorl significava "guerriero", ma per influsso del vocabolo scandinavo . jarl fu condotta a denotare un grado di nobiltà (ingl. mod. earl). Nel secolo XI apparve anche l'influsso francese, specie durante il regno d'Edoardo il Confessore, che chiamò in Inghilterra molti Normanni. Prūd (ingl. mod. proud) e prçdo (mod. pride) furono tra le prime parole francesi introdotte in Inghilterra.

Tuttavia, al confronto dei successivi periodi di lingua inglese, l'anglosassone aveva un vocabolario fondamentalmente omogeneo. In generale, esso fu anche periodo di compiuta flessione e possedette un più o meno rigido sistema di generi grammaticali. Inoltre, com'è naturale in un periodo flessivo, il ritmo caratteristico della lingua ru grave, misurato e sonoro.

Periodo medievale (11oo-1474). - Per questo periodo si parla comunemente di medio-inglese. Molti storici considerano vero inizio del periodo medio-inglese la conquista normanna del 1066, nella quale essi vedono l'origine del forte influsso francese, il quale costituì uno dei fattori più importanti negli sviluppi caratteristici del periodo stesso. Tuttavia, la conquista normanna non ebbe sulla lingua effetto immediato e i mutamenti prodotti dall'influsso francese non furono così grandi o improvvisi come la forma scritta della lingua farebbe credere. I centri culturali si trovarono ben presto in mani francesi e intorno al 1225 l'ortografia dei documenti fu non meno francese che inglese. Questa modificazione dell'ortografia tradizionale offrì anche opportunità per una rappresentazione fonetica della pronunzia effettiva, più fedele di quella prevalsa nel tardo periodo anglosassone. Un notevole tentativo di adattare alla rappresentazione fonetica l'ortografia inglese tradizionale fu compiuto dal canonico agostiniano Orm: nell'Ormulum (circa 1220) egli raddoppiò sistematicamente le consonanti dopo le vocali brevi (salvo per le vocali in sillaba aperta) e distinse quattro specie di suoni della g. La sua grafia, insolitamente sistematica, è una delle più sicure fonti d'informazione sulla lingua di quel tempo. Effetto sulla struttura organica dell'inglese ebbe, anteriormente al francese, l'influsso degli stanziamenti scandinavi. Per quasi un secolo e mezzo dall'inizio di tali stanziamenti non è visibile nessuna importante mescolanza di scandinavo e d'inglese: l'Ormulum è il primo testo inglese che contiene molte parole scandinave. Tuttavia è probabile che la trasfusione di vocabolario fosse compiuta soprattutto a partire dal 1050. La stretta parentela tra l'antico scandinavo e l'inglese rendeva un'intima mescolanza tra di esse più facile che non tra l'inglese e il francese: ciò spiega come furono prese a prestito non solo parole connesse con occupazioni e con la cultura caratteristica, ma anche parole di valore piuttosto grammaticale che intellettuale, come pogh (inglese moderno though), pay (ingl. mod. they) e la desinenza del participio presente in -ande (ora disusata). Le parole scandinave erano entrate nell'uso specie nel nord e nell'est. La maggior parte di quelle attualmente correnti nell'inglese normale (standard English) vennero dalla regione orientale dei Midlands; altre, sconosciute al linguaggio tipico, vivono tuttora in dialetti settentrionali, come addle per earn, ettle per intend.

Uno dei primi effetti della conquista normanna fu che l'antico vocabolario poetico andò perduto, poiché la nobiltà anglosassone, che ne era la principale depositaria, fu quasi completamente distrutta dai conquistatori. Le tradizioni letterarie locali sopravvissero molto intensamente nell'ovest: è nel Brut di Layamon, composto nel Worcestershire (circa 1200) che si trova meglio conservato l'antico vocabolario poetico. L'ovest fu anche la regione in cui ebbe luogo il "rinnovamento" allitterativo del sec. XIV, quando il vocabolario poetico anglosassone era, in parte, ancora usato: in Sir Gawain and the Green Knight (Lancashire meridionale, circa 1375), p. es., si trovano le parole burn, freke, renk, segge come sinonimi per i nobili cavalieri delle corti. Queste parole, mai usate in prosa, risalgono a una tradizione poetica ininterrotta di circa dieci secoli. Salvo che nei poemi allitterativi, l'eloquio specificamente poetico del medio-inglese non fu molto esteso: in poemi come The Owl and the Nightingale (circa 1210) e The Lay of Havelock (circa 1275) la lingua è quasi identica al parlare quotidiano.

Il bisogno di parole francesi fu più fortemente sentito quando il francese parlato in Inghilterra cominciò a decadere e venne sostituito dall'inglese; per molte occupazioni e situazioni che erano state in mani francesi dal tempo della conquista, la lingua inglese aveva risorse insufficienti e, di solito, i vocaboli francesi connessi con quei fatti vennero liberamente adottati.

Il numero delle parole francesi adottate prima del 1250 non era forte: l'Ormulum in tutti i suoi 20.000 versi non contiene più d'una dozzina di tali parole; l'Ancrene Wisse (circa 1230) in quasi 220 pagine reca a un dipresso 225 parole francesi, meno di un sesto del numero totale dei vocaboli. Queste parole sono soprattutto culturali e tecniche, relative a occupazioni che erano state tenute dai conquistatori francesi o nelle quali i Francesi erano riusciti preminenti, come il governo, la legislazione, la guerra, l'armatura, la caccia, la cucina. Di questi vocaboli, la maggior parte furono adottati nella forma che era corrente nel parlare anglofrancese; relativamente pochi vennero presi nella forma continentale.

È poco probabile che il francese abbia contribuito alla rapida decadenza che in questo periodo si manifesta apertamente nelle inflessioni inglesi. Il rapido mutamento fonetico indebolì molte desinenze in -e, le quali, dopo aver in tal modo perduto una loro distinta esistenza, caddero. Il tradizionale sistema d'inflessioni derivato dall'anglosassone è ancora bene rappresentato in The Owl and the Nightingale, dove si mantengono intatti anche i generi grammaticali; ma nel sec. XIV la desinenza -es del nominativo e dell'accusativo plurali maschili si trova estesa a tutti gli altri casi plurali della maggior parte dei nomi. Il genere grammaticale era stato sostituito dal genere naturale fin dal sec. XIII e le desinenze dei nomi originariamente maschili erano state estese alla maggior parte dei nomi d'altri generi. Nel sec. XV la perdita della -e finale non accentata ridusse ancor più la declinazione dei nomi alla sua forma attuale. Nei pronomi, le forme del dativo soppiantarono di solito quelle dell'accusativo: il dativo him, per es., aveva sostituito l'accusativo hine fin dal principio del sec. XIV. Ma l'accusativo sopravvive nei dialetti moderni del SO. con la forma un [-an]. Le inflessioni dei verbi furono invece assai meglio conservate, specie nel sud.

Altri mutamenti fonetici modificarono notevolmente la forma della lingua e accentuarono le differenze tra i dialetti. Fin dal principio del sec. XII gli antichi dittonghi anglosassoni furono ridotti a suoni semplici, eccetto che nel sud-est. Circa nel 1200 la frequente vocale ā fu arrotondata in ï??? [= ???:], salvo che nel nord: eosì l'anglosassone rād divenne allora rōd (moderno road); nel nord lo sviluppo fu invece raid che, nel sec. XIX, fu anche introdotto dallo scozzese nell'inglese normale. Nel sec. XIII le vocali brevi in sillabe aperte furono allungate, come in mete, in cui la vocale lunga ha dato il moderno meat che data da quell'epoca. Soprattutto nel sec. XIII si svilupparono nuovi dittonghi, principalmente dalla vocalizzazione della g media (fricativa) che perdette a poco a poco il carattere fricativo e quando fu palatalizzata dal precedere immediato d'una vocale, diede y [= j]; ma quando fu seguita da una vocale con interposizione d'altra consonante, diede w. Così fœgen "contento" ha sviluppo regolare nel medio inglese e nel moderno fain; ma il connesso verbo fagnian fawn.

Per questi mutamenti e per altri di carattere più locale, le antiche differenze dialettali, sorte già nei tempi anglosassoni, furono accentuate e moltiplicate. È chiaro che le divisioni dialettali anglosassoni rimangono la base dei gruppi dialettali del medio-inglese. Dall'antico northumbrico derivarono i dialetti della Scozia e dell'Inghilterra settentrionale; in questi ultimi, le forme orientali e occidentali differiscono tra loro notevolmente. Il dialetto sassone orientale e quello del Kent sono rappresentati da un distinto gruppo sudorientale, come il sassone occidentale è rappresentato da un gruppo sud-occidentale. Una netta divergenza tra i dialetti dei Midlands orientali e occidentali cominciò probabilmente nel periodo anglosassone e fu in gran parte conseguenza della spartizione della Mercia tra Alfredo e i Danesi. Durante il periodo del medio-inglese, nessuno di questi dialetti ebbe un quasiasi titolo per essere considerato forma tipica dell'inglese, salvo che nella regione in cui era parlato; e similmente nessuno d'essi ebbe speciale preminenza letteraria, se si eccettua la regione occidentale che fu la più feconda di poesia lirica e principale centro della tradizione allitterativa. Alla fine del sec. XIV e durante il XV il dialetto di Londra cominciò ad assumere nuova e speciale dignità come lingua della corte reale e di tutta la società elegante e colta che aveva contatti con la corte o con Londra. Chaucer, Gower e Lydgate, i tre più famosi poeti del loro tempo, scrissero nell'inglese di Londra e spesso anche i dotti delle università di Oxford e Cambridge, qualunque fosse la loro origine, impararono a scrivere nel medesimo tipo di inglese. Così Wycliffe, dottore a Oxford e nativo del Yorkshire, scrisse un inglese di tipo essenzialmente londinese e niente affatto settentrionale. L'inglese di Londra era così in sé stesso d'origine mista e rappresentava in parte le parlate delle regioni circostanti; ma nel sec. XIV questa base meridionale fu gravemente sovraccaricata da un elemento dei Midlands orientali. Questo elemento si rafforzò fino a divenire la base reale del dialetto, di cui le forme meridionali furono variazioni meno usate. È da questa parlata londinese, in cui prevalse l'elemento dei Midlands orientali, che è derivato l'inglese tipico modemno. Attraverso la tradizione dei Midlands orientali l'elemento inglese autoctono della lingua moderna risale in tal modo fino all'antica forma dell'anglosassone in uso nella Mercia e non al sassone occidentale che pur era la forma tipica dell'anglosassone. Il fatto è tuttora evidente nella forma moderna di molte parole, quali deed, cold, hear, well che foneticamente non potrebbero derivare da forme del sassone occidentale.

Inglese moderno (dal 1474 a oggi). - Conviene assumere, come significativa del passaggio dalla cultura medievale a quella moderna, la data del 1474, quando Caxton impiantò la prima stamperia in Inghilterra. Inoltre la stampa favorì indubbiamente lo svolgersi di processi che produssero caratteristici sviluppi moderni, quali il sorgere e il diffondersi d'una forma tipica dell'inglese e d'una lingua letteraria notevolmente diversa da quella parlata. Fu anche in quell'epoca che apparvero altri mutamenti i quali sono di solito considerati come segni del principio dell'inglese moderno.

Il meglio definito di questi mutamenti fu quello fonetico assai importante, noto come "il grande spostamento delle vocali". Per esso ogni vocale lunga fu elevata approssimativameote alla posizione della vocale immediatamente più alta, mentre le vocali lunghe già alte, [i:] e [u:], divennero dittonghi, rispettivamente [e1] e [ou]. Fu questa la prima divergenza delle yocali inglesi dalla pronunzia "continentale": il sistema vocalico di Chaucer, p. es., era stato, all'ingrosso, il medesimo che nell'italiano moderno. La direzione del mutamento che avvenne, è dimostrata dalle seguenti serie: vocali della serie anteriore: [α:] > [ε:] > [e:] > [i:] > [e1]; vocali della serie posteriore: [???:] > [o:] > [u:] > [ou]. Tra le vocali anteriori, [α:] fu elevata a [ε:] e l'originale [ε:] (scritto e, ea) fu elevata nel medesimo tempo a [e:], e così per tutta la serie. Lo spostamento delle vocali cominciò nella prima metà del sec. XV e fu compiuto solo quasi alla fine del secolo stesso. Nel sec. XVII un secondo e minore mutamento nelle vocali lunghe, portò la maggior parte d'esse alla pronunzia odierna. Le vocali brevi subirono, nel periodo moderno, mutamenti minori: [a] fu elevato ad [ae] alla fine del sec. XVI, [u] fu abbassato e non arrotondato a [Λ] nel sec. XVII. È anche da notare l'influsso perturbatore della r sulla vocale che lo precede: tale vocale precedente prese la tendenza a divenire più bassa e più rilassata; si sviluppò di solito innanzi alla r una vocale di passaggio a e alla fine del sec. XVII la r stessa cadde quando si trovò come finale o innanzi ad altra consonante. Così il medioinglese there (ðe: r) è attualmente [ðe: ə], mentre l'e: del medio-inglese normalmente dà le forme moderne [i:] oppure [ij].

In tutta la storia della fonetica inglese, le vocali si sono mostrate più instabili delle consonanti. Molti Inglesi moderni sentono che le consonanti d'una parola costituiscono un'intelaiatura fissa, mentre qualche variazione nei suoni delle vocali è inevitabile in regioni e ambienti sociali diversi. Le consonanti si sono quindi conservate assai meglio. I soli mutamenti che si possano menzionare qui, sono la labializzazione della velare finale gh (= χ) divenuta, nel sec. XVI, f, come in rough (pron. rΛf), mentre gh palatale (ç) cadde nel sec. XV, come in light, high (pron. attuale: la1t, ha1).

Questi mutamenti sono nella tradizione dell'inglese normale (standard English) che dapprima fu l'inglese di Londra, ma come lingua della società londinese migliore. Questa connessione sociale si accentuò sempre più, finché l'inglese normale divenne lingua esclusivamente di certe classi sociali, quelle educate, colte, eleganti, indipendentemente da qualsiasi località. Gl'inizî di questo mutamento si possono vedere negli scritti di George Puttenham (The Arte of English Poesie, 1589) il quale consiglia che, come normale, "prenderete il linguaggio consueto della corte e quello di Londra e delle contee che la circondano entro il raggio di 60 miglia"; ma aggiunge: "non dico questo, ma che in ogni contea vi siano gentiluomini e altri che parlano il meridionale bene come noi del Middlesex o del Surrey, ma non il popolo comune d'ogni contea". Attualmente il vernacolo londinese o cockney è lontano dall'inglese tipico quanto ogni altro dialetto. Tra i dialetti che rappresentano le più strette tradizioni locali e lo standard English, esistono molte varietà e molti compromessi. L'inglese settentrionale, anche presso le persone colte, conserva la vocale a in parole come cat, man; vocale che nell'inglese tipico è stata elevata ad [œ] fin dal sec. XVI. La r conserva una vibrazione forte in Scozia e attenuata nell'Inghilterra occidentale, in Irlanda e negli stati settentrionali dell'America, anche in posizioni nelle quali essa cadde del tutto nell'inglese normale alla fine del sec. XVII. Alcuni dialetti locali vanno rapidamente scomparendo, ma l'inglese provinciale s'avvicina allo standard English con straordinaria lentezza.

Di solito, i vari mutamenti fonetici non sono stati accompagnati da corrispondenti mutamenti ortografici: per es., la parola del medio-inglese name è scritta tuttora nella medesima forma, sebbene la -e finale non venga più pronunziata circa dal 1400 e la vocale radicale sia mutata da [α:] in [ε:], poi in [e:] e infine in [e1]. La base dell'ortografia inglese è ancora medievale, sebbene non vi sia più la libertà medievale nell'uso di varianti ortografiche. Tuttavia, agl'inizî dell'inglese moderno tale libertà vigeva ancora; era anzi accresciuta dalla mescolanza e dalla confusione di tradizioni medievali originariamente distinte. Nel sec. XVI l'ortografia venne inoltre confusa dai tentativi dei dotti d'introdurre nelle parole francesi e anche inglesi delle lettere che dovevano indicarne la connessione col latino. In tal modo fu inserita una b nella parola doubt, una s nella parola island per indicare la derivazione latina rispettivamente da dubitum e insula. E tuttavia all'inizio l'inglese moderno aveva principî ortografici proprî: le vocali [e:] e [i:] erano distinte come ea ed ee, distinzione sopravvissuta, ma nella grafia solamente, giacché nel sec. XVII le due vocali confluirono come [i:], e steal e steel sono oggi omofoni. Durante il sec. XVII l'ortografia divenne meno mutevole e al principio del sec. XVIII fu praticamente fissata. Da allora è stata mutata pochissimo.

Sembra essere stata generale l'impressione che il fissarsi dell'ortografia fornisse una norma durevole, capace di guidare nella pronunzia. Samuel Johnson fu il primo a dare espressione definita a quest'idea, quando scrisse nella prefazione al suo dizionario (1775): "Per la pronunzia, la miglior regola generale è di considerare più elegante l'eloquio di coloro che meno deviano dalle parole scritte". Da allora in poi, la parola scritta ha esercitato sulla pronunzia un influsso sempre maggiore. Numerose pronunzie tradizionali sono state eliminate nello standard English e retrocesse al livello di volgarismi: p. es. sovdze (soldier nella forma scritta) è sostituito dalla pronunzia ortografica (soułdjə). Lettere che in epoche trascorse non s'erano pronunziate mai, sono state oggi messe in vita, dopo secoli d'esistenza puramente teorica, come l in fault o h in humour (divenuta d'uso generale solo nella passata generazione). Almeno uno dei mutamenti fonetici si è perduto, e cioè il mutamento della finale [η] in [n]: per l'influsso dell'ortografia, una pronunzia come s1η1n] per singing è antiquata nell'inglese normale e costituisce un'affettazione. Il ripristino di suoni per influsso delle forme scritte non è stato interamente nocivo; ma è difficile ammettere che una così larga interferenza con la tradizione della lingua parlata riesca in generale utile.

I mutamenti grammaticali nel periodo moderno non sono stati numerosi. Tra i più importanti, vi è l'adozione di -(e)s come desinenza della terza persona singolare nel presente indicativo dei verbi, in sostituzione dell'antica forma -(e)th. Nel sec. XVI erano usate entrambe le desinenze: la forma -(e)s cominciò a prevalere durante il sec. XVII. Dal sec. XVIII la forma -(e)th appartiene unicamente al linguaggio poetico ed ecclesiastico. Agl'inizî dell'inglese moderno era frequente la confusione tra il nominativo e l'accusativo dei pronomi personali. Shakespeare scrive: between you and I; shall's to the Capitol?, forme ora considerate come solecismi. L'inglese odierno esita ancora tra it is I e it is me, la seconda forma è più frequente nell'uso parlato. Il tardo medio-inglese e gl'inizî dell'inglese moderno videro anche larghe riforme dei verbi irregolari e numerosi passaggi di verbi dalla coniugazione irregolare a quella regolare. Le forme del soggiuntivo stanno ora diventando antiquate. Nell'inglese moderno il congiuntivo e molti altri modi, tempi e aspetti verbali sono espressi mediante ausiliarî. Il sistema verbale moderno, sebbene morfologicamente semplificato, è tuttavia più complesso dell'antico sistema anglosassone ed esprime con maggiore precisione distinzioni più numerose.

I mutamenti maggiori del periodo moderno sono nel vocabolario. Il numero delle parole usate è stato, secondo una stima approssimativa, triplicato. Le fonti che hanno fornito la maggior parte del materiale nuovo sono il latino e il greco, e fu il Rinascimento che fece affluire le nuove parole dalle lingue classiche. Era ammissibile, specie nel sec. XVI, di usare in inglese qualunque parola latina, semplicemente lasciandone cadere la desinenza o sostituendola con una -e. Agl'inizî del periodo moderno molti scrittori, credendo a una superiorità del latino in fatto di retorica. si illusero d'infondere virtù classiche nel loro stile usando il maggior numero di parole classiche compatibile coi limiti della struttura grammaticale e con l'intelligibilità. L'amore di questo vocabolario latinizzato si vede nell'idealità "aurea" del sec. XV e raggiunge il massimo nel secolo successivo. Numerosi scrittori e critici dell'epoca (per es., Th. Wilson, 1553; G. Puttenham, 1589; Shakespeare in Love's Labours Lost) protestarono contro questa assunzione in blocco di parole strane e pedantesche, spesso chiamate spregiativamente "termini da calamaio"; altri, come A. Gill (1623), il maestro di Milton, andarono anche oltre e dichiararono che lo studio delle lingue classiche stava rovinando l'inglese. Tuttavia, l'amore delle "parole da calamaio" e dello stile fortemente latinizzato non è mai mancato del tutto da quando lo stile "aureo" trovò inizialmente favore. E bisogna riconoscere che il vocabolario classico, nonostante il malo uso, soddisfece in inglese a un profondo e autentico bisogno. Le risorse intellettuali della lingua alla fine del periodo del medio-inglese erano relativamente povere e il rapido sviluppo intellettuale dei secoli successivi sarebbe stato impossibile senza un arricchimento della lingua per i concetti nuovi. Simili arricchimenti non si possono inventare dal nulla, ma possono solo esser presi da qualche fonte viva. L'elemento classico non manca di valore, neppure quando sembra fornire doppioni di parole locali, poiché i nuovi vocaboli quasi sempre esprimono una diversa sfumatura di significato, hanno minori associazioni emotive, ma più dignità e volume di suono. Gli elementi classici arricchirono e variarono le risorse dello scrittore artista, e non sono mancati maestri dello stile inglese, Shakespeare, Milton, Th. Browne, che sapessero far pieno uso del vocabolario classico come di quello originario inglese. Ma bisogna anche ammettere che sono numerosi gli scrittori il cui stile è stato viziato da una latinizzazione superflua e senza misura.

Le fonti di varî progressi culturali del periodo moderno sono di solito rese evidenti dalle parole prese a prestito che con essi si riconnettono. Così landscape, easel, sketch (quest'ultima dall'italiano schizzo) prese a prestito dall'olandese, attestano l'influsso esercitato dall'Olanda nella pittura durante i secoli XVI e XVII. Dall'italiano fu preso un gran numero di termini musicali dal sec. XVII e anche termini d'architettura nei secoli XVI e XVII. Il progresso scientifico degli ultimi due secoli ha aggiunto moltissime parole, in parte ereditate dal latino degli scienziati medievali. La scienza moderna ha ereditato inoltre il metodo medievale di coniare nuove parole da elementi latini e greci per nuove scoperte.

La lingua inglese fuori dell'Inghilterra. - L'inglese è stato poi trapiantato in molti paesi dove sono apparsi sviluppi più o meno indipendenti. Negli Stati Uniti d'America, la divergenza dalle tradizioni dell'Inghilterra è chiaramente percettibile. Come di consueto quando un gruppo linguistico è geograficamente diviso, ogni divisione ha conservato combinazioni diverse di modi arcaici che altre divisioni hanno invece perduto e ognuna ha iniziato sviluppi nuovi. La base originaria dell'inglese di America fu il linguaggio popolare dei Midlands orientali inglesi nel secolo XVII: due sopravvivenze notevoli di tale linguaggio sono le vocali nasalizzate e la conservazione della r indebolita dinnanzi a consonante o quando sia finale di parola; cose che si verificano in Irlanda e nell'Inghilterra occidentale, ma che sono perdute nell'inglese normale (v. stati uniti: Lingue). L'inglese australiano, almeno nella sua forma popolare, presenta affinità col cockney d'Inghilterra. Nel Canada vi è mescolanza di tradizioni americane con tardi elementi dell'Inghilterra e della Scozia; ma l'elemento americano è in prevalenza. Si calcola che, fra tutti i diversi paesi in cui è in uso, l'inglese sia parlato da 165 milioni d'individui. È stato spesso proposto di usar l'inglese come lingua internazionale (v. internazionali, lingue). Un noto riformatore ne ha rifatto l'ortografia, ribattezzandolo Anglic, per renderlo adatto a questo scopo. Ciò indica a sufficienza che cosa dovrebbe soffrire la lingua, se mai dovesse venir adottata come universale.

Bibl.: Opere generali: A. G. Kennedy, A Bibliography of Writings on the English Language (alla fine del 1922), Cambridge (U. S. A.)-New Haven 1927. Brevi storie generali della lingua inglese sono: H. Bradley, The Making of English, Londra 1911; O. Jespersen, Growth and Structure of the English Language, 5ª ed., Lipsia e Oxford 1926; H. C. Wyld, A Short History of English, 3ª ed., Londra 1927. Eccellente, ma tuttora incompleta, K. Luick, Historische Grammatik der englischen Sprache, Lipsia 1914-29 (solo il vol. I). Per la sintassi storica: L. Kellner, Historical Outlines of English Syntax, Londra 1924; E. Einenkel, Historische Syntax der englischen Sprache, Berlino e Lipsia 1916.

Anglosassone: Grammatische: K. D. Bülbring, Altenglisches Elementarbuch (sola 1ª parte), Heidelberg 1902 (per la sola fonetica). Le più ampie grammatiche descrittive sono: E. Sievers, Angelsächsische Grammatik, 3ª ed., Halle 1908; R. Girvan, Angelsaksisch Handboek, Haarlem 1832; comparativa: J. e E. M. Wright, An Old English Grammar, 3ª ed., Oxford 1925. Dizionarî: J. R. Clark Hall, A Concise Anglo-Saxon Dictionary, 3ª ed., Cambridge 1932; Grein, Sprachschatz der angelsächsischen Dichter, riveduto da J. J. Köhler, Heidelberg 1912 (per la sola poesia); F. Holthausen, Altenglisches etymologisches Wörterbuch, Heidelberg 1932 segg. (diz. etim.). Il più completo è Bosworth e Toller, An Anglo-Saxon Dictionary, Oxford 1898, con ampio supplemento di Toller, 1921. Per saggi della letteratura e dei dialetti: H. Sweet, An Anglo-Saxon Reader, 10ª ed., riveduta da C. T. Onions, Oxford 1933.

Medio-inglese: Grammatiche: R. Jordan, Handbuch der mittelenglischen Grammatik, I, Heidelberg 1925 (per la sola fonetica); J. e E. M. Wright, An Elementary Middle English Grammar, 2ª ed., Oxford 1928 (fonetica e grammatica). Dizionarî: F. H. Stratmann, A Middle English Dictionary, riveduto da H. Bradley, Oxford 1891; il New English Dictionary, citato appresso. Saggi della letteratura e dei dialetti: J. Hall, Early Middle English 1130-1250, voll. 2, Oxford 1920; K. Sisam, Fourteenth Century Verse and Prose, con un glossario di J. R. R. Tolkien, Oxford 1923; E. Björkmann, Scandinavian Loan-words in Middle English, parti 2, Halle 1900-02 (eccellente).

Inglese moderno: Grammatiche: H. Sweet, A New English Grammar, voll. 2, Oxford 1900-03 (grammatica descrittiva); J. e E. M. Wright, An Elementary Historical New English Grammar, Oxford 1924 (grammatica storica, specialmente per la fonetica e la grammatica elementare); O. Jespersen, A Modern English Grammar on Historical Principle, voll. 4 (tuttora incompleta), Heidelberg 1909 segg. (per la fonetica e la sintassi); H. C. Wyld, A History of Modern Colloquial English, 2ª ed., Londra 1921 (storia linguistica generale). Per la fonetica: H. Sweet, The Sound of English, Oxford 1908; I. C. Ward, The Phonetics of English, Cambridge 1929. Per la lingua di Shakespeare: W. Franz, Shakespeare-Grammatik, 3ª ed., Heidelberg 1924; A. Schmidt, Shakespeare-Lexikon, 3ª ed. riveduta da G. Sarrazin, Berlino 1902; C. T. Onions, A Shakespeare Glossary, 2ª ed., Oxford 1919.

Dialetti: J. Wright, The English Dialect Dictionary and the English Dialect Grammar, voll. 6, Oxford 1896-1905.

Inglese d'America: G. Krapp, A History of the English Language in America, Boston 1931; cfr. inoltre la bibliografia sotto stati uniti: Lingue.

Sull'uso odierno dell'inglese: H. W. e F. G. Fowler, The King's English, 2ª ediz., Oxford 1908; H. W. Fowler, A Dictionary of Modern English Usage, Oxford 1926. Dizionarî: A New English Dictionary on Historical Principles, edito da Murray, Bradley, Craigie e Onions, voll. 10, Oxford 1886-1928; compendio del precedente, voll. 3, riveduto da C. T. Onions, 1933 (comprendente parole apparse nella lingua dal 1100 con esempî di anglosassone); H. W. e F. G. Fowler, The Concise Oxford Dictionary of Current English, 2ª ed., Oxford 1929 (solo per l'inglese odierno); per i dialetti, v. sopra. Per lo slang: J. S. Farmer e W. E. Henley, Slang and its Analogues, past and present, voll. 7, Londra 1890-1904; un compendio ne fu edito nel 1905; un'edizione riveduta si cominciò a pubblicare nel 1903-09.

Etnografia e Folklore.

Le usanze tradizionali del popolo inglese sono state modificate dalle moderne innovazioni forse più profondamente di quanto sia avvenuto per le altre nazioni. Grande influenza ebbero soprattutto il rinnovamento agrario del sec. XVIII e la rivoluzione industriale del sec. XIX. La popolazione rurale si è in gran parte urbanizzata e l'agricoltura ha assunto un carattere industriale. Nel Medioevo i contadini inglesi vivevano in villaggi che erano spesso assai grandi o avevano casali distaccati. Nel Galles invece il vero villaggio agricolo era ed è tuttora assai raro: troviamo gruppi di case ai crocevia, presso i ponti, presso le chiese, e molte fattorie sparse. Le case di molti villaggi inglesi erano costruite in muratura su di una ossatura di travi di quercia intonacate e rafforzate da assicelle minori, e con tetto di paglia. Assai spesso le stanze di abitazione erano due, una di qua e una di là dalla porta, talvolta ve ne era soltanto una da una parte e dall'altra era la stalla. Via via che si costruivano le case nuove, le vecchie venivano a essere usate come stalle e come granai. Nel Devon e nella Cornovaglia, nei Cotswolds, nel Yorkshire, nel Northumberland, nel Durham e nel Cumberland, dove abbondava la pietra spesso a forma di lastra, le case sono da molto tempo tutte costruite con questa.

Dopo le guerre civili del sec. XV la diffusione dell'industria della lana portò un notevole benessere fra la popolazione e un miglioramento nella costruzione delle case e delle chiese. Così la casa di legno del secolo XVI, è spesso assai ben costruita e alcune dimore signorili di campagna in questo stile dei Midlands inglesi e del Cheshire hanno notevole pregio artistico. Questo tipo edilizio si diffuse a occidente nella valle del Severn, nel Galles centrale e anche, limitatamente, nelle altre vallate ai confini del Galles; mentre lungo le coste, dove per i forti venti di mare mancavano i grandi alberi per il legname da costruzione, le case venivano costruite o con la pietra locale (Galles nord-occidentale, Pembrokeshire) o con blocchi di fango e paglia (Cardiganshire). Presso le cave d'ardesia del Galles già da molto tempo la paglia del tetto è stata sostituita da lastre d'ardesia. Nel sec. XVIII i progressi fatti nell'agraria e lo sviluppo delle vie di comunicazione diedero nuovo impulso all'edilizia e poiché il legno di quercia era quasi tutto adoperato nella fabbricazione di navi, vennero ampiamente in uso i mattoni, tanto più che il trasporto di essi era divenuto assai facile. Talvolta la casa era costruita interamente di mattoni, tal'altra questi riempivano solamente gli spazî fra le travi dell'intelaiatura. Nell'Inghilterra orientale le tegole hanno in gran parte sostituito la paglia del tetto, mentre l'ardesia è tuttora ampiamente usata. Le condizioni di maggiore sicurezza politica e l'abbandono dello sfruttamento delle terre in comune nell'agricoltura portarono alla costruzione di sedi sparse, mentre le moderne opere stradali hanno fatto sì che i villaggi tendessero a svilupparsi nel senso della strada. Nell'Inghilterra la casa per una sola famiglia è molto più comune di quella collettiva; la dispersione delle abitazioni rurali si svolse di pari passo col passaggio delle terre in proprietà privata e le grandi estensioni di campi delimitati da siepi e da file di alberi, oppure, dove la pietra è particolarmente abbondante, da muri in rustico, costituiscono una caratteristica peculiare. L'aristocrazia rurale arricchitasi col commercio della lana verso la fine del Medioevo fece ricostruire le chiese dei villaggi nel caratteristico stile gotico inglese chiamato perpendicolare. Lo scisma religioso del sec. XVI portò alla formazione di numerose chiese protestanti dissidenti e un ulteriore frazionamento di queste avvenne sotto l'influenza di Wesley nel sec. XVIII. Le chiese e gli edifizi monastici costruiti allora dalle diverse comunità sono una caratteristica di molti villaggi inglesi.

La ricchezza raggiunta dai proprietarî di terre e il prevalere dei grandi allevamenti di bestiame nel sec. XVII portò alla formazione di vasti parchi, e i grandi proprietarî incoraggiarono la pittura paesistica e la fabbricazione dei mobili. Quest'ultima, in seguito allo sviluppo del commercio sul mare, anziché del pesante legno di quercia fino allora usato, cominciò a servirsi di legni duri importati dai tropici, specialmente mogano e sandalo. I fabbricanti di mobili e i decoratori del secolo XVIII diffusero stili che sono rimasti predominanti fin verso la metà dell'Ottocento quando furono temporaneamente eclissati dall'invadente produzione meccanica. Ma la vecchia industria e i vecchi disegni tendono dappertutto a rifiorire.

L'importanza da lungo tempo raggiunta dalle industrie tessili inglesi ha diffuso in tutto il paese uno stile di abbigliamento assai uniforme; anzi la foggia maschile è stata adottata anche fuori dell'Inghilterra. Nel Galles l'abbigliamento femminile ha conservato fino a poco tempo fa alcune caratteristiche speciali, fra le quali l'alto cappello di feltro e uno scialle di fabbricazione domestica. L'usanza ancora abbastanza diffusa in Europa che le donne vadano in chiesa vestite di scuro è in Inghilterra quasi sparita. Più comuni che altrove sono per gli uomini i pantaloni corti e larghi chiusi sotto il ginocchio detti knickerbockers.

L'inizio della primavera è celebrato dal popolo inglese con l'incoronazione della regina di maggio (May Queen) e con le danze nei villaggi intorno a un palo (Maypole), mentre al principio dell'autunno hanno luogo altre feste che sono state unite dalla Chiesa nel Medioevo a quella di Tutti i Santi; di queste ultime sussistono tra il popolo solamente alcuni giuochi, che presentano evidenti relazioni con la vita che si svolgeva nelle vecchie cucine delle fattorie, e la cottura di dolci speciali. Tali feste assumevano in passato molta importanza anche perché in tali giorni avevano luogo le fiere, scadevano e si rinnovavano i contratti di lavoro, di affitto, ecc. Con l'adozione del calendario gregoriano nel sec. XVIII, questi giorni festivi si fissarono al 12 maggio e al 12 novembre. Le vecchie feste di mezza estate, quali l'accensione di fuochi sulle colline, si possono dire sparite, mentre il solstizio invernale è celebrato col pranzo natalizio in cui erano piatti tradizionali il roast-beef e una torta con ribes e uva, ma in seguito a influenze americane molti hanno sostituito al roast-beef il tacchino, mentre le influenze germaniche alla corte della regina. Vittoria hanno introdotto molti usi natalizî tedeschi. La vecchia usanza di legare l'ultimo covone del grano mietuto, talvolta a forma di bambola e di conservarlo poi nella cucina, è quasi sparita, ma le diverse chiese hanno formato gradualmente un uffizio di rendimento di grazie per il raccolto e questo costume è diventato quasi universale nei varî gruppi religiosi.

L'attaccamento della popolazione al proprio villaggio è maggiore nel Galles. In passato la popolazione dei villaggi soleva riunirsi, nelle sere d'inverno, nella cucina delle fattorie lavorando, cantando e raccontandosi storie. Il Galles ha in questo modo conservato la vecchia cultura popolare più di quanto sia avvenuto in altre parti dell'Inghilterra. Allorché alla fine del sec. XVIII cominciò nel Galles a rifiorire la lingua celtica, queste riunioni si trasformarono in gare di canto, di lingua, di poesia, di abilità manifatturiere, organizzate nei villaggi, nei distretti e per l'intero paese. Queste feste (Eisteddfod) si sono di recente diffuse dal Galles in tutta l'Inghilterra e si ritengono derivate da antichissime tradizioni dei bardi.

Data l'umidità del clima inglese, i divertimenti e i giuochi si sono sviluppati su principî di grande attività. L'aristocrazia rurale pratica ancora moltissimo la caccia e le corse a cavallo, mentre nei vecchi villaggi il piazzale erboso che ne occupava sempre il centro è stato il campo d'origine del popolare giuoco estivo detto cricket. Il principale sport invernale è il calcio. Le scuole e le università più antiche hanno sempre incoraggiato fra gli allievi gli sport che tanto appassionano il popolo inglese e l'annuale regata che si svolge fra gli studenti delle università di Oxford e Cambridge ne è la manifestazione maggiore.

