Ingegneria genetica

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Ingegneria genetica

Vittorio Sgaramella

di Vittorio Sgaramella

Ingegneria genetica

sommario: 1. Introduzione. 2. Cenni storici. 3. Strumenti teorici e sperimentali: a) operazioni in vitro; b) vettori e cromosomi artificiali; c) produzione di ricombinanti; d) trasferimento in vivo; e) cloni di molecole, cellule, organismi. 4. Applicazioni: a) ricerca; b) biomedicina; c) biotecnologie; d) settore agroalimentare ed ecologia. 5. Aspetti etici, sociali e legali. 6. Conclusioni. □ Bibliografia.

1. Introduzione

L'ingegneria genetica rappresenta uno sviluppo applicativo della genetica. Il termine è stato coniato nel mondo anglosassone, dove il verbo to engineer significa costruire e progettare, ma anche combinare, macchinare: in italiano un'espressione più appropriata sarebbe 'manipolazione genetica', se non fosse per le sue implicazioni negative. Gli aspetti più qualificanti dell'ingegneria genetica vanno comunque cercati nell'ingegnosità delle soluzioni che i geni offrono a problemi pratici.

L'ingegneria genetica si è sviluppata verso la fine degli anni sessanta, grazie a una felice convergenza di diverse scoperte cui faremo cenno più avanti. Ha poi rapidamente assunto un'indipendenza concettuale e un'importanza economica talmente marcate da imporsi come disciplina autonoma: oggi esistono istituzioni di ricerca, cattedre universitarie e collane scientifiche dedicate a questa disciplina. Attraverso interventi mirati su geni e genomi, l'ingegneria genetica tende a introdurvi alterazioni che saranno trasmesse alle cellule della discendenza insieme con i loro effetti (v. Sgaramella e Lederberg, 1973; v. Primrose e altri, 20016). Le sue realizzazioni sono cospicue per quel che riguarda in generale i sistemi in vitro e gli organismi unicellulari; il lavoro in vivo su organismi pluricellulari è invece ancora in una fase esplorativa. Questa dicotomia ha diverse spiegazioni: a parte la differente difficoltà dei due sistemi, forse la causa più importante va individuata in un'inadeguata definizione del rapporto tra geni e caratteri codificati. Originariamente derivata dalla genetica mendeliana, quella definizione aveva trovato conferma nella biologia molecolare di prima maniera (un gene = un enzima), ma oggi appare riduttiva proprio per l'imprecisione del concetto di gene e per la variabilità dei caratteri che ne derivano.

Da un punto di vista operativo, l'equazione tra gene e carattere codificato ha comunque prodotto risultati di grande rilievo: ad esempio, ha permesso di impostare le biotecnologie molecolari su una base scientifica più solida di quella che nella seconda metà dell'Ottocento aveva portato al decollo nell'Europa settentrionale dell'industria della birra grazie all'uso di microrganismi specializzati nella fermentazione alcolica (zimotecnologia). Lo spartiacque tra le applicazioni dell'ingegneria genetica a microrganismi, che risalgono al 1970, e la fase successiva, tuttora in elaborazione e tesa a realizzare interventi su organismi pluricellulari, è rappresentato dalla complessità delle regole che governano la struttura e il funzionamento dei geni all'interno delle reti genomiche della cellula e dell'organismo nel loro contesto ambientale.

2. Cenni storici

Risale alla seconda metà degli anni quaranta la scoperta che le molecole portatrici dell'informazione genetica sono gli acidi nucleici, in particolare il DNA, e non le proteine. Queste, come indica la loro etimologia (dal greco protos, primo, principale), erano state considerate i componenti cellulari più qualificati per circa un secolo, fino a quando Friedrich Miescher aveva notato la presenza nel nucleo delle cellule di una non meglio definita 'nucleina' (oggi potremmo identificarla con la 'cromatina'), senza però riconoscere né la natura, né l'importanza di questo complesso nucleo-proteico. Poco dopo la metà del secolo scorso l'affinamento di questa scoperta diede corpo a un'aspirazione da anni latente nelle bioscienze, sino ad allora in gran parte descrittive: la possibilità di modificare i programmi alla base della vita secondo progetti elaborati dai ricercatori, senza più accettare la casualità delle mutazioni e degli interventi selettivi dell'ambiente.