Nell'alimentazione, il popolo segue un regime ricco di carne. Non molto per tempo, poiché l'industrialismo ha portato a cominciare la giornata più tardi che negli altri paesi europei a tradizione agricola più forte, la prima colazione è fatta a base di uova al lardo. Le classi più basse usano fare il pasto principale, se possibile, con carne, altrimenti con formaggio, verso le ore 13, mentre negli alberghi e fra le classi più elevate il pasto principale è quello della sera; e questo costume si è diffuso con l'aumento delle persone che vivono nei sobborghi lontani delle grandi città. La bevanda tradizionale inglese era in passato la birra, mentre nel Galles era bevuto l'idromele, oggi sparito dall'uso. Vino di mele (sidro) e liquore fatto con succo di pere fermentato (perry) vengono fabbricati e consumati anche oggi ai confini del Galles e nell'Inghilterra sud-occidentale. I vini francesi e d'Oporto sono abbastanza usati dalle classi più agiate; il whisky, la bevanda nazionale scozzese fortemente alcoolica, si è diffuso anche nell'Inghilterra, mentre gli altri liquori alcoolici sono meno usati che in passato. Ma la bevanda nazionale del popolo inglese è oggi il tè, che lo sviluppo del commercio con l'Estremo Oriente introdusse nel sec. XIX dalla Cina.

Bibl.: F. Seebohm, The English village comunity, Londra 1884; S. R. Jones, The Village Homes of England, in The Studio, Londra 1912; A. Lang, Sex totems in England, in Anthropos, IV, Mödling (Vienna) 1909; J. R. East, Folklore from Wales, in Folk-Lore, XXX, Londra 1919; F. H. Haire, Folk costume Book, Londra 1926; T. P. Ellis, Welsh tribal Law and Custom in the Middle Ages, voll. 2, Oxford 1926; pubblicazione periodica: Folk-Lore, Londra (dal 1889).

Arti figurative.

Architettura. - I resti dell'architettura cristiana in Inghilterra, anteriori alla conquista normanna del 1066, sono pochi e frammentarî; tuttavia bastano per mostrarci i considerevoli progressi fatti dagli Anglosassoni nell'arte di costruire le chiese e il formarsi d'uno stile con definiti caratteri. Influenze varie agirono sull'architettura anglosassone. I missionarî irlandesi, stabilitisi nell'Inghilterra settentrionale nel sec. VII, v'importarono le idee del loro paese, dove uno stile indigeno, in parte d'ispirazione mediterranea, cominciava ad affermarsi; nel sud, ebbero fortissima influenza i numerosi resti dell'architettura romana. Inoltre, non sono da trascurare le influenze baltiche importate dagli stessi Anglosassoni e certi brevi contatti con Roma e con l'Impero d'Oriente.

Pochissime sono le chiese anglosassoni conservate nella loro forma originale: il tipo caratteristico consisteva in un'alta e stretta navata seguita a oriente dal presbiterio, più basso e stretto, e a occidente da una torre, usata come abitazione. Spesso la torre era del tipo a tetto aguzzo a quattro falde, comune in Germania ma non più usato in Inghilterra dopo il 1066; ne resta un buon esempio a Sompting. Qualche volta a nord e a sud della navata erano grandi portici, adibiti anche a cappelle, che davano alla chiesa aspetto cruciforme. L'esterno era spesso decorato da slanciate lesene, come nella bella torre del sec. X a Earl's Barton, o con arcate, come nella ben conservata chiesa di Bradford-on-Avon (circa 700). Le finestre avevano i timpani circolari, più spesso triangolari, e anche colonnine tortili se erano bifore e polifore. Le vòlte, costruite imitando grossolanamente la tecnica romana, furono adottate specialmente nella costruzione delle cripte.

La prima comparsa dell'architettura romanica in Inghilterra si ha nel 1055, quando Edoardo il Confessore cominciò la ricostruzione dell'abbazia di Westminster; è però questo un caso isolato dovuto alle relazioni di Edoardo con la Normandia. Effettivamente lo stile romanico si affermò incontrastato in Inghilterra solo dopo il 1066, in conseguenza dell'invasione normanna, allorché si aprì un grande periodo di costruzioni sia religiose sia militari. Questo stile architettonico, che gl'Inglesi usano chiamare "normanno" a causa della sua origine, si appropriò subito quanto era stato fatto di meglio dai costruttori anglosassoni e sviluppò forme accentuatamente nazionali. Romaniche sono le grandiose cattedrali e le chiese abbaziali erette, generalmente, sul luogo di precedenti costruzioni anglosassoni, fra il 1070 e il 1170: hanno pianta cruciforme, una navata di straordinaria lunghezza, coro terminante in una o più absidi, transetto e torri all'estremità occidentale o sulla crociera. Il tipo architettonico aveva la semplicità e le qualità plastiche proprie dell'architettura romanica in generale (v. romanica, arte).

Fra gli esempî esistenti è di particolare interesse artistico la navata dell'abbazia di Tewkesbury, finita nel 1125, nella quale la lunga prospettiva formata dalle grandi colonne, poste a brevissima distanza una dall'altra, produce un effetto di quasi egiziana magnificenza. Notevoli sono pure la navata e il nartece, noto col nome di Galilea, della cattedrale di Durham e la torre centrale della chiesa di St Alban, costruita con materiali romani. Mentre esistono ancora parecchi esempî di navate romaniche, le parti orientali delle cattedrali in molti casi sono state rifatte nel periodo gotico. Norwich, tuttavia, conserva un'abside semicircolare e due delle tre cappelle absidali originali. La chiesa del priorato di S. Bartolomeo a Smithfield, Londra (circa 1123), ha una singolare, interessante abside con stretti archi a sesto rialzato. Gran parte delle navate e dei cori del periodo romanico furono coperti con soffitti piani di legno (Ely, Peterborough, ecc.), mentre sulle navate minori si costruirono vòlte in pietra. La vòlta a crociera di Durham è la più antica che si abbia in una costruzione romanica inglese (1133).

La decorazione è fatta specialmente d'ornati a zig-zag, svolti con rozzo disegno geometrico e spesso animati da teste grottesche, ottenendo ricchezza d'effetto semplicemente con una scrupolosa e monotona ripetizione dei motivi. Benché questa ornamentazione abbia di solito scarso valore artistico, pure essa raggiunge qua e là un alto grado di raffinatezza: così nella Porta del Priore a Ely e nei tre portali occidentali a Lincoln.

Le numerose piccole chiese di questo periodo sono tracciate seguendo la pianta anglosassone, con presbiterio, navata e torre occidentale. I castelli hanno torri quadrate a tetto piano, come la Torre di Londra e quella di Rochester, e poche decorazioni interne.

L'arco a sesto acuto la cui prima apparizione si ha nelle vòlte delle navate di Durham, fu adottato dai cisterciensi nelle abbazie da essi costruite intorno alla metà del sec. XII. Nei seguenti cinquant'anni l'architettura inglese contemperò le caratteristiche gotiche e romaniche in un'interessante fase di transizione. I più bei monumenti di questo breve periodo sono la navata circolare della Temple Church di Londra, completata nel 1185, e la parte ovest della cattedrale di Ely. A Canterbury, il lato orientale della cattedrale fu rifatto nel 1174 dall'architetto francese Guillaume de Sens, la cui opera, stretta imitazione della cattedrale di Sens, fu continuata dopo il 1178 da William, architetto inglese.

Dal severo e piuttosto pesante stile transizionale, l'architettura inglese passò subitamente al gotico con il coro, costruito da Sant'Ugo, della cattedrale di Lincoln, iniziato nel 1192. Opera d'un architetto anglo-normanno, esso non assomiglia ad alcuna costruzione gotica continentale; infatti è uno dei più antichi e schietti esempî di puro gotico che si abbiano. L'ulteriore sviluppo di questo stile si può seguire nella stessa cattedrale, prima nella magnifica navata del principio del sec. XIII, indi nel coro detto "degli Angeli" cominciato nel 1255, con esuberanti decorazioni plastiche.

La più bella costruzione del sec. XIII è indubbiamente l'abbazia di Westminster (1245 circa), in cui appare chiara l'influenza francese. La pianta e la copertura a vòlta sono incomparabili esempî della tecnica gotica; il coro, terminante con un'abside, è circondato da cappelle al modo francese. Il carattere inglese si accentua, sebbene il disegno sia molto inferiore, nella vasta cattedrale di Salisbury, cominciata nel 1220, con coro e cappelle a pianta quadrata. Allo stesso secolo appartengono le imponenti facciate occidentali delle cattedrali di Peterborough e Wells; quest'ultima, in cui architettura e statuaria si fondono in modo grandioso, fu compiuta con l'aggiunta di due torri nel sec. XIV; la prima ha un portico a tre archi che giungono alla sommità della facciata. Fra le altre importanti opere del sec. XIII in Inghilterra sono da menzionare le squisite case capitolari di Lincoln, Salisbury e Westminster, il magnifico coro con retrocoro di Southwark, l'abbazia di Fountains.

Nel sec. XIII lo stile gotico inglese cominciò a differenziarsi nettamente da quello francese o tedesco. Non solo le cattedrali inglesi sono più lunghe, più basse e di più piccole proporzioni, ma l'uso stesso delle forme e formule gotiche tradisce negl'Inglesi uno spirito più freddo e superficiale. L'intimo carattere del gotico inglese si manifestò con maggiore chiarezza nell'ultima fase.

Il passaggio dalla maniera del sec. XIII a quella più gentile del medio gotico è ben illustrata da un confronto del presbiterio di Ely, cominciato nel 1240, con il coro della stessa cattedrale, finito esattamente cent'anni dopo. Il cambiamento si rivela attraverso l'addolcirsi delle linee con l'uso di più delicate modanature, l'adozione di diversi nuovi motivi ornamentali e la sostituzione del fogliame naturalistico alle antiche foglie stilizzate. Nel sec. XIV molte cattedrali furono completate con l'aggiunta di torri e guglie, come quelle di Lincoln (1300), Salisbury (1320) e anche Lichfield (1300), le cui tre guglie insieme con la cappella della Madonna sono fra le migliori cose di questo periodo.

Intorno alla metà del sec. XIV si osserva una forte tendenza a semplificare le forme. Apparsa nella cattedrale di Gloucester, prima del 1350, e in quella di Winchester, circa nel 1360, questa tendenza si rafforzò sul finire del secolo, creando, a partire del 1400, uno stile caratteristico e tipicamente inglese. Tutte le costruzioni del secolo XV mantengono la stessa rigida rettilinearità. I frontoni si appiattiscono fin quasi all'orizzontale, l'ornamentazione delle finestre gotiche diventa un fitto ordito di dritte nervature sotto un arco a quattro centri, mentre nella costruzione delle vòlte si tralascia di far apparire la struttura, fino a giungere alle vòlte a ventaglio, d'invenzione schiettamente inglese. Le massime espressioni architettoniche di questo stile gotico si hanno nelle cappelle del King's College di Cambridge (1446-1515) e nella cappella d'Enrico VII a Westminster (1503-1519).

È importante osservare come lo stile gotico inglese si sviluppava in questo senso nel tempo stesso che il gotico continentale si modificava nello stile "flamboyant". Similmente nel sec. XVIII, l'Inghilterra ripudiò il barocco per attenersi a un classicismo paragonabile nella sua severa e modesta eleganza al tardo gotico inglese.

Col sec. XVI s'inizia più decisamente l'umanísmo. Il rinnovato interesse per l'architettura classica si manifestò prima di tutto nel chiamare artefici italiani; e non furono architetti, ma decoratori, il cui compito consistette nell'ornare gli spazî lasciati appositamente dai costruttori inglesi. Così vediamo palazzi e monumenti gotici nel disegno e nella costruzione, arricchiti con ornati quattrocenteschi puramente italiani. Nella seconda metà del secolo, specialmente per ragioni religiose e politiche, gl'Italiani furono soppiantati da artigiani fiamminghi e tedeschi, che usarono una fredda maniera classica; e si diffusero, tra il 1560 e il 1610, parecchi libri di modelli di qualità assai discutibile.

Il merito maggiore del sec. XVI fu la trasformazione del maniero inglese dall'aspetto di fortezza medievale a gradevole residenza di campagna non fortificata: trasformazione ch'ebbe carattere spiccatamente regionale fino alla prima parte del sec. XVII. Vòlte e decorazioni gotiche scomparvero gradatamente, sostituite da soffitti in stucco, da medaglioni classici, da cartelle e da paraste. Famose case di questo periodo sono Kirby Hall (1570) e Hardwick Hall (1576-97). Architetto della prima si dice fosse John Thorpe, il cui nome è sempre legato con questo periodo, sebbene in realtà nulla di lui si sappia.

Dopo la riforma l'architettura sacra quasi non ebbe altro sviluppo; ma si continuavano a erigere cattedrali e chiese e fra esse vi sono alcune delle più belle produzioni del primo Rinascimento in Inghilterra. Uno stile gotico scadente indugiò qua e là, e negli edifici dell'università di Oxford ritroviamo costruzioni gotiche fino al 1669.

Con Inigo Jones (1573-1652), fondatore della tradizione inglese in senso strettamente classico, il Rinascimento si svolge vigorosamente. Il Jones aveva visitato due volte l'Italia, studiandovi le opere dei maestri italiani e particolarmente del Palladio. Nominato soprintendente generale nel 1615, progettò parecchi importanti edifici, fra i quali la Banqueting House di Whitehall Palace (1622), che si può annoverare fra i pochi autentici capolavori dell'architettura inglese. Le altre opere sue mostrano come egli abbia saputo trovare un compromesso fra il maturo palladianismo da lui stesso introdotto e le volgari bizzarrie del Rinascimento elisabettiano.

John Webb (1611-72), suo allievo, ne seguì la maniera; ma l'architetto inglese più famoso comparso poco dopo Jones è Christopher Wren (1632-1723). L'attività artistica del Wren coincise felicemente con la necessità di ricostruire Londra dopo l'incendio del 1666. Il Wren nel 1665 era stato per breve tempo a Parigi, vi aveva studiato l'architettura francese contemporanea e vi s'era incontrato col Bernini. Dopo l'incendio della cattedrale gotica di San Paolo e della più gran parte di Londra, preparò un superbo piano regolatore per una vasta ricostruzione. Tuttavia questa non si poté attuare ed egli limitò la propria attività alla riedificazione di San Paolo e d'altre cinquantatré chiese, che risorsero nello stesso luogo ove erano prima. Progettò pure molte opere pubbliche, i palazzi di Hampton Court e Greenwich, quest'ultimo già cominciato da Inigo Jones, ed edifici a Oxford e Cambridge. Spesso le sue opere difettano nella tecnica, per la mancanza di basi teoriche, ma è innegabile il suo meraviglioso intuito nella risoluzione dei problemi costruttivi e la sua squisita sensibilità di disegnatore. San Paolo (1675-1710), con la trionfante cupola e le torri campanarie occidentali, è il suo capolavoro.

Poco prima della morte del Wren vi fu una reazione alla sua arte e una breve pedantesca ripresa della tradizione palladiana, incoraggiata dal conte di Burlington (1695-1753) e dal suo circolo di architetti. James Gibbs (1682-1754) fu il solo architetto notevole del sec. XVIII che rimase fedele alla maniera di Wren. La sua opera principale è St Martin-in-the-Fields a Londra. Sir John Vanbrugh (1664-1726), celebre come drammaturgo e architetto, costruì Blenheim Palace e altre grandi case di campagna in uno stile interessante e molto personale, mentre Nicolas Hawksmoor (1661-1736), unico allievo del Wren, subì l'influenza di Vanbrugh e costruì diverse belle chiese.

La scuola palladiana ebbe un ulteriore sviluppo con William Kent (1684-1748), Giacomo Leoni (morto nel 1746) e George Dance "il Vecchio" (1700-1768). A Bath, i Woods, padre e figlio, idearono e disegnarono gran parte di quella ben distribuita città.

Il classicismo convenzionale ebbe la massima affermazione con William Chambers (1726-1796), il cui pìù importante lavoro è Somerset House a Londra, che rivela l'influenza delle opere di A. J. Gabriel. Contemporanei di Chambers furono Robert Taylor (1714-88) e James Paine (1725-89), architetti di notevole gusto e perizia. Spirito più giovanile e opinioni meno accademiche di questi ebbero Robert Adam (1728-92) e suo fratello, James, che diedero un'impronta personale alle loro costruzioni e decorazioni, vivificando con raffinata eleganza la piuttosto fredda tradizione inglese.

Intanto era cresciuto rapidamente l'interesse per l'architettura greca, quantunque subito rinascesse l'inevitabile reazione in favore dell'ortodossia accademica. La fase greca si sviluppò durante le prime decadi del sec. XIX e con essa si ebbe un certo rifiorire dello eruditismo pedante, ma non bisogna sopravalutare questo suo aspetto. Citiamo John Soane (1753-1837), che dall'intenso studio dell'arte greca e romana fu tratto a esperimenti di forme astratte: molte sue upere, specialmente alla Banca d'Inghilterra, sono di grande interesse per lo studio del neoclassicismo inglese. Robert Smirke (1781-1867) e William Wilkins (1778-1839) applicarono con qualche successo l'archeologia greca all'architettura, mentre John Nash (1752-1835), artista più eclettico, diede un magnifico schema di piano regolatore per la regione occidentale di Londra, ora quasi interamente ricostruita.

Intorno al 1830 l'entusiasmo per l'arte greca cominciò a declinare, lasciando il posto a un rinnovato amore per il Rinascimento italiano. Dalla fusione d'elementi italiani e greci derivano le opere di due grandi architetti, C. R. Cockerell (1788-1863) e Charles Barry (1795-1860). Il Cockerell è ben rappresentato dall'Ashmolean Museum d'Oxford (1845), originalissima interpretazione della tecnica classica. Il capolavoro di Barry, il parlamento di Londra (1835-60), è apparentemente di stile gotico, ma la sua composizione rivela la mano d'un classicista; le costruziom del Barry più caratteristiche sono i suoi palazzi per sede dì circoli e case di campagna. Ma la costruzione più importante di gusto classico del sec. XIX è St George's Hall, a Liverpool, di H. L. Elmes (1813-1847).

Il movimento romantico, nato nel sec. XVIII, si sviluppò a fianco e in opposizione del classicismo nel sec. XIX, specialmente per opera di A. W. N. Pugin (1812-52). Molti architetti inglesi, fra i quali George Gilbert Scott (1810-1877), restauratore di parecchie cattedrali, William Butterfield (-814-1900), il maggiore degli architetti del movimento della High Church, e G. E. Street (1824-81). autore del Law Courts a Londra (1874-82), furono fedeli, fra il 1840 e il 1870, al neogotico (Gothic Revival).

Le teorie di John Ruskin (1819-1900), i cui scritti sull'architettura furono largamente letti dal 1850 in poi, favorirono lo svilupparsi di varî generi di medievalismo fra cui è soprattutto notevole il tentativo di William Morris e dei suoi amici di far risorgere l'attività artigiana. Intorno al 1870 l'influenza del gruppo Morris, insieme con la vigorosa personalità di R. Norman Shaw (1831-1912), posero fine al neogotico, ritornando gradualmente a un classicismo pittoresco, derivato dal Rinascimento inglese. Un notevole esempio di questa fase è il nuovo palazzo di Scotland Yard (1891) di Shaw.

Fra il 1895 e il 1914 nell'architettura inglese ha regnato un eclettismo disordinato di cui sono esempî caratteristici la cattedrale cattolica di Westminster, in stile bizantino, di J. F. Bentley (1895), la cattedrale anglicana di Liverpool, gotica, di Giles Gilbert Scott (1903, ancora non finita), e molti edifici privati, in particolare quelli di Edwin Lutyens (nato nel 1869).

Al principio del sec. XX, un notevole tentativo di sottrarsi agli stili storici fu fatto da C. R. Mackintosh (1869-1929), ma la sua opera, apprezzata in Olanda e Austria, fu ignorata in Inghilterra. Dopo la guerra mondiale s'ebbe un confuso risorgere di tutti i tipi di classicismo. Oggi ancora sussiste, ma è combattuto in diversi modi da una crescente tendenza ad accettare le influenze moderne provenienti da altri paesi.

Pittura. - La Riforma, con il conseguente sequestro dei beni ecclesiastici, e l'ancor più disastrosa iconoclastia dei Puritani nel sec. XVIII non ci hanno lasciato che un insignificante numero di pitture su tavola e di affreschi medievali, quasi tutti di scarso valore. Fra i pochi resti appartenenti ai secoli XII e XIII sono un'espressiva figura di San Paolo a Malta nella cattedrale di Canterbury, di stile simile a quello delle miniature e delle vetrate contemporanee, e frammenti nella cattedrale di Winchester, meno importanti. Agl'incoraggiamenti del re Enrico III fu dovuta l'intensa attività artistica del sec. XIII e rimangono notizie di grandiosi affreschi una volta esistenti nel Palazzo e Abbazia di Westminster. A St Alban fiorì una scuola, il cui carattere stilistico si può cogliere nei disegni di Matthew Paris (v. sotto: Miniatura), che ne fu probabilmente il capo. È dipinto nello stile del medesimo artista l'affresco della Vergine e Bambino, che si conserva nella cattedrale di Chichester, la più bella pittura inglese del sec. XIII ancora esistente.

Tuttavia lo stile della pittura durante questo periodo difficilmente si può differenziare da quello coevo in Francia. Soltanto nel sec. XIV, come mostrano i manoscritti miniati, la pittura inglese acquista definite caratteristiche, ma ben poco ne rimane finché non si giunge alla fine del secolo, sebbene i frammenti esistenti e le posteriori copie dei magnifici affreschi della cappella di S. Stefano, eseguiti nel 1356, provano che la pittura fu almeno pari alla miniatura.

Al regno di Riccardo II appartengono due importanti opere: il ritratto del monarca nell'abbazia di Westminster e il dittico Wilton, ora nella Galleria Nazionale. D'autore sconosciuto, esse furono di volta in volta attribuite ad artista francese, boemo e inglese; ma qualunque sia la nazionalità dell'autore e la data esatta della loro creazione, senza dubbio furono eseguite in Inghilterra e segnano il formarsi d'un nuovo stile nella pittura e nella miniatura nell'ultimo quarto del secolo. Almeno alcuni degli artisti che praticarono questo stile furono inglesi e contribuirono in maniera definitiva a sviluppare e accentuare in questo breve periodo certi caratteri particolari.

Le guerre francesi di Enrico V e l'occupazione di Parigi nel 1420 diedero occasione a ulteriori contatti con l'arte francese e all'opera di artisti francesi. Ma la trentennale guerra delle Rose, scoppiata nel 1455, impedì il fiorire della pittura e in genere delle arti. Durante questo periodo la pittura subì profondamente l'influenza fiamminga. Gli affreschi abbastanza numerosi delle chiese del sec. XV sono mediocri, eccetto quello della cappella del Collegio di Eton, eseguito intorno al 1480-88 da un certo William Baker, che, fiammingo o inglese educato alla scuola fiamminga, fu senza dubbio un artista di reale valore. L'ascesa al trono di Enrico VII e la pace finalmente conclusa non favorirono gran che le arti figurative, se si eccettua la pittura del ritratto, che rimase fedele alla tradizione fiamminga. Neppure il fastoso Enrico VIII fu un mecenate dei pittori, nonostante la sua stima tardiva per Hans Holbein.

Hans Holbein stette in Inghilterra dal 1532 fino alla morte (1543), e vi eseguì numerosi ritratti del re, delle sue mogli, dei cortigiani; ma non si può dire che abbia fondato una scuola inglese, sebbene i pochi ritratti eseguiti nella sua maniera siano dovuti ad artisti inglesi come Thomas Bettes.

Anche pittori fiamminghi, olandesi e italiani lavorarono in questo tempo in Inghilterra e lo stile d'una pittura di genere di quel tempo come l'Incontro nel campo del Drappo d'oro, ora nel palazzo di Hampton Court, è affatto indipendente dal Holbein e di manifesto carattere olandese. Antonio Mor visitò l'Inghilterra nel 1554, Federico. Zuccari nel 1574, ma il loro soggiorno fu brevissimo; ed è manifestamente assurdo voler attribuire a essi i numerosi minori ritratti inglesi.

Nel periodo elisabettiano operarono i fiamminghi Hans Eworth, che risiedette in Inghilterra dal 1545 al 1573, e i due Marcus Gheeraerts, padre e figlio. Quest'ultimo, anzi, nacque e visse in Inghilterra e anglicizzò il suo nome in quello di Mark Garrod. Ma, francamente, né le opere di questi stranieri, né quelle d'una schiera di pittori ignoti, presumibilmente inglesi, sono di grande interesse, eccetto che storico. Il solo artista i cui lavori hanno l'impronta di una vera personalità e un carattere stilistico inglese è il miniatore Nicholas Hilliard (1547 o 1548-1619). I suoi ritratti hanno una delicatezza, una sicurezza di tocco e qualità decorative che non furono superate nemmeno dai miniatori posteriori, Isaac (1564-1617) e Peter Oliver (1594-1648). La tradizione artistica non s'interruppe alla morte di Elisabetta e all'avvento al trono del primo degli Stuart, Giacomo I, nel 1603. Questi prestò poca attenzione alle cose artistiche, ma il successore Carlo, salito al trono nel 1626, fu invece il più generoso e illuminato patrono delle arti che l'Inghilterra abbia conosciuto. Nel 1629 affidò al Rubens la decorazione del soffitto della nuova sala dei banchetti costruita da Inigo Jones nel palazzo di Whitehall. Nondimeno fu scarsa l'influenza del grande artista; invece la nomina di Antonio Van Dyck a pittore di corte, avvenuta nel 1632, ebbe un'azione profondissima nella storia della pittura inglese.

Il Van Dyck, eccetto brevi assenze, rimase in Inghilterra fino alla morte (1644) ed eseguì, con l'aiuto di assistenti inglesi, negli ultimi anni una magnifica serie di ritratti della nobiltà, che influì sull'arte inglese di tutto il secolo seguente. La sua maestria di disegnatore e colorista e l'innata signorilità lo resero eminentemente idoneo per la sua posizione alla corte. I personaggi da lui ritratti hanno tutti un'eguale aristocratica grazia e raffinatezza; la composizione, gli atteggiamenti, i panneggi, il movimento delle foglie mosse dal vento, restarono nel secolo successivo patrimonio comune dei pittori inglesi. Ma benché l'influenza di van Dyck, come quella del Holbein un secolo prima, sia stata decisiva per l'evoluzione della pittura, i suoi allievi inglesi furono pochi, come pochi erano stati quelli del Holbein, e toccò a stranieri, all'olandese Peter Lely (1618-1680) e al tedesco Godfrey Kneller (1646-1723), di continuarne la tradizione ereditandone la maniera. William Dobson (1610-1646), il più celebre allievo di van Dyck, fu invero un pittore fortemente personale che molto prometteva, ma ebbe troppo breve vita. I miniatori John Hoskin (morto nel 1665) e Samuel Cooper (1609-1672), anch'essi sotto l'influenza del van Dyck, e sebbene ciò rompesse le più sane tradizioni della miniatura fondata da Holbein, furono artisti non mediocri.

Il regno di Giorgio I segnò forse il momento della maggiore decadenza della pittura in Inghilterra. Ma il risorgimento era in vista: con William Hogarth (1697-1764) stava per aprisi una nuova era e per affermarsi una scuola di carattere definitivamente inglese. W. Hogarth attinge a diverse fonti: i pittori di genere olandesi del sec. XVII, il Watteau, e anche il Canaletto pare abbiano contribuito alla sua formazione; e nondimeno egli fu profondamente originale. Non ebbe una vera scuola e notevoli discepoli; ma da lui derivano in gran parte i pittori dei conversation pieces, tele ove erano ritratti gruppi di persone o di familiari, un genere prettamente inglese. Fra questi artisti sono Gainsborough, nei suoi primi lavori, Devis, George Stubbs e Zoffany. Dal suocero, il pittore decoratore James Thornhill, W. Hogarth aveva ereditato una scuola di disegno sita nel vicolo di S. Martino a Londra. In essa quasi tutti gli artisti della seguente generazione ricevettero parte della loro educazione. Fra questi il primo posto spetta indubbiamente a Joshua Reynolds (1723-1792). Dal suo maestro, il mediocre ritrattista Thomas Hudson, apprese qualche elemento della tradizione di van Dyck, ma la sua individualità si formò soprattutto sui Veneziani, sul Correggio, sui Bolognesi, come pure sul Rembrandt. Egli può essere definito un intellettuale eclettico; ha saputo evitare però i pericoli insiti nell'eclettismo e fondere i varî elementi presi in prestito in uno stile personale, morbido ma pieno di gravità e dignità. Come maestro e come uno dei più convinti fautori della fondazione della Royal Academy, della quale divenne il primo presidente del 1768, l'importanza di Joshua Reynolds è del pari grande. Sognò di fondare una grande scuola di pittura storica, ma non poté vedere mandata ad effetto la sua speranza; gli sforzi che fece per raggiungere questo scopo mostrano chiaramente che si trattava dell'illusione d'un intellettuale, che credeva di provvedere così a un bisogno che non era sentito.

Thomas Gainsborough (1727-1788), contemporaneo e rivale di Reynolds, è in completa antitesi con lui. Sia nel paesaggio sia nel ritratto il suo stile deriva dal van Dyck e dal Rubens. La tecnica brillante, il rapido e sicuro modo di ritrattare, le delicate tonalità dei suoi colori lo pongono fra i più illustri pittori della scuola inglese. Degli artisti che seguirono le tracce di Reynolds, il maggiore è certamente George Romney (1734-1802), che, se come ritrattista seppe qualche volta produrre il capolavoro, nelle composizioni storiche mostra fiacchezza d'ispirazione comune a tutta questa scuola. Altri ottimi pittori che s'ispirarono al Reynolds sono Francis Cotes (1725-1770), l'americano John Singleton Copley (1737-1815), John Opie (1761-1807) e John Hoppner (1758-1810). In Scozia dipinse molti ritratti di suoi compatrioti Henry Raeburn (1756-1823), la cui straordinaria bravura, che non teme il paragone con quella d'un Velásquez o d'un Frans Hals, non sempre nasconde una certa vuotaggine di contenuto.

Thomas Lawrence (1769-1830), artista d'autentico ma troppo facile talento, sacrificò spesso la verosimiglianza dei suoi ritratti alle esigenze sociali e soprattutto allo splendore dell'effetto. Dopo la sua morte l'arte del ritratto fu in continua decadenza e fino al risveglio preraffaellita si ebbero ben poche opere interessanti.

La pittura di genere cominciò ad assumere una più grande importanza; benché traviati facilmente dall'aneddotico e dal sentimentale, David Wilkie, William Mulready, William Etty, e qualche volta l'animalista Edwin Landseer, lasciarono buoni saggi.

Né si deve omettere un artista che, pur restando appartato nella pittura inglese, la arricchì con i doni d'un'immaginazione e d'una poesia di carattere eccezionale: William Blake (1757-1827), poeta e pittore, che nell'incisione e in altri mezzi tecnici di propria invenzione seppe esprimersi con grande aderenza. Come pittore, i varî metodi di tempera che esperimentò non ressero alla prova del tempo e hanno guastato molta parte dei suoi quadri. Tuttavia, anche rovinate, le sue opere si fanno notare per la straordinaria potenza del disegno, le esuberanti, poetiche qualità della fantasia.

Nel paesaggio la pittura inglese ha colto forse le maggiori vittorie. Accanto a Gainsborough, emerge, primo di tempo e di qualità, Richard Wilson (1714-1782), formatosi in Italia e appassionato dello stile di Claude Lorrain e del Poussin, che egli seppe improntare di propria originalità. Il paesaggio di John Crome (1768-1821), fondatore della scuola di Norwich, deriva invece, come quello di Gainsborough, dagli olandesi, Ruysdael, Hobbema, Cuyp, e non deve nulla alla tradizione italiana. Il Crome rese la natura del suo Norfolk con una sensibilità di valori atmosferici e un contenuto lirismo tipicamente inglesi. Ma il più celebre paesista dell'Inghilterra orientale fu certamente John Constable (1776-1837), impareggiabile per il suo senso del colore, la perfetta tecnica, la facoltà di rendere la luce, il movimento e le varietà dei toni di colore della campagna. Trascurato dai compatrioti suoi contemporanei, fu apprezzato in Francia e non v'è dubbio che l'impressionismo francese dovette non poco al suo esempio.

Joseph Mallord William Turner (1775-1851) sta, come il Blake, al di fuori e al di sopra della normale evoluzione della pittura inglese. Eppure la sua educazione artistica si compì in una scuola tipica dell'Inghilterra, che merita anzi più che una breve citazione. Accanto alle sprezzature del paesaggio eroico del Wilson, si era venuto formando un più modesto genere di pitture paesistiche. Archeologi e topografi avevano bisogno di accurate rappresentazioni di monumenti locali e per soddisfare a questa necessità sorse una scuola di acquarellisti. Alexander Cozens col figlio John Robert Cozens, Paul e Thomas Sandby, Edward Dayes, furono tra i primi, ma il più illustre, certo uno dei più grandi paesisti inglesi, pur non avendo eseguito che acquarelli, fu Thomas Girtin (1772-1802), coetaneo e compagno di scuola del Turner. Sebbene sia morto giovanissimo, egli seppe conferire alla pittura ad acquarello una straordinaria nobiltà e profondità.

Un altro grande acquarellista fu John Sell Cotman (1782-1842), che studiò qualche tempo a Londra e poi nella natia Norwich. Nei suoi primi e già maturi lavori mostrò un disegno di precisione quasi giapponese; più tardi subì, con risultati non del tutto felici, l'influsso del Turner. Questi, sotto l'influenza del Girtin, sviluppò ancora più le possibilità espressive dell'acquarello mantenendosi in un primo tempo nei limiti classici. Contemporaneamente il Turner si applicò alla tradizionale pittura ad olio e già nel 1803, data del quadro Molo di Calais della Galleria Nazionale, aveva superato tutti i suoi predecessori. A poco a poco la sua concezione della pittura mutò; egli rivolse il suo interesse sempre più al problema d'atmosfera e di colore, sempre meno a quello di forme e di disegno, finché giunse quasi alla soppressione di questo e le sue tele divennero abbaglianti contrasti dei colori fondamentali immersi in una nebulosità trasparente.

Soltanto il prestigio della sua grande fama poteva permettergli d'imporre al pubblico dell'era vittoriana simile interpretazione coloristica, che, nell'inflessibile purezza del suo programma estetico, rimase irraggiungibile per quasi cento anni.

Al Blake e al Turner si affianca una terza figura solitaria dell'arte inglese: Alfred Stevens (1818-1875). Soprattutto scultore e disegnatore, in modo secondario pittore, ma insigne in quest'arte come nelle altre due. Sarebbe errato considerarlo imitatore di Michelangelo; egli fu piuttosto una strana reincarnazione del grande fiorentino e un grande disegnatore. Senza predecessori e senza seguaci, fu poco apprezzato in vita.

Poco prima della morte del Turner ebbe inizio un movimento avverso allo stile teatrale della contemporanea scuola d'artisti di genere aneddotico, i Maclise e i Frith. La reazione, capitanata da William Holman Hunt (1827-1910), John Everett Millais (1828-1910) e Dante Gabriele Rossetti (1828-1882), combatteva per il ritorno alla natura, quale fu vista dai maestri anteriori a Raffaello, e per romperla con il tradizionale insegnamento di Joshua Reynolds e dei suoi successori all'Accademia Reale. I tre protagonisti del movimento, uniti per qualche tempo nell'ideale estetico, cominciarono più tardi a differenziarsi nello stile delle loro pitture. Il Millais, più precoce e irrequieto, abbandonò presto gl'ideali del preraffaellismo per una più facile maniera e ottenne la presidenza dell'Accademia. Il Rossetti, dotato di talento letterario e artistico, mostrò nei primi lavori un originale intelletto poetico, più tardi ebbe il torto d'irrigidirsi troppo in una formula che aveva avuto fortuna. Holman Hunt rimase invece sino alla fine della sua lunga esistenza fedele allo stile e agl'ideali della prima giovinezza.

Ford Madox Brown (1821-1892) nel primo periodo della sua attività subì l'influenza del preraffaellismo, ma anche quella dei Nazareni tedeschi, Cornelius e Overbeck. rivelandosi grande bozzettista e disegnatore di vero genio.

Dal Rossetti deriva Edward Burne-Jones (1833-1898), ma benché fosse tecnicamente più compito e possedesse una squisita sensibilità del ritmo e del disegno, degenerò presto nel manierismo. Ebbe fortuna la sua società con William Morris, il riformatore delle arti e industrie decorative, per l'illustrazione di libri e la produzione di vetrate artistiche e altri oggetti. George Frederick Watts (1817-1904), simpatizzò per un certo tempo con i preraffaelliti, ma si tenne al di fuori del movimento e trasse la sua ispirazione dalla pittura italiana, particolarmente dalla veneziana.

Intorno al 1890, messo in disparte il preraffaellismo, gli artisti inglesi si volsero sempre più alla Francia. Il primo impressionismo conosciuto in Inghilterra fu quello di Manet, che venne reso noto dall'americano James Abbott McNeill Whistler (1834-1903). L'opera del Whistler, nondimeno, subì fortemente l'influenza dall'arte giapponese sia nel disegno sia nella composizione e nell'atmosfera. Gl'impressionisti moderni come Walter Sickert e Wilson Steer, sono derivati in parte dal Whistler, il cui influsso è stato modificato da varie altre fonti.

In Scozia ebbe origine un'importante scuola di paesaggio, che durante gli ultimi anni del sec. XIX ebbe come suoi modelli il Corot e il Millet.

John Singer Sargent (1856-1925), un altro americano, che studiò in Francia e in Spagna, dominò durante i primi anni del sec. XX nel campo del ritratto con la vivacità della tavolozza, il brio e lo spirito della composizione. Di differente carattere fu l'influenza francese penetrata in Inghilterra per opera di Alphonse Legros (1837-1911), nominato professore alla cattedra della fondazione Slade nel University College di Londra nel 1876. Seguace del Millet e di altri celebri contemporanei, egli tuttavia conservava per l'arte degli antichi maestri il massimo rispetto. Parecchi fra i maggiori artisti della seguente generazione furono istruiti nella sua scuola: e nel New English Art Club, fondato nel 1886 dagli ex-studenti di essa, furono esposte le tele più significative della fine del sec. XIX e del principio del XX. Augustus John, William Orpen, P. Wilson Steer, Ambrose McEvoy e Henry Tonks sono fra gli allievi di Legros. Ma le influenze e le reazioni che agirono nell'arte inglese dal principio del secolo furono tante e così contraddittorie che è impossibile trattarne qui. Un avvenimento di notevole importanza fu l'esposizione dei post-impressionisti francesi alle Grafton Galleries, organizzata nel 1911 da Roger Fry. Da allora data l'influenza del Cézanne, che ha un'importante parte nella pittura inglese.

Si determinò una vivace reazione contro la corrente impressionistica e insieme sorse una scuola di post-impressionisti inglesi della quale divenne il maggiore esponente Duncan Grant.

Nel dopoguerra le contrastanti influenze furono ancor più varie e confuse, come cubismo, vorticismo, ecc. Ma la teoria che afferma essere la sola forma pura la qualità più importante di un'opera d'arte, va cedendo man mano il campo a opinioni più complesse e nello stesso tempo più sane, le quali sono basate su un'estetica meno intransigente.

Scultura. - Poche sono le sculture del periodo romanico ancora esistenti in Inghilterra che non siano state eseguite in funzione dell'architettura, quali timpani e portali scolpiti e capitelli ornati. I due rilievi in pietra della Resurrezione di Lazzaro, nella cattedrale di Chichester, costituiscono un'eccezione. Essi datano probabilmente dal sec. XII, benché alcuni assegnino ad essi una data anteriore alla conquista normanna; il loro stile, non privo d'influenze bizantine, è strettamente connesso a quello di altre opere del sec. XII. La scultura del periodo normanno è di rozza fattura e piena di motivi scandinavi; nel primo periodo è piatta, a due soli piani; più tardi, come nel portico meridionale dell'abbazia di Malmesbury (sec. XI), presenta una tecnica raffinata e reminiscenze della miniatura contemporanea.

La scultura gotica del sec. XIII, nella prima sua fase, si mostra bene nel lato occidentale della cattedrale di Wells, costruita fra il 1225 e il 1242, in una serie di figure che illustrano la caduta e la redenzione dell'uomo, statue a tutto tondo trattate con austera contenutezza che va fino alla monotonia, con pieghe lunghe, parallele, verticali. Questa scuola locale è in contrasto con quella operosa all'abbazia di Westminster durante il regno di Enrico III. Qui la scultura, più sciolta nel disegno, rassomiglia da vicino alle opere francesi contemporanee. Squisiti esempî dell'abilità degli scultori di Enrico III sono i ben conservati rilievi di angeli turiferarî, nei quattro angoli del braccio trasversale dell'abbazia, del 1250 circa. Una fase un poco posteriore viene illustrata dal lato orientale della cattedrale di Lincoln, ampliata fra il 1250 e il 1280, per il reliquiario di S. Ugo: le figure non hanno più traccia d'austerità, nei visi sorridenti e quasi maliziosi di fanciuìli e nella tipica positura gotica inclinata. Le croci, erette da Edoardo I per commemorare il passaggio da Londra della salma della consorte regina Eleonora (1290), furono decorate con sculture. Tre di queste son conservate, e quella che si trova a Waltham, opera d'un certo Aleander of Abingdon, della scuola londinese, possiede una scioltezza e una grazia che sembrano caratteristiche delle opere londinesi di quel periodo. Il migliore saggio dell'ultima fase della scultura gotica, prescindendo dalla scultura funeraria, è dato dalle numerose figure eseguite fra il 1437 e il 1450 nella cappella di Enrico V nell'abbazia di Westminster, di fattura alquanto grossolana. Né offrono un interesse molto maggiore le statue che in gran numero si trovano nella cappella di Enrico VII, nella chiesa della medesima abbazia; esse datano dal principio del sec. XVI e hanno impronta spiccatamente fiamminga.

Un genere speciale della scultura inglese durante i secoli XIV e XV fu la produzione di sculture d'alabastro per altari, altorilievi con scene della Passione e della vita dei santi. Nottingham fu il centro principale di questi prodotti esportati in paesi lontani come l'Italia, la Russia e la Spagna.

Il genere di gran lunga più importante della scultura in Inghilterra durante il Medioevo, fu quello della scultura funeraria. Poche sono le opere pervenuteci dal sec. XII e di non grande valore. Nel sec. XIII, quando tal genere acquistò maggiore diffusione, il materiale principalmente usato fu il marmo di Purbeck, estratto nel Dorsetshire e trasportato a Londra, dove si trovavano le botteghe dei principali scultori di tombe. Esempî notevoli di queste effigie in marmo di Purbeck fra l'inizio e la fine del sec. XIII sono quelli nella Temple Church di Londra. Nel periodo gotico mediano il materiale più usato fu la pietra da taglio e più tardi l'alabastro. Dai tempi di Enrico III i mausolei reali furono, tuttavia, fusi in bronzo. L'effigie di questo re nell'abbazia di Westminster, di William Torel, orafo londinese, rivela una maestria tecnica, un senso ritmico nei panneggiamenti, una soavità e una dignità che nella scultura inglese medievale sono rimasti insuperati.

Il più bell'esempio che si possieda di scultura funeraria del sec. XV è la tomba di Richard Beauchamp, conte di Warwick (morto nel 1439), nella cappella Beauchamp nella chiesa di Santa Maria a Warwick. Anche le piccole figure sui lati della tomba (motivo divenuto comune fin dal sec. XIV) sono in bronzo come l'effigie stessa. La fusione del tutto è dovuta a William Austen di Londra e il contratto per tale lavoro getta una luce interessante sulla scultura inglese durante il Medioevo. Con il sec. XVI cominciano a predominare le influenze straniere. La tomba di Enrico VII e della regina sua moglie, nell'abbazia di Westminster, è dovuta, com'è noto, a Pietro Torrigiano; mentre, per esempio, i monumenti degli Howards nella Framlingham Church (Suffolk) sono di mano fiamminga. Ma anche da artefici inglesi i monumenti funerarî continuarono a essere prodotti in gran copia durante il sec. XVI, e alcuni di essi, come p. es. i monumenti di Maria regina di Scozia e della regina Elisabetta, nell'abbazia di Westminster, sono pregevoli opere che arieggiano lo stile barocco francese.

Lo scultore Nicholas Stone (1586-1647) fu uno dei primi che diedero prova allora d'una propria personalità, come nel monumento a sir Julius Caesar nella Great St Helen's Church a Londra. Scultore in legno di grande abilità tecnica fu Grinling Gibbons (1648-1720), noto soprattutto per le sue sculture decorative a Windsor, Hampton Court e altrove. Ma gran parte delle sculture prodotte in Inghilterra durante il sec. XVII e il XVIII fu pur sempre opera di stranieri come Hubert Le Sueur (circa 1580-1670) e Louis-François Roubiliac (1695-1762), il maggiore scultore della prima metà del sec. XVIII in Inghilterra, autore delle celebri statue di Isacco Newton al Trinity College di Cambridge, e di Shakespeare nel British Museum.

L'ultima parte del sec. XVIII fu caratterizzata, in Inghilterra come sul continente, da un preteso ritorno allo stile ellenico puro. Joseph Nollekens (1737-1823), Thomas Banks (1735-1805), John Bacon 1740-1799), e soprattutto John Flaxman (1755-1826) furono gli esponenti di questa tendenza. Le opere di quest'ultimo, nonostante abbiano una certa grazia e finezza d'ispirazione, sono fredde e monotone; caratteri che si accentuano nei suoi continuatori, come E. H. Baily (1788-1867), e John Gibson (1790-1866). Francis Chantrey (1781-1841), figura dominante della prima metà del sec. XIX, ed Edward Boehm (1834-1890) persistono in questa maniera pseudo-ellenica. Poi una forte influenza francese emancipò l'Inghilterra da questa tradizione, soprattutto per merito di Jules Dalou, che dal 1870 fu insegnante alle Lambeth Schools; un fattore importante fu anche il più attento studio e la maggior comprensione della scultura greca, originata dai marmi di Elgin. Alfred Stevens (1817-1875), il più grande scultore inglese del sec. XIX, fu allievo di Thorwaldsen. Il suo stile nella scultura, come nella pittura e nel disegno, mostra l'influenza dominante di Michelangelo e una straordinaria perizia tecnica al servizio di un'eccezionale grandiosità di concezione. Nei più abili scultori della successiva generazione, particolarmente in F. Derwent Wood è palese l'influenza dello stile monumentale di Stevens, mentre le innovazioni decorative di quest'ultimo diedero in certo qual modo origine al movimento cosiddetto dell'"Art nouveau", di cui Alfred Gilbert è il migliore esponente.

I molti notevoli scultori, i quali operano nell'ultima parte del secolo XIX e del principio del XX, Lord Leighton, sir Hamo Thornycroft, E. Onslow Ford, Alfred Drury, Harry Bates, George Frampton, W. Goscombe, John e J. Havard Thomas, per nominarne solo alcuni, mostrano le varie influenze d'un periodo di transizione, il quale passò da un classicismo severo a un naturalismo decorativo.

Degli scultori contemporanei che lavoravano in Inghilterra, di gran lunga il più notevole è senza dubbio Jacob Epstein, i cui ritratti in bronzo rivelano una straordinaria potenza d'espressione e una tecnica personale. Un'altra tendenza della scultura inglese è oggi rappresentata da Eric Gill, le cui opere sono prevalentemente scolpite nella pietra, e rivelano l'influenza della scultura medievale. I suoi bassorilievi delle Stazioni della Croce nella cattedrale cattolica di Westminster, mostrano, attraverso schemi formali bizantineggianti, una genuina intensità di sentimento.

Incisione. - In Inghilterra si cominciò a praticare l'arte dell'incisione nel sec. XVI ma prevalentemente per opera di stranieri, olandesi e fiamminghi, e limitatamente al ritratto e all'illustrazione di libri. Il primo fra gl'incisori inglesi che meriti d'essere menzionato è William Faithorne il Vecchio (1616-1691), i cui ritratti risentono l'influenza di Nanteuil e di Mellan.

L'Inghilterra comincia a occupare un posto importante nella storia dell'incisione con il processo della "maniera nera" (mezzotint; v. incisione). R. Houton, J. McArdell, E. Fisher, Valentine Green, Richard Earlom, W. Dickinson, J. R. Smith e più tardi W. e J. Ward, Charles Turner e David Lucas, sono alcuni dei più famosi fra i numerosi incisori in mezzotint. L'incisione mediante punteggio ebbe pure gran voga durante la seconda metà del secolo XVIII, e toccò un alto grado di perfezione benché sopra tutti abbia grandeggiato in Inghilterra l'italiano Francesco Bartolozzi (1728-1813). L'acquatinta fu pure praticata con successo, ma le acquetinte inglesi non furono mai stampate a colori come quelle francesi, bensì colorate a mano. William Blake (1757-1827) esordì con l'incisione lineare, ma il suo ingegno originale cercava altri mezzi d'espressione e i suoi saggi nella stampa delle incisioni su metallo e nella stampa a colori sono del massimo interesse, a prescindere dal contenuto delle illustrazioni. Ove si eccettui il Blake, l'incisione e la mezzotint, agl'inizî del sec. XIX, restarono confinate nel campo della riproduzione. Le risorse meccaniche e l'accuratezza e perfezione tecnica aumentate si risolvettero soltanto in monotonia. Il Liber Studiorum, una serie di mezzotint per alcune delle quali le acqueforti preliminari furono fatte da J. M. W. Turner, mentre tutta la serie fu tratta dai suoi disegni, e le mezzotint alla maniera del Constable dovute a David Lucas, costituiscono brillanti eccezioni.

La silografia, praticata in Inghilterra fin dal sec. XV, e rimasta il mezzo normale d'illustrazione dei libri durante i due secoli successivi mentre nel sec. XVIII cominciò a essere sostituita a questo scopo dall'incisione su metallo, ebbe alla fine di quel secolo un rifiorimento e fu portata da Thomas Bewick (1753-1828) ad alto grado di perfezione.

Finché non fu inventata la produzione in serie, essa continuò a essere il metodo usuale per illustrare libri, e fra il 1850 e il 1875, per opera di disegnatori quali J. E. Millais, Dante Gabriele Rossetti, F. Sandys, Burne-Jones e altri preraffaelliti divenne anche un mezzo per riprodurre i disegni di bozzettisti di talento superiore all'ordinario.

Al rifiorire dell'arte incisoria non portarono alcun contributo gl'incisori professionisti, le opere dei quali diventarono sempre più stereotipate, bensì pittori come Whistler e dilettanti come sir Francis Seymour Haden (1818-1910), i quali, ispirandosi al diretto contatto della natura e allo studio delle acqueforti di Rembrandt, diedero nuova vita all'incisione di paesaggi, che praticamente aveva cessato d'esistere. Da quell'epoca l'Inghilterra ha prodotto una serie ininterrotta di distinti acquafortisti di paesaggi, come D. Y. Cameron, Frank Brangwyn, Muirhead Bone, James McBey, G. W. Rushbury e F.L. Griggs, per nominarne solo alcuni. La tendenza più recente nelle arti grafiche inglesi è orientata verso un ritorno alla più formale tecnica incisoria e in essa dei giovani, quali R. S. Austin, Stephen Gooden e Job Nixon, hanno trovato un mezzo d'espressione appropriato al loro temperamento.

Miniatura. - L'arte celtica, che nella miniatura culminò con la decorazione dei Lindisfarne Gospels e del Libro di Kells, finì piuttosto bruscamente e lasciò poche tracce della sua influenza. La prima manifestazione dell'arte anglosassone va ricercata nelle miniature prodotte a Winchester nel sec. X, in uno stile affine a quello predominante nella Francia settentrionale e apparentemente derivato da esso. Il più famoso libro di questo stile è il Benedictional di St Aethelwold (Chatsworth, biblioteca del duca di Devonshire); ma al British Museum sono conservati esempî di data un poco anteriore, come lo statuto del re Edgar per la città di Winchester, che risale al 966. La conquista dell'Inghilterra da parte dei Normanni, portò a un graduale cambiamento di stile. Le mosse concitate delle figure e i drappeggiamenti svolazzanti della scuola di Winchester vennero sostituiti dalla più elaborata, enfatica e sovraccarica maniera del sec. XII. Tipici prodotti di questo secolo furono le enormi Bibbie in parecchi volumi, delle quali le più importanti sono quelle della cattedrale di Winchester, e quelle per Bury (Cambridge, Corpus Christi College). La magnificenza di questi volumi e la ricchezza della loro decorazione sono senza eguali nel continente durante lo stesso periodo. Con l'inizio del sec. XIII le forme cominciano a perdere la pesantezza romanica per acquistare maggior levità nelle movenze e goticità di stile. Anche i colori tendono a diventar meno carichi e pesanti, e le decorazioni a essere più sciolte. È evidente una forte influenza dell'arte francese, e la differenza fra questa e quella inglese diventa, in questo periodo, minore. Una delle più importanti scuole di miniatura, o più esattamente, di disegno, sembra sia stata quella del monastero benedettino di St Albans, e il rappresentante più eminente di essa Matthew Paris, il cronista. I disegni per le illustrazioni della sua Chronica, ora nel Corpus Christi College di Cambridge e nel British Museum, fluidi e pieni di grazia, rivelano l'applicazione d'un metodo compiutamente elaborato e adeguato alle esigenze illustrative. È caratteristica di questo periodo la produzione, in Inghilterra come nella Francia settentrionale, di libri dell'Apocalisse illustrati. Tali illustrazioni sono costituite nella maggior parte di disegni colorati e il loro stile è analogo a quello di Matthew Paris. Una diversa scuola di disegno a solo contorno ci è rivelata da un manoscritto del sec. XIV conservato nel British Museum, conosciuto sotto il nome di Salterio della Regina Maria, e da un gruppo di altri manoscritti; lo stile qui è anche più delicato e raffinato di quello della scuola di St Albans e più prossimo alla miniatura francese contemporanea; è possibile che esso si sia sviluppato per opera di artisti che lavoravano a Londra per la corte. I più caratteristici prodotti inglesi del sec. XIV furono i salterî, riccamente miniati, eseguiti nell'Inghilterra orientale sul principio dei secolo. Il loro stile è meno fluido di quello del sec. XIII e del Salterio della Regina Maria, ma la profusione e la ricchezza della loro decorazione e l'umorismo e l'individualità dei grotteschi marginali sono notevoli. Esempî famosi sono il Peterborough Psalter a Bruxelles, l'Ormesby Psalter della Bodleian Library a Oxford, il Gorleston Psalter, appartenente al signor Dyson Perrins, e il St Omer Psalter del British Museum. L'ultimo e più noto della serie è il Luttrell Psalter, recentemente acquistato per il British Museum, e che contiene una notevole serie d'illustrazioni della vita medievale.

Dalla metà del sec. XlV ben poco d'importante fu prodotto fino a dopo l'avvento di Riccardo II nel 1377. Allora cominciò ad apparire un nuovo stile, originato forse da influenze straniere penetrate in conseguenza del matrimonio del re con Anna di Boemia nel 1382. Questo stile è caratterizzato da un maggiore naturalismo e da una più grande cura del modellato, e segue il mutare dello stile che si ebbe in Europa alla fine del sec. XIV.

I primi esempî di questa nuova maniera sono la grande Bibbia e il Messale mutilato eseguiti probabilmente per Riccardo II e conservati ambedue nel British Museum; tuttavia, il Messale di Nicholas Litlington, miniato nel 1383-4 per l'abbazia di Westminster, e che si trova ancor oggi nella biblioteca di questa, presenta molte delle stesse caratteristiche. Manoscritti del medesimo stile ma di data posteriore recano la firma di certo Herman, presumibilmente uno straniero. Uno di questi è il magnifico "Libro d'Ore" eseguito per Giovanni duca di Bedford e acquistato da poco per il British Museum. Se gli autori di queste opere furono stranieri, inglesi furono certamente i loro discepoli, e noi troviamo la firma di un frate domenicano, John Siferwas, nel famoso Messale Sherborne appartenente al duca di Northumberland, ad Alnwick Castle. Però, anche questa scuola ebbe vita breve e la miniatura inglese cadde durante il sec. XV a un livello molto basso. Nella seconda metà di quel secolo predominò l'influenza fiamminga, e Edoardo IV si valse di artisti fiamminghi per decorare i libri della propria biblioteca. Le uniche opere notevoli in questo periodo sono i disegni a penna illustranti i volumi di Thomas Chaundler, ora nel Trinity College di Cambridge, e quello dei Fasti di Richard Beauchamp, conte di Warwick, ora nel British Museum. Non è certo se queste opere siano dovute a un inglese; comunque, esse hanno qualche affinità con le opere francesi e fiamminghe.

Vetri dipinti. - Le poche vetrate dipinte del sec. XII ancora esistenti in Inghilterra, a York e Canterbury, son molto vicine allo stile di quelle francesi di Saint-Denis e Chartres. Le più belle vetrate del sec. XIII, ossia la serie di finestre rotonde con le Storie di San Tommaso di Canterbury, si trovano per l'appunto a Canterbury: il loro stile è già decisamente gotico e ancora di derivazione francese. All'infuori di queste, poco è giunto fino a noi dal sec. XIII che non sia frammentario, ove si escluda la grande finestra della cattedrale di York, nota sotto il nome di Vetrata delle Cinque Sorelle, con decorazione ornamentale, senza soggetti figurati. A York si trovano i vetri più notevoli dei secoli XIV e XV, e non soltanto nella cattedrale, ma anche in parecchie chiese minori, abbondano vetri che sono certamente il prodotto di un'importante scuola locale. I più antichi di essi, quelli del secolo XIV, mostrano le medesime tendenze osservate nella miniatura: una minore cura per le figure che per gli elementi decorativi e architettonici, e la tendenza a restringer la gamma dei colori per largheggiare nell'argenteo, colore di cui fu inventata la fabbricazione al principio di quel secolo. I centri principali nel sec. XV sembrano essere stati Londra e York. Nella prima di queste città lavorò John Prudde, pittore di vetri al servizio di Enrico VI, noto per aver dipinto le vetrate tuttora esistenti nella cappella dei Beauchamp a Warwick: il suo stile, tutto personale, si stacca nettamente da ogni altro del continente.

La scuola contemporanea di York si differenzia alquanto da quella di Londra e la sua influenza pare estesa a Great Malvern, ove esiste una serie di vetrate del sec. XV. Sembra che verso la fine di quel secolo questa scuola indigena si sia spenta, sostituita da artisti fiamminghi. Barnard Flower, fiammingo, fu incaricato di dipingere le vetrate della cappella di Enrico VII nell'Abbazia di Westminster (vetrate delle quali ci restano solo frammenti insignificanti) e probabilmente egli medesimo eseguì la serie completa di vetrate della Fairf0rd Church, nel Gloucestershire. Le magnifiche finestre della King's College Chapel a Cambridge, benché eseguite fra il 1515 e il 1531 dal citato Barnard Flower, da Galyon Hone e da altri maestri residenti a Londra, furono certamente disegnate da un artista o da artisti di Anversa, forse Dirick Vellert. Altre vetrate, nella chiesa di S. Margherita a Westminster, dove furono trasferite da altrove, e nella cappella del Vyne (Hampshire) sono parimenti di stile straniero.

Con la Riforma, nel sec. XVI, le pitture su vetro cessarono d'esser fatte o usate nelle chiese e il loro uso profano non fu così generale come nelle Fiandre e in Svizzera. Una ripresa di quest'arte si ebbe verso la metà del sec. XIX, quando William Morris iniziò la sua rifomia delle arti minori. Edward Burne-Jones fu un abile disegnatore, dotato di notevole senso coloristico.

Oreficerie, avorî, ecc. - Durante il Medioevo l'oreficeria, l'intaglio in avorio e il ricamo furono praticati in Inghilterra e raggiunsero un alto grado di perfezione, ma, tranne per il ricamo, non è sempre facile distinguere i prodotti inglesi da quelli francesi, specialmente nel sec. XIII. Le oreficerie inglesi medievali sono estremamente rare a causa dei sequestri delle proprietà ecclesiastiche operati da Enrico VIII e in occasione delle successive rivoluzioni religiose; i pochi esempî che ce ne restano, come il pastorale di William of Wykeham, del sec. XIV, al New College di Oxford, e qualcuna delle "coppe dei fondatori" dell'università di Cambridge, mostrano che gli orefici inglesi furono almeno pari ai loro colleghi stranieri. L'intaglio in avorio, che raggiunse la massima perfezione nel sec. XIV, era stato praticato fin dall'epoca sassone.

Il bello e vivace intaglio dell'Adorazione dei Magi nel South Kensington Museum è un notevole esempio dell'arte inglese del periodo intorno al 1000, ma gli avorî scarseggiano fin verso il sec. XI V. A questo secolo appartiene un gruppo di opere a cui è legato il ricordo del vescovo Grandison di Exeter, e che comprendono il dittico recentemente acquistato per il British Museum; esse sono d'una bellezza e individualità particolari, contrastanti con la produzione, piuttosto banale fin'allora, dei laboratorî francesi.

Il ricamo, di cui i primi esempî tuttora esistenti sono la stola e il manipolo di St Cuthbert, del sec. X, nel tesoro della cattedrale di Durham, e le famose "Tappezzerie di Bayeux" (se pur siano veramente, come sembra, di lavorazione inglese) che risalgono al sec. XI, diventò un ramo particolarmente caratteristico dell'artigianato inglese con la scoperta, avvenuta verso la fine del sec. XIII, d'una tecnica perfezionata, chiamata opus anglicanum. Il pezzo più famoso di questa produzione in Inghilterra è la cappa di Syon, del tardo sec. XIII, conservata nel South Kiensington Museum, meravigliosa per la magnificenza e bellezza del disegno. Ma altri esempî egualmente belli sono conservati in chiese all'estero, come la cappa di Ascoli, la cappa di S. Silvestro a S. Giovanni in Laterano, e i parati della cattedrale di Anagni. Il sec. XV segna in Inghilterra, anche per il ricamo, l'inizio della decadenza.

Benché sia provato per notizie documentarie che in Inghilterra, durante il Medioevo, già si praticava la tessitura di arazzi, nessuno dei prodotti di tale industria si è potuto fino a oggi rintracciare. Comunque, gli arazzi furono in massima parte importati dalle Fiandre fino al principio del sec. XVII, quando venne impiantata una fabbrica a Mortlake. Diverse serie di arazzi vennero tessute traendole dai cartoni di Raffaello acquistati da Carlo I; altre furono tratte da disegni di Francis Clein (1582-1658), direttore della fabbrica durante parecchi anni, e la produzione di quest'industria raggiunse un alto grado di perfezione.

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Pittura: R. Muther, Geschichte der englischen Malerei, Berlino 1903; C. H. Collins Baker, Lely and the Stuart Portrait Painters, Londra 1912; Sir C. Holmes, The National Gallery, III, Londra 1927; E. W. Tristram and Tancred Borenius, English Mediaeval Painting, Firenze 1927; C. H. Collins Baker e W. G. Constable, English Painting of the 16th and 17th Centuries, Firenze 1930; W. T. Whitley, Artists and their Friends in England, 1700-99, Londra 1931; C. Johnson, Engl. Painting, Londra 1932; J. J. Foster, Brit. Miniature Painters and their Works, Londra 1898; G. G. Williamson, History of Portrait Miniatures, Londra 1904; J. J. Foster, A dict. of Painters a. Miniatures 1525-1850, a cura di E. M. Foster, Londra 1926; D. Heath, Miniatures, Londra 1905.

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Vetri dipinti: H. Read, English Stained Glass, Londra 1926.

Avorî: M. H. Longhurst, English Ivories, Londra 1926.

Musica.

Come negli altri paesi europei, anche in Inghilterra le origini della nostra civiltà musicale sono determinate dalla diffusione della liturgia cristiana, ricca di melodie intensamente espressive e nitidamente delineate. A differenza, però, di quanto avveniva in Spagna, in Francia, nella Lombardia, ecc., in Inghilterra il canto liturgico cristiano fu conosciuto, già al suo primo apparire, nel rito romano: uno dei risultati della missione mandata in Inghilterra, nel 596, da papa Gregorio Magno per convertire i Britanni al cristianesimo, fu precisamente la diffusione del canto romano: S. Agostino (detto poi di Canterbury) e i suoi 39 compagni di missione trovarono del resto nei giovani Britanni ottime doti di cantori, e il loro insegnamento produsse presto, dapprima a Canterbury, a York e in Northumbria, frutti duraturi. L'Inghilterra fu così il primo paese - dopo l'Italia - che ricevette il gregoriano.

I primi documenti musicali (bivocali) si rinvengono nel Winchester Troper (ms. a Cambridge, biblioteca del collegio Corpus Christi), notati a neumi senza rigo, e in qualche altra pagina, che - come quelle del Winchester Troper - risalgono ai secoli XI e XII. Il carattere fortemente melodico di queste musiche si ritrova, in evidenza ancor maggiore, nella ben conosciuta "rota" Sumer is icumen in, composta verso il 1260 nell'abbazia di Reading. Questa pagina mostra un senso polifonico già vigoroso, composta com'essa è a canone (a 4 voci) su di un basso ostinato (a 2 voci di basso). Riguardo all'origine della sua melodia, si ritenne per molto tempo che fosse da cercare in una canzone popolare; ma la simiglianza stilistica tra questa melodia e quella di organa su parole sacre contemporanee al Sumer is icumen in toglie a tale ipotesi ogni necessità. Oltre a questo canone intero ci rimangono, negli organa di Worcester (primo 1300), frammenti nei quali si notano tentativi d'imitazione canonica.

Di manoscritti di tal periodo non ne sono però giunti che pochi fino a noi, così che non è facile seguire con sicurezza lo sviluppo musicale del tempo. Abbiamo, a questo proposito, testimonianze indirette della valentia degli arpisti irlandesi e degli Scozzesi, e della diffusione - tradizionale a quel che sembra - del cantare a due voci presso i Gallesi. Celebri sono rimasti i nomi di quei teorici: J. Cotton, J. Hothby, J. de Garlandia, W. Odington.

Maggior copia di documenti ci è giunta del periodo successivo, a partire dal primo Quattrocento, tra i quali citiamo come particolarmente importanti i manoscritti della Bodleiana a Oxford, quelli del collegio di Eton, della Old Hall del collegio di St Edmund a Ware, oltre a quelli di Modena, di Bologna e ai codici di Trento. Questo periodo trova il suo maggiore esponente in J. Dunstable (v.), la cui scuola novera musicisti assai notevoli: L. Power, J. Alain, J. Benet, Bedingham (sec. XV) e altri, fra i quali la firma Roy Henry posta in mss. della Old Hall indurrebbe a includere il re Enrico VI (morto nel 1471).

Caratteristico dei prossimi predecessori del Dunstable e di questo stesso maestro è la composizione in gymel (o falso-bordone) a terze e seste, quale è illustrato da Guglielmo Monaco (circa il 1400). Nell'arte del Dunstable il canto fermo, nucleo di variazioni, produce grande ricchezza di melodie, e in particolare conto è tenuta anche la bellezza del complesso fonico. Virtù, queste, che certo contribuirono a diffondere l'influenza del Dunstable sui grandi compositori fiamminghi: G. Dufay, G. Binchois, ecc.

Con il Dufay la direzione del movimento musicale passa ai fiamminghi, ma in Inghilterra la tradizione locale è continuata non senza influenze josquiniane, da una piccola scuola di compositori: R. Fayrfax, W. Cornysshe, H. Aston, N. Ludford, J. Taverner, J. Shepherd, Chr. Tye, ecc. La produzione di questi maestri si volge con schemi tutti proprî e con buoni risultati alla musica sacra nell'orbita cattolica e poi nella protestante. La messa è trattata da questi compositori in modo singolare: priva, generalmente, del Kyrie, essa omette parte del Credo, mentre estende di molto le dimensioni dell'Agnus. Come nel continente, così anche in Inghilterra la composizione della Messa è fondata spesso su canti popolari anche profani; uno dei più trattati è il Westerni Wind, che vediamo molte volte usato a guisa di tema variato, altre volte come ostinato.

La musica protestante trova i suoi primi esponenti in J. Taverner e in Chr. Tye, i quali pure avevano composto messe cattoliche sul Western Wind: al primo di essi si deve la composizione di passi tratti dagli Atti degli Apostoli, dal musicista stesso tradotti in quartine inglesi; musica assai semplice, che pone le basi e il modello del salmo metrico inglese e che ancora oggi è in uso nelle chiese.

Dopo questi pionieri la liturgia anglicana ispirò altri maestri di nome ancor maggiore: T. Trallis e W. Byrd; anch'essi tuttavia composero musiche su testo latino, e anzi uno dei lavori più significativi del Tallis è un mottetto Spem in alium, nel quale il senso contrappuntistico dell'autore si dispiega in una polifonia a 40 voci (8 cori a 5). Contemporanei del Tallis furono i cattolici W. Munday e R. White, anch'essi valenti compositori. Il Byrd era egli stesso cattolico, e - come si è detto - compose molta musica su testo latino (Gradualia, del 1607, ecc.), ma, come il suo maestro Tallis, fu vicino alla corte inglese e per la liturgia riformata produsse molti ottimi canti. L'epoca elisabettiana ebbe in lui il più grande rappresentante musicale, degno per molti riguardi d'essere avvicinato al Palestrina e a Orlando di Lasso.

Nella vasta produzione del Byrd si notano musiche profane non soltanto assai belle ed espressive, ma anche svincolate dai legami stilistici che stringevano le analoghe composizioni del Cornysshe, del Fayrfax e del Whithorne a modelli fiamminghi. Singolarmente importante è poi in alcune di esse (Psalms, Sonets and Songs of Sadnes and Pietie, 1588) la dichiarata strumentalità di 4 delle 5 voci, così da presentarci musiche per una voce e strumenti (quartetto di viole).

L'influenza della madrigalistica italiana, inesistente presso il Byrd (ligio più a valori puramente musicali che ai poetici), compare in luce chiara presso Th. Weelkes e J. Wilbye, che ancor giovanissimi poterono conoscere i 57 madrigali italiani della Musica transalpina di N. Yonge (1588), e che si diedero con trasporto all'assimilazione di quest'arte raffinata, intensamente espressiva ed evocativa. Seguirono il nuovo indirizzo altri musicisti di valore: T. Morley, al cui nome è legato il Fa-La (v.), balletto nello stile del Gastoldi, ma su parole inglesi, che l'artista animò d'esuberante umorismo e di vivacità popolaresca; T. Tomkins, un allievo del Byrd, che combinò con gusto e ingegno il tipo del Madrigale con l'allegro Fa-La; J. Ward e O. Gibbons, autori di madrigali elevati e austeri, specialmente il Gibbons, i cui testi sono spesso d'indole addirittura filosofica.

Nell'esame di questa madrigalistica inglese è necessario tener conto della destinazione di essa musica, fatta per esser cantata non già - come in Italia - da virtuosi professionisti, ma proprio dagli stessi amatori e dilettanti (appartenenti di solito alle famiglie ricche) per nobile svago nelle villeggiature. Gli stessi compositori erano anzi spesso ospiti e stipendiati dalle famiglie patrizie e il Wilhye, p. es., passò molti anni a Hengrave Hall. Costume della buona società inglese era il passare serate musicali, ognuno dei presenti prendendo parte all'esecuzione di musiche vocali d'insieme, le cui parti venivano intorno distribuite; e il decifrare a prima vista era infatti parte dell'istruzione di qualunque gentiluomo.

In questo periodo giungono a singolare perfezione l'arte dei cantori al liuto e quella dei clavicembalisti, in Inghilterra chiamati virginalisti (v. clavicembalisti).

La prima si determina nel genere dell'Aria eseguita a una voce con accompagnamento di liuto, genere cui appartengono molte delle più belle liriche del patrimonio inglese. Questa scuola è rappresentata soprattutto dal grande John Dowland (v.), il cui stile, che sembra richiamarsi a quello del Byrd, si esplica in canti di particolare venustà e intensità espressiva, nei quali il liuto è trattato assai abilmente; canti d'indole puramente lirica, e lontana da ogni stilistica d'origine drammatica. Vicino al Dowland si pongono altri maestri, tra i quali Th. Ford, R. Johnson, J. Cooper (conosciuto sotto il nome di Giovanni Coperario), R. Jones, Ph. Rossiter e il musicista-poeta Th. Campion.

La scuola dei virginalisti fu in questo tempo la più interessante d'Europa. I testi sono oggi visibili in importanti raccolte: Fitzwilliam virginal book a Cambridge, Mulliner (book), Benjamin Cosyn's (British Mus.), Lady Nevell's (presso la marchesa di Abergavenny), e appartengono a diversi generi e categorie: trascrizioni di musiche vocali (inglesi o straniere), canzoni e danze (alcune con elaborate variazioni), preludî e fantasie, studî contrappuntistici su canti gregoriani. Figurano in tali raccolte i nomi di J. Bull, W. Byrd, Orlando Gibbons, Giles Farnaby (v. queste voci), ognuno dei quali maestri apportò un suo proprio contributo alla varia dovizia della letteratura clavicembalistica: il Bull con il suo portentoso virtuosismo, il Byrd con la sua efficacia evocativa (The bells, p. es., e Battles) e con la maestria delle sue variazioni, il Farnaby con la sua semplice grazia; del Gibbons, tra l'altro, è la prima raccolta clavicembalistica che siasi stampata: i Parthenia del 1611. In alcune delle composizioni di questa scuola si nota singolare ardimento nelle modulazioni e quasi un annuncio della scala temperata.

Oltre a queste grandi scuole di musica dotta son da ricordare, per rendersi conto della molteplice ricchezza di quel mondo artistico, le correnti dilettantistiche degli amatori di strumenti a fiato: flauto a becco, tromba, trombone, e della cetra a 4 corde.

Nel periodo elisabettiano si comincia a intravvedere un genere di musica scenica, nelle composizioni vocali su accompagnamento di viola, scritte generalmente dai musicisti più noti per la novità della loro arte, che s'inserivano nel corso o negl'intervalli di rappresentazioni di ragazzi della cappella reale. Rappresentazioni delle quali si può avere un'idea dalla scena di Piramo e Tisbe nel Sogno d'una notte di mezza estate. Nel teatro shakespeariano la musica interveniva soltanto occasionalmente (serenate, scene fantastiche, ecc.) o - come in tutto il teatro inglese - negl'intervalli fra atto e atto.

Ma già sul principio del sec. XVII si fa sentire in Inghilterra l'influenza del nuovo "stile recitativo" allora nato in Italia, specialmente in quei Masks (v.) che preludono a una fioritura operistica. La musica dei Masks, dovuta ad artisti come H. e W. Lawes, Ch. Coleman, ecc., si tenne però sostanzialmente inglese.

Il primo saggio d'una vera opera è dato da The Siege of Rhodes (1656) di sir William D'Avenant, musica di H. Lawes, Cooke, Ch. Coleman e G. Hudson. Nel testo poetico (la musica non ci è giunta) si rileva una netta differenza dall'opera italiana contemporanea, il dramma essendo evidentemente la cosa principale, cui la musica non faceva che apportare ornamento. In quell'occasione per la prima volta si vide una donna (mrs. Coleman) sulle scene. Altre rappresentazioni con musica si ricordano, tra le quali due "opere" del D'Avenant: The cruelty of the Spaniards in Peru e The history of Sir Francis Drake, probabilmente musicate da M. Locke e di stile più "operistico" del Siege of Rhodes. Neanche di queste ci è giunta la musica. Conosciamo invece la musica interessante e originale, scritta dal Locke e da Christopher Gibbons per il mask Cupid and Death (1654) di J. Shirley, rappresentato da scolari. Al quale proposito va notato il largo posto che nell'educazione dei giovani inglesi, anche durante la repubblica, avevano gl'insegnamenti della musica, della danza e della mimica.