Non c'è accordo su chi abbia usato per primo l'espressione 'ingegneria genetica': la paternità dell'espressione 'ingegneria biologica', pressoché equivalente, pare che sia di Rollin Hotchkiss, un giovane magiaro collaboratore di Oswald Avery, Colin MacLeod e Maclyn McCarty alla Rockefeller University di New York. All'inizio degli anni quaranta questi ricercatori avevano identificato nel DNA il 'principio trasformante' del batterio P. pneumoniae, lasciando un ruolo comprimario alle proteine, ai polisaccaridi e all'RNA (da poco caratterizzato). Si scoprì così che era il DNA a codificare per gli antigeni polisaccaridici di superficie, responsabili del conferimento della virulenza al batterio, e quando il loro collega Hotchkiss arrivò a dimostrare che anche un'altra attività enzimatica di quei batteri, la resistenza alla penicillina, era determinata dal DNA, questo assunse definitivamente il ruolo di depositario dell'informazione biologica ereditaria. Con l'espressione 'ingegneria biologica' si alludeva a un'ampia gamma di interventi attuabili sulle biomolecole e quindi sugli organismi: le manipolazioni concretamente apportabili al DNA erano ancora da scoprire, ma la conoscenza della struttura chimica, i primi rudimentali modelli di funzionamento, la scoperta di enzimi che potevano modificarlo sembravano legittimare le più audaci estrapolazioni. Nella fantasia di molti la caratterizzazione molecolare del materiale genetico e l'espansione delle conoscenze nell'ambito della biochimica cellulare avrebbero necessariamente portato a interessanti applicazioni, a ingegnosi adattamenti, sviluppabili in procedure non solo analitiche, ma anche sintetiche. Inoltre, se il metabolismo cellulare dipendeva dai geni, allora era probabile non solo un imminente decollo dell'ingegneria genetica, ma anche una futura ingegneria 'metabolica', diretta al controllo dell'azione dei prodotti genici, cioè degli enzimi, i catalizzatori delle reazioni cellulari. Con queste premesse si poteva anche ipotizzare lo sviluppo di altre e più complesse 'ingegnerie', da esercitarsi su cellule e possibilmente su organismi.

Nel 1953, cioè a distanza di pochi anni dalle scoperte di Avery e colleghi, arrivava la delucidazione dell'elegante struttura a doppia elica del DNA, attribuita ai celebrati Jim Watson e Francis Crick. A mezzo secolo di distanza diventa doveroso ricordare anche nomi meno famosi ma non meno meritevoli, come Erwin Chargaff, il biochimico scopritore dell'appaiamento delle basi del DNA, secondo le regole che ne portano il nome (v. acidi nucleici); e i numerosi cristallografi di scuola inglese che produssero teorie e dati essenziali per la costruzione del fortunato modello: Rosalind Franklin innanzi tutti (v. Maddox, 2002), poi Raymond Gosling, Alexander Stokes, Herbert Wilson e Maurice Wilkins. Di qui prese le mosse quel ramo della biologia molecolare che, in sinergia con la genetica, in breve elaborò gli strumenti chiave dell'ingegneria genetica (v. Judson, 1979). Scoperta la doppia elica, nel giro di dieci anni, nel 1964, arrivò la decifrazione del codice genetico, vero manuale per l'uso della vita, dal batterio Escherichia coli all'elefante. Acquistava così sempre maggior concretezza l'ipotesi di riuscire a effettuare interventi mirati sul vivente. I punti di forza dell'ingegneria genetica sono stati: la sintesi chimica ed enzimatica del DNA; la scoperta degli enzimi per la frammentazione, la ricombinazione e la modificazione in vitro del DNA; la messa a punto di sistemi per il trasferimento in vivo del DNA manipolato o ricombinante; la clonazione di molecole, cellule ed eventualmente organismi.