Fino a qualche tempo dopo la restaurazione monarchica l'Inghilterra non conobbe più altri tentativi d'opera in musica, ma nel teatro di prosa si diffuse la voga di musiche di scena sempre più frequenti. Nel 1673 giunse a Londra una compagnia francese d'opera, il cui influsso si vide subito nello stesso anno con la rappresentazione d'una Psyche or the English Opera tratta dalla nota pastorale di Molière, con testo dello Shadwell e musica del Locke. Nel 1685 fallì un tentativo d'opera inglese: Albion and Albanius, per la scarsa felicità della musica adattata dal francese L. Grabu sul testo di J. Dryden.

Si arriva così al 1689, nel quale anno vide la luce la prima grande realizzazione inglese d'opera in musica: Dido and Aeneas del grande compositore Henry Purcell (v.), opera assai semplice e non lunga (un'ora), ricca di singolari bellezze musicali e d'intensità drammatica. Al Purcell si devono, oltre a questa, anche altre opere che sono finora rimaste le migliori di scuola inglese: King Arthur (testo di Dryden); The Fairy Queen (versione musicale del Sogno d'una notte di mezza estate) influenzata dallo stile italiano del tempo; ecc. La declamazione inglese del Purcell non è stata mai sorpassata, e costituisce, insieme con la pronta invenzione melodica e con l'ardita e originale armonia, pregio sommo di questo teatro.

Scomparso il Purcell, la scuola nazionale inglese s'indebolisce assai, e s'inizia il predominio della scuola italiana, che in fatto di opera si protrae fino all'Ottocento. Lo stesso Händel si distingue ben poco, come operista, dagl'Italiani, mentre maggiore autonomia conferisce all'oratorio, basato - assai più che non accadesse in Italia - sull'elemento corale. L'opera inglese più importante tra quelle del sec. XVIII è la Beggar's Opera del 1728, testo di J. Gay, musica a centone, adattata da L. Pepusch da frammenti d'origine popolaresca e da pagine di Purcell e di Händel. Intenzione e carattere della Beggar's Opera tendevano alla satira dell'opera italiana. Questo spirito satirico scompare nella lunga serie di Ballad Operas che prende pur le mosse dalla Beggar's, mentre sempre più, fino agli ultimi del Settecento, vi si diffonde il sentimentalismo. Alcune di queste Ballad Operas, e precisamente le prime, vennero eseguite anche in Germania, dove servirono d'esempio a J. A. Hiller per i suoi Singspiele. Del resto nella loro stilistica venne a un certo punto a influire l'arte di B. Galuppi, in Inghilterra acclamato per le sue opere buffe..

La vita musicale inglese era, nel Settecento, assai intensa se pure priva di grandi personalità creatrici: alla produzione di allora rimonta gran parte della musica rimasta oggi in repertorio. Tra l'altro notevoli sono le musiche sacre di M. Greene, W. Boyce, J. Battishill e di loro contemporanei, le quali sono ancora adesso in uso nelle chiese britanniche. Il maggiore dei compositori profani fu allora Th. A. Arne, operista fecondo sebbene d'ispirazione piuttosto lirica che drammatica, del quale oggi vivono quasi soltanto i canti composti su testo di Shakespeare. Dell'Arne è poi il noto inno Rule Britannia. Interessanti e caratteristiche sono, di quell'epoca, le sinfonie e le sonate da camera di W. Boyce, le sonate per violino di J. Gibbs, allievo di F. Geminiani, e le composizioni per clavicembalo (harpsichord) e per organo di C. F. Stanley, F. Nares e Kelway.

Ma verso il tardo Settecento la musica e i musicisti stranieri accentuarono sempre più il loro predominio. L'Inghilterra diventò un vero "paradiso", per i musicisti stranieri. Colà interessamento per la musica, i migliori pianoforti, la migliore editoria; colà concerti dedicati alla musica contemporanea, che ponevano in onore Haydn e Mozart e che giovarono a far poi accogliere con simpatia l'arte d'un Beethoven. Ricordiamo che quest'ultimo scrisse per la londinese Società filarmonica (fondata nel 1813), cui era grato per larga sovvenzione, la nona sinfonia.

Erano però, questi, gli ultimi momenti d'una vita musicale veramente fervida e indirizzata a gusti nobili. L'Ottocento vide, in Inghilterra, un lungo periodo d'abbassamento della cultura e della sensibilità musicale, contro il quale non molto poterono gli sforzi di alcuni ottimi artisti isolati.

Il meglio della prima produzione ottecentesca è contenuto nella musica sacra di Th. Attwood, allievo di Mozart e amico di Mendelssohn, di W. Crotch e di J. Goss. Ad essi seguirono Th. Attwood-Walmisley e S. Sebastian Wesley (figlio di S. Wesley, anch'egli compositore). S. Wesley padre e R. L. Pearsall ebbero importanza come esponenti d'una riassunzione di antiche tradizioni musicali, e il Pearsall, figura piuttosto eccentrica dell'era romantica, scrisse musiche profane sul tipo dell'antico madrigale, pregevoli per abilità tecnica e per vera originalità.

I soli compositori di questo primo Ottocento che acquistarono fama anche fuori d'Inghilterra furono J. Field e W. Sterndale Bennett (v.), noti il primo per i Notturni che servirono di modello a Chopin, il secondo per la produzione giovanile, ricca d'abilità e d'espressione (non lontana stilisticamente da Mendelssohn e da Schumann) e per la diuturna opera da lui data al risollevamento del gusto musicale inglese, sia come direttore d'orchestra e pianista, sia come insegnante, direttore della R. Accademia di musica e professore all'università di Cambridge.

Quanto all'opera teatrale, essa certo non raggiunse alti vertici d'arte, in ragione dell'ormai basso livello del gusto comune. Menzioniamo in ogni modo le opere-pasticcio di H. Bishop, il cui effetto era dovuto a un brillante uso del virtuosismo canoro all'italiana, e tre opere romantiche rimaste ancora in repertorio: The bohemian girl di M. W. Balfe, Maritana di W.W. Wallace, The Lily of Killarney di J. Benedict (un tedesco, allievo di Weber, stabilitosi in Inghilterra).

Il primo segno d'una rinascita dell'Inghilterra musicale si ebbe verso l'ultimo ventennio del sec. XIX, con la comparsa delle nobili figure di H. Parry e di Ch. V. Stanford (v.). Ambedue avevano studiato in Germania e subivano l'influenza di Wagner e di Brahms, come del resto era spiegabile in un ambiente ove la musica "seria" era dominata dai modelli tedeschi. Spiriti colti, e intesi non al particolare interesse ma al bene della musica nel loro paese. Alla loro opera di artisti e di educatori si deve l'odierno rispetto inglese per la musica, e l'esigenza, presso i musicisti, di cultura superiore (quasi tutti gli attuali compositori inglesi sono stati a Oxford o a Cambridge). Uno dei generi nei quali il nuovo movimento diede i suoi primi frutti fu l'oratorio, che del resto da Händel in poi era stato tenuto in onore e che aveva contribuito a diffondere l'amore per il canto corale, tipico del popolo inglese. Tra i primi lavori corali menzioniamo il Prometheus unbound (Shelley) di Parry, eseguito a Gloucester nel 1880, e The Revenge (Tennyson) di Stanford, eseguito a Leeds nel 1886.

Stanford non ebbe rivali come insegnante, e quasi tutti i compositori del periodo successivo sono stati suoi allievi.

Altri maestri del tempo sono A. Sullivan, fortunato autore di opere comiche, ancora oggi assai popolari; A. G. Thomas, operista di tendenze stilistiche francesizzanti; A. C. Mackenzie e F. H. Cowen, autori di buona musica di scena, e - più noto di tutti, specialmente all'estero - Edward Elgar, autore di oratorî (Dream of Gerontius), sinfonie, concerti, ouvertures, ecc., scritti con perizia e vigore in uno stile grandioso che può ricordare talvolta quello di R. Strauss.

Un movimento del tutto nuovo si apre a questo punto con il rinnovato amore e studio del canto popolare, ricco di tesori melodici e di sorprese armoniche, come - p. es. - il fondamento pentatonico dei canti scozzesi (probabilmente i più belli di quanti si odano nella Gran Bretagna) e il forte senso di tonica-dominante del canto gallese. Di recente ai già conosciuti sono stati aggiunti da M. Kennedy Fraser numerose e assai belle canzoni delle Ebridi. I canti inglesi, raccolti da entusiasti studiosi direttamente dalla voce dei contadini, studiati insieme con le danze popolari ancora usate dai più vecchi, si mostrano assai diversi, per il ritmo specialmente, da quelli del continente.

Già Stanford e il suo allievo Ch. Wood usarono temi popolari nella loro musica, ma il maggiore rappresentante della nuova scuola fondata sull'assimilazione del canto popolare inglese è Ralph Waughan-Williams; compositore ormai illustre anche all'estero per le sue grandi pagine sinfoniche e le sue opere (Hugh the Drover e Sir John in Love), tutte di carattere e sentimento tipicamente inglesi. Altri maestri di questo movimento si possono considerare Percy Grainger, George Butterworth, Armstrong Gibbs, E. J. Moeran, e - un po' in disparte - F. Delius, più degli altri noto all'estero per le sue opere e le composizioni corali.

Tra i meno anziani nominiamo Arnold Bax, forse il più dotato di tutti, e assai influenzato dallo spirito romantico celtico; Frank Bridge, tecnico sapiente; Arthur Bliss, ancora un poco oscillante stilisticamente ma pieno di vitalità musicale; Lord Berners, allievo di A. Casella e dedito specialmente alla musica satirica; W. Walton e finalmente Constant Lambert, il più giovane del gruppo, che scrive assai modernamente, non senza fortuna.

In Inghilterra la vita musicale è affidata non tanto all'attività del teatro (assai ridotta) quanto a quella degli enti concertistici, di cui l'ambiente è assai ricco. Gl'istituti d'istruzione sono anche molto numerosi e alcuni di essi possono essere considerati tra i migliori del mondo, p. es. la Royal Academy of Music, il Royal College of Music e la Guildhall School of Music, a Londra; ottimo insegnamento si impartisce poi anche presso la R. Military School of Music, la Royal Naval, ecc., e nei numerosi istituti di Edimburgo, Glasgow, Manchester e Birmingham. Onorato è tuttora il canto corale, secondo la vecchia tradizione britannica, a cura delle cappelle ecclesiastiche e reali, oltre che per il naturale amore del popolo, assecondato in ormai tutte le categorie di scuole.

Società corali si trovano in ogni villaggio, e si dedicano al madrigale, all'oratorio, ecc., prendendo parte ogni anno a grandi festivals corali.

Per sua propria natura, l'inglese tende alla musica vocale più che alla strumentale: di rado, infatti, l'Inghilterra ha espresso dal suo popolo grandi concertisti, e pochi compositori inglesi hanno composto concerti. La forza della vita musicale inglese resta sempre affidata al canto corale.

Bibl.: C. Stumpf, Musikpsychologie in England, in Vierteljahrsschrift für Musikwissenschaft (1885), p. 261; W. Nagel, Geschichte der Musik in England, Strasburgo 1894-97; F. J. Crowest, The Story of British music, Londra 1895; I. Valetta, La musica in Inghilterra, in Rivista musicale italiana (1898), pp. 85, 115; English Music (serie di lezioni tenute alla Music Loan Exhibition nel giugno-luglio 1904), Londra 1906; E. Walker, A history of music in England, Oxford-New York 1907; W. Barclay Squire, Music in England, in III. Kongressbericht d. Internationalen Musikgesellschaft, 1909.

Letteratura.

Letteratura anglosassone: 650-1066. - Perché la storia letteraria abbia un senso e non si risolva in una mera catena di monografie di scrittori, ciascuno tipico sol di sé stesso, è necessario postulare l'efficacia, sul fatto artistico, della tradizione, dell'esempio, di quell'insieme di abiti mentali - la concezione del mondo -, di motivi e - più strettamente tecnici - linguaggio, stile, maniere, che formano una cultura. Postulata dunque una continuità culturale come sine qua non di una tradizione letteraria, si escluderebbe, come si faceva una volta, la letteratura anglosassone dal tema "letteratura inglese", come quella che non fa corpo con essa. Al tempo della prima grande fioritura letteraria inglese nel Trecento, l'anglosassone era lingua incomprensibile, e la letteratura ne era affatto sconosciuta. Siccome però, anche se non sentite come tali a suo tempo, certe caratteristiche generali e profonde della letteratura inglese si possono rintracciare nella letteratura anglosassone, si fa qui un cenno di questa, rinviando per altre notizie alla voce anglosassoni.

La letteratura anglosassone vera e propria, cioè la poetica, ci è pervenuta soprattutto in quattro manoscritti della seconda metà del sec. X, il cosiddetto Ms. di Junius (a Oxford), il Codex Exoniensis (a Exeter), il Codice di Vercelli (chiamato Vercelli Book per distinguerlo dal famoso evangeliario designato come Codex Vercellensis), e il Codice contenente Beowulf e Judith nella Cotton Library (al British Museum). I chierici che dal sec. VII all'XI redassero i testi anglosassoni non conservarono del fondo pagano se non quanto trovarono non contrastante con la loro religione; d'altro lato introdussero aggiunte e modificazioni per rendere quei testi conformi al cristianesimo. Non si tratta dunque di una letteratura primitiva rispecchiante una società barbarica, ma di tarda stesura di soggetti tradizionali già trattati da menestrelli (scopas) alle corti reali e nobiliari. Se i poemi anglosassoni hanno in comune con l'antica poesia scandinava certi temi eroici datanti dall'età della migrazione (sec. IV-VI), il colorito morale e sentimentale di quei poemi è d'altronde pervaso di cristianesimo, e di solito elegiaco anziché eroico.

Caratteristiche dello stile, il parallelismo, lo sfoggio di sinonimi e l'uso di perifrasi. Specialmente queste ultime, piuttosto che denotare primitività, denotano uno sviluppo estremo e oramai deciduo: si tratta d'immagini decadute a mero calligrafismo, cristallizzate in una sterile cifra, sicché né aderiscono più alla realtà né riescono a trasporla in sogno. P. es. la nave è designata con le perifrasi brimhengest "cavallo dell'oceano", e yplida "calcaonde", il mare è "il cammino del cigno" (swanrād) o "il bagno della suia" (ganotes bæð). Tali perifrasi partecipano della natura dell'indovinello, e infatti la poesia anglosassone culmina negli Enimmi, genere che ha i suoi precedenti nella bassa latinità. Il verso, tenuto insieme da una catena di allitterazioni, esiste come suono staccato dall'idea espressa, gravandola spesso di un'enfasi puramente esterna e sproporzionata. D'altronde, la pratica dell'enjambement è indizio di maturità.

Il carattere tardo di questa poesia è manifesto anche dall'atteggiamento spirituale dei poeti verso l'età barbarica da loro commemorata, atteggiamento che è di contemplazione nostalgica e insieme di umanizzazione cristiana dei motivi pagani che essi rimaneggiano, assai simili in questo agli Alessandrini rifacitori di miti. In poemi "pagani" come Widsith (Il Viaggiatore a terre lontane) e Il lamento di Deor colpisce il compiacimento nel suono di nomi già leggendarî di dei, di re, di eroi. L'epos di Beowulf (v.), scandinavo per contenuto, è però anglosassone per l'attenuazione tipica dei lati violenti della saga; l'accento si porta già sul romanzesco e sul soprannaturale, che poi saranno i caratteri del ciclo arturiano; il tono prevalentemente melanconico, il colorito crepuscolare circonfondono d'un vago pessimismo la gesta eroica, quasi a mostrare la vanità d'ogni cosa terrena. Questa melanconia, di un tipo molto vicino a quello dei poemi ossianici, prevale anche nelle elegie "pagane", il lamento sulla rovina d'una città (La Rocca diruta), il pianto di lontananza (il cosiddetto Lamento di una donna), l'elegia di un esule (The Wanderer "L'Errante") e quella di un marinaio (The Seafarer). In quest'ultima, se è evidente ed efficace la descrizione dell'inclemenza dei mari settentrionali, non disgiunta da certo senso del fascino che essi esercitano (questa poesia apre così la gloriosa serie dei canti marittimi inglesi), controverso è l'insieme, e la chiusa edificante è probabilmente dovuta a contaminazione. Lo spirito dei tempi pagani meglio sopravvive in cantilene guerresche come quella, assai convenzionale, riportata in una cronaca in prosa sulla Battaglia di Brunanburgh, mentre un frammento di poema tardo, della fine del sec. X, sulla Battaglia di Maldon può far pensare alle descrizioni di battaglie dei paesi classici, e per il soggetto (la morte di un prode guerriero, Byrhtnoth) ha un'aria di famiglia con la Chanson de Roland, benché da questa si differenzii per il trattamento strettamente storico, esente da trasfigurazione leggendaria. Si distingue dal resto della poesia anglosassone per la mirabile economia dello stile.

La parte maggiore della letteratura anglosassone conservataci consiste per altro di poemi religiosi, trasposizioni, di solito parafrasi, della Bibbia nel verso e nel colorito nazionali (i poemi caedmoniani, v. caedmon). Uno dei poemi religiosi, La Caduta degli Angeli (tratto dalla Genesi), secondo taluni sarebbe potuto venire a notizia di Milton, attraverso il ms. dell'umanista Junius. Un'ingenua, verbosa e confusa retorica caratterizza questi poemi e quelli che van sotto il nome di Cynewulf (v.), basati pur essi sulla letteratura religiosa in latino - inni, agiografie, omelie -; e caratterizza anche componimenti che partecipano dell'allegoria, come Il sogno della Croce e La Fenice (questa derivata da Lattanzio), o didattici.

Non inceppata da formule tradizionali, la prosa anglosassone quale ci è documentata nelle opere di traduzione tramandateci (versioni di testi sacri, del De Consolatione di Boezio, del romanzo di Apollonio di Tiro) di solito cerca modellarsi sulla prosa latina (v. alfredo) o anche sulla lingua corrente, a meno che, come quella di Æfric (v.) o qua e là quella della Cronaca anglosassone (v. anglosassoni), non imiti certe mosse della poesia.

Dalla conquista normanna a Chaucer: 1066-1350. - Dopo un secolo dalla conquista la letteratura inglese riprende su basi interamente nuove. Il rinnovamento sociale portò seco un cambiamento nei costumi, nella lingua, e nel carattere dei componimenti letterarî, rendendo così ancor più accentuato in Inghilterra quel predominio francese che si fece fortemente sentire su tutta l'Europa occidentale a datare dalla prima crociata. I soggetti e la versificazione vennero di Francia, le basi su cui sorse la letteratura inglese anziché teutoniche furono latine. L'Inghilterra letteraria risorse come provincia della latinità letteraria, francese in un primo tempo, e anche italiana in un secondo.

I secoli che separano il tramonto della vecchia poesia allitterativa anglosassone dal sorgere di una gagliarda tradizione indigena con Chaucer sono occupati da un lungo crepuscolo, indice non di assopimento, ma di lento travaglio nell'ombra: è il processo di adattamento della lingua volgare (bandita dalla cultura che parla latino e francese) ai fini dell'espressione letteraria, adattamento che riguarda soprattutto la letteratura in versi, ove si risolve in abbandono della pesante gioielleria barbarica anglosassone, e in un guadagno di precisione, varietà e sveltezza. Delle tradizioni letterarie anglosassoni la sola a persistere tenacemente è quella del verso allitterativo - con forma e cadenza, però, alquanto diverse - che seguita ad apparire sporadicamente e ha un momento di estrema fioritura verso la metà del sec. XIV, nell'ovest, dove la penetrazione francese era stata più lenta.

Non alla tradizione letteraria inglese, ma più propriamente alla tradizione latina medievale appartengono le opere scritte in latino dai più colti tra gli scrittori del sec. XII e XIII. Invero in codesto periodo si ebbe in Inghilterra una fioritura di cultura latina paragonabile con quella che tra il sec. VII e l'VIII avevano dato Beda e Alcuino. Nel sec. XIII sorse l'università di Oxford che mescolando assieme laici ed ecclesiastici, fece cessare il monopolio che questi avevano della cultura, mentre il frate Ruggero Bacone con le sue opere di filosofia e di scienza acquistava in Europa non meno prestigio di Beda. È scritta in latino anteriormente al 1147 quella Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth che diede voga alla leggenda arturiana e introdusse nelle letterature occidentali il vivace fermento del misterioso celtico, che nella cronaca in versi di Layamon, Brut (derivata dalla Historia attraverso la versione francese di Wace) apparve ancor più accentuato per via del diretto contatto dell'autore col Galles: da Layamon deriveranno poi le versioni più tarde della leggenda arturiana del Malory e del Tennyson. Neanche fanno parte della tradizione letteraria inglese, ma bensì sono propaggini della francese oltre i confini, le cronache rimate anglo-francesi, le ballate, i rondelli, i lamenti scritti in francese in Inghilterra (v. anglo-normanna, letteratura). Di quelle cronache si ha una possente eco in Scozia col poema nazionale scozzese Bruce di John Barbour (1375-78).

La letteratura edificante che riappare verso la fine del sec. XII copre lo stesso campo di quella dell'età anglosassone; si leggono e si adattano gli stessi testi: libri sacri, vite di santi, De Consolatione di Boezio, ecc. Non appartengono alla vera e propria produzione letteraria se non per il processo di evoluzione della lingua e occasionalmente della prosodia l'Ormulum, prediche dovute al monaco Orm (circa 1200) in settenarî non rimati, metro tolto al latino ecclesiastico, e il Poema morale (circa 1170), in settenarî più liberi rimati a coppie. Tra le opere devote in prosa volgare si segnala l'Ancrene Riwle (circa 1225, a codesto titolo corrente è da preferirsi quello di Ancrene Wisse, autorizzato dal ms.), ove si dànno regole di vita devota, con leggiadria di stile e un'ingenuità deliberata in vista della scarsa cultura delle donne a cui il trattato si rivolge. Infine non vi è alcunché di caratteristicamente inglese nello spirito di composizioni su temi largamente diffusi nel Medioevo, come il Debate of the Body and the Soul, o il poema in ottosillabi Cursor Mundi (circa 1300) che tratta lo stesso soggetto svolto in forma drammatica dalle Miracle Plays, la storia del mondo dalla creazione al giudizio finale. Solo il contrasto The Owl and the Nightingale (circa 1220) trascende le convenzioni di simili componimenti medievali per l'umorismo che l'informa e che pare annunziare Chaucer.

La più significativa espressione degl'ideali e dei gusti della nuova società si ha nei romanzi cavallereschi in versi, in cui motivo dominante è di solito l'amore e in cui i personaggi femminili, a differenza della poesia eroica, assumono pari importanza dei maschili (v. cavalleresca, poesia; tavola rotonda). Romanzi (di solito esistenti in versioni anteriori francesi o latini) di soggetto anglosassone o scandinavo, The Geste of King Horn (circa 1250), Havelok the Dane, Beves of Hampton (circa 1300), Guy of Warwick (circa 1300), The Tale of Gamelyn (circa 1350); di soggetto celtico o brettone, la Morte Arthure (circa 1360) di cui si hanno una redazione in versi allitterativi e un'altra in strofe di otto versi rimati, Sir Gawayne and the Grene Knight, in allitterativi, Awntyrs of Arthur (circa 1400), ove sono adoperate allitterazione e rima, Libeaus Desconus, Arthur and Merlin, questi ultimi soprattutto ricchi dell'elemento celtico del mistero. Altri romanzi trattano del ciclo carolingio, della distruzione di Troia (Gest Hystoriale of the Destruction of Troy, derivato da Guido delle Colonne), di Alessandro (King Alisaunder), di Florio e Biancofiore (Floris and Blancheflour), dei Seven Sages of Rome. Accanto ai romanzi i favolelli: in Dame Siriz, in The Fox and the Wolf, Reynard, Isengrim e Chauntecler fanno la loro comparsa in Inghilterra. Argomenti, tutti questi, universali nelle letterature occidentali del Medioevo.

In gran parte sotto l'influsso francese, ma non senza accenti di freschezza popolare che fan già presentire, talora, la fioritura elisabettiana, la lirica dugentesca pervenutaci soprattutto in una famosa raccolta dei secoli XIII-XIV, Harleian ms. 2253, è tutta pervasa di chiarezza e allegria che paion riflettere un mondo molto più avvezzo al sole e alla clemenza del cielo che non il cupo mondo della poesia anglosassone. Quanto vi è di spirito gaio nella lirica del sec. XIII si trova come quintessenziato nel famoso Canto del Cuculo (Sumer is icummen in, lhude sing cuccu...), la prima composizione secolare in musica che sia stata finora scoperta: è un canone a quattro voci, adattamento alla melodia di un inno religioso latino. Accanto alle poesie d'amore, di cui imitano forme e linguaggio, le poesie religiose, come il Love Rune del frate minore Thomas de Hales (principio del sec. XIII). Le poesie politiche, scritte sopratutto in latino e in francese nel Duecento, sono prevalentemente in inglese nel secolo successivo: notevoli tra tutte quelle di Laurence Minot che celebrano le vittorie degl'Inglesi sugli Scozzesi e i Francesi.

Mentre la poesia veniva formandosi una tecnica nuova alla scuola dei versi francesi e dei versi latini a base d'accenti (inni ecclesiastici, canti goliardici), la letteratura in prosa andava risorgendo di pari passo col subentrare del volgare al latino e al francese a corte, nel Parlamento, nel tribunale, finché nella seconda metà del sec. XIV, grazie anche a Chaucer e a Gower, il dialetto del Centro Orientale (East Midland) divenne lingua nazionale. Fu dato un forte impulso al volgare dal desiderio di certi riformatori religiosi di rendere accessibile la Bibbia al popolo. A John Wycliffe si deve l'ispirazione e in parte l'esecuzione della prima versione completa della Bibbia. Più notevole per stile la prosa del Voyage and Travel of Sir John Mandeville, compilazione di varie narrazioni di viaggi originariamente scritta in francese da Jean de Bourgogne (1356 o 1357), di cui esistono tre diverse redazioni inglesi.

L'impulso venuto di Francia, com'è naturale, si fece sentire dapprima nel sud e nell'est, specialmente nel sud-ovest, forse per la predilezione della corte per Winchester; poi, col sec. XIV, quando già languiva in codeste regioni, si comunicò alle provincie del nord e dell'ovest, da cui proviene la maggior parte dei testi di questo periodo. Ma la fioritura letteraria dell'ovest non si adeguò fedelmente alle forme francesi, rivelò invece la persistente vitalità del verso allitterativo, adattissimo per la letteratura d'edificazione popolare. Oltreché per la tecnica del verso, i poeti allitterativi son vicini per lo spirito devoto e severo all'antica poesia anglosassone. Nello stesso codice con Sir Gawayne and the Grene Knight, il romanzo cavalleresco che celebra il trionfo della castità, si trovano, forse perché dello stesso autore, tre poemi allitterativi edificanti, Patience, parafrasi del Libro di Giona, Cleanness, e soprattutto Pearl (che si richiama al Roman de la Rose e all'Apocalisse: l'allitterazione in Pearl è però irregolare, e la rima predomina), lamento e visione beatifica, nello spirito del Paradiso dantesco, di un padre orbato della figlia. Pure in versi allitterativi è la visione di Piers Plowman di William Langland, spirito non d'artista ma di moralista fervente d'un tipo di cui s'era avuta un'anticipazione al principio del secolo con Robert Mannyng of Brunne (il cui Handlyng Synne traduce il Manuel de Pechiez di William of Wadington). L'allegoria assai meccanica e informe del Langland s'anima in scene vivacemente comiche e in passi di robusta satira. Quest'opera come niun'altra rispecchia gli aspetti più foschi del Trecento; ma lo stesso spirito pessimistico predomina in Richard Rolle of Hampole, autore di opere devote e mistiche (p. es. Ego dormio et cor meum vigilat, mentre l'attribuzione a lui della pedestre omelia del Prick of Conscience è controversa), e in uno scrittore, che per altro verso sembra agli antipodi del Rolle, il Wycliffe. In questo pessimismo si può vedere un riflesso delle tristi condizioni politiche e sociali dell'epoca (guerre con la Scozia e la Francia, carestie degli anni 1315-21, la terribile peste del 1349, la rivolta di contadini del 1381). Ma non bisogna assegnare a queste tristi condizioni sociali troppa importanza, poiché a questo stesso periodo appartiene il Chaucer. E invano si cercherebbe in Chaucer un riflesso delle condizioni politiche dell'epoca, o un'allusione alla parte da lui sostenuta in quel campo; è solo indirettamente che sappiamo che egli militò nelle guerre di Edoardo III contro la Francia e che fu fatto prigioniero.

Con Chaucer e Gower, nell'ultimo quarto del secolo, l'influsso straniero riprende vigoroso e il centro letterario è di nuovo nel sud, non più a Winchester, ma a Londra, donde detterà legge d'ora innanzi.

Da Chaucer al Rinascimento: 1350-1516. - Con Chaucer e Gower la letteratura inglese possiede finalmente opere che possono stare alla pari delle francesi, alle quali gli scrittori d'Inghilterra s'erano ispirati come a modelli per due o tre secoli; con Chaucer, anzi, possiede opere superiori. La base tradizionale è tuttora fornita dalla Francia, non solo con le opere originali in francese, ma anche con le traduzioni: è noto che il Chaucer per le proprie versioni di opere latine si valse di versioni francesi accanto ai testi originali. Ovidio e Virgilio, soprattutto il fiorito Ovidio, il Roman de la Rose, e la fiacca poesia degli epigoni di Guillaume de Lorris e Jean de Meung sono le principali fonti di Chaucer in un primo momento. A suo modo egli s'immagina di discendere direttamente dai grandi autori classici; e la coscienza di appartenere alla tradizione della latinità gli farà subito scoprire nei grandi scrittori italiani del Trecento modelli più puri, animati già da quello spirito che informerà di lì a poco l'Umanesimo. Fare questa scoperta era già un segno di geniale intuizione; Gower, pur avendo la stessa cultura del Chaucer, non giungerà a tanto. Per Gower la convenzione stabilita dal Roman de la Rose (il mattino di maggio, il giardino, il canto degli uccelli, il palazzo circondato di mura, il corteo di figure allegoriche: artificiale paradiso a cui il poeta è introdotto in sogno) sarà limite insuperabile. Il Gower sarà un narratore in versi al modo francese, quando in Francia codesto genere di poesia avrà fatto il suo tempo. Anche il Chaucer, per un certo verso, è un ritardatario rispetto alla tradizione francese; ma alla scuola di Dante e del Boccaccio va oltre al suo tempo. La Divina Commedia si giustappone nella sua mente al Roman de la Rose; traducendo Boccaccio (specialmente in Troilus and Criseyde) il Chaucer avrà modo di sviluppare il proprio genio di osservatore sottile del carattere umano, la qualità destinata a renderlo immortale. E non solo a contatto degl'Italiani si amplieranno smisuratamente gli orizzonti del suo mondo poetico, ma il suo verso acquisterà una nobiltà di ritmo, la sua strofa una regolarità di struttura, ignote fino allora alla poesia inglese (il decasillabo chauceriano si tempra sull'esempio dell'endecasillabo italiano, specialmente dantesco). Chaucer è il creatore della prosodia inglese. Nei Canterbury Tales egli dà, su un piano borghese-realistico anziché aristocratico-teologico, una sintesi del Medioevo non meno grandiosa di quella di Dante. Ma il Medioevo di Chaucer è già un'epoca di declino; il suo gotico è gotico flamboyant: non gotico architettonico, come in Dante, ma decorativo, sfaccettato, deliziosamente smerlettato come le cuspidi fiorite delle tarde costruzioni gotiche. Il possente afflato idealistico che tutta anima la Commedia, manca nei Canterbury Tales, che offrono soltanto l'immagine d' un mondo multiforme, pittoresco, dove più d'una filosofia e d'una condotta di vita possono coesistere: I Canierbury Tales sono un gaio variopinto corteo in un'epoca di cortei, di tornei, di cavalleria più vaga d'imprese dipinte che d'imprese reali, di feudalità maturata allo stadio di fruizione dei beni costati secoli di travaglio. L'elegante morbidezza di questa cortese società si riflette in Chaucer, e in lui si riflette pure la robusta vitalità della borghesia: la sua può a buon diritto chiamarsi merry England.

Il successo delle opere inglesi di Chaucer decise il Gower, che si era attenuto al latino e al francese, a scrivere in volgare. Ma il Gower non trascende il suo tempo, anzi, in un certo senso egli è l'ultimo dei poeti anglonormanni. La sua Confessio Amantis non si distingue dalla massa delle opere convenzionali suggerite dal Roman de la Rose. Ma è il Chaucer minore, quello appunto che discendeva dal Roman de la Rose, che vedranno i contemporanei e i posteri, dimentichi del cammino da lui indicato, cammino che guidava a modelli tanto superiori ai francesi, gl'italiani. E sarà sì dall'Italia che prenderà le mosse la grande letteratura inglese, ma solo un secolo e mezzo più tardi. Chaucer, Gower e Lydgate saranno ammirati alla stessa stregua dagl'Inglesi del Quattrocento. Del Boccaccio il Lydgate imiterà il De Casibus, ma non le opere italiane, e non si accorgerà neppure che nel Racconto del Monaco il Chaucer aveva già mostrato l'aspetto umoristico di quel genere di trattato. Voluminoso rifacitore in inglese di Guillaume Deguileville e di Guido delle Colonne, Lydgate dà composizioni più saporite nel Testament e nel London Lickpenny (questo d'incerta attribuzione), opere di una categoria a cui appartengono pure La Male Règle e il Complaint e il Dialogue di Thomas Occleve: confessioni personali e descrizioni di costumi dell'epoca conferiscono a quelle opere un certo interesse. Prolisso seguace del Chaucer minore è pure Stephen Hawes, con allegorie (The Example of Virtue, 1504, The Pastime of Pleasure, 1506) didattiche e sciatte. Il verso dei discepoli di Chaucer è compromesso da una fatale incomprensione della tecnica del maestro: essi non si resero conto del mutato valore dell'-e finale nella pronuncia e, di conseguenza, nella prosodia. Non mancano però d'una certa leggiadria alcuni poemi di scuola chauceriana, come la versione della Belle Dame Sans Merci di Alain Chartier, dovuta a Sir Richard Ros, The Cuckoo and the Nightingale del Clanvowe, The Court of Love, e soprattutto The Flower and the Leaf. Assai più fecondo che in Inghilterra fu l'influsso del Chaucer in Scozia, ove, d'altra parte, il dialetto s'adagiava senza difficoltà nelle forme metriche. Qualità originali di freschezza, di umorismo, di commozione morale, variamente ravvivano i poemi dei makeris (poeti) scozzesi: Giacomo I (The King's Quair), Robert Henryson (The Testament of Cresseid, patetica continuazione del Troilus and Criseyde del Chaucer, Moral Fables, tredici favole esopiche, Robin and Makyn, sotto l'influsso della pastourelle francese), William Dunbar, il più consumato verseggiatore tra questi chauceriani di Scozia (The Thistle and the Rose, la vivacissima grottesca Dance of the Seven Deadly Sins, la cinica satira misogina Twa Maryit Wemen and the Wedo), Gawin Douglas, notevole soprattutto per essere stato il primo a dare oltre Manica una traduzione completa dell'Eneide. In grado assai minore è sotto l'influsso di Chaucer anche Sir David Lyndsay (p. es. in The Dreme, 1528) i cui versi didattici, politici e anticlericali (Satire of the three Estates, 1540) riflettono le lotte religiose del Cinquecento. Al tardo Cinquecento appartiene Alexander Montgomerie, la cui poesia edificante e allegorica ha echi chauceriani.

Quel periodo estremo del Medioevo, che sembra indugiarsi con compiacenza sullo spettacolo della stoltezza e della caducità dell'uomo, il periodo che ha espressioni caratteristiche nella Nave degli stolti e nella Danza macabra, e protraendosi fin verso la metà del sec. XVI oltralpe, vedrà la Francia popolarsi di orrifici monumenti funebri effigianti il cadavere allo stato di putrefazione, codesto periodo è ben rappresentato in Inghilterra dalla versione (1509) del Narrenschiff del Brant per opera di Alexander Barclay (che è anche il primo a introdurre in Inghilterra ecloghe pastorali - derivate dal Mantuanus e dall'epistola De Curialium Miseriis di Enea Silvio), e dalle allegorie satiriche in versi, deliberatamente sciatti, di John Skelton, un umanista di Oxford incanagliatosi in modi popolareschi e sboccati, con alcunché di rabelaisiano (Why come ye nat to Court, satira contro il cardinale Wolsey, Phillip Sparrow, prolissa imitazione della poesia di Catullo sul passero di Lesbia).

Se l'afflato poetico è pressoché assente nelle alte sfere della letteratura, abbonda invece nelle ballate e nelle liriche popolari anonime del XV secolo, spesso pervenuteci in redazioni posteriori. Da ballate di questo periodo su temi di amore e di morte i romantici deriveranno poi la loro concezione di un Medioevo tragico, magico, spettrale nel contenuto, spontaneo e ingenuo nella forma (p. es. The Daemon Lover, The Unquiet Grave, Child Waters, Edward). Tra le ballate d'amore eccelle The Nut-brown Maid, su un motivo affine a quello della paziente Griselda. Altre ballate han soggetti storici, le Border Ballads (così chiamate dalle terre di confine tra Scozia e Inghilterra, teatro di cruente battaglie): famosa fra tutte Chevy Chase; altre s'ispirano alle gesta di Robin Hood. Un'altra forma popolare che fiorisce in questo periodo è la carol, venuta di Francia e connessa con la festività di Natale.

Il teatro medievale, il cui sviluppo in Inghilterra è analogo a quello sul continente, si presenta intimamente connesso con la festa e la fiera del Corpus Domini (istituita nel 1264), eccezionalmente, a Chester, con la Pentecoste. Al carattere processionale della festa si deve la rappresentazione su palchi mobili (pageants), ciascuno allestito dalla corporazione più adatta, delle scene della Storia sacra (p. es. ai costruttori di navi era affidata la scena della costruzione dell'Arca di Noè, ai fornai la Cena, ecc.). Dei Misteri che fiorirono nei secoli XIV e XV e godettero come in nessun altro paese del favor popolare, ci restano principalmente i cicli di York, dell'Abbazia di Woodkirk presso Wakefield (ciclo di Towneley), di Chester e di Coventry. Alcuni di questi Misteri sono assai superiori ai continentali - p. es. quello di Abramo e Isacco (Brome) per l'effetto patetico, quelli di Noè e della Natività, la cosiddetta Secunda Pastorum (Towneley), per il robusto vigore comico - e rivelano il nativo genio drammatico degl'Inglesi. La Morality, il cui sviluppo è più tardo di quello dei Misteri (la prima rappresentazione del genere in Inghilterra è The Castell of Perseverance, metà del secolo XV), ebbe il suo capolavoro in Everyman (1500).

Mancano i grandi prosatori originali. Fortescue rende atta la prosa all'argomentazione legale con quella prima manifestazione dell'orgoglio nazionalista britannico che è The Difference between an Absolute and a Limited Monarchy, Reginald Pecock la sveltisce all'argomentazione teologica. Più arte nei traduttori, in John Bourchier lord Berners, traduttore di Froissart e di Guevara, e precursore dello stile eufuistico, e soprattutto nella Morte d'Arthur di Sir Thomas Malory, rifacimento delle leggende arturiane in una prosa tersa e soave che manterrà vivace nelle classi colte l'immagine del mondo cavalleresco. Fu stampata nel 1484 da William Caxton, traduttore anch'egli, sebbene mediocre, e primo editore inglese (1474), ammiratore di Chaucer di cui stampò i Canterbury Tales.

Gli albori del Rinascimento: 1516-1579. - Tra la morte di Chaucer nel 1400 e l'avvento di Spenser con lo Shepherd's Calendar nel 1579 la letteratura inglese non conta nessuno scrittore di prim'ordine. La lingua volgare non ha ancora affermato il suo predominio nella prosa: nel 1545 l'Ascham dichiara nell'introduzione al suo Toxophilus, che, sebbene sicuro di acquistar più fama scrivendo in latino, si è deciso in favore dell'inglese per perfezionarlo e toglierlo dalle mani degl'ignoranti (e al suo inglese egli si studia di conferire le grazie del latino, riuscendo a uno stile già eufuistico). In latino sono scritti i due libri inglesi del Rinascimento la cui fama varca i confini, l'Utopia di Tommaso Moro (o Thomas More, 1516) e l'Instauratio Magna di Bacone (1620), benché l'Utopia, ispirata da Platone e da Erasmo, sia destinata a esercitare un vivo influsso sulla tradizione nazionale (Swift, Samuel Butler di Erewhon, e in tempi recenti, Wells, Huxley di Brave New World, ecc.).

Eppure è proprio in questo periodo che fiorisce e giunge ad estrema maturazione il Rinascimento italiano. Non che l'effetto di quella prima fase del Rinascimento che si suol denominare Umanesimo tardasse a farsi sentire in Inghilterra. Reduci dall'Italia, Thomas Linacre e William Grocyn avevano istituito l'insegnamento del greco a Oxford nel 1490; nel 1499 si recava a studiare in Inghilterra Erasmo; nel 1504 John Colet fondava la scuola di Saint Paul's su basi umanistiche. Ma l'effetto dell'Umanesimo sulla letteratura fu estremamente lento in Inghilterra. L'esempio di Wyatt e Surrey che nella prima metà del Cinquecento importano dall'Italia il sonetto petrarchesco (già colorato del concettismo di Serafino), senza passare per il tramite francese, non avrà seguito. Watson e Sidney, i padri del sonetto elisabettiano, scriveranno alla fine del secolo, quando l'opera della Pléiade francese è compiuta, e i nomi dei lirici francesi, Ronsard, Du Bellay, Desportes, son famosi non meno degl'italiani. Sicché del Rinascimento italiano gl'Inglesi non colsero che la fase conclusiva, quando già era spuntato all'orizzonte l'astro del Cavalier Marino. Ciò va tenuto presente, per spiegare il carattere esuberante, barocco, di tanta poesia elisabettiana, e per spiegare anche perché quel tardo Rinascimento, che per molti versi presentava un ritorno di caratteristiche medievali, potesse facilmente innestarsi in Inghilterra, rimasta medievale fin sulle soglie del regno di Elisabetta. Un altro fatto di capitale importanza per comprendere il carattere del Rinascimento inglese, è che il rinascimento religioso, la ribellione cioè contro il cattolicismo di tipo medievale-scolastico, ha luogo prima del rinascimento letterario. Nel 1525 W. Tindale traduce in inglese il Nuovo Testamento, in parte basandosi sulla versione di Lutero, e all'ispirazione dei romanzi cavallereschi e dei poeti classici vuol sostituire quella della Bibbia; la traduzione del Tindale, completata (1535) da Miles Coverdale, è propagata in tutto il paese dopo lo scisma (è chiamata la Bibbia di Th. Cranmer, che scrisse la prefazione alla seconda edizione, del 1540). Nel 1549 vien pubblicato il Book of Common Prayer a cura dell'arcivescovo Cranmer, redatto in un inglese la cui solenne armonia non cesserà di echeggiare nel linguaggio corrente. E le prediche di H. Latimer e di J. Knox, il martirologio protestante di John Foxe, le "moralità" di carattere riformato di John Bale, diffondono sempre più tra il popolo lo spirito protestante. Infine la versione autorizzata della Bibbia (1611) lascerà un'impronta profonda nelle opere di letteratura colorandole di frasi arcaiche, pittoresche e robuste: le opere del Bunyan e del Milton ne saranno tutte pervase.

Il Rinascimento inglese è dunque investito fin dal suo nascere dalle tendenze calvinistiche della Riforma; onde l'assenza, in esso, di serenità, il travaglio morale che vi fermenta, e si rivela nell'atteggiamento degli educatori e dei drammaturghi verso l'Italia, atteggiamento una volta per tutte fissato nel celebre Schoolmaster di R. Ascham (1570) che, mentre ammira la romanità classica, denuncia la corrotta Roma papale e l'italianismo, atteggiamento condiviso da moltissimi contemporanei, p. es. da George Gascoigne che, dopo aver introdotto dall'Italia parecchie innovazioni letterarie, nello Steel Glass (1576) ripudia i nuovi costumi profani e sfarzosi, e da Thomas Nashe, che nell'Unfortunate Traveller (1594) dipinge a violenti chiaroscuri gli splendori e i delitti d'Italia.

D'altronde lo studio dei modelli classici fu in Inghilterra, fino a Ben Jonson (e Ben Jonson, piuttosto che al Rinascimento, appartiene alla reazione classicistica contro il barocco), indiretto, filtrato attraverso le nuove letterature d'Italia e di Francia; e la preponderanza del teatro, su cui molto influiva il gusto popolare, impedì che andasse perduta, come p. es. in Italia, la parte vitale dell'esperienza medievale.

La persistenza dello spirito medievale è evidente nell'opera di italianizzanti come il Wyatt e il Surrey, che accanto ai sonetti, hanno chansons à personnages che trovano un equivalente nelle letterature francesi e italiane del Duecento anziché del Cinquecento; in Thomas Sackville che nel 1563 pubblica un componimento del tipo del De Casibus boccaccesco, il Mirror for Magistrates, e vi premette una Induction ispirata dall'allegorismo del Roman de la Rose (quell'allegorismo che persisterà tuttora un secolo dopo, nel Pilgrim's Progress del Bunyan); nello Spenser, che, discepolo dei neoplatonici fiorentini e dell'Ariosto, vede ancora il mondo con gli occhi di un allegorista medievale (The Faerie Queene); nelle curiose versioni del teatro di Seneca curate da Thomas Newton nel 1581, specialmente in quelle dovute a J. Studley, ove il mondo classico è reso con tipici travisamenti medievali, e l'Olimpo si contamina col regno delle fate, e il tempio con la chiesa, e il realismo di Seneca con il realismo macabro del tardo Medioevo.

Non si insisterà mai abbastanza su questo Seneca inglese, che, diffuso attraverso la corte, l'università, la scuola, gli inns of court, fornirà le caratteristiche essenziali alla tragedia elisabettiana: l'intenso orrore (il festino d'Atreo), l'apparizione dei fantasmi, la vendetta, la fatalità, la morte stoica. La prima tragedia inglese, Gorboduc di Thomas Norton e di Thomas Sackville (1562) tratta un tema nazionale al modo di Seneca, con elementi di "moralità" politica nella conclusione. Poiché gli schemi della Morality persistono, evidenti in Orestes, in Appius and Virginia, e soprattutto in Cambyses (1569) di Thomas Preston, ove in forma rozza si trovano già tutti gli elementi del teatro elisabettiano. Dall'Italia veniva anche la voga di Seneca, da modelli italiani una tragedia di tipo senechiano come Jocasta (1566, adattazione delle Phoenissae di Euripide, di Lodovico Dolce), o un'altra come Tancred and Gismund (1568) che sceneggiava una novella del Boccaccio, entrambe prodotte in circoli accademici; dall'Italia veniva l'adozione del blank vase (corrispondente ai nostri endecasillabi sciolti), per la prima volta usato nel dramma in Gorboduc (il Surrey l'aveva introdotto nella sua versione dell'Eneide, sull'esempio del cardinale Ippolito de' Medici); dall'Italia la voga degl'intermezzi comici (in cui si segnalò John Heywood) ai quali diedero incremento i Tudor, amanti di spettacoli sfarzosi; dall'Italia la voga per le rappresentazioni di commedie di Plauto e di Terenzio, di cui non tardarono a scriversi imitazioni nazionali (Ralph Roister Doister del pedagogo Nicholas Udall, 1553; Gammer Gurton's Needle di William Stevenson); dall'Italia molte commedie tradotte, i Supposes del Gascoigne, 1566, derivata dai Suppositi dell'Ariosto, The Bugbears, 1561, adattamento della Spiritata del Grazzini (eccezionalmente dalla Spagna, come Calisto and Meliboea, stampata nel 1530, riduzione della Celestina del de Rojas); dall'Italia infine compagnie di comici dell'arte, i cui scenarî dovranno influire sullo stesso Shakespeare (La Tempesta). Recitarono abitualmente drammi i ragazzi del coro della cappella reale e della Cappella di San Giorgio (Windsor), quelli delle scuole di Eton, di St Paul's, di Westminster, compagnie che faran poi concorrenza a quelle di attori adulti. Sotto Enrico VIII fu creato l'importante ufficio di Master of the Revels, che non solo sopraintendeva agli spettacoli di corte, ma aveva anche l'incombenza di licenziare i drammi pubblici.

L'età di Shakespeare. Periodi elisabettiano e giacobino: 1579-1625. - L'introduzione di costumi e mode italiane, in parte diretta, in parte per il tramite francese, modificò profondamente la cultura e il tenor di vita delle classi superiori; già alla corte di Enrico VIII Il Cortegiano e Il Principe avevan trovato discepoli; nell'ultima parte del secolo un'eccezionale attività di traduttori diede larga diffusione ai breviarî dell'età nuova. Th. Hoby traduce Il Cortegiano (1561) su cui si modellerà l'ideale del gentleman, Robert Paterson il Galateo (1576), G. Pettie La Civil Conversazione del Guazzo (1581). Si traducono i classici: Philemon Holland rende inglesi Plinio, Livio, Svetonio, Senofonte; Chapman dà una celebre versione dell'Iliade, e Sir Thomas North, traducendo dal francese di Amyot le Lives of the Noble Grecians and Romans di Plutarco (1579) fornisce a . Shakespeare le fonti d'ispirazione per i suoi drammi romani. Il Plutarco di North, i Saggi del Montaigne nella versione di Giovanni Florio (1603), le novelle italiane (soprattutto Bandello) nelle versioni di G. Fenton (Tragical Discourses, 1567, dal Belleforest), di W. Painter (Palace of Pleasure, 1566-67), e di altri, diventano i libri di testo più consultati dai drammaturghi. Largo influsso eserciteranno anche la versione della Diana del Montemayor e quella di Joshua Sylvester della Divine Semaine del Du Bartas.

Ma l'influsso straniero non significa affatto soggezione, ché anzi proprio sullo scorcio del secolo divampa il sentimento patriottico, in parte come reazione al sud cattolico ed estetico, in parte come improvvisa visione dei futuri destini marinari (circumnavigazione del Drake, 1578, disastro dell'Armada spagnola, 1589), e questo sentimento patriottico si colora di riflessi biblici, e rappresenta l'inglese come il popolo eletto ("The living God is only the English God", scrive J. Lyly nel 1580). Tutta una letteratura si dedica a celebrare i fasti d'Inghilterra e le gesta dei suoi figli: Hakluyt raccoglie The Principal Navigations, Voyages, and Discoveries of the English Nation (1589-98; l'opera sarà continuata da Samuel Purchas, in Purchas his Pilgrimes, 1625), si descrive l'Inghilterra in prosa (Britannia di William Camden, 1582) e in verso (Polyalbion di Michael Drayton), se ne narra la storia in poemi (Albion's England di Thomas Warner, History of the Civil Wars di Samuel Daniel, The Barons' Wars e soprattutto la marziale Ballad of Agincourt del Drayton), e in drammi storici.

A un tratto è un germogliare di opere originali: Lyly col suo Euphues (1578) offre un modello di prosa ritmica, esperta di tutti gli artifici della retorica (sulle sue orme si metterà Robert Greene), che farà di "eufuismo" un sinonimo di stile prezioso; Spenser, col suo Shepherd's Calendar (1579), per quanto ispirato a modelli stranieri (Mantuanus e Marot specialmente), si ricollega direttamente al Chaucer; nel platonismo fiorentino (Hymns ni Honour of Love e of Beauty) e nella utilizzazione allegorica di sfarzosi masks rinascimentali (The Faerie Queene) trova quella soluzione all'antinomia tra Bello e Bene che tormenta il suo spirito di moralista; Sidney, perfetta incarnazione inglese del Cortegiano, dà nell'Arcadia (scritta nel 1580, pubblicata nel 1590) un tipo di prosa immaginifica, barocca, di cui si sentirà spesso l'eco nel dramma (Shakespeare, Webster) e nella lirica (Crashaw, di cui è la definizione: "Sidneian showers of sweet discourse"). (L'opposto di questo tipo di prosa, la nobile semplicità discorsiva a cui mireranno gl'Inglesi dal Settecento in poi, appare anch'esso in questi anni, nelle Laws of Ecclesiastical Polity del Hooker, 1593 e segg.). Insieme con l'emulazione delle letterature classiche e continentali, si forma la coscienza della missione del poeta (Defence of Poesy del Sidney, risposta alla diatriba moralistica di Stephen Gosson contro i poeti, The School of Abuse, 1579), la concezione della poesia come sacro furore, dell'immortalità conferita da essa (motivo oraziano rinnovato da Ronsard): tutta la letteratura elisabettiana s'imposta su un tono lirico. Per questo entusiasmo poetico, per il possente senso del tragico posseduto da scrittori di ogni grado, il periodo elisabettiano rappresenta veramente un primo Sturm und Drang in Europa; non per nulla i Romantici ne subiranno il fascino. Sicché il termine di Rinascimento, applicato all'Inghilterra, ha un significato diverso che da noi, ove significò soprattutto un'aspirazione all'armonia e alla serenità dei classici. Si veda quel che diviene nella mente di uno dei giovani educati a Cambridge, Gabriel Harvey, l'ideale machiavellico di virtù (grandissima era la voga di Machiavelli a Cambridge poco dopo il 1570): una dottrina di energia compendiata in massime ardenti che preannunciano il superuomo nietzschiano (Marginalia). Bastò la diffusione del Contre-Machiavel (1576) dell'ugonotto I. Gentillet (tradotto subito da Simon Patericke, la cui versione apparve in stampa nel 1602, mentre la prima versione inglese del Principe, di E. Dacres, non vide la luce che nel 1640) perché quella dottrina pagana di virtù apparisse una diabolica epitome di tutta la corruzione italiana a menti animate dallo zelo della Riforma. Machiavelli diventa il simbolo dell'Anticristo nella concezione manichea che i protestanti inglesi si fanno del mondo.

Appunto questa concezione manichea del mondo è una delle ragioni della fioritura del dramma elisabettiano; ragione non sufficiente, ma necessaria, poiché ogni grande teatro adombra un dibattito sui destini dell'uomo, è rito di folla per la sua base universale religiosa, etica o patriottica. Come presso i Greci, così presso gli elisabettiani, ignari del teatro greco, il dramma riveste due aspetti principali: la tragedia di sangue, e il dramma patriottico: all'Orestea fa riscontro Amleto, ai Persiani la chronicle play. Un altro carattere, questo non limitato agl'Inglesi, doveva far convergere sul teatro l'attenzione degli uomini del Rinascimento. La posa plastica, il bel gesto, il detto memorabile furon tra le cose degli antichi più sottolineate dagli umanisti. Tutto era calcolato in vista di un effetto, tutto era teatro, e i protagonisti della grande scena, in punto di morte, cercavano di comporsi in un'attitudine eroica, quale avevano appresa dai personaggi delle tragedie di Seneca. Il teatro poté divenire così popolare anche per via di quella concezione retorica della vita, e, d'altra parte, il teatro reagì a sua volta sulla vita d'ogni giorno, accentuandone i lati drammatici e coreografici.

La tradizione del teatro popolare medievale non s'interrompe in Inghilterra col sorgere di nuovi modelli umanistici; questi sembrano dapprima trionfare nell'ambiente della corte, coi drammi degli "University Wits" ("Begl'ingegni universitarî": John Lyly, che ha il merito d'adoperare per primo la prosa, e preannuncia la briosa grazia delle commedie di Shakespeare; George Peele); ma i continui scambî tra la corte e la città, l'aver queste in comune gli attori, che per poter esercitare in pace il loro mestiere dovevan mettersi alle dipendenze di qualche gran signore (p. es. la compagnia a cui appartenne Shakespeare fu via via sotto il patronato dell'Earl of Leicester, di lord Strange, del lord chamberlain, e infine, sotto Giacomo I, del re, essendo sotto questo monarca tutte le compagnie sotto il patronato del re o della regina; durante il regno di Carlo I vennero di Francia le prime attrici, mentre le parti femminili erano state fin'allora sostenute dai giovani attori), l'esser la composizione dei drammi affidata ai drammaturghi all'uopo assoldati da ciascuna compagnia (che spesso, come Shakespeare, combinavano le professioni di scrittore e di attore, questa assai meglio rimunerata), e l'essere questi drammaturghi attenti a seguire il gusto popolare, furono altrettante cause del carattere speciale del dramma inglese, del suo sottrarsi alla pseudo-regola aristotelica, del suo conservare l'aspetto di successione di quadri come nei miracle plays (con l'inevitabile conseguenza d'una maggiore elasticità nella delineazione dei caratteri), del suo conservare il personaggio del clown; mentre l'essere un dramma proprietà di una compagnia condusse a quella pratica di collaborazione e di revisione che rende così difficile alla critica moderna l'attribuzione a singoli drammaturghi.

Rappresentati dapprima in sale private, in arene adibite al combattimento degli orsi (bear-baiting), nei cortili delle locande, i drammi si produssero dal 1576 in poi in veri e propri teatri, edificati di solito sulla riva destra del Tamigi (per disposizione dell'autorità della City), di forma circolare, scoperti (per via dell'illuminazione), con gallerie ai lati, e il palcoscenico "a grembiule" (apron stage) protratto nel mezzo della platea, avente per sfondo la vera e propria scena consistente di un piano sopraelevato con balcone e finestre, quest'ultima porzione munita di sipario. (I primi teatri furono The Theatre e The Curtain, poi The Rose, The Swan, The Globe, quest'ultimo, edificato nel 1599, il più celebre, The Fortune, ecc.; fra i teatri privati tenne il primato Blackfriars).

Il periodo aureo del dramma inglese s'inizia con i grandi successi, poco prima del 1590, della Spanish Tragedy di Thomas Kyd e del Tamburlaine di Christopher Marlowe. Il primo dramma, sviluppo frenetico del teatro di Seneca, fissa d'un tratto, sebbene in forma ancora rozza, il tipo di tragedia che avra voga in tutto il periodo, coi motivi della vendetta, della simulata follia (nel celebre personaggio di Hieronimo), del malvagio machiavellico, e l'ambiente esotico. Poiché lo stesso fascino esotico che era fornito ai drammaturghi italiani del Cinquecento (Giraldi Cinthio, Speroni, ecc.) dall'Oriente, lo era agl'Inglesi dal sud, italiano o più raramente spagnolo (o un'arbitraria mescolanza dei due, come appunto nella Spanish Tragedy). Magnetizzati dallo spettacolo che l'Italia offriva di splendori e di delitti (questi ultimi proclamati e ingigantiti in leggenda dalla campagna antipapale, che trovò una magnifica arma nella storia dei Borgia e nella dottrina machiavellica la quale, travisata, pareva esserne la spinta ideale), i drammaturghi inglesi preferirono cercare i loro soggetti nell'Italia contemporanea piuttosto che nella cronaca nera nazionale, che pure ispirò drammi foschi e robusti come Arden of Feversham (1586), The Yorkshire Tragedy, A Warning Fair Women. The Spanish Tragedy è il capostipite di tutta una serie di tragedie di sangue e di lussuria d'ambiente italiano: The Jew of Malta del Marlowe (1589); Antonio and Mellida (1599) e The Insatiate Countess (circa 1610) di John Marston; Women beware Women di Thomas Middleton (1612); The Revenger's Tragedy (1607) e The Atheist's Tragedy (1611) di Cyril Tourneur; The white Devil (Vittoria Corombona), (1612) e The Duchess of Malfy (circa 1613-14) di John Webster; The Changeling (1623), di Thomas Middleton e William Rowley; 'Tis Pity she's a Whore (stampata 1633) di John Ford, per nominare solo le più celebri.

Il Tamburlaine di Marlowe investe degl'ideali del Rinascimento la figura dell'Ercole di Seneca; il colosso del Marlowe, fisso in un suo sogno d'illimitata potenza, fastoso e crudele, sembra già annunciare la sete dell'impossibile, dei romantici, insieme con l'esotismo splendido e cruento di un Gautier e di un Flaubert; mentre il Doctor Faustus (1588) illustra un altro aspetto di quella volontà di potenza, la sete d'illimitato sapere, il possesso della suprema bellezza (Elena); entrambi culminano nella sconfitta dell'uomo, toccando una nota (la vanità e la pietà delle cose terrene) che si ritroverà in Shakespeare e nei romantici. L'appassionata eloquenza dei personaggi del Marlowe echeggia a lungo nel teatro elisabettiano, si ritrova, carica di un metafisico senso di mistero, nelle tragedie di George Chapman. Col Marlowe il blank verse perde ogni rigidezza, diventa capace dei più alti voli lirici, inizia quella sua rapida carriera che, attraverso i successivi stadî di elasticità, libertà rilassatezza, è il punto centrale di riferimento nella complessa evoluzione del teatro elisabettiano.

Al lirismo, non esente da gonfiezza, del Tamburlaine seguì una reazione degli "University Wits" coi drammi del Greene (Orlando Furioso, parodia di Tamburlaine, e il delizioso Friar Bacon and Friar Bungay, contrapposto comico del Doctor Faustus, con elementi d'idillio e il primo di una serie di squisiti personaggi femminili elisabettiani, Margaret). Ma gli "University Wits" dovevano esser cacciati di nido dall'avvento di Shakespeare, che Greene segnala ai colleghi come il più pericoloso concorrente, nel 1592 (in Groatsworth of Wit): "Non è strano che io e voi, a cui tutti si sono inchinati finora, dobbiamo essere così abbandonati a un tratto? Un villan rifatto di Corvo, abbellitosi con le nostre penne, con un cuor di tigre nascosto sotto la pelle d'un attore, s'immagina d'esser capace di dar fiato agli endecasillabi come il miglior di voi: ed essendo nient'altro che un Iohannes Factotum, presume di esser l'unico Scuoti-scena dell'intero paese" (Shake-scene - Scuotiscena, gioco di parole con Shake-speare - Scuoti-lancia).

Il nomignolo di Factotum dato dal Greene allo Shakespeare è appropriato in un senso assai più alto e profondo di quello inteso dal rivale. Ché in Shakespeare si trovano potenziate tutte le qualità che appaiono sparse negli altri drammaturghi (e non solo nei drammaturghi, ché in Venus and Adonis egli supera gli altri poeti narrativi, e nei sonetti è il supremo dei lirici meditativi), onde ben a ragione questa si può chiamare l'età di Shakespeare.

La qualità che più sorprende in Shakespeare, e che già sorprese i contemporanei, è la sua mirabile duttilità. Si adegua ai gusti del pubblico, ne segue i movimenti: gareggia con le grazie mitologiche e le spiritose schermaglie verbali degli "University Wits" in Midsummer Night's Dream (1595-96), nel Merchant of Venice (1596-97), in Much Ado About Nothing, As you Like It, Twelfth Night (intorno al 1599); ai successi (verso il 1598) delle commedie realistiche di Ben Jonson e di Dekker (quelle del primo, satiriche, basate su classiche ricette di "caratteri" o "umori"; lo Shoemaker's Holiday del Dekker colorato di sentimento, e le une e le altre piene di color locale londinese) fa seguito con le Merry Wives of Windsor (1600-01); a una ripresa del gusto per gli orrori, intorno al 1601, dà alle scene le più terribili tragedie (Othello 1604-05, King Lear e Macbeth 1605-06), la tragicommedia di Measure for Measure (1604-05), e l'amaro dramma di Troilui and Cressida (1601-02); e il suo ritorno alla commedia fantastica e romanzesca con Pericles (1608-09), Cymbeline (1609-10), Winter's Tale (1610-11), The Tempest (1611-12) coincide con la nuova maniera romanzesco-sentimentale inaugurata da Beaumont e Fletcher in quegli anni. E non solo nel tono dei drammi sembra attendere il la dagli altri, ma dagli altri riprende spesso il soggetto, rimaneggia drammi anteriori, fa largo uso di fonti. Gli altri sembrano scrivere in una sola chiave, posseggono una maniera: i magniloquenti personaggi di Marlowe, i pittoreschi "umori" di Ben Jonson, la macabra melanconia di Webster, recano un'impronta peculiare e personale; solo i personaggi di Shakespeare appartengono a un mondo distaccato e superiore, più vivo della vita; e dalle tante e contraddittorie massime dei suoi drammi è possibile costruire più d'una concezione del mondo, senza poter con ciò asserire che l'una più dell'altra fosse propria di Shakespeare, se non forse che "v'è un'anima di bene nelle cose cattive" (Henry V) e "nulla v'è di così vile sulla terra che non dispensi ad essa qualche bene speciale" (Romeo and Juliet) - suprema accettazione della vita nella sua totalità, che par bene armonizzarsi con il genio universale del poeta che vide addentro nell'anima di Iago come in quella di Desdemona. L'equanimità di Shakespeare è anche illustrata dal modo in cui trattò quei temi italiani, che generavano mostruosi orrori nella mente dei contemporanei. Come nei drammi romani, pur essendo del tutto privo dell'accurato senso di ricostruzione storica di Ben Jonson (di cui Sejanus e Catilina tradiscono una minuta preparazione sulle fonti classiche), Shakespeare è stupendamente fedele allo spirito di Roma, così nei drammi italiani egli dà un riflesso della cortese Italia del Cinquecento, di quella di Ariosto, di Castiglione e dei petrarchisti (il fiorito linguaggio di Romeo, eccezionale nello stesso Shakespeare, sembra modellarsi sui più accesi concetti dei petrarchisti italiani). Con un soggetto italiano, Romeo and Juliet, s'inizia la serie dei grandi drammi di Shakespeare, con un soggetto italiano, The Tempest, si chiude, e quest'ultimo sembra ripetere, in una più alta sfera spirituale, il primo: ché anche nella Tempesta i padri degli amanti sono nemici, e qui pure l'amore, lo stesso genere d'amore puro e innocente, offre il mezzo della riconciliazione, ma è amore trionfante, non amore sacrificato sull'altare dell'odio. L'abisso che separa l'Italia viva, complessa, di Shakespeare, da quella uniformemente sinistra dei contemporanei, è misura della differenza di livello spirituale tra lui ed essi. Ma anche negli altri drammaturghi, tanto aderente alla realtà era quella pleiade d'ingegni, è dato cogliere qua e là una scena, una frase, che rivelano la stessa sicurezza d'istinto drammatico che si trova così copiosa nel più grande.

Piacquero ai contemporanei soprattutto le cose più aeree e brillanti dello Shakespeare, Much Ado, As You Like It, The Merchant of Venice, Twelfth Night, che gli valsero gli epiteti di sweet, witty, gentle; in codeste non gli riconoscevano eguale; ma altri nomi gli misero accanto e anche gli anteposero (Chapman, Jonson, Beaumont e Fletcher). Gli riconobbero un dono di felice fecondità; ma dovrà trascorrere un secolo prima che egli appaia in tutta la sua grandezza.

La tragedia, il dramma storico e la commedia romanzesca non sono i soli aspetti del teatro elisabettiano. La vita scapigliata e comica della Londra dei borghesi e degli artigiani si riflette nelle commedie di Ben Jonson, di Dekker (il cui Shoemaker's Holiday è ispirato dalle novelle di Thomas Deloney, The Gentle Craft, dedicate pur esse alla Corporazione dei calzolai), di John Marston (Eastward Ho!), di Beaumont e Fletcher (The Knight of the Burning Pestle), di Thomas Heywood. Il capolavoro di quest'ultimo, A Woman Killed With Kindness, è un dramma di soggetto borghese, d'un genere pure fiorente in quest'epoca (p. es. The Honest Whore di Dekker). Nel Mask, derivato dall'Intermezzo, eccelle Ben Jonson, il solo autore che segua i precetti classici nei suoi drammi e che, pittore di costumi piuttosto che di anime, per forma e spirito si avvicini ai commediografi continentali (Volpone, The Alchemist). Con la nuova moda, inaugurata da Beaumont e Fletcher, per intrecci romanzeschi, sentimentali, e squisitezze pastorali (The Faithful Shepherdess), anche i colori della tragedia si vennero attenuando (p. es. A New Way to Pay Old Debts di Philip Massinger, 1623), benché la maniera frenetica del Tourneur e del Webster trovasse tardi seguaci come James Shirley (The Traitor, 1631, The Cardinal, 1641) e, dopo la Restaurazione, Nathaniel Lee, che nel lontano 1680 ancora s'ispira agli orrori dei Borgia.

La campagna dei puritani contro il teatro, culminante nel Histriomastix di William Prynne (1632), trionfò nel 1642, allorché il Parlamento, debellata la monarchia, ordinò la chiusura dei teatri. La data, tuttavia, non segnò che una morte provvisoria; il dramma risorse vigoroso con la Restaurazione.

L'intensa attività letteraria del periodo si manifesta anche in altre forme di carattere popolare, destinate ad assorbire quell'interesse a cui oggi provvedono il giornalismo e il romanzo poliziesco: si segnalarono in questo campo il Greene, che accanto a romanzi ispirati dall'Arcadia di Sidney e dai romanzi ellenistici ne ha altri ove mette in scena la malavita londinese, preannunciando De Foe; e soprattutto Thomas Nashe che per la sua attività di intemperante poligrafo si guadagnò il nome di "English Aretine", e Thomas Dekker che sotto Giacomo I si mise sulle orme del Greene e del Nashe con opuscoli di circostanza, romanzi popolari e umoristici (sotto specie di dare precetti, in The Gull's Horn-book fa la satira del provinciale che vuol darsi alla bella vita). Forme di giornalismo sono anche i violenti libelli e le pasquinate della controversia religiosa tra puritani e anglicani (Martin Marprelate Controversy, 1588-93), e le prediche, tra cui quelle famose di John Donne e di Lancelot Andrewes offrono due tipi opposti di eloquenza: barocca, immaginifica quella del primo; esatta, spassionata quella del secondo. Un simile contrasto si potrebbe istituire tra la prosa concisa e classica degli Essays di Bacone e quella sovrabbondante, ornata e libresca di Robert Burton (Anatomy of Melancholy, 1621): entrambi, per vie diverse, preparano l'avvento dell'essay moderno, mentre gli scrittori di "caratteri" (Joseph Hall, Nicholas Breton, Sir Thomas Overbury, John Earle) rifacendosi da Teofrasto offrono una forma parallela alla "commedia di umori" di Ben Jonson e fan presentire The Spectator.

L'evoluzione della moda letteraria si segue soprattutto nella poesia. Thomas Watson con la raccolta di pseudo-sonetti Ecatompathia (1582) e specialmente Sidney con Astrophel and Stella iniziano la voga dei canzonieri che dura intensa dal 1591 al 1597 circa (un ritardatario sarà William Drummond of Hawthornden nel 1616), sotto un duplice influsso italiano e francese. Dall'Italia viene lo schema del sonetto di quattordici versi, dalla Francia l'abitudine di raggruppare una serie di sonetti sotto un nome fittizio di donna amata (Idea di Drayton, Diana di Henry Constable, Delia di Daniel, Phillis di Thomas Lodge, ecc.). Motivi, linguaggio, concetti appartengono al comune dominio dei sonettisti; i temi platonici e pastorali sono italiani, francesi gli accenni alla fugacità del tempo e della bellezza, i "baci" e le anacreontee derivano dalla poesia umanistica (Pontano, Giovanni Secondo, Marullo). Né Astrophel and Stella del Sidney, né gli Amoretti di Spenser rivelano grande originalità, benché il Sidney si atteggi talora a antipetrarchista sulle orme dell'ode del Du Bellay Contre les Pétrarquistes; ma originalissimo e moderno è il tono drammatico di molti sonetti di Shakespeare, in cui i temi stranieri, già assimilati dai sonettisti precedenti, acquistano nuova profondità e un inusitato calor di vita. Ma la copiosa vena di canto degli elisabettiani si manifesta soprattutto nei madrigali in musica adattati dall'italiano (Musica Transalpina di Nicholas Yonge, 1588), e nelle leggiadre canzoni (songs), ove ispirazione popolare e elaborazione artistica si fondono in un genere del tutto nazionale (Books of Airs di Thomas Campion, autore d'importanti Observations on the Art of English Poesy, ove propugna la prosodia classica contro la poesia rimata, difesa dal Daniel in The Defence of Rhyme). Parecchi dei songs più squisiti si trovano nei drammi dell'epoca.

Sullo scorcio del Cinquecento un giovane poeta soleva consacrarsi alla Musa, se non con una collana di sonetti, con un poema italianeggiante di soggetto erotico-mitologico (Hero and Leander di Marlowe, Venus and Adonis di Shakespeare, ecc.). La Musa allegorica e pastorale di Spenser fece scuola per lungo tempo (George Wither; William Browne, autore delle Britannia's Pastorals, 1613; i fratelli Giles e Phineas Fletcher).

La data tarda del Rinascimento inglese dà ragione, come s'è detto, della vena di concettismo che lo caratterizza fin dall'inizio (eufuismo di Lyly, concetti di Sidney); ma le immagini cosiddette metafisiche (secondo una celebre definizione che il Dryden darà del concettismo) che si trovano nella lirica e nel dramma elisabettiani non sono di qualità o in quantità tali da alterare sensibilmente il carattere di effusione rettilinea espresso dal verso. Ma già nei primi anni del regno di Giacomo I è sensibile un cambiamento. L'aspetto più appariscente di questo cambiamento si nota nella crescente tendenza a utilizzare a fini fantastici l'erudizione e la scienza. Questa tendenza porterà alla prosa pedante e immaginifica di The Anatomy of Melancholy del Burton e di Urn-Burial di Sir Thomas Browne (1658), ma i primi segni appaiono nella poesia, con diversa intensità, in Chapman, in Donne, e in Jonson, scrittori che, derivando ispirazione dall'erudizione, allargano l'orizzonte della poesia, nel senso di render questa capace d'un contenuto raziocinativo, e reagiscono alla canora facilità dei sonettisti.