Risultano quindi chiare le ragioni per cui l'ingegneria genetica viene spesso indicata come tecnologia del 'DNA ricombinante', oppure 'clonazione molecolare'. La prima locuzione allude al fatto che anche in vivo il materiale genetico deve essere riorganizzato, soprattutto per esigenze riparative; spesso ricorre anche nella denominazione di comitati che ne dovrebbero regolamentare l'uso e pone in risalto il punto nodale dell'ingegneria genetica: la produzione di nuove combinazioni di geni. La seconda locuzione (usata come titolo di numerosi manuali di laboratorio: v. Sambrook e altri, 19892) sottolinea un risultato specifico: la moltiplicazione delle molecole di DNA, in analogia con quanto avviene in natura, grazie alla clonazione di cellule e organismi. Col termine clonazione, in questo caso 'molecolare', spesso si indica il complesso delle operazioni che portano all'amplificazione o moltiplicazione del DNA ricombinante.

3. Strumenti teorici e sperimentali

L'ingegneria genetica può quindi essere considerata una tecnologia multidisciplinare che si avvale di una vasta rete di conoscenze scientifiche, dalla biochimica degli acidi nucleici alla microbiologia, dalla biologia cellulare alla chimica organica, dall'ingegneria delle fermentazioni alla chimica-fisica delle proteine, sino a includere le più recenti genomica e proteomica (v. genomica; v. proteomica).

L'obiettivo fondamentale dell'ingegneria genetica è l'individuazione e la messa a punto delle condizioni affinché in una cellula ospite si riesca a introdurre geni evolutivamente estranei (detti geni eterologhi, o transgeni), così da permettere la produzione di più copie dei geni di interesse e la decodificazione dell'informazione genetica utilizzando gli apparati di replicazione e di espressione della cellula ricevente od ospite.

Può essere utile dividere le operazioni dell'ingegneria genetica in due fasi, una in vitro e una in vivo. La prima fase appronta il DNA ricombinante e si concentra sui suoi due componenti: gli inserti, che sono i geni che portano l'informazione genetica oggetto della manipolazione, e i vettori, che sono gli strumenti molecolari deputati a un efficace trasferimento degli inserti entro cellule ospiti. La seconda fase mira a integrare il costrutto ricombinante (inserto + vettore) nel genoma e quindi nella cellula ospite.

Dal momento che l'obiettivo dell'ingegneria genetica è comunque quello di ottenere uno o più prodotti codificati e/o regolati da molecole ricombinanti di DNA, occorre definire le procedure che ne permettano la sintesi, l'identificazione e la caratterizzazione e, nel caso, la purificazione, secondo processi per quanto possibile controllati.

a) Operazioni in vitro

Queste operazioni tendono alla costruzione di strutture di DNA ricombinante che comprendono un inserto e un vettore: entrambi devono essere compatibili con la cellula ospite. La parte strettamente in vitro comprende l'isolamento di un genoma o di uno dei suoi geni, o la sintesi di uno specifico tratto di DNA, e la preparazione del vettore molecolare che ne permetta il trasferimento e l'espressione nella cellula ospite; la saldatura tra vettore e inserto avviene per via enzimatica, prevalentemente in vitro, ma può avere luogo anche in vivo. Ne risulta una molecola ricombinante di cui vanno verificate identità, funzionalità e stabilità. Nel caso di impieghi analitici di solito si prepara una collezione di costrutti ricombinanti, detta anche banca, o libreria, o genoteca. Queste collezioni comprendono sequenze che nel loro insieme rappresentano un intero genoma, o un singolo cromosoma, o una popolazione di RNA messaggeri (mRNA) prodotti in un certo tessuto o in uno specifico stadio di sviluppo o in una particolare patologia.