Al centro della rivoluzione del gusto, ad avvertirla più acutamente di ogni altro e in gran parte a dirigerla, è John Donne. Benché Donne e Shakespeare appaiano contemporaneamente sulla scena letteraria nel 1592 (rispettivamente a diciannove e a ventotto anni), le basi culturali da cui procedono sono affatto diverse. Diversamente da Shahespeare, Donne viveva profondamente i problemi di quel momento che segna una svolta nella storia della civiltà: lo sfasciarsi del pensiero medievale sotto i colpi della nuova scienza, la controversia religiosa. Nato in un periodo in cui l'eroe era l'uomo di corte, invecchia in un'epoca in cui l'eroe è l'uomo di chiesa: la vita di Donne incarna questa transizione. Partecipa con l'Earl of Essex alle spedizioni marittime del 1596-97, cortigiano e soldato, è scettico alla Montaigne, scrive satire nella cruda maniera imitata da Persio e messa di moda da John Marston e Joseph Hall alla fine del secolo, e parla d'amore in canti d'un realismo appassionato e cinico; ma nel 1621, dopo una vita di penosi contrasti, ci si presenta come Decano di San Paolo a Londra, e, predicatore di moda, nel 1631 predica per l'ultima volta su Death's Duell, uno dei capolavori del secentismo macabro. La passione del Rinascimento per la posa eroica si traduce, in questo cortigiano mancato, nel ritratto che egli fece fare di sé, vivente, avvolto nel sudario. Rinascimento e Riforma fan di questa mente il loro campo di battaglia. Le sue poesie d'amore, scritte prima della fine del Cinquecento, ma pubblicate postume nel 1633, benché circolassero manoscritte anche prima, segnano un nuovo punto di partenza nella lirica. In esse un pensiero analitico, ricco di nessi logici, riesce a un atto creativo di natura fantastica. Il concetto non è in Donne decorativo come per es. in Marino, non si esaurisce in bizzarri raccostamenti, ma è strutturale, è immagine carica di pensiero piuttosto che pensiero rivestito d'immagini, è, in una parola, pensiero-senso. Il ritmo dialettico agisce da astringente sul verso che prende un aspetto tortuoso, scheggiato, e talora par riecheggiare certi svolgimenti metafisici dello stil nuovo (Cavalcanti) o anticipare quelli del Laforgue. Il retroscena di questa poesia non è la lirica del Rinascimento, ma la letteratura teologica che il Donne aveva assorbito nella sua smoderata sete di sapere, uomo del Rinascimento in questo.

Donne si ribella all'imitazione petrarchesca degli elisabettiani, al platonismo spenseriano, apre nuove provincie all'invenzione poetica, sostituisce al verso morbido e sonoro di moda un verso d'una musica aspra e virile, all'armonia un difficile contrappunto. Benché uno stile simile ricorra in altri (in Ovid's Banquet of Sense di Chapman, in Webster e in Shakespeare talora), in nessuno si trova la complessa combinazione che fece apparire il Donne come un rivoluzionario.

Età di Milton. Periodi carolino e repubblicano: 1625-1660. - Benché non si parli d'una vera e propria scuola del Donne, la corrente metafisica si trasmette di poeta in poeta finché raggiunge coscienza critica con John Dryden. Sono discepoli del Donne nella lirica sacra George Herbert (The Temple, 1633); Richard Crashaw (Steps to the Temple, 1646), che, assimilando pure la poesia latina dei gesuiti e la lirica del Marino, scrive carmi religiosi d'un barocco flamboyant, un genere che il gesuita Robert Southwell, sulle orme del Tansillo delle Lacrime di San Pietro, aveva anticipato alla fine del Cinquecento; il mistico Henry Vaughan (Silex Scintillans, 1650); nella lirica profana lord Herbert of Cherbury, Henry King, e infine Andrew Marvell, che è come un Crashaw meno appassionato, un puritano che non ha ripudiato, come Milton, la sensualità dei pensieri, e la sfoga in accenti di estasi di fronte a un paesaggio (Upon Appleton House) e di nostalgia esotica (Bermudas) che precorrono già il romanticismo. La tradizione di Donne già appare intaccata da un preannuncio di John Dryden in John Cleveland, le cui satire politiche di parte monarchica non saranno senza influsso sul Dryden; e si raffredda in un concettismo di superficie in Abraham Cowley, introduttore in Inghilterra delle strofe irregolari dell'ode pseudopindarica. Nel Cowley si assiste a quel disintegrarsi del wit, dell'afflato metafisico del Donne, in immagine sensuosa da un lato e in magniloquenza dall'altro, che si effettuerà completamente nel Dryden. In Cowley il concetto decade a ornamento; imperano il mero raziocinio e l'eloquenza.

Ai contemporanei il Donne apparve supremo nel wit, Ben Jonson (il Jonson di Underwoods) nell'arte del verso. I cosiddetti Cavalier Poets (poeti di parte monarchica, antipuritani) prendono dal Donne la nervosa dialettica della passione e il concettismo, dal Jonson la sobrietà e la regolarità classica del verso, a cui li avvia anche l'esempio dei poeti greci e latini. Continuano la tradizione dei songs elisabettiani, circonfondendo motivi esili e leggiadri di tutto lo scintillio della dialettica del Donne. Più vicini a questo Thomas Carew, Sir John Suckling, Richard Lovelace, mentre Robert Herrick, autore di freschi madrigali e anacreontiche in gioventù, e di rime sacre nell'età matura, discende dal Jonson.

Ma la reazione classicistica alla corrente metafisica è già annunciata nelle introduzioni di sir William Davenant e del Hobbes al Gondibert del Davenant (1651). Hobbes specialmente protesta contro l'oscurità di espressioni che pretendono suggerire più di quel che le parole non comportino. Per questa via si arriverà al Dryden, ove si ha il massimo della magniloquenza e il minimo di alone suggestivo; i diritti dell'immaginazione non saranno riasseriti che dal Romanticismo.

Invece che ai poeti metafisici, la Restaurazione guarderà come a precursori e a modelli a un Edmund Waller, autore di corrette e fredde poesie d'occasione, a un John Denham, che nella famosa poesia su Cooper's Hill (1642) adopera il distico bilanciato su una antitesi di sapore epigrammatico. Codesti rappresentanti di un freddo classicismo sembreranno allora più classici di Milton, poiché il classicismo di Milton non ha nulla d'accademico, incarna gl'ideali d'un'età oramai defunta, l'Umanismo.

Se Milton si riattacca, per quanto debolmente, a Shakespeare, a Ben Jonson, e più a Spenser, se discende, piuttosto, direttamente dai classici latini e greci, e dalla Bibbia, se, infine, è soprattutto sé stesso per lo stile, d'altra parte incarna per la vita e l'ispirazione il conflitto tra Rinascimento e Riforma che giunge alla sua fase risolutiva in questa età, la quale perciò può a buon diritto ricevere il nome da lui.

La corrente metafisica sfiora appena Milton; i suoi concetti non sono quelli di Donne, ma quelli del vecchio tipo petrarchesco; il Milton disprezza come "fantastics" e "amorists" i poeti metafisici e cavalieri. Si professa ligio a Spenser, ma si tratta di omaggio poco più che apparente (Comus è scritto nel 1633-34 sotto l'influsso del platonismo della Faerie Queene e dei Four Hymns dello Spenser). Ché The Faerie Queene è sì un poema etico cristiano, ma la sua impalcatura è quella d'un colorato trionfo, un mask, del Rinascimento. L'impalcatura del massimo poema di Milton è un'argomentazione teologica: "to justify the ways of God to men". Puritano non ortodosso, non condividendo la dottrina dell'assoluta indegnità dell'uomo, il Milton ha tuttavia del puritanismo l'idea d'essere investito d'una missione, d'essere specialmente scelto per comunicare agli uomini un messaggio, quell'idea che si manifesta in questo tempo in scrittori diversi come Sir Thomas Browne (il quale in Religio Medici, 1642, chiama la propria vita un miracolo del Signore) e John Bunyan, che, imprigionato sotto la Restaurazione, scriverà quella divina commedia protestante e democratica che è The Pilgrim's Progress (pubblicata nel 1678, ma per spirito appartenente al periodo del Commonwealth). Poiché data da questo tempo la prima apparizione di un tipo d'Anglosassone che diverrà di più in più comune nei tempi moderni, l'uomo che si sente investito d'una speciale missione dall'Alto, e che talvolta sublima sotto specie di battaglia per una causa interessante le sorti dell'umanità quello che non è altro che motivo personale. Milton offre un esempio tipico di tale atteggiamento risalendo dalla dolorosa esperienza del suo primo matrimonio all'apologia del divorzio (The Doctrine and Discipline of Divorce) e da questa alla difesa della libertà di parola (Areopagitica) e alla campagna contro i presbiteriani, avversi al divorzio; campione dell'assoluta libertà fino alla poligamia e all'anarchia, libertà, però, limitata all'uomo e specialmente all'uomo Milton. L'egocentrismo, la continua preoccupazione di giustificare la propria condotta, caratteristiche che ricorreranno in scrittori protestanti di ogni epoca (Rousseau, Gide), si trovano già pienamente sviluppati in Milton. L'orgoglio, frutto dell'egocentrismo, farà sì che il poeta Milton riuscirà a dipingere il più grandioso ritratto di quel nemico da cui tutta la Riforma inglese è ossessionata, Satana. Puritana anche la concezione miltoniana della virtù, sentita soprattutto nella sua funzione inibitoria (Comus). Questa inibizione, combinata col sentimento di un "messaggio" da comunicare agli uomini, spinge il Milton ad abbandonare la poesia per venti anni, e a costringersi a una prosa polemica dall'andatura pesante sebbene nobile. L'influsso del puritanismo, se fu fecondo nel campo morale e civile, fu nefasto all'arte: soppresse in Inghilterra il dramma e la musica, soffocò in parte e in ogni caso controllò l'ispirazione di un Milton, e inondò il campo letterario d'una moltitudine di opere e operette edificanti tra cui a malapena emergono quelle di Richard Baxter.

La preparazione letteraria di Milton, fatta con umanistico fervore sui classici, il suo contatto con l'Italia (al punto da scrivere sonetti italiani notevoli), possono render conto della sua relativa indipendenza dalla tradizione inglese. Il suo stile solenne e musicalissimo (la magia di certi versi tutti fatti di nomi proprî è basata sul puro suono), il più latino che sia nella letteratura inglese, la grandiosa monumentalità di certe immagini, dànno al Milton, piuttosto, un'aria di famiglia coi nostri cinquecentisti; e appunto da uno di essi, Giovanni Della Casa, egli derivò il suo schema di sonetto, che divenne il modello di quanti trattarono in seguito quella forma metrica in Inghilterra, come dal Tasso (Il Mondo creato) il Milton derivò probabilmente l'uso del blank verse nel poema eroico. Paradise Lost, l'ultimo dei grandi poemi eroici la cui voga risale al nostro Cinquecento, era stato preceduto in Inghilterra da una serie di tentativi falliti in quel genere ambizioso (Pharonnida di W. Chamberlayne, Theophila di E. Benlowes, Davideis di A. Cowley): apparve alla tarda data del 1667 in un'età dal gusto diversamente orientato. Il suo influsso sulla letteratura inglese doveva farsi sentire in pieno solo nell'Ottocento (Keats).

La campagna puritana aveva prodotto fin dal principio del secolo un risveglio d'attività nel campo anglicano. È l'epoca del tentativo ritualistico di Laud, dell'altro tentativo, di Nicholas Ferrar, d'instaurare la vita monastica nel seno della Chiesa riformata (Little Gidding, il Port-Royal inglese, a cui appartenne il Crashaw prima di entrare nella Chiesa cattolica), è l'epoca dei grandi predicatori, Andrewes, Donne, Jeremy Taylor, il più diserto dei predicatori inglesi, che per fantasia descrittiva fa pensare al nostro Daniello Bartoli, dei mistici (Vaughan, Traherne), degli apologeti (il famoso libretto Eikon Basilike, 1649, circonda di fascino leggendario il "martirio" di Carlo I).

Il genere biografico, destinato a grande fortuna in Inghilterra, s'inizia con le Vite scritte da Izaak Walton in uno stile soavemente evocatore (in The Compleat Angler, 1653, il Walton dà un quadro indimenticabile delle amenità dell'Inghilterra rurale), con i Worthies of England di Th. Fuller, vivaci di punte epigrammatiche, con i ritratti di contemporanei e le memorie autobiografiche del Clarendon (la cui History of the Great Rebellion fu pubblicata solo nel 1702-04, ma scritta in parte tra il 1646 e il 1648), con le vite dei rispettivi defunti mariti scritte da Lucy Hutchinson e da Margaret, Duchess of Newcastle. La prosa solenne del Clarendon protrae in un'età orientata verso uno stile più familiare la tradizione della grande prosa secentesca penetrata d'afflato poetico in Milton, trattata con perizia di orafo da Sir Thomas Browne, il primo a dare un esempio di écriture artiste in Inghilterra.

La Restaurazione: 1660-1702. - Al ritorno del regime monarchico s'accompagnò un ritorno del gusto del periodo carolino, che i cortigiani avevano portato seco nell'esilio, e modificato al contatto della Francia. Poiché è ancora la corte, per l'ultima volta a dare il tono in letteratura, ma già si va formando il tipo dello scrittore di professione e tra non molto, con l'awento del giornalismo arbitra del gusto diverrà l'opinione pubblica borghese.

Dall'esilio i cortigiani di Carlo II recavano un riflesso degli splendori del re Sole e della letteratura classica di Francia, sicché uno sguardo d'insieme a questa aiuta a riconoscere affinità di sviluppi e curiose trasformazioni nelle lettere inglesi. La gonfia retorica e la vacuità spirituale dei drammi di Fletcher, di moda prima della chiusura dei teatri, si trovano già combinate con influssi francesi (teatro di Corneille, balletti di Benserade, romanzi di Gomberville, di La Calprenède, degli Scudéry) e italiani (l'opera in musica) nel Siege of Rhodes che Sir William Davenant riuscì a far rappresentare nel 1656. Su questa via si mette il Dryden con le sue "tragedie eroiche", creando un genere di spettacolo che già sembra preludere al teatro metastasiano, con un vago Oriente idealizzato per sfondo, gesta d'impossibile virtù o di nerissima perfidia, uso frequente di tamburi e di trombe, scene di battaglia, e soprattutto un'incantevole magniloquenza di verso. Già l'influsso della Spagna s'era fatto sentire nei complicati intrecci del teatro di Fletcher e di Massinger; sotto la Restaurazione il tipo della commedia "di cappa e spada" trionfa con The Adventures of five Hours adattata dallo spagnolo (Los Empeños de Seis Horas di Coello) da Samuel Tuke dietro suggerimento di Carlo II; trionfa a tal punto che S. Pepys trova meschino Othello in suo confronto. Ché se il repertorio elisabettiano domina le scene alla riapertura dei teatri, con Shakespeare, Ben Jonson, Beaumont e Fletcher, Webster, Middleton, si trovano però gli elisabettiani troppo rozzi, e il Dryden, pure ammirando Shakespeare, non si perita di dare una non indegna trasposizione su un piano "eroico" (All for Love or the World well lost) del troppo umano Antony and Cleopatra.

La satira e il poema burlesco vengon pure di Francia, benché la prima avesse già in Inghilterra gli esempî di J. Hall, di J. Donne, di J. Denham, certo meno splendidi di quelli offerti dal Boileau. Ma il genere burlesco, nato in Italia, venuto in gran voga in Francia col Virgile travesty dello Scarron (1648), è acclimato in Inghilterra da Charles Cotton (Scarronides, 1664) e da John Phillips (Maronides, 1672) e combinandosi con influssi rabelaisiani e cervantini culmina nel Hudibras di Samuel Butler (1663, 1664, 1678). L'esempio francese non fa spesso che secondare tendenze già implicite nello svolgimento della letteratura nazionale. Così era nella natura delle cose che l'impeto fantastico che aveva alimentato la letteratura elisabettiana ed era giunto all'estremo sviluppo con la scuola metafisica, dovesse esser seguito da un sopravvento della ragione, da una ricerca d'equilibrio nello stile, che si volle aderente alla parlata naturale. La Royal Society, che, fondata il 15 luglio 1662, consacra il posto della scienza nel mondo, e inizia la ricerca scientifica razionale e la civiltà moderna, esige dai suoi membri un "modo di parlare aderente, schietto, naturale; espressioni positive, sensi chiari, spontaneità, la maggiore approssimazione possibile alla semplicità matematica, e che sia data preferenza alla lingua degli artigiani, degli agricoltori e dei mercanti su quella dei begl'ingegni e degli eruditi." L'opposizione allo stile di un Donne e di un Browne non potrebbe essere più accentuata. Il Dryden incarna l'ideale della Royal Society in uno stile d'arte raggiunge splendore virgiliano combinando parole della lingua comune nei suoi versi scorrevoli, soavi e sapienti. L'armonia del verso è il miracolo del Dryden; del resto, che scriva panegirici, o elegie, o drammi eroici, o satire, o apologie religiose, il retroscena spirituale è esile, come era da aspettarsi da una società da cui pareva essere esulato ogni ideale religioso (gli spiriti religiosi stanno in disparte o son soffocati: Milton, Bunyan). L'appassionata eloquenza, le romantiche professioni di eroismo e di tenerezza dei personaggi del Dryden son tutte di testa, e contrastano col tono fondamentale della società dominante, che è d'utilitarismo cinico, di licenziosità, di raffinamento esteriore, d'acume critico.

Il predominio della ragione e della critica, il gusto per l'affermazione sentenziosa e l'epigramma (i migliori versi del Dryden consistono di asserzioni retoriche sostenute dall'incanto musicale, senza abbellimento d'immagini), le condizioni d'un ambiente uscito appena da una ferrea dittatura religiosa e passato a una sfrenata licenza di costumi, furono altrettanti elementi che fecero di questa età l'età d'oro della satira. Satira dell'ipocrisia di ieri in Butler, la cui serietà d'impegno ha maggior aria di famiglia con Swift che con Cleveland; satira della dissolutezza d'oggi nel puritano A. Marvell e nel cortigiano J. W. Rochester, autore di poesie licenziose, ultimo sviluppo, accanto a Sir Charles Sedley, del tipo di poeta "cavaliere" - un libertino che in punto di morte offrirà al vescovo Burnet stoffa per una conversione esemplare.

La satira è anche la caratteristica saliente delle commedie che formano la parte più viva della letteratura della Restaurazione, come quelle che esprimono la quintessenza d'una società frivola e spregiudicata che velava la propria corruzione col brio delle schermaglie verbali e della canzonatura spiritosa. Non per nulla data da quest'epoca l'introduzione nella lingua corrente dei francesismi burlesque, badinage, ridicule. Prendendo le mosse dalla "commedia di umori" di Ben Jonson e dai drammi d'intreccio del Fletcher, Sir George Etherege e William Wycherley creano un nuovo tipo di commedia, ove la società licenziosa è implicitamente satireggiata (con una punta di saturnina amarezza nel Wycherley) da scrittori che ne fan parte (le più pungenti satire dell'epoca sono scritte appunto dai libertini stessi, primo fra tutti il Rochester). Le qualità dell'Etherege si ritrovano con maggior raffinamento d'analisi in W. Congreve, che crea il capolavoro del genere in The Way of the World (1700). Non mancano scene vivaci, spesso suggerite dalle commedie del Molière, anche nel teatro di Th. Shadwell, di J. Vanburgh, di G. Farquhar, con tendenze a sviluppi sentimentali in quest'ultimo. La satira appare anche nel teatro tragico, specialmente nella miglior tragedia dell'epoca, Venice Preserved di Th. Otway (1682) che insieme con Nathaniel Lee dà un tardo riflesso del dramma elisabettiano.

Tale effervescenza di commedie spiritose e lascive significa tanto poco un cambiamento radicale nella massa del popolo inglese, che non uscirà dall'opposizione puritana, ma proprio dall'estrema destra anglicana, il denunziatore della licenziosità del teatro, Jeremy Collier, in A Short View of the Immorality and Profaneness of the English Stage (1698). La società galante descritta nel diario di J. Evelyn e soprattutto in quello indimenticabilmente pittoresco di S. Pepys scompare dal proscenio dopo la rivoluzione del 1688. In questo stesso anno appariva in una versione abbreviata francese l'Essay concerning Human Understanding del Locke, il cui elastico empirismo meglio s'adattava alla natura del popolo inglese dello spietato razionalismo materialistico del Hobbes: il Leviathan del Hobbes, scritto prima del 1660, aveva precorso il cinismo e l'assolutismo della corte di Carlo II. (Al Leviathan aveva risposto da un punto di vista repubblicano James Harrington con Oceana). Lo stile lucido e scarno del Hobbes, quello sobrio e spigliato di sir William Temple, insieme con quello del Dryden, sono i contributi dell'epoca alla formazione d'una prosa media moderna.

L'Illuminismo: 1702-1770. - Il Toleration Act (1689) chiude definitivamente il periodo acuto delle controversie religiose: nel campo politico si ha la battaglia incruenta tra i whigs e i tories, nel campo teologico le menti si volgono alle schermaglie speculative. La tendenza razionalistica imperante fa nascere il desiderio di gettar luce sui fondamenti della religione naturale, e si ha il tentativo deista (Bolingbroke) che provoca la reazione degli apologeti anglicani (di cui Joseph Butler è il maggiore). Partendo da Locke, Berkeley arriva a un idealismo impregnato di misticismo platonico, Shaftesbury a un idealismo eclettico che vede armonia nell'universo, altruismo nell'uomo, e anticipa la concezione ottimistica del Rousseau; lo zelo umanitario, il verbo di tolleranza di questi pensatori son tipici della nuova età. In altre menti il razionalismo s'appunta in uno spietato acume d'osservazione corrosiva, e si ha nel campo filosofico il pessimismo di B. Mandeville, nel campo morale e letterario l'amara poesia di J. Swift. Poiché l'opera di Swift rappresenta l'unica alta poesia possibile in una età intellettuale negata al misticismo: in lui la critica giunge al supremo affinamento e superamento di sé, diventa veemenza patetica che distruggendo ogni forma di religione (Tale of a Tub), e lo stesso spirito religioso nelle sue manifestazioni più alte (Discourse concerning the mechanical operation of the spirit), e proclamando la vanità della conoscenza (Battle of the Books), e la bestialità dell'uomo e l'orrore della vita fisica (Gulliver's Travels), crea una visione tragica e possente, un disperato incubo in cui l'impalcatura polemica si è consumata in poesia. (Simili sviluppi mentali non intaccano profondamente la sensibilità in John Arbuthnot, che del resto presenta molta affinità con lo Swift).

È tuttavia da un diverso carattere d'uomo e di poeta che la prima parte di quest'età riceve il suo nome, da A. Pope. Dell'intuizione poetica il Pope possiede solo una limitatissima dose: quella che era appunto possibile in un'età di razionalismo, il sentimento elegiaco, che doveva produrre i soli componimenti che si possano chiamare poesia in senso proprio in questo periodo (Thomson, Collins, Gray, ecc.). Ma non è per le pastorali giovanili che il Pope si conquistò il posto di dittatore delle lettere, bensì per la sua suprema felicità d'espressioni icastiche, per il suo dono di saper conversare ammirevolmente in versi. In ciò egli non fece che incarnare l'ideale della Restaurazione. Era naturale che un'età aliena dalla poesia come il razionale Settecento dovesse vedere la poesia dall'esterno, confondere poesia con poetic diction, e fissar questa secondo formule, convenzioni, modi, suggeriti dai "nobili" modelli classici. L'immagine che si facevano del mondo classico era immobilmente augusta: fatale incomprensione che rese lo spirito di Omero impenetrabile al suo eccellente traduttore Pope. L'uso brillante e vario d'infinite modulazioni che il Pope sapeva fare del distico eroico, atto veicolo di riflessioni morali e di battute epigrammatiche, lo fece eccellere in tutte quelle forme di critica in versi e d'eloquenza didattica allora di moda (Essay on Criticism, Essay on Man, ecc.). Nel Pope la callida iunctura tien luogo del concetto dei poeti metafisici. Nel poema eroicomico, The Rape of the Lock, l'imitazione classica assume originalità nella civetteria d'una scapigliata interpretazione.

La ricerca dell'espressione nobile, col ricettario di formule, perifrasi, termini astratti che ne conseguì, portò al risultato opposto a quello desiderato dalla Restaurazione (principio dell'espressione aderente e semplice). Codesto pseudo-classicismo, stadio finale d'un processo ormai esaurito, graverà come un peso morto sulla poesia di tutto il secolo, fino alla riforma del linguaggio poetico introdotta dal Wordsworth. La poesia dell'età del Pope consiste nella maggior parte di versi satirici, di scherzi ironici e sensuali, cose da salotto (M. Prior, autore anche di aride odi pindariche), di poemi eroicomici e di parodie (ed è una parodia del teatro sentimentale la famosa Beggar's Opera di John Gay, 1728).

L'ideale classico, che si era venuto formando sotto la Restaurazione in un ambiente aristocratico, si attua sotto la regina Anna (nel cosiddetto periodo augusteo) e sotto gli Hannover in una società di basi più larghe, poiché la borghesia, nel suo vigoroso ascendere, investe dei suoi ideali morali, retaggio del puritanismo, le forme favorite dal gusto aristocratico. Per un lungo tratto due principî avversi quali l'intellettualità di un classicismo tutto di testa e l'emotività religioso-sentimentale borghese giungono a combinarsi in un compromesso; ma i germi di disgregazione vi travaglian dentro per tutto il secolo, fino all'esplosione del Romanticismo. Il massimo di riuscita del compromesso si ha al principio del secolo, nell'opera di R. Steele e di J. Addison, che è una sintesi della cultura aristocratica e della morale borghese. The Tatler (1709-11) e The Spectator (1711-12) sollevano il giornalismo dalla funzione di informazione politica che aveva con D. De Foe (The Review, 1704) a quella di correzione dei costumi, offrendo un parallelo borghese all'Hôtel de Rambouillet (con a sfondo il caffè invece del salotto). L'abitudine dell'analisi, che in un temperamento speciale come lo Swift produce una spietata satira, dà, governata da una naturale benevolenza, il fine discernimento psicologico, condito di umorismo, dell'Addison, intento alla formazione del gentleman. Al freno classico dello stile risponde il freno soavemente applicato ai costumi. Maggior controllo e freddezza in Addison, che, non a torto, è stato chiamato "il primo dei Vittoriani", maggior sprezzatura ed espansività nello Steele, che rivela il fascino dei sentimenti teneri e domestici, delle virtù borghesi, e interpretando l'ideale classico al lume della morale cristiana delinea il ritratto del Christian Hero. I saggi dello Spectator stanno tra il "carattere" e il romanzo d'osservazione morale.

Il più notevole effetto del criticismo dell'età è lo spostamento del centro letterario dal dramma al saggio e al romanzo, veicoli più adatti all'analisi morale. Il romanzo diventa il portavoce della borghesia. Il primo romanziere moderno è De Foe, esponente della borghesia commerciale e nonconformista.

Già prima del De Foe si era reagito anche in Inghilterra contro il romanzo stravagante pastorale-cavalleresco (di carattere aristocratico) che aveva culminato in Francia con l'Astrée. Aphra Behn aveva sentito il bisogno di dare una vernice di veridicità al suo "heroic romance" Oroonoko or The Royal Slave (1688) documentandosi sul colore locale del Surinam. De Foe, prendendo le mosse dalla letteratura di memorie più o meno fittizie di gente della malavita (un genere modellato sui racconti picareschi spagnoli) e dalle descrizioni di viaggiatori, inaugurò (Robinson Crusoe, 1719) una nuova tecnica, di dare al romanzo l'aspetto circostanziato della vita vissuta: codesto realismo diventa in lui visione. Il punto di vista del borghese puritano si mescola curiosamente nei romanzi del De Foe con considerazioni d'interesse e contrasta con un robusto fondo sensuale. Un fine didattico moralistico è ostensibilmente anche all'origine della Pamela, or Virtue Rewarded di S. Richardson (1740). Richiesto dall'editore di un "libro di lettere familiari sulle occorrenze pratiche della vita", il Richardson scrisse il suo romanzo epistolare col deliberato proposito di stornare la gioventù dall'artificialità dei romanzi (del tipo stravagante) e indirizzarla a un genere di condotta che "promovesse la causa della religione e della virtù". Impostandosi sui costumi osservati dal vero, l'arte del Richardson non poteva non riuscire in contraddizioni nel suo sforzo di conciliare con la morale lo sfrenato sensualismo contemporaneo. Ciò è evidente in Pamela e in Clarissa (1747-48), il romanzo che ebbe enorme successo in Europa, e a cui s'ispirarono Diderot, Rousseau e Goethe. Quello del Richardson è un affinamento psicologico impiantato su una casistica morale. Con meno fissità puritana e maggior varietà d'interessi, O. Goldsmith si mise sulle orme del Richardson in The Vicar of Wakefield (1766), mentre in L. Sterne l'analisi dei sentimenti, perduto di vista ogni motivo edificante, diventa fine a sé stessa e riflette la peculiare personalità, bizzarra e sensuale, dell'autore (Tristram Shandy, finito nel 1767; A Sentimental Journey, 1768). Al sentimentalismo di Richardson si oppose il realismo di H. Fielding (Joseph Andrews è l'antitesi di Pamela, Tom Jones di Clarissa), che riuscì a una sintesi delle due tendenze in Amelia (1751). L'influsso della tradizione picaresca, notevole nel Fielding, è dominante in T. G. Smollett, la cui vena crudamente satirica e caricaturale si colora di pessimismo.

Verso la metà del secolo, benché il razionalismo classico detti ancora legge, le correnti sentimentali e morali della letteratura borghese s'ingagliardiscono. D'altronde l'autorità della chiesa anglicana, il tono della società fan sì che l'illuminismo non acquisti in Inghilterra lo stesso carattere radicale che andava assumendo in Francia. Vi è tuttavia un attivissimo scambio d'influssi tra i due paesi; è l'epoca dell'anglomania continentale. Le idee illuministiche investono ogni campo: la storia, che viene scritta con maggior scrupolo di verità (D. Hume, W. Robertson, fino a quel trionfo dell'arte classica e dell'ironia settecentesche che è The Decline and Fall of the Roman Empire di E. Gibbon), l'epistolografia (Horace Walpole, Ph. Chesterfield), la saggistica, l'eloquenza politica (lettere di Junius, ispirate all'idealismo repubblicano). Lo scozzese David Hume introduce l'empirismo di Locke nel campo morale e facendo dell'esperienza soggettiva il centro della conoscenza giunge a uno scetticismo da cui prenderà le mosse, reagendovi, il Kant.

Il dottor Johnson incarna, nella seconda parte del secolo, il dogma classico già rappresentato dal Pope, e, dopo costui, finisce per stabilire definitivamente il prestigio e l'indipendenza del letterato (la famosa lettera di Johnson a lord Chesterfield pone fine all'età dei mecenati). In Johnson, come in Addison, le regole classiche formano un tutto unico con la coscienza religiosa e morale; però in Johnson una nota d'emozione quasi mistica accompagna l'asserzione morale. Più che dalle opere (The Rambler, The Idler, nella tradizione dello Spectator, The Lives of the Poets, il Dictionary che consacra il carattere intellettuale conferito alla lingua da un secolo di razionalismo) la personalità del dottor Johnson emerge in tutta la sua affascinante imponenza dalla classica biografia scritta da James Boswell. Segni della rivoluzione romantica che si sta maturando appaiono in Johnson: combatte la teoria delle unità drammatiche, è attirato dalla potente esuberanza di Shakespeare. Shakespeare gode di una rinnovata voga, sebbene in versioni che alterano profondamente i suoi drammi (D. Garrick). Benché l'epoca sia ricca di grandi attori (oltre al Garrick, Mrs. Siddons, Kemble) il teatro originale è in decadenza. Ai drammi moraleggianti di Colley Cibber, al teatro sentimentale di Steele, fa seguito il dramma borghese di G. Lillo (che influì sulla "commedia lacrimosa" di Francia) e di Moore, gia preannunciato da Nicholas Rowe (The Fair Penitent, 1703); ma il tipo di commedia briosa inaugurato dalla Restaurazione continua con George Colman, Goldsmith (She stoops to conquer) e R. B. Sheridan (The School for Scandal).

Nella poesia elegiaca si notano i primi timidi accenni di una sensibilità nuova: da austere meditazioni di carattere puritano si distacca un assaporamento della melanconia e del dolore in sé: oggi è l'elegia di T. Tickell sulla morte dell'Addison, la Night-Piece on Death di T. Parnell, domani saranno i Night Thoughts di E. Young (1742-44) che iniziano, col tono subiettivo, la letteratura della sensibilità, sarà The Grave di R. Blair (1743), sarà la famosa Elegy written in a Country Churchyard di W. Gray (1750).

Il Gray è anche tra i primi a sentire il fascino delle remote età barbare (The Bard, The Fatal Sisters, The Descent of Odin), insieme con W. Collins (ode sulle Superstitions of the Scottish Highlands); e già l'Addison aveva riscoperto la bellezza delle vecchie ballate popolari (quali Chevy Chase, The Children in the Wood). Il Gray e lo Young visitano i laghi inglesi e rivelano una nuova provincia, il pittoresco. Le rovine, anzitutto quelle delle antiche abbazie, il gotico, formano i primi oggetti d'ammirazione per il rinascente senso del mistero; Spenser torna di moda, e se ne imita lo stile arcaico (The Castle of Indolence di James Thomson). Un'età stanca di razionalismo e di ottimismo si rifugia nei sentimenti opposti, è sedotta dalla dolcezza della melanconia; un'età stanca di urbane artificialità cerca di rinfrescarsi al contatto della natura. Già nei Pleasures of Imagination di Mark Akenside si nota una certa emozione idealistica dinanzi al paesaggio; Thomson, sulla falsariga delle Georgiche e pur negli schemi della poetic diction, riesce a venare di sensibilità il descrittivismo didattico delle Seasons (la prima, Winter, è del 1726). La Nocturnal Reverie di Lady Winchelsea rivelava già un nuovo brivido di fronte alla quiete notturna, l'Ode to Evening del Collins anticipa il Keats, Grongar Hill del gallese John Dyer spira un romantico senso di mistero.

Il Preromanticismo: 1770-1798. - Volgendo alla fine il secolo che si era creduto il più equilibrato e perfetto si tende nostalgicamente al passato, e proprio a quel passato i cui ideali si credevano opposti ai presenti, il mistico e pittoresco Medioevo, un vago Medioevo che si stende dalle prime età barbariche fino a tutto il Rinascimento, e comprende tanto Chaucer quanto Shakespeare, Spenser e Milton. L'evasione morale si traspone in termini d'evasione spaziale e temporale (v. esotismo). Il desiderio anticipa l'oggetto, lo crea: le anime aspergono il passato di quegli ideali di cui hanno in sé la vena. Nascono le mistificazioni: Macpherson inventa la prosa dell'Ossian solennemente monotona e ritmata come quella dei Libri Sacri (1760 e anni seguenti) e manda in visibilio l'Europa con un'epopea patetica collocata in uno scenario di brume di rocce di torrenti, evocatrice d'infinità; Th. Chatterton, esaltato dal gotico flamboyant di Saint Mary Radcliffe di Bristol, contraffa poesie arcaiche e, tipica figura di Stürmer und Dränger, si uccide appena diciottenne (1770); Thomas Percy pubblica (1765) con aggiunte di suo conio le Reliques of Ancient English Poetry che spirano freschezza popolaresca nelle menti tediate dalle artificialità della scuola del Pope; persino uno scettico dilettante come Horace Walpole fiuta la nuova temperie e immagina un fittizio originale italiano del suo Castle of Otranto (1764) "romanzo gotico" che apre la serie dei romanzi "neri".

La speculazione estetica precede la rinascita letteraria. I Wartons rinnovano il gusto per il gotico, mettono in dubbio il Pope; Th. Tyrwhitt restituisce il genuino aspetto di Chaucer; si fa strada la concezione del "genio"; E. Burke scopre il sublime del terrore (Inquiry into the origin of our ideas of the Sublime and Beautiful, 1756); si teorizza sul pittoresco e il reverendo Gilpin ne fa l'inventario nazionale. Al risveglio dell'immaginazione si accompagna un risveglio del sentimento religioso con i due movimenti metodista (John Wesley) ed evangelico. Intrisa d'evangelismo è la poesia di William Cowper che, non ancora libera da schemi didattici, presenta una personalità già romantica, oscillante tra brividi d'emozione morbosa e venature d'umorismo, tra il quadretto domestico e la meditazione lirica.

Il senso del mistero è dapprima coltivato sotto l'aspetto più appariscente, il terrore. Le emozioni penose affascinano un seguace di Sterne come Henry Mackenzie; diventano la molla centrale dei romanzi di Mrs. Radcliffe, che tuttavia cerca di conciliare con la fede il soprannaturale sinistro dissipandolo con spiegazioni razionali; svelano le loro radici torbide in M. G. Lewis che sulle orme del teatro rivoluzionario francese sviluppa il motivo della fanciulla perseguitata e del monaco malvagio, destinato a larga diffusione in Europa (Hoffmann, Hugo, G. Sand, ecc.): sul frate Ambrosio del Lewis (The Monk) e sullo Schedoni della Radcliffe (The Italian) sì modellerà il bieco eroe byronico. Il romanzo "nero" o "terrifico" si colorerà di angosce metafisiche in Mrs. Shelley (Frankestein, 1817) e giungerà al massimo del raffinamento con Ch. R. Maturin (Melmoth the Wandaer, 1820) la cui sottigliezza di penetrazione nei terrori dell'anima già annunzia Poe.

Accanto ai segni di tempi nuovi, si hanno manifestazioni e forme d'arte che sembrano appartenere al passato. Si tratta talora di sola apparenza. Così l'utilitarismo (Bentham), l'economia politica (Adam Smith) rappresentano un altro aspetto dell'ascensione della borghesia, quello della conquista materiale e della libertà economica. Una deliberata resistenza alla nuova sensibilità si avverte invece in Miss Burney, ancorata nel sentimentalismo del Richardson, intenta a ritrarre non senza ironia la brillante vita dei salotti; e in Jane Austen, che, oltre alle qualità della Burney a un grado più squisito, possiede un'arte luminosa che per la mancanza di contrasti d'ombre può sembrare, e non è, superficiale: arte classica grazie al cui freno la malizia dell'autrice si contenta di suggerire. In G. Crabbe sotto la forma classicheggiante e convenzionale traspare un realismo sconsolato che può far pensare a quello di un Flaubert e di un Čechov.

La Rivoluzione francese determina per contraccolpo l'orientamento di pensatori e di artisti. Alimenta da un lato il comunismo anarchico di W. Godwin, che mette a profitto per i suoi fini didattici la tecnica del romanzo psicologico e terrifico; ispira dall'altro le virulente satire dell'Anti-Jacobin (1798-99) e le travolgenti requisitorie del Burke, che, esaltando l'ordine tradizionale, pone le basi del moderno nazionalismo inglese. Figure rivoluzionarie, in diverso modo, sono i due primi grandi poeti del Romanticismo inglese, Robert Burns e William Blake. Il Burns, cresciuto tra il popolo, vede l'amore, la natura, la società con quella freschezza primigenia da cui nasce ogni grande poesia. La canzone di rivolta che cantano i suoi straccioni (The Jolly Beggars) è tutta penetrata dello spirito del Ça ira. Romantico per l'espressione diretta, popolaresca, il Burns non ha dei Romantici i raffinamenti della sensibilità; piuttosto che un precursore della lirica ottocentesca, è il supremo rappresentante di tutta una tradizione locale scozzese che contava già poeti come Allan Ramsay e R. Ferguson.

La singolarissima personalità del Blake offre in unica sintesi correnti razionalistiche e mistiche. Per un lato egli è un razionalista educato alla scuola dei liberi pensatori (i cosiddetti libertins) e di Voltaire; per un altro egli è antirazionalista, e si riattacca ad antichissime tradizioni gnostiche e occultistiche. Il Système de la Nature aveva portato il materialismo alle sue conseguenze logiche proclamando il supremo diritto dell'individuo alla felicità e al piacere contro il dispotismo della morale e della religione; il Blake va oltre, e nel Marnage of Heaven and Hell (circa 1790) arriva alla formula: "Il Bene è il passivo che obbedisce alla Ragione. Il Male è l'attivo che scaturisce dall'Energia". Sulle orme degli enciclopedisti il Blake giunge a conclusioni simili a quelle della "filosofia" del marchese de Sade, conclusioni a cui per vie diverse menavano le idee occultistiche a cui il Blake era iniziato. Per la sua teoria della "sacra insurrezione", per la sua fede nei diritti perentorî dell'immaginazione ("Io non conosco altro cristianesimo e altro evangelo che la libertà corporale e spirituale di esercitare le divine arti dell'Immaginazione"), per la sua concezione dell'artista come profeta, ispirato da messaggi divini, il visionario Blake è il più estremo portavoce del Romanticismo europeo, anzi supera i dati del Romanticismo e s'imparenta con i rivoluzionarî e gl'immoralisti d'ogni tempo. La Bibbia e la lirica elisabettiana (i songs) sono le tradizioni a cui si può raccostare l'originalissima poesia del Blake, ora fresca (Songs of Innocence and of Experience), ora astrusa fino all'indecifrabile per l'uso d'un sistema di simboli desunti dalla Cabala, dalle teorie dei Celtomani settecenteschi, ecc. (i Prophetic Books). Come la tradizione razionalista si trova curiosamente deformata nel Blake pensatore, così il classicismo artistico (John Flaxman) subisce nel Blake disegnatore tipiche deformazioni fino a divenire una cifra frenetica. La personalità del Blake era troppo eccezionale perché potesse inserirsi nella tradizione inglese, anzi nella tradizione europea, e far scuola: egli, scoperto dai preraffaelliti nel 1863, resterà un grande isolato a cui si richiameranno di tanto in tanto temperamenti estremisti di tardi romantici (p. es., A. Gide).

Il Romanticismo. - La rivoluzione nel gusto e nella sensibilità che s'inizia alla fine del Settecento non si può dire che abbia ancora esaurito i suoi effetti, per quanto lo stadio estremo a cui oggi son giunte alcune correnti romantiche accompagnandosi con indubbî segni di mutata sensibilità nelle più giovani generazioni, faccia supporre prossima la fine. Ogni netta divisione in periodi, necessariamente arbitraria in ogni caso, riesce assai malagevole nel seno del romanticismo. Si può osservare ancora per i due primi periodi, il romanticismo vero e proprio (1798-1832) e il cosiddetto compromesso vittoriano (1832-1875 circa) che segna un parziale ritorno di razionalismo nell'ambito stesso della sensibilità e del gusto romantici; ma le tendenze che affiorano in modo più o meno risentito nell'ultimo mezzo secolo non saprebbero organizzarsi sotto formule abbastanza vaste da lasciar fuori solo aspetti secondarî e accessorî. L'estetismo caratterizzò la fine del secolo, la psicanalisi caratterizza il periodo postbellico; ma codeste formule non coprirebbero che parte della produzione letteraria. È vero anche che l'allargarsi del campo dei lettori e l'estendersi delle basi di reclutamento degli scrittori dal principio dell'Ottocento in poi, fenomeni paralleli all'avvento di principî democratici, hanno reso impossibile non solo una dittatura in fatto di gusto quale si ebbe durante il Settecento, ma anche la formazione di scuole abbastanza autorevoli da contrassegnare col loro carattere un determinato periodo. Sicché è impossibile anche quella relativa unità che venne assicurata a un periodo non consciamente organizzato come l'elisabettiano dalla ristrettezza della cerchia entro cui si reclutavano gli scrittori e degli ambienti a cui si rivolgeva la loro attività (il teatro, la corte). In un senso puramente esterno e sociale il campo letterario presenta dunque dall'ultimo quarto dell'Ottocento in poi qualcosa di analogo al polverizzarsi dei partiti politici in seno al parlamentarismo. Il parallelo è ancor più calzante se si rifletta che a un primo momento di apparente ricchezza e rigoglio d'idee, di promettente effervescenza, è succeduto in entrambi i campi, il politico e il letterario, un disperdersi e isterilirsi delle energie, sì da confemiare per ogni verso il fenomeno di crisi della borghesia. Per il periodo dunque che va da circa il 1875 ai giorni nostri non sapremmo suggerire denominazione adeguata, sebbene sia possibile fissare una suddivisione coincidente, senza esserne necessariamente dipendente, con la guerra mondiale. Il primo periodo del Romanticismo si potrebbe anche convenientemente designare come il Periodo etico del Romanticismo (1798-1832). Poiché la prima generazione dei grandi poeti romantici presenta una dottrina o un orientamento etico altrettanto saliente quanto l'estetico. Il ritorno alle tradizioni nazionali, popolari e contadine, annunciato nel programma delle Lyrical Ballads (1798) di W. Wordsworth e di S. T. Coleridge (i cosiddetti Laghisti, dalla regione dei laghi del Cumberland ove soggiornarono) è fenomeno imparentato a quel mutamento delle basi etiche della società che si produsse con la Rivoluzione francese, sotto l'influsso della quale furono per un momento i poeti inglesi. D'altronde gl'ideali di libertà politica e morale formano parte integrante dell'ispirazione di un Byron e di uno Shelley, mentre il terzo grande poeta della seconda generazione romantica, il Keats, supera l'estetismo iniziale con una ben articolata coscienza del significato della bellezza e del dolore nel mondo, e della missione del poeta in questo.

Il manifesto delle Lyrical Ballads, nella sua accezione più vasta (ché a esso non si conformerà poi strettamente la produzione dei due poeti), segna una ripresa di quell'originalità creativa, di quel libero esplicarsi della vita emotiva e fantastica che era stato già caratteristico del primo Sturm und Drang inglese, l'epoca elisabettiana: è un vero e proprio rinascimento del senso di stupore elementare (fanciullesco, se si pensa alla famosa Ode on Intimations of Immortality del Wordsworth) di fronte al mistero del mondo. A rendere il senso di questo mistero, il Wordsworth si proponeva di trasfigurare con un linguaggio aderente e significativo la realtà più familiare, il Coleridge di rendere reale e tangibile il soprannaturale. In quest'ultimo senso la Rime of the Ancient Mariner rappresenta il vertice massimo toccato dal Romanticismo europeo. Contro l'astrattezza intellettualistica della poetic diction del Settecento, priva di alone suggestivo, il Wordsworth inaugura un linguaggio i cui termini semplici son carichi del massimo di suggestività, mentre il Coleridge restaura l'energia evocatrice della lingua con un sapiente uso di arcaismi, e la potenza fantastica del verso con un ritorno alla metrica per accenti. Tuttavia l'esempio dei due poeti rimane isolato, essi non sono gli esponenti di un risveglio nazionale. Il Terrore prima, poi le conquiste napoleoniche, che tengono l'Inghilterra ancorata in un conservatorismo difensivo fino al 1815, fanno ripiegare i due poeti stessi su posizioni tradizionali. Il Wordsworth diluisce il verbo di fratellanza umana appreso dalla Rivoluzione in un didattismo moralistico strettamente nazionale (The Excursion); il Coleridge tenta di conciliare l'idealismo tedesco, di cui egli si fa banditore, con l'ortodossia anglicana. Grandissima è l'importanza, nella tradizione filosofica inglese tutta razionalista ed empirica, dell'affermazione di assoluto contenuta nella filosofia del Coleridge. Egli apre nuovi campi e nuove possibilità al pensiero inglese. Come pensatore prepara Carlyle, come critico letterario inizia la riesumazione degli elisabettiani.

L'atmosfera della Reggenza resta tuttavia assai impregnata dello scetticismo e della libertà di costumi del Settecento. D'altra parte le correnti di pensiero borghese che si manifestano attivamente dopo il 1815 sono strettamente connesse con lo sviluppo economico della borghesia, e discendono direttamente dalla tradizione razionalista settecentesca (Bentham, Malthus, David Ricardo, Stuart Mill): a esse s'ispireranno nel campo politico i liberali (eredi dei whigs), che prepareranno il compromesso vittoriano. Parallela nei fini alla campagna liberale, ma diversa d'ispirazione è la rivolta dei grandi poeti della seconda generazione romantica. Se un'aria di famiglia è possibile riconoscere fra il ritorno alla natura dei romantici e il liberalismo aggressivo, a base di tradizionalismo agrario, di William Cobbett, ben poco di simile v'è tra il liberalismo che culminò nel Reform Bill e l'anarchismo aristocratico di G. Byron e di P. B. Shelley; all'unisono con la risvegliantesi Europa, Byron e Shelley hanno invece l'ostracismo in patria. A entrambi l'Italia, alla vigilia della rivoluzione politica, è seconda patria; e così essa di nuovo polarizza le forze del secondo Sturm und Drang inglese, come aveva polarizzato quelle del primo (il periodo elisabettiano). Un riflesso del fascino perverso dell'Italia del Rinascimento si produce al tempo stesso: The Cenci dello Shelley è opera parallela alle Chroniques italiennes dello Stendhal. Al Byron l'Italia offre anche modelli letterarî: le tragedie di Alfieri, i poemi burleschi del Pulci e del Casti. Se per la sua opera maggiore (il Don Juan) il Byron ha molto di settecentesco, per il suo Childe Harold e i Tales in verse, e il tipo di eslege in essi dipinto, egli parve ai continentali incarnare il "mal du siècle", e come tale ebbe enorme influsso sul Romanticismo europeo. Il suo è romanticismo morale, non romanticismo d'immaginazione. In Shelley al romanticismo morale (in cui il razionalismo anarchico del Godwin diventa esaltazione della vita intuitiva, e il materialismo ateo del Settecento si cangia in panteismo idealista) si accompagna un possente afflato fantastico: la sua lirica creatrice di miti rappresenta, nei più felici momenti, la quintessenza del Romanticismo europeo. Il successo del Byron fu in parte dovuto al suo abile sfruttamento dell'esotismo che era come nell'aria: si trova codesto esotismo in R. Southey e in W. Scott, le cui ballate dovevano essere eclissate dal successo byroniano, mentre i romanzi, famosi un tempo per le brillanti rievocazioni di scene storiche, valgono, più che per esse e per le trame assai consunte, per la fresca e saporosa rappresentazione della vita popolare scozzese. Presso i romantici i racconti dello Scott tennero luogo di letteratura drammatica: essi divulgarono dappertutto gli aspetti più esteriori della nuova sensibilità. Ma gli aspetti più intimi di questa sensibilità trovarono espressione, dopo il Coleridge, nell'esotismo classico di J. Keats, che contiene talora in embrione, talora in pieno sviluppo, tutti gli elementi del tardo romanticismo e del decadentismo della fine del secolo. Padre dell'estetismo, il Keats non è un esteta; il succo della sua poesia è a base etica: egli esalta contro il razionalismo l'intuizione della vita accettata integralmente, e, come tale, configurantesi in bellezza. Ma il Keats a cui s'ispirarono i preraffaelliti fu piuttosto il Keats alessandrino e sensuale, l'evocatore del piacere del dolore (Ode on Melancholy), della crudeltà della passione (La Belle Dame sans Merci), o semplicemente di un Medioevo nostalgico (The Eve of St Agnes). Riconnettendosi alla grande tradizione del verso inglese (Spenser, Shakespeare, Chapman, Milton), il Keats segna il momento di massima perfezione formale raggiunto dal Romanticismo.

Aspetti della sensibilità romantica sono illustrati dai poeti minori e dai saggisti di questo periodo. Il Rogers combina un ameno senso del pittoresco con un didattismo di tipo settecentesco; Th. Moore s'indugia in rappresentazioni esotiche di carattere decorativo (Lalla Rookh); W. S. Landor è un tardo classicista che sopravvive fino a ritrovare attualità con l'avvento dell'equilibrio vittoriano; idoleggia paganismo ellenistico e stoicismo romano, e nelle Imaginary Conversations anticipa i monologhi storici di R. Browning e la biografia romanzata.

Nel gruppo dei cosiddetti "eccentrici" si delinea chiaramente quell'evasione dal romanticismo più impegnativo che formerà un carattere dell'età vittoriana. Ch. Lamb trova un alibi alla tragicità fondamentale della sua vita nel humour, e al humour ricorre pure Th. De Quincey per sfuggire alle ossessioni morbose che lo insidiano: entrambi riesumano cadenze e ornamenti secenteschi (soprattutto Sir Thomas Browne), in modo più aereo e arguto il Lamb, in modo più retorico il De Quincey (specialmente in Levana), e portano a maturazione l'essay moderno e l'écriture artiste. Le esperienze personali invece di sublimarsi nel pieno lirismo della poesia, son rivissute in un genere di mezzo, parte critico, parte effusivo, il saggio, la confessione (certi Essays of Elia, le Confessions of an Opium Eater). Anche Th. L. Peacock considera il romanticismo dall'esterno, trova un alibi all'attrazione per motivi romantici nella spiritosa caricatura di tipi ameni ed eccentrici (Nightmare Abbey); come il Landor, riconnette il razionalismo settecentesco con quello vittoriano. Più superficiali, il Hazlitt, dotato di scarso potere suggestivo, ma di uno stile chiaro e robusto, e, più in basso, Leigh Hunt, ravvicinano il saggio al giornalismo, creano il tipo di saggio da "terza pagina" di giornale. Nascono in quest'epoca le grandi riviste, ciascuna rappresentante un diverso gruppo d'interessi (la Edinburgh, la Quarterly, la Westminster, il Blackwood's Magazine, il London Magazine).

Il compromesso vittoriano: 1832-1875. - Il primo Reform Act del 1832, l'abrogazione delle leggi sul grano (Corn Laws) del 1846, la grande esposizione di Londra del 1851 son le date principali dell'avvento e dell'apoteosi della borghesia industriale in Inghilterra. L'interesse economico è la molla di tutto il movimento, ma benché la più sfrenata concorrenza e lo sfruttamento irresponsabile del lavoro siano alla base della prosperità industriale che celebra il suo trionfo nel 1851, l'utilitarismo non è apertamente proclamato. I progressi scientifici, la pubblicazione di opere come Principles of Geology di Ch. Lyell (1830-33) e The Origin of Species del Darwin (1859), il successo della teoria dell'evoluzione e del positivismo scuotono le credenze tradizionali, ma si rifugge dal dedurre le estreme conclusioni, e si cerca invece di contemperare opposte esigenze in un equilibrio che riesce a mantenersi per buona parte del secolo. La borghesia, di origini puritane, impone il suo tono morale a tutte le manifestazioni. La parola d'ordine è un soddisfatto ottimismo per le "magnifiche sorti e progressive". Un illuminismo, assai meno radioso di quello del Settecento, rischiara di rosea luce un gretto mondo materialistico. Stuart Mill ammorbidisce il razionalismo cercando d'infondervi un soffio d'idealità etica. Herbert Spencer, con i First Principles (1862), dà il romanzo metafisico, la summa di questo periodo. Macaulay arringa con drammatica e pittoresca eloquenza figure ed eventi della storia. Si può misurare il carattere e lo svolgimento dell'era vittoriana considerando la figura di Macaulay al principio e, alla fine, quella di T. H. Huxley, divulgatore diserto di Darwin e campione dell'agnosticismo. L'eroe dell'epoca vittoriana è l'uomo di scienza.

Contro il razionalismo trionfante e l'illusione di un equilibrio raggiunto sorgono reazioni di carattere idealistico. Il tentativo di trattare scientificamente la religione provoca il ritorno alle antiche tradizioni e alle pompe del ritualismo col movimento di Oxford che culmina nella conversione al cattolicismo del suo maggiore esponente, John Henry Newman, maestro della prosa polemica (Apologia). (L'influsso dell'Oxford Movement si nota nel famoso romanzo di J. H. Shorthouse, John Inglesant, 1881, efficace pittura della crisi d'un'anima religiosa al tempo della rivoluzione puritana). Lo spirito dei profeti rivive nel puritano Carlyle insieme col mistico paganismo nordico creatore di miti, e figure di grandi ispirati (Heroes and Hero-Worship, 1841) son presentate come modelli alla meno ispirata delle età. Il Carlyle combatte la civiltà meccanica in una prosa veemente e scheggiata, animata da un gagliardo afflato poetico (The French Revolution ha talora un ritmo epico). Ulteriori sviluppi delle sue dottrine sono tanto l'imperialismo di R. Kipling quanto il socialismo di G. B. Shaw. Un ardore di fede puritana è anche al centro della crociata di J. Ruskin, che in uno stile d'arte discendente da quello del Landor e del De Quincey dà fondamento etico e religioso al suo bisogno di bellezza in un mondo che il grigio squallore della civiltà industriale minaccia di sommergere, e dal campo estetico porta le sue armi nel dominio stesso degli avversarî, l'economico, e denunzia efficacemente le condizioni della produzione industriale. Il Ruskin è il primo a formulare l'idea di civismo mistico compendiata nella parola service. Tutte queste correnti antiutilitarie non fanno che continuare l'impulso idealistico del primo Romanticismo, ma di codeste origini sembra mancare la coscienza, al punto che il Carlyle crede di essere un antiromantico, e che il Newman e il Ruskin si rifanno direttamente dal Medioevo. Ancor meno conscio del significato della sua posizione di fronte all'età sembra Ch. Dickens, che un sicuro istinto spinge a combattere a fianco degl'idealisti con un'opera che, a parte l'alto valore di evangelo umanitario, ravviva le sorgenti represse della sensibilità, del pianto e del riso spontanei, e dà alla letteratura d'Europa una galleria di robuste e pittoresche figure, anche se talora melodrammatiche e caricaturali, quale il suo paese non aveva forse più dato dopo Chaucer e Shakespeare. La sua scelta di vite umili come argomento dei suoi romanzi servirà d'esempio ai romanzieri russi. Infine Matthew Arnold presenta agl'insulari sempre più chiusi nel loro provincialismo lo specchio della cultura europea, onde possano conoscersi e correggersi.

In un'epoca così densa di storia sociale ed economica, così ricca di nuove vedute scientifiche, è naturale che l'arte rifletta interessi d'ordine pratico più largamente del solito. Ciò è soprattutto evidente nel romanzo, che è spesso a tesi (B. Disraeli, che dopo principî dilettanteschi, bandisce in Coningsby, Sybil, ecc. il suo programma di armonica cospirazione di tutte le forze dello stato sotto il sovrano riconsacrato da un'aureola mistica; Mrs. Gaskell che insinua il dovere della carità e della mutua simpatia nelle sue pitture di conflitti industriali; Charles Kingsley che predica un socialismo cristiano; George Eliot nei cui romanzi, ove sfondo filosofico e fine didattico sono evidenti, nulla forse manca della grande arte se non il potere suggestivo). D'altronde l'esempio della scienza e il razionalismo imperante spingono i romanzieri a esser deliberatamente realisti, a documentarsi. Il Thackeray, ironista per represso romanticismo, mira a tornare alla lucida arte, al romanzo di "umori" o tipi del Fielding; Anthony Trollope studia minutamente ambienti ecclesiastici di provincia; Charles Reade pratica i più scientifici metodi realistici documentandosi come farà lo Zola. Un altro segno dei tempi è l'emancipazione femminile che si manifesta in un numero di romanziere di prim'ordine: oltre alla Eliot, Charlotte Brontë, la cui individualità romantica e appassionata è imbevuta di austerità morale e di stoicismo, ma non priva di gaia arguzia, e sua sorella Emily Brontë, autrice di quell'incandescente Wuthering Heights pieno d'immaturo genio e d'ingenua psicologia. La popolarità del romanzo va di pari passo con la sua funzione di potente divulgatore di idee. Per la prima volta si pubblicano romanzi a puntate, e si scrivono romanzi di tipo poliziesco (The Moonstone di Wilkie Collins, 1868). Nella poesia, è soprattutto nei minori che gl'interessi e i conflitti del momento trovano espressione dichiarata, in quei rampolli del Faust che sono il Festus di Philip James Bailey, il Dipsychus di Arthur Hugh Clough, nel Balder dello "spasmodico" Sydney Dobell, inteso a rappresentare il passaggio di un essere umano dal dubbio alla fede, nell'Orion di R. H. Horne, che descrive il conflitto tra l'intelletto e i sensi, ecc. Tutti questi poemi rivelano lo stato d'insoddisfazione spirituale latente all'ombra del compromesso vittoriano. Ma anche nei poeti maggiori il tormento del dubbio è al centro stesso dell'ispirazione, nell'Arnold, la cui vena si tinge di una melanconia pessimista (specialmente Empedocles on Etna); in A. Tennyson, che, preso da uno sgomento simile a quello che prese John Donne in un periodo altrettanto critico della storia spirituale d'Europa, ma meno agguerrito del Donne per superarlo, si rifugiò in un alessandrinismo squisitamente virgiliano, in un mondo incantato d'immagini e di ritmi disceso da quello del Keats, esalò la sua melanconia in quel lene crepuscolo degli dei che sono gli Idylls of the King, per terminare nel pessimismo di Locksley Hall sixty years after (1875). Interessi sociali e soprattutto politici (l'indipendenza italiana) sono alla radice anche della poesia di Mrs. Browning, la cui tecnica difettosa e il cui esuberante emozionalismo non si avvertono nel capolavoro, Sonnets from the Portuguese. Il carattere provinciale della domesticità vittoriana trova forse l'espressione culminante nell'Angel in the House (1854-60) di Coventry Patmore, che per altri poemi (le odi, The Unknown Eros) risale al misticismo dei poeti metafisici del Seicento. Nel cattolico Patmore e nella protestante Christina Rossetti si hanno le più alte espressioni della lirica religiosa dell'età. A parte l'ispirazione occasionale dovuta all'ambiente, il carattere della poesia vittoriana è essenzialmente romantico. Gusti, orientamenti della fantasia, sensibilità, tradizione stilistica sono quelli dell'età precedente, con una notevole differenza, come ora diremo, in Robert Browning. Ciò è chiaro nel caso di Thomas Lovell Beddoes, nella cui ispirazione macabra si combinano influssi tedeschi ed elisabettiani (Death's Jest Book); ma non è men chiaro nel movimento preraffaellita, che si delineò nel 1850 con la rivista The Germ e trovò un potente alleato nel Ruskin. Nella tradizione inglese la poesia di Dante Gabriel Rossetti s'innesta nel tronco keatsiano, di cui rappresenta uno sviluppo unilaterale nel senso dell'"arte per l'arte"; ma vi predomina l'influsso dello "stil nuovo" italiano, interpretato come misticismo sensuale, accanto a un'influsso delle ballate inglesi: in breve, un esotismo medievaleggiante ne è la principale caratteristica, come lo è della prima maniera di William Morris il quale più tardi doveva risalire alla saga germanica e scandinava, e tentar di ravvivare lo spirito medievale anche nell'artigianato. Per un lato i preraffaelliti son molto affini ai romantici tedeschi, per l'altro preparano l'estetismo e (specie il Rossetti, col suo Medioevo truce sensuale e pseudo-mistico) il decadentismo; a creare il quale contribuirà pure la versione dei Rubáiyát di Edward Fitzgerald (1859).

La reazione di Robert Browning all'ambiente poetico circostante non è senza affinità con quella del Donne al petrarchismo della fine del Cinquecento. Alla melodia tennysoniana contrasta vivamente il contrappunto del Browning, talora astruso e assurdo, ma di un effetto drammatico e di un'aderenza alla vita che hanno spesso del prodigioso. Alieno dal confessare sé stesso nei versi, il Browning è fra i più acuti confessori di anime altrui, poeta dei casi di coscienza e delle tragedie dell'anima.

Nessun romantico giunse forse mai alla maestria del Browning nell'evocazione pittoresca. L'età vittoriana non mancò di humour, dalle freddure veramente ispirate, strutturali, non decorative, di Thomas Hood, al classico dei fanciulli inglesi Alice's Adventures in Wonderland (1865) di Lewis Carroll, al "nonsense verse", i deliziosi "limericks" di Edward Lear.

La reazione antivittoriana: da circa il 1875 in poi. - Se, come si è accennato, correnti di rivolta solcavano le acque del più tranquillo periodo dell'età vittoriana, un sommovimento generale si comincia a notare soltanto verso il 1875, insieme coi primi sintomi di crisi economica. A voler guardare solo al campo della poesia, il nuovo periodo s'inizia con la pubblicazione dei Poems and Ballads dello Swinburne nel 1866, in cui la peculiare sensualità del poeta si confessava apertamente, lanciando una sfida alla verecondia dei contemporanei. Per altro verso il poeta continuava la tradizione dei ribelli aristocratici del primo romanticismo (Byron, Shelley, Landor), mentre s'accordava con l'atmosfera vittoriana nel suo entusiasmo per la causa dell'indipendenza italiana (Songs before Sunrise) e nella sua religiosità positivista (Hertha, The Hymn of Man). Più tardi si conformerà alla tradizione più ortodossa con i suoi poemi marini, d'un sapore spiccatamente anglosassone, e le sue imitazioni del teatro elisabettiano; mentre l'Atalanta in Calydon fin dall'epoca della pubblicazione (1865) era accettata come un classico. Ma l'influsso dei Poems and Ballads dello Swinburne consisté, tra l'altro, nell'iniziare la giovane generazione all'opera dei fondatori del decadentismo francese, il Gautier e il Baudelaire. Dallo Swinburne critico d'arte prese le mosse Walter Pater, che con la conclusione agli Studies in the Renaissance (1873) (che insegnava a non sacrificare nessuna parte dell'esperienza, a non rinchiudersi in un sistema che precludesse l'appassionata ricerca di sensazioni), e con i suoi studî di giovinezze sensuali, mistiche e dilettantesche (Marius the Epicurean, Duke Carl of Rosenmold, ecc.), condotti in uno stile prezioso (nella tradizione dell'écriture artiste inglese), provocò il movimento estetico. Su questo influirono pure la History of the Italian Renaissance di J. A. Symonds (1875), Mademoiselle de Maupin del Gautier, Á rebourx del Huysmans, e in genere il decadentismo francese. L'estetismo, che contò parecchi poeti minori (Arthur Symons, la cui opera più duratura è nel campo della critica, Richard Le Gallienne, Lionel Johnson, Ernest Dowson, ecc.) e improntò di sé le prime opere di scrittori che poi dovevano altrimenti avviarsi (lo squisito essayist Max Beerbohm, il romanziere George Moore), culminò nella pubblicazione della rivista The Yellow Book (1894-97), le illustrazioni e il racconto Under the Hill di Aubrey Beardsley, e soprattutto l'opera (The Picture of Dorian Gray, 1890, Salomé) e la figura di Oscar Wilde, il cui scandalo mise fine alla fase popolare del movimento. Di esso però si avvertono echi nell'opera recente dei Sitwell e di Ronald Firbank (The Man who lost himself di Osbert Sitwell, 1929, echeggia Dorian Gray; gli studî di Sacheverell Sitwell sul barocco e il gotico continuano la tradizione del Pater; le poesie di Sacheverell e di Edith Sitwell per artificiosa e preziosa fantasia ricordano il Wilde). Al decadentismo e al simbolismo, e soprattutto a quell'aspetto che ne è il teatro di Maeterlinck, si connette il rinascimento celtico della fine del secolo, con la sua immagine di una Irlanda melanconica e fiabesca, e lo squisito alessandrinismo del linguaggio anglo-irlandese coniato da Douglas Hyde. Mentre W. B. Yeats combina il simbolismo con influssi indiani, il Synge tratta, oltre all'elemento meraviglioso, il comico popolare, e dà quella pittura d'ingenua amoralità che è The Playboy of the Western World (1907). I drammi di Sean O'Casey (specie Juno and the Paycock, 1924) rispecchiano la vita e l'anima dell'Irlanda durante il tragico periodo della recente lotta per l'indipendenza.

Gl'influssi stranieri hanno larga parte nella letteratura inglese della seconda metà dell'Ottocento. Alla corrente di pessimismo che dilaga in Europa in quest'epoca, con la filosofia di Schopenhauer, la musica di Wagner, il teatro di Ibsen e di Strindberg, il romanzo russo, sono imparentati direttamente o indirettamente il poeta James Thomson, autore di The City of Dreadful Night (1874), lugubre allucinazione di un discepolo di Vigny e di Leopardi; George Gissing, che combina modi dickensiani con quelli dei naturalisti francesi in una sconsolata rappresentazione delle miserie sociali (romanzi: Demos, The Nether World, New Grub Street, ecc.); Thomas Hardy, che profila cupi drammi di anime contro lo sfondo maliosamente triste di appartati distretti agricoli inglesi e di città di provincia, accetta da Schopenhauer la concezione di una volontà ciecamente operante e micidiale (Tess of the d'Urbervilles, Jude the Obscure) che egli investe della terribilità dell'Ate dei Greci (The Dynasts, 1904-08), adopera un simbolismo che fa pensare alla tecnica wagneriana del leit-motiv, e, già maturo, si rivela lirico austero e robusto seppure ineguale (certe sue liriche paiono traduzioni in inglese di magnifici originali stranieri inesistenti); Hale White, il cui doloroso realismo si tempera di carità (Autobiography of Mark Rutherford, 1881, Mark Rutherford's Deliverance, 1885). Il teatro di Ibsen, divulgato dopo il 1890 da E. Gosse, da William Archer, e dallo Shaw, ispira i drammaturghi inglesi, lo Shaw per primo; Maeterlinck e il dramma russo sono echeggiati da J. Barrie, il cui fiabesco Peter Pan (1904) diventa un classico dell'infanzia; l'influsso francese è notevole su S. Maugham, su A. Bennett, e su J. Galsworthy, che nella Forsyte Saga (1906 seguenti) si fa storico dell'evoluzione psicologica dell'alta borghesia inglese dall'epoca vittoriana all'attuale, e scrive drammi a tesi colorati da compassione umanitaria per le vittime della società.

Il carattere cosmopolita della moderna letteratura inglese giunge al massimo con i romanzi del polacco Conrad, che affascinano con scenarî esotici (l'Africa tenebrosa, i Mari del Sud) un pubblico già sollecitato a uscire dal provincialismo vittoriano da una fioritura di libri di viaggi e d'avventure: Sir Richard Burton, A. W. Kinglake; The Bible in Spain e Lavengro di quell'eccentrico puritano dagl'istinti nomadi, George Borrow; il Giappone cavalleresco ed eroico di Lafcadio Hearn; Travels in Arabia deserta di C. M. Doughty (1888), a cui si riconnetterà poi Revolt in the Desert di T. E. Lawrence (1927); e specialmente l'opera dello Stevenson che intorno al 1880 scopre e descrive da provetto stilista nuove provincie della fantasia, nei suoi romanzi d'avventure - Treasure Island, che rivela i Mari del Sud - e nel suo studio di sdoppiamento di personalità, Dr. Jekyll and Mr. Hyde. L'orizzonte inglese subitamente s'allarga dall'isola natia alla visione del vasto impero, al tempo della guerra sudafricana, grazie al verbo d'azione di William Ernest Henley, che esalta la vita pericolosa e le battaglie della stirpe anglosassone; e ai ritmi rudi e travolgenti del Kipling (Barrack Room Ballads, The Seven Seas, The Five Nations, ecc.), alla sua evocazione di figure di sentinelle perdute nelle più remote parti dell'impero, alla sua teoria d'imperialismo mistico (per cui la colonizzazione è interpretata come "il fardello dell'uomo bianco"), ai suoi robusti racconti e alle sue argute favole (The Jungle Books, Just so Stories). La popolarità del Kipling si stende per tutti i paesi d'Europa, dove si delineano frattanto analoghe correnti imperialiste (p. es., D'Annunzio in Italia).

Mentre Kipling indicava la via d'uscita dal vittorianismo con la sua visione energetica, e G. K. Chesterton contrapponeva alla bruttezza della civiltà industriale e al materialismo la semplicità agricola dei padri e la luce perenne dell'idea cattolica, usando a veicolo delle sue idee un ameno stile paradossale (suo compagno di fede e d'armi, Hilaire Belloc rincarnava lo spirito dei clerici vaganti nel suo Path to Rome, 1902), una ben più formidabile campagna contro gl'idoli vittoriani veniva condotta da Bernard Shaw, uscito da quel gruppo fabiano che verso la fine del secolo ringagliardì l'agitazione socialista, calmatasi dopo una prima effervescenza tra il 1840 e il 1850. Se per un lato lo Shaw discende dall'Ibsen, per l'altro è discepolo di quello Swift dell'età vittoriana che fu il secondo Samuel Butler. Critico razionalista, il Butler aveva scosso le basi della società vittoriana, religione, morale, tradizioni, sentimenti, orgoglio scientifico, attaccandole con corrosivo spirito volterriano, in un romanzo utopico, Erewhon, 1872 (si può qui ricordare che l'anno prima l'eclettico romanziere E. Lytton Bulwer, autore di The Last Days of Pompeii (1834), aveva pubblicato un'analoga fantasia utopica, The Coming Age). La finale concezione del mondo del Butler, il cui più caustico romanzo, The Way of all Flesh, uscì postumo nel 1903, s'avvicinò assai all'evoluzione creatrice del Bergson, propendendo a un modesto ottimismo, a uno spirito di tollerante conciliazione. Lo Shaw, usando invece del riso amaro della satira il riso apparentemente frivolo della commedia (in modo che può ricordare il Wilde migliore, quello delle commedie) denunciò le menzogne della famiglia, della proprietà, della religione, della scienza, e svolse idee anarchiche e vitalistiche. Fu pure recluta del fabianismo H. G. Wells; autore prolifico di romanzi ove ha larga parte una specie d'allucinazione scientifica, il Wells non ha cessato di trattare drammaticamente i problemi via via emersi nella storia dell'umanità, spesso con vena di accorato profeta.

Verso la fine dell'Ottocento il fermento di rivolta e di rigenerazione era dunque apparente in ogni campo della letteratura, e, tra l'altro, ne fa testimonianza la frequenza dell'aggettivo new applicato a ogni manifestazione (New Drama, New Unionism, New Woman, ecc.). In molti casi non si trattò che di fenomeno di breve durata. L'era nuova apertasi per il teatro nel 1904, con Granville Barker e Vedrenne alla direzione del Court Theatre, non ha prodotto autori (Somerset Maugham, St. John Hankin, Granville Barker, ecc.) che possano reggere al confronto degli elisabettiani; una tragedia come Paolo and Francesca di Stephen Phillips, 1899, un dramma storico come Abraham Lincoln di John Drinkwater, 1918, han goduto successi presto dissipati; attualmente il teatro inglese segna i trionfi delle pantomime musicali di Noel Coward (Bitter Sweet, Cavalcade) ove la riesumazione di mode antiquate (vittoriane, edwardiane) forma un delizioso spasso per gli occhi, se pure non offre forte alimento allo spirito. Quelle pantomime, e un dramma come The Barretts of Wimpole Street di R. Besier (1930) rappresentano un altro aspetto della corrente di biografia romanzata inaugurata in Inghilterra con Eminent Victorians (1918) e Queen Victoria (1921) del volterriano Lytton Strachey; una corrente non destinata a grande avvenire. (Tra i seguaci dello Strachey anticipato da Vernon Lee alla fine dell'Ottocento, notevole Bonamy Dobrée, Essays in Biography, 1925).

L'imperialismo del Kipling è stato esautorato dalle esperienze di guerra, che, a parte alcuni sonetti di Rupert Brooke e alcuni versi di Laurence Einvon, entrambi spiranti sentimenti magnanimi, ha prodotto prose e versi realistici compresi di tutto l'orrore della strage e spesso espressivi di un disperato pessimismo (Siegfried Sassoon, Robert Nichols, Robert Graves, Wilfred Owen, The Spanish Farm, del Mottram; Undertones of War, del Blunden, Journey's End, dello Sherriff; For Services rendered, di Somerset Maugham).

Il rinnovamento estetico, come s'è visto, rimase circoscritto, e presto cadde in discredito. Non contò che poeti minori. Dei poeti rimasti estranei a esso, solo due attinsero a momenti di profonda ispirazione, A. E. Housman (The Shropshire Lad, 1896), d'un classicismo quintessenziale colorato di melanconia, e Robert Bridges, discendente dalla grande tradizione miltonica, innovatore nel campo metrico, la cui carriera si chiuse col successo di un poema filosofico dal disegno enciclopedico, The Testament oj Beauty (1929). Alfred Austin, W. S. Blunt rinnovarono modi di romanticismo byronico, W. Watson si modellò sui parnassiani, Alfred Noyes ebbe prima della guerra mondiale un successo coi suoi facili versi. Circa il 1910 si delineò un movimento di ritorno alla natura, a emozioni e modi semplici che si vollero contrapposti alle artificialità della fin-de-siècle. Tra codesti poeti che si denominarono Georgian Poets si segnalarono John Drinkwater; J. C. Squire; il prolisso e ruvido, ma a tratti ispirato Lascelles Abercrombie; W. H. Davies; J. E. Flecker (per altro verso assai decadente; p. es. nel dramma Hassan); l'attuale poeta laureato John Masefield, che combinò influssi del Blake, del Kipling, del Whitman con una nativa facilità metrica; Edmund Blunden della prima maniera (georgica), a cui si può ravvicinare The Land di V. Sackville-West; ecc. Il legame tra questi poeti è talora soltanto negativo: reazione al wildismo. Appartengono al movimento personalità diverse come W. de la Mare, autore di leggiadri versi ispirati a motivi temperatamente macabri o fanciulleschi, e di un possente romanzo, Memoirs of a Midget, e Rupert Brooke che, accanto a poesie di schietta semplicità e di abbandono a emozioni puerili ha curiosi esperimenti nella maniera dei secentisti che ne fanno un precursore della moda recente per i poeti metafisici. Ai metafisici del Seicento s'era del resto ispirato il Patmore e, alla fine del secolo, un altro ardente cattolico, Francis Thompson (il suo capolavoro, The Hound of Heaven, scritta nel 1889, è un'ardita costruzione di barocco flamboyant).

Di poco posteriore al movimento dei Georgian Poets sorse il gruppo degli Imagists (F. S. Flint, Richard Aldington, Ford Madox Ford, A. Huxley) che esaltarono la breve immagine al di sopra del poema lungo. A questo gruppo si trovarono associati per qualche tempo l'irlandese Yeats, il cui nome figura per primo nell'antologia imagista del 1915, e l'eclettica figura dell'americano Ezra Pound, che nelle correnti poetiche dell'ultimo periodo ha avuto non poca influenza. Il Pound rivelò lo "stil nuovo" italiano, e Arthur Symons del Symbolist Movemmt in Literature (1908) rivelò i poètes maudits francesi, specialmente Laforgue, all'americano T. S. Eliot che, venuto in Europa negli anni di guerra, s'inserì nella tradizione inglese coi suoi Poems (1919) e The Waste Land (1922). Ispirandosi alla poesia dotta e filosofica di quelli che egli ha definito i tre momenti metafisici della tradizione europea (lo "stil nuovo", la maniera di John Donne, la maniera del Laforgue), e lasciando libero giuoco alle associazioní subliminari (il subcosciente che il Laforgue aveva ripreso da Hartmann), l'Eliot ha iniziato una rivoluzione. in poesia parallela a quella del Joyce nella tecnica narrativa. Di fronte al London Mercury, organo della Georgian Poetry dal 1919, si levò nel 1922 il Criterion. Alla maniera dell'Eliot presto s'ispirarono gl'imagisti (per es. A Fool i'the Forest dell'Aldington, 1925), Edith Sitwell, Herbert Read, ecc. Caratteristica comune di questi poeti è una ripresa dello spirito metafisico della lirica del Seicento rimessa in onore soprattutto grazie a un critico universitario, H. J. C. Grierson (edizione dei Poems del Donne, 1912). Quella del gruppo di Eliot è poesia eminentemente cerebrale, piena di difficili allusioni, basata su opere di antropologia (il Golden Bough del Frazer), di psicanalisi, ecc. Una conoscenza enciclopedica sembra essere l'ideale del Criterion, al modo medievale. Impostatasi su un pessimismo assai affine a quello del Laforgue, e non senza analogia con quello dei nostri crepuscolari, la poesia dell'Eliot ha cercato rifugio dal desolato stato d'animo espresso in The Waste Land (stato d'inaridimento disperato che par segnare la fase finale del Romanticismo) nelle certezze della fede (Ash-Wednesday, 1930); mentre l'adesione al classicismo alla Dryden, e a una dottrina monarchica simile a quella dell'Action Française, sembrano aver assicurato un ubi consistam al pensiero dell'Eliot.

Anche il ritorno ai metafisici era stato concepito come un ritorno alla ragione, al lucido controllo dell'emotività romantica. In tal senso sono orientati pure gl'importanti studî critici dell'Eliot (The Sacred Wood), di Herbert Read, l'opera vigorosamente polemica di Wyndham Lewis, l'estetica a base di psicologia scientifica di I. A. Richards. Sono altrettanti aspetti della tendenza cerebrale illustrata ampiamente nel campo del romanzo.

Un cerebrale era stato già, a suo modo, il Meredith, le cui immagini rivelano talora un'affinità curiosa con quelle dei metafisici: e in un certo senso si può dire poesia metafisica la bella serie di sonetti su Modern Love. A parte un influsso evidente del Peacock sui suoi primi romanzi, l'unico dei contemporanei col quale il Meredith rivela qualche affinità è il Browning; come questi, egli mira a rendere il ritmo psicologico dei suoi personaggi con una tecnica impressionista, e cade talora nello stesso difetto, di adoperare un metodo sproporzionatamente complesso per cose semplici che vuol significare. La tecnica visionaria, abbagliante per troppa vibrazione, del Meredith non fece scuola. Di ben altra influenza fu feconda l'opera di un americano anglicizzato, Henry James, le cui analisi penetranti e tortuose, a mo' delle erosioni del tarlo, presentano affinità con quelle del Proust. La tendenza al monologo interiore, che già si può notare in Browning, fu profondamente modificata dalle ricerche di Freud e di Jung, e dalla teoria della relatività dell'Einstein. Nell'Ulysses di James Joyce, irlandese (1922), il tempo psichico prevale sul tempo matematico, e la tecnica estremamente complessa ed elastica (Ulysses è un campionario di stili, via via adeguati alla natura dei varî personaggi) tenta di rendere le minime ripercussioni subliminari di ogni impressione. Pochi hanno seguito il Joyce negli ultimi personalissimi sviluppi (Anna Livia Plurabelle, 1930; Haveth Childers everywhere, 1931) in cui l'autore, posseduto dal demone dell'associazione d'idee e di suoni, si crea un vocabolario incomunicabile; ma l'influsso di Ulysses è stato grande, sia per la tecnica, sia per la cruda luce gettata sugli strati meno confessabili del cosiddetto subcosciente, sia per la realizzazione dell'epica del quotidiano. Col Joyce si giunge al polo opposto al vittorianismo; la rivolta contro le convenzioni e la reticenza vittoriana culmina nella svestizione completa dell'anima e dei suoi istinti più bruti; ma l'autore non ha nessuna tesi da sostenere, si limita a constatare, da scienziato; alla più complessa psicologia corrisponde 1m'eticità rudimentale, che può sembrare inesistente: l'impulso etico si è dissolto in Ulysses, come si è dissolto nella Waste Land. Il Romanticismo pare arrivato così alla fine del suo processo, all'impassibilità di fronte a quel mondo interiore da lui rivelato; nato come emozione assoluta, si conclude come assoluta cerebralità.

I romanzieri su cui il Joyce ha avuto influsso non giungono al suo radicalismo. In Virginia Woolf l'intellettualismo dell'analisi si tempera in soliloquio lirico, con una ben articolata struttura musicale che gli conferisce una qualità classica che lo distingue dai caotici borborigmi di certe trascrizioni ioyciane del subcosciente. La tendenza psicanalitica è caratteristica comune ai più significativi romanzieri d'oggi: a D. H. Lawrence, che lascia un'opera a tratti possente, ma compromessa da opachi sedimenti di un moralismo capovolto che ripete in sostanza il naturismo mistico del Rousseau; all'eclettico Aldous Huxley, che inizia la sua carriera di romanziere con Crome Yellow (1921), descrizione di un ambiente di eccentrici da riconnettersi con i romanzi del Peacock, con South Wind di Norman Douglas (1917) e in genere con la tradizione del racconto a base di pittoresco bizzarro assai fiorente in Inghilterra (si possono ricordare in questo senso Roman Pictures di P. Lubbock, Some People di Harold Nicolson, Triple Fugue di Osbert Sitwell, i romanzi di E. M. Forster, di W. Gerhardi, di D. Goldring, ecc.), e termina con un'accorata ricerca di un ubi consistam, sotto l'influsso del Lawrence (p. es. Brave New World 1932); la tendenza psicanalitica informa anche certi romanzi a sfondo psicopatologico scritti da donne, May Sinclair, Rebecca West, Clemente Dane, Radclyffe Hall, ecc.; e, in genere, anche in autori non indebitati al Freud la ricerca psicologica è tratto saliente: Nocturne di F. Swinnerton, 1917; Daphne Adeane (1926), che ha dato fama internazionale a uno squisito poeta e critico di una generazione anteriore, Maurice Baring; i romanzi di David Garnett, la cui Lady into Fox parve nel 1924 inaugurare un nuovo genere di meraviglioso, un genere che conta un altro successo notevole in His Monkey Win di John Collier; i racconti della prematuramente scomparsa Katherine Mansfield, le confessioni di B. F. Cummings (Barbellion) ecc. Al cerebralismo disintegratore del romanzo moderno high-brow ha cercato di reagire J. B. Priestley ritornando alla tecnica dickensiana dei caratteri e a forme di humour tradizionale (The Good Companions, Angel Pavement) che velano un proposito didattico; e i suoi romanzi hanno avuto successo in quella massa di lettori, che di solito cerca svago nei romanzi spiritici e polizieschi (il re del genere è stato Edgar Wallace). Recentemente l'influsso delle colonie e dell'America è divenuto assai sensibile sulla letteratura inglese (uno dei recenti successi di poesia è stato p. es. di un sudafricano, Roy Campbell); ed è possibile che soprattutto dalla gagliarda letteratura degli Stati Uniti, meno satura di esperienze culturali, possa venire qualche nuovo orientamento, sebbene al momento presente gl'influssi freudiani e ioyciani paiano dare a molta parte di quella letteratura indirizzi frenetici (E. O' Neill, John Dos Passos, William Faulkner, ecc.) poco fatti per trovare imitatori fra gli assai più temperati inglesi. Si noti del resto che alcune delle figure più significative delle lettere inglesi d'oggi non appartengono propriamente all'Inghilterra (Eliot, Joyce).

V. tavv. LV-LXXIV.

Bibl.: Come avviamento generale: The Cambridge History of English Literature, 1907-16 (rist. economica, 1932); W. J. Courthope, A History of English Poetry, Londra 1895 segg.; E. Legouis e L. Cazamian, Histoire de la Littérature Anglaise, Parigi 1924, la migliore per uno sguardo d'insieme compendioso e autorevole. Si possono anche consultare con profitto la Geschichte der englischen Literatur di B. Ten Brink, Strasburgo 1877-93 (incompleta; va fino alla metà del Cinquecento), la Histoire Littéraire du Peuple Anglais di J. Jusserand, Parigi 1896-1904 (incompleta; va fino al primo quarto del Seicento), e la classica e pittoresca (ma non più autorevole) Histoire de la Littérature Anglaise di H. Taine, Parigi 1864. Si veda pure l'importante saggio di H. J. C. Grierson, The Background of English Literature, nel volume omonimo, Londra 1925. Un'utile guida in ordine alfabetico di autori e opere è The Oxford Companion to English Literature compilato da P. Harvey, Oxford 1932.

Letteratura anglo-sassone: A. Stopford Brooke, Early English Literature to the accession of King Alfred, Londra 1892, e English Literature from the Beginning to the Norman Conquest, ivi 1898; W. J. Sedgefield, An Anglo-Saxon Book of Verse and Prose, Manchester University Press 1928. Il Corpus della letteratura anglo-sassone è la Bibliothek der angelsächsischen Poesie und Prosa, di C. W. M. Grein, riveduto da R. P. Wülker, Kassel e Lipsia 1883-1900. Un Corpus of Anglo-Saxon Verse è in corso di stampa alla Columbia University Press; due volumi pubblicati contenenti il Junius Ms e il Vercelli Book, 1932; v. pure Il Codice Vercellese [facsimile], a cura della Biblioteca Vaticana, con introd. di M. Fœrster, Roma 1913; F. Olivero, Traduzioni dalla poesia anglo-sassone, con introduzione e note, Bari 1915; A. Ricci, L'Elegia pagana anglo-sassone, Firenze 1922. Vocabolarî: Grein, Sprachschatz der angelsächsischen Dichter, riveduto da Köhler, Heidelberg 1912; H. Sweet, Student's Dictionary of Anglo-Saxon, Oxford 1911; J. R. Clark Hall, A Concise Anglo-Saxon Dictionary, Cambridge 1931, 3ª ed. (l'opera fondamentale resta An Anglo-Saxon Dictionary di J. Bosworth e T. N. Toller, Oxford 1882-98, con supplemento, 1921).

Dalla conquista normanna a Chaucer: W. H. Schofield, English Literature from the Norman Conquest to Chaucer, Londra 1906; J. E. Wells, A Manual of the Writings in the Middle English, New Haven-Londra-Oxford 1916 e supplementi; W. P. Ker, English Literature: Mediaeval, Londra 1912 (Home University Library); Fourteenth Century Verse and Prose, a cura di K. Sisam (notevole introduzione), Oxford 1921; edizioni di testi nella Early English Text Society. Vocabolario (oltre all'indispensabile New Oxford Dictionary): F. A. Stratmann, A Middle English Dictionary, nuova ed. a cura di H. Bradley, Oxford 1891.

Da Chaucer al Rinascimento: F. J. Snell, The Age of Chaucer, Londra 1901; The Age of Transition, Londra 1905 (entrambi in Handbooks of English Literature, a cura del prof. Hales); edizioni di testi scozzesi nella Scottish Text Society; F. J. Child, The English and Scottish Popular Ballads, Boston 1882-98, voll. 5 (in un solo volume, con introd. di G. Kittredge, Boston 1904); F. G. Gunmere, Introduction to Old English Ballads, Boston 1894; D. Laing, Early Popular Poetry of Scotland and the Border, riveduto da W. C. Hazlitt, Londra 1895; E. K. Chambers, The Mediaeval Stage, Oxford 1903; English Miracle Plays, Moralities, and Interludes, a cura di A. W. Pollard, Oxford 1927, 8ª ed.

Gli albori del Rinascimento: G. Saintsbury, A History of Elizabethan Literature, Londra 1890; L. Einstein, The Italian Renaissance in England, New York 1902 (da integrarsi con l'importante recensione di A. Farinelli in Giorn. stor. lett. ital., XLIII, 1904); M. A. Scott, Elizabethan Translations from the Italian, Vassar Semi-Centennial Series, 1917; Elizabethan Critical Essays, a cura di G. G. Smith, Oxford 1904; Early English Classical Tragedies, a cura di J. W. Cunliffe, Oxford 1912; Early Plays from the Italian, a cura di R. Warwick Bond, Oxford 1911; J. W. Cunliffe, The Influence of Seneca on Elizabethan Tragedy, Londra 1893; E. M. Spearing, The Elizabethan Translations of Seneca's Tragedies, Cambridge 1912; F. L. Lucas, Seneca and Elizabethan Tragedy, Cambridge 1921; l'importantissima introduzione (sulla tradizione senechiana in Europa con speciale riguardo all'Inghilterra) a The Poetical Works of Sir William Alexander, a cura di L. E. Kastner e H. B. Charlton, Manchester 1921; e l'introduzione di T. S. Eliot al Newton's Seneca, Londra 1927 (nella serie Tudor Translations); A. M. Whiterspoon, The Influence of Robert Garnier on Elizabethan Drama, New Haven 1924; F. S. Boas, University Drama in the Tudor Age, Oxford 1914; O. M. Busby, Studies of the Development of the Fool in the Elizabethan Drama, Oxford 1923.

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Notizie biografiche e ritratti dei contemporanei scrittori anglosassoni si trovano in Living Authors, a cura di Dilly Tante, New York 1931.

Riviste: Filologiche, con speciale riguardo alla letteratura antica: Anglia, Englische Studien, The Review of English Studies, English Studies (Amsterdam); The Modern Language Review, Modern Philology, Modern Language Notes, Publications of the Modern Language Association of America, Revue anglo-américaine. Letterarie: The London Mercury, The criterion, The New Adelphi, Life and Letters. D'informazione generale: The Times Literary Supplement. Bibliografie: il Catalogue of the Printed Books in the Library of the British Museum, in ristampa dal 1931; il Subject Index of the Modern Works added to the Library of the British Musem, dal 1881 in poi; il Bibliographer's Manual of English Literature di W. T. Lowndes, riv. da H. G. Bohn, Londra 1857-64; The English Catalogue of Books, Londra 1864 segg.; The Reference Catalogue of current Literature; il catalogo della London Library: bibl. annuali: Annual Bibliogr. of English Language and Literat., Cambridge (dal 1920); The Year's Work in English Studies, Oxford.

Diritto.

Il diritto inglese attuale (v. gran bretagna: Diritto) risale all'epoca della conquista normanna (1066) per quanto attiene all'impronta che Guglielmo e i suoi collaboratori vennero a dare al complesso di antichi precetti vigenti in Britannia in quel momento; ma se vogliamo avere un'idea del materiale greggio che sta alla sua base, dobbiamo risalire ancora di qualche secolo.

Diritto anglo-sassone. - 1° Periodo: Leggi Kentiane. - Il primo testo di legge del quale ci sia rimasta traccia è il codice di Etelberto del 596, dovuto in gran parte all'influenza esercitata da S. Agostino di Canterbury. Questo codice consiste in novanta capitoletti che graduano le pene in relazione al valore della posizione sociale della parte lesa. Seguono gli altri codici dei re Kentiani: quello di Hlothar e Aedric (685-86) e quello di Withread (690-96); questo è preceduto di poco dal codice West-Sassone di Ine (688-725).

2° Periodo: Codici Sassoni. - Col secondo periodo compaiono i capitolari ehe assumono forma di vere leggi e si staccano dalla precedente legislazione, limitata a trasmettere usi locali, e, nella loro nuova essenza, raggiungono il massimo sviluppo nel sec. X e parte dell'XI; il primo di questi testi è di re Alfredo (871-901), che intraprende opera di revisione completa dell'ammasso di leggi tratte dagli antichi usi, tramandati oralmente e giunti a essere raccolti in scritto solo con la conversione dei re al cristianesimo. Nell'unificarle Alfredo vi aggiunse norme tratte dai dieci comandamenti, dalle leggi di Mosè e in parte dal Nuovo Testamento. Sul suo esempio compirono l'opera legislativa i suoi successori.

3° Periodo: Leggi di Canuto. - Nel terzo periodo, con l'incoronazione del re danese, succedeva una legislazione ispirata, oltre che a usi locali, alle leggi danesi e destinata a tutti i cittadini dell'isola, né il ritorno di un re sassone sul trono, nel 1042, ebbe grande influenza sulla legislazione avvenire; Edoardo il Confessore era rimasto piuttosto alieno dal governare e soltanto il nuovo regime introdotto dalla conquista normanna portò spiccate novità anche nel diritto in Inghilterra. Per le norme di questa legislazione anglosassone, v. anglosassoni, III, pp. 325-326.

Diritto romano e canonico. - Sin dal 664 la Chiesa in Inghilterra era stata organizzata da Teodoro di Tarso e per molti secoli le sue corti ebbero giurisdizione su speciali materie per le quali si valevano del diritto giustinianeo da un lato, e del diritto canonico dall'altro. Questa situazione si prolungò oltre la Riforma del sec. XVI, tanto che una legge del tempo (Act for submission of the clergy, 1533) dispose che il diritto canonico vigente allora dovesse continuare ad aver vigore, purché non fosse contrario alle leggi e agli usi nazionali e persino nel 1857, quando la giurisdizione in materia testamentaria e matrimoniale passò alle corti regie, apposita legge dispose che le norme applicate prima di quella data dalle corti ecclesiastiche dovessero continuare ad aver vigore nella nuova corte regia. Da questa passarono, con l'ordinamento giudiziario del 1873, all'alta corte, per la quale, limitatamente a questioni matrimoniali e successorie, il diritto giustinianeo e il diritto canonico fino allora adottati vennero a far parte del diritto comune inglese.

Conquista normanna. - Il diritto inglese moveva timidamente i suoi primi passi quando l'opera di Guglielmo il Conquistatore segnò una svolta decisiva, sostituendo alle varie consuetudini locali un completo organismo di diritto comune; se da un lato il Conquistatore vuole apparire continuatore dell'opera legislativa di Edoardo il Confessore e a tal fine provvede anzitutto alla raccolta dell'antico materiale legislativo, dall'altro il nuovo sovrano si tiene in contatto con le principali correnti intellettuali del continente. L'immediata formazione d'una potente corte centrale di giustizia provvede con la stabilità dei suoi giudizî e con l'obbligo di osservare i precedenti, allo sviluppo di questo specialissimo sistema giuridico, che, se in qualche epoca risente del diritto romano e del canonico, limitatamente ai testamenti e al matrimonio per il diritto sostanziale, in modo più esteso a varî altri campi nella parte formale e terminologica, si mantiene però completamente indipendente sulla base posta da Guglielmo e dai suoi successori Enrico I ed Enrico II, elaborata da Enrico III e fissata poi da Edoardo I, il vero Giustiniano inglese. Se all'epoca della conquista sono i giuristi italiani che attraggono a sé l'attenzione del mondo intero, uno di essi si trova in condizioni di accentrare in sé in modo speciale l'interesse del Normanno: è Lanfranco di Pavia, che, egualmente dotto in diritto romano e in diritto longobardo, è il più adatto a scrutare nelle leggi anglo-sassoni, così simili a quelle dei re Longobardi; entrato nel monastero di Bec, con la conquista dell'Inghilterra da parte dei Normanni fu mandato dal re a coprire il posto di arcivescovo di Canterbury; egualmente da Bec era venuto più tardi l'arcivescovo Teobaldo e con lui Vacario, cultore, al pari di Lanfranco, di diritto romano e di diritto longobardo. Lanfranco da un lato manipolò per il re lo svariato materiale col quale dar corpo al nuovo diritto comune, Vacario dall'altro insegnava diritto romano, da lui riassunto nel 1149 nel Liber pauperum; benché questi. insegnamenti non abbiano direttamente influito sullo sviluppo del diritto inglese, le tracce da essi lasciate hanno creato per i giudici un'architettura solida, secondo la quale fu facilmente costruito un corpo di diritto nazionale, sugli avanzi di un ammasso di usi locali contrastanti tra loro.

Il periodo che va da Guglielmo a Enrico I (1066-1100) è notevole per le ricordate raccolte che furono fatte del diritto del periodo precedente, oltre che per le speciali compilazioni dell'epoca. Notevoli raccolte storiche sono le leggi di Enrico I, il Quadripartitus, le leggi di Guglielmo I e quelle di Edoardo il Confessore.

Il numero delle azioni si va fissando; le norme processuali si fanno più precise per il formarsi di un corpo di professionisti e assumono carattere prettamente nazionale con lo stabilirsi del giudizio per giuria. In seguito si sviluppa dal consiglio regio il parlamento, che garantisce ormai la supremazia della legge e traccia le linee del futuro diritto costituzionale. Per quanto riguarda l'opera giudiziaria, speciale cura è data, oltre che alla proprietà immobiliare, alla responsabilità penale e alla responsabilità civile: il torto penale e il torto civile a quel tempo non erano nettamente separati l'uno dall'altro e solo lentamente assunsero caratteri bene spiccati col distinguersi delle rispettive azioni.

Spettava all'energia di Enrico II di dare al diritto comune inglese quella quadratura che valse ad assicurarne l'esistenza indipendente attraverso i secoli; nelle raccolte di giurisprudenza del tempo contenute nei Records e successivamente negli Year-books sotto Edoardo I, si trova prezioso materiale per la storia di questo diritto. Maggiore dello sviluppo della legislazione a quel tempo è quello della produzione dottrinale, che fa la sua prima apparizione col Dialogus de Scaccario, opera questa prevalentemente finanziaria, e si evolve nel campo prettamente giuridico col libro di Glanvill, Tractatus de legibus et consuetudinibus Regni Angliae (v. glanvill).

A questo periodo fattivo, dovuto in gran parte all'attività dei sovrani seguitisi a breve intervallo fra loro, Enrico II e Riccardo I, Cuor di Leone, succede quello assai critico di Giovanni Senzaterra (1199-1216); su di lui ricaddero le lotte della nobiltà ferita nei suoi privilegi dalle innovazioni portate da Enrico II con la costituzione della Corte centrale di giustizia, e non avendo la forza di resistenza dei suoi predecessori dovette inchinarsi alla volontà di tutte le classi sociali riunite nella pretesa che egli firmasse il patto fondamentale delle loro libertà, la Magna Charta (v. carta, IX, p. 206). Con questo documento del 1215 s'inizia la collezione dei vigenti atti legislativi della Gran Bretagna; nei riguardi dell'amministrazione della giustizia interessano gli articoli 17 e 39, i quali provvedono alla stabilità delle corti di giustizia in Londra e all'applicazione del diritto nazionale. Da questo momento la legge nazionale assume una consistenza definitiva, degna di essere posta a confronto col diritto romano e col canonico e presto trova in un altro scrittore di valore, superiore anche al Glanvill, il Bracton, l'espositore più autorevole delle norme generali che i giudici avevano saputo trarre dall'antico diritto consuetudinario e lentamente adattare a popoli di nazionalità e di lingua diversi tra loro (v. bracton, henry de).

Le opere che seguono immediatamente non sono che riassunti di questa, come quella di Britton e Fleta. Con Edoardo I nel 1272 s'inizia l'epoca d'intensa legislazione che copre la seconda parte del diritto medievale inglese e che lascia tuttora traccia di sé: il sovrano ha frequenti contatti con la Francia e l'Italia, dove trova una spinta all'azione legislativa, pur restando nel campo del diritto prettamente nazionale; egli è detto il Giustiniano inglese e il suo cancelliere Burnell, primo della serie dei grandi cancellieri che fanno seguito ai Justiciars, vien detto il suo Triboniano. Di quest'epoca sono lo statute di Wales (1284), quelli di Glouchester (1278), de viris religiosis (1279), de mercatoribus (1285), di Winchester (1285), ecc. Nel 1297 si ha la confirmatio chartarum; gli atti legislativi sono in seguito tutti discussi e approvati dal parlamento. Il diritto ecclesiastico è ancora amministrato dalla Chiesa; come questo, anche il diritto mercantile è un corpo a sé: su entrambi prevale il diritto comune nazionale esposto in un nuovo trattato che non è certo all'altezza dei precedenti: il Mirror of justice del 1290 circa, attribuito a Andrew Horn.

I secoli XIV e XV segnano un ulteriore sviluppo del diritto, conformemente alle linee tracciate da Edoardo I, per quanto si abbia un regresso politico segnato da un lato da debolezza del re, dall'altro, in tempi posteriori, da abusi del re.

La legislazione si preoccupa più dell'indirizzo politico che degli istituti di diritto, soprattutto di quello privato, i quali a lor volta, come vedemmo, trovano la loro espansione nell'estendersi dell'uso di certe azioni per opera della corte; le singole leggi tendono principalmente a introdurre semplici emendamenti alla dottrina prevalente, limitandosi, al riguardo, a dare norme sulla proprietà immobiliare e sulla procedura, pure assumendo maggior forza col sovrapporsi all'autorità del re. Lo sviluppo del diritto, abbandonato quasi del tutto alla giurisprudenza, minacciava di arrestarsi al campo ristretto delle azioni concesse dalle corti di diritto comune in rapporto alle varie forme (writs) contenute nel registro conservato in Chancery, né sarebbe bastata l'iniziativa presa direttamente dalla Chancery alla fine del sec. XIII a integrare con la propria opera equitativa quella delle altre corti, se non fosse stato Edoardo III ad assegnare al proprio Lord Chancellor una sede stabile e una speciale giurisdizione di equità, creando così una vera concorrenza fra i due ordini di giudici.

Alla stessa epoca si chiarisce la questione della lingua da usarsi nelle relazioni legali; non valse a troncarla definitivamente la legge del 1362, con la quale sotto Edoardo III si prescriveva di sostituire alla francese quella inglese nelle pratiche giudiziarie. Il latino era la lingua giuridico adottata in tutti i resoconti (plea-rolls) delle corti e tale continuò a lungo, tanto che se ne trovano in latino ancora nel 1731. Nel sec. XIII i professionisti legali parlavano latino, le classi elevate il francese e quelle popolari i varî dialetti inglesi locali. Nel sec. XIV subentra l'inglese al francese nella giurisdizione di equità. Soprattutto negli atti parlamentari si assiste al graduale passaggio da una lingua a un'altra: il francese è unito al latino e suecessivamente lo sostituisce, per essere a sua volta soppiantato dall'inglese nelle varie leggi. Il linguaggio giuridico tecnico giudiziario rimase invece francese ancora nel sec. XVII, sebbene lentamente andasse anglicizzandosi.

Si sviluppa in questo tempo la professione forense, che pure contribuisce al progresso del diritto, sopratutto nel sec. XV, con l'elaborazione di questo nei suoi varî centri di attività, i famosi Inns e le rispettive scuole. Queste assicurarono il pacifico sviluppo del diritto nazionale, dando così modo agli scrittori, che dopo un lungo silenzio della dottrina si accingevano a scrivere, di trovare un materiale bene elaborato.

Notevoli per questo nel sec. XV sono il Fortescue (v.) e il Littleton (v.): il primo, dell'ordine giudiziario, è ricordato negli Year-books tra il 1429-1430 e il secondo iniziava la professione forense fra il 1440-1450, ma entrava poi egli pure nell'ordine giudiziario. Del Fortescue è specialmente notevole il De laudibus legum Angliae, scritto per il principe Edoardo, in forma dialogata, allo scopo d'illuminare l'erede al trono sulla natura del diritto nazionale, posto a raffronto col diritto continentale. Superiore al Fortescue è il Littleton, cui va il merito di avere attuato un vero rinnovamento negli studî del diritto; l'opera sua principale, New tenures, scritta in francese, tradotta in inglese e stampata nel testo bilingue nel 1516, fu composta verso gli ultimi anni della sua vita spentasi nel 1481; è diretta al figlio per addestrarlo negli studî del diritto.

La rinascenza giuridica dei sec. XII e XIII - dovuta agli scritti di Glanvill e Bracton, all'opera di molti altri giudici della Corte regia e alla capacità tecnica con la quale i loro successori dei secoli XIV e XV avevano costruito su queste basi - aveva fatto del diritto inglese un diritto comune, capace d'indefinita espansione entro le esigenze della società in evoluzione. A questa spinta si aggiungeva quella portata dappertutto nel sec. XVI dal Rinascimento, dalla Riforma religiosa e dalla recezione del diritto romano, attenuata questa in Inghilterra dalla posizione insulare del paese.

Al principio del sec. XVI l'Inghilterra era retta da un sovrano, a capo di una costituzione le cui fondamenta erano state poste nei secoli XIII e XIV, e da un diritto comune il cui sviluppo era stato nazionale; coi Tudor, tanto la costituzione quanto il diritto esistente apparvero parzialmente sufficienti per le esigenze dello stato moderno, così da evitare di costituire un nuovo ordine politico e di accogliere un sistema giuridico straniero; solo modificazioni e aggiunte erano richieste per competere con gli stati territoriali centralizzati del continente, dalle cui costituzioni e dai cui diritti si allontanavano la costituzione e il diritto inglese. La monarchia, risollevata da Enrico VII e poi rafforzata da Enrico VIII; migliorò il sistema giudiziario e diede maggiore autorità al potere esecutivo pur riconoscendo il parlamento come il più alto consesso dello stato e nel re in parlamento il più grande potere. La riforma della Chiesa fece di questa una parte integrante dello stato, soggetta al sovrano come suo capo, e fece del diritto canonico parte del diritto comune nazionale, mantenendo a tutto il diritto pubblico e privato un carattere prettamente nazionale, al che non mancava di cooperare pure l'assorbimento in quello del diritto mercantile.

Il sec. XVII non è fornito di grandi personalità nel mondo giuridico inglese, ma non mancano scrittori di matura dottrina nel coltivare prevalentemente indagini comparative tra il diritto inglese e quelli a tipo latino; si hanno così i libri del Fulbeck nel 1602, di Christopher S. Germain, il cui capolavoro è Doctor and Student, di Cowell, nel 1605, e quello del Coke, il quale supera tutti i precedenti; il titolo è Institutes e per la sua compiutezza ha continuato per secoli a ispirare la giurisprudenza; nella prima parte, scritta nel 1628, il Coke commenta l'opera di Littleton e fa un'esposizione di leggi antiche; nell'altra parte, pubblicata dopo la sua morte nel 1644 tratta di giurisdizione. Quest'opera e quella di Littleton sono, come quelle del primo periodo (Glanvill, Bracton, Britton, Fleta), pietre miliari della dottrina giuridica inglese, sino alla soglia del suo svolgimento moderno.

Un nuovo glorioso periodo s'inizia sotto Carlo II dopo la dittatura di Cromwell: si aggiungono alla Magna Charta altri monumenti delle pubbliche libertà, il Bill of Rights e L'Act of Settlement, di poco posteriori alla Petition of Rights, e riprende vigore lo sviluppo del diritto privato. Alla scarsa legislazione supplisce la giurisprudenza, che prelude a una nuova manifestazione della dottrina: rimane fra tutte famosa nel sec. XVIII l'opera del Blackstone, trattato generale di diritto, Commentaries of the laws of England, frutto del suo primo insegnamento libero di diritto nazionale nell'università di Oxford: pubblicato nel 1775 in quattro volumi, tratta di tutto il diritto inglese, riuscendo a esercitare quella forte influenza che ebbe il Pothier sul codice civile francese e su quello italiano (v. blackstone). Trovò un forte oppositore in Bentham, che, inneggiando alla codificazione, combatté l'idolatria che egli, come tutti i giuristi suoi contemporanei, aveva per il diritto nazionale vigente ritenuto come perfezione della ragione umana; il Bentham esamina la teoria del B. in Fragments of Government, del 1776, e precedentemente in altra opera giovanile recentemente scoperta, A comment on the commentaries (Londra 1928). Ma il pensiero del Blackstone rimase sempre quello più rispondente alla mentalità inglese, la quale anche oggi, pure essendo più aperta all'esempio straniero e alla redazione di testi legislativi, vede nell'antica Common law il fondamento d'ogni diritto e continua a ispirarvi le soluzioni della giurisprudenza. Un indirizzo diverso era stato dato alla stessa epoca al complesso delle norme commerciali da William Murray lord Mansfield, capo della corte del King's Bench, il quale in una revisione generale di tutto il diritto privato, costruì un sistema degl'istituti commerciali, facendo anche tesoro dei migliori commercialisti medievali italiani.

Il vivo dibattito accesosi tra le opposte dottrine del più puro utilitarismo da un lato e del sistema delle finzioni legali dall'altro, non interruppe il corso del pensiero giuridico inglese ed ebbe il vantaggio di portare a un'equilibrata esposizione di principî, ispirati in parte all'indirizzo analitico e in parte a quello storico, i quali trovano tuttora il rispettivo svolgimento in opere di Jurisprudence iniziate nel sec. XIX, attinenti all'introduzione alle scienze giuridiche nelle quali si svolgono i principî generali del diritto, talvolta limitatamente al campo nazionale, tal'altra anche per i diversi sistemi. Si notino a questo riguardo le opere di John Austin e di Sheldon Amos, d'indirizzo utilitario, quella di Summer Maine, seguace del metodo storico; a questi succede un'eletta schiera di scrittori, ispirati ora all'una ora all'altra tendenza, come T. Erskine Holland, seguace della prima, e Sir Frederick Pollock, che ripudia addirittura la scuola analitica, per seguire esclusivamente la storica, entrambi maestri venerati da tutto l'ambiente giuridico inglese.

Contemperano le due tendenze, il Lightwood e il Clark ed estendono l'osservazione a un vasto campo del diritto W. Markby, W. Rattigan, John W. Salmond e Goadby. Di pari passo con questi, in opere non esclusivamente di Jurisprudence, vanno il Holmes e il Bryce.

L'opera del Blackstone ebbe numerose edizioni; riveduta dallo Stephen e aggiornata di volta in volta è tuttora, sotto questo nome, libro di testo universitario, cui si avvicina soltanto, nell'epoca attuale, sebbene di mole assai ridotta, quella del Jenks, The book of English Law, Londra 1928. Pur radicato su una base antica, il diritto inglese è in continua elaborazione: il parlamento, legiferando per la maggior parte del diritto pubblico si limita, nel campo del diritto privato, a sorvegliarne l'evoluzione, sia per sancirne ciò che costituisce ius receptum, sia per scegliere tra due diverse tendenze della giurisprudenza e lascia ai giudici il primo posto in questo lavoro di sviluppo del diritto nazionale, del quale essi rimangono i primi artefici, non sostituendo massime di giurisprudenza alle leggi, ma coordinando i varî precedenti in modo da rendere quasi superflua in questo speciale campo l'attività parlamentare. Per quanto riguarda la procedura, una legge investe addirittura una speciale commissione di giudici della potestà di dare alla corte le norme (Rules and orders of the Supreme Court) che, contenute nel Annual Practice, vengono annualmente ripubblicate e aggiomate, in conformità alle nuove deliberazioni della commissione competente.

L'elasticità acquistata da questo diritto ha permesso di risolvere la crisi portata dal conflitto dei due diversi ordini paralleli di corti, mediante l'abolizione del riconoscimento di due rispettivi sistemi common law ed equity, Raggiunta con la legge del 1873-75 l'unificazione dell'ordinamento giudiziario, nel quale le sezioni conservano solo per tradizione i nomi delle antiche corti, si è unificato anche il diritto sostanziale; ogni corte deve applicare la norma adatta al caso ricavandola dal complesso del diritto nazionale integrato dalle massime di equità.

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