1. Isolamento di geni. - Singoli geni o collezioni di frammenti genomici comunque interessanti possono essere ottenuti in diversi modi (per un approccio pre-ingegneristico, v. Sgaramella e altri, 1968). Il modo più diffuso comporta il recupero di sequenze naturali: si estrae dalle cellule prescelte il genoma e se ne frammentano le lunghe molecole di DNA per renderle più maneggevoli e per separare dagli altri frammenti le sequenze di interesse, che a volte rappresentano una frazione piccolissima del genoma totale. Per questo è stata determinante la scoperta di enzimi estratti da Batteri che tagliano specificamente la doppia elica del DNA: gli 'enzimi di restrizione', così chiamati in quanto capaci di restringere o limitare i danni che DNA estranei (ad esempio i DNA virali) possono causare alle cellule batteriche che infettano. Questi 'bisturi' molecolari - come vengono appropriatamente definiti - sono in grado di tagliare la doppia elica di DNA, qualunque ne sia l'origine, purché contenga gli specifici siti bersaglio da loro riconosciuti. Tali siti bersaglio sono costituiti da corte sequenze (4-8 paia di basi, o pb), spesso simmetriche (palindromiche): ne sono note un centinaio. Per evitare il taglio occorre che i bersagli siano alterati nella sequenza, oppure, se questa è conservata, deve essere introdotta una modificazione reversibile (metilazione) di una delle basi del sito bersaglio (di solito un'adenina o una citosina).

Particolarmente proficua è stata la scoperta che le estremità delle molecole di DNA 'ristrette' possono interagire fra loro in modo specifico: anche se i frammenti derivano da molecole evolutivamente distinte, dalla loro saldatura enzimatica si origina un'unica, nuova molecola ricombinante. Al punto di saldatura si riforma la sequenza bersaglio, che può essere tagliata ancora dallo stesso enzima permettendo così di recuperare l'inserto dopo clonazione del DNA ricombinante. L'impiego di questi enzimi per estrarre specifiche sequenze da DNA genomici è però problematico a causa dell'abbondanza dei siti di restrizione. Infatti, la presenza di siti bersaglio all'interno di un gene di interesse determina l'inattivazione del gene stesso a opera dell'enzima; inoltre, la distribuzione quasi casuale dei siti bersaglio lungo il genoma da analizzare porta alla generazione di frammenti di dimensioni eterogenee, mentre per un'analisi sistematica (come nei Progetti genoma) può essere utile una loro maggiore omogeneità. Si ricorre allora a una frammentazione basata su sistemi chimico-fisici che non dipenda (strettamente) dalla sequenza, ma da altre variabili, come la lunghezza della molecola di partenza. Tra i metodi più usati vi è l'agitazione meccanica della soluzione di DNA, spesso indotta da ultrasuoni: le doppie eliche di DNA sono assimilabili a bacchette di vetro che, se scosse, possono rompersi in punti più o meno casuali, vicino al centro ma non necessariamente nella stessa posizione, anche se le molecole sono identiche. Ne risulta una popolazione di molecole di dimensioni controllate e omogenee.

2. Sintesi di cDNA. - Oltre che per frammentazione di un genoma è possibile ottenere sequenze 'geniche' anche con altri sistemi, come la sintesi di DNA complementare (cDNA), ossia un filamento di DNA a sequenza complementare a un mRNA. Gli mRNA sono quei prodotti di trascrizione del DNA che vengono poi utilizzati dalla cellula come molecole stampo sulle quali avviene la traduzione in proteina; le loro sequenze rappresentano quindi una frazione variabile ma importante dei genomi: quella che contiene le informazioni necessarie alla sintesi delle proteine. A ogni mRNA si usa far corrispondere un singolo prodotto genico. In ogni cellula ciascun gene è presente in un numero fisso di volte, specifico di quel genoma, mentre la frazione dei geni trascritti, come anche la frequenza con cui un certo gene viene trascritto, possono variare; di conseguenza, gli mRNA sono presenti in tipi e quantità variabili nelle cellule dei diversi tessuti. Numero, tipo e frequenza degli mRNA (cioè il trascrittoma) e dei loro prodotti di traduzione (cioè il proteoma) caratterizzano ogni tipo di cellula di un certo organismo.

Per lo studio degli mRNA è risultato vantaggioso ritrascriverli in cDNA mediante un particolare enzima, una DNA polimerasi, detta 'trascrittasi inversa' in quanto copia uno stampo di RNA in DNA partendo da un innesco: il flusso di informazione genica viene allora invertito. Questa reazione sfrutta la presenza di una sequenza di adenina nel tratto terminale 3′ della maggior parte dei messaggeri. A questa coda si fa associare (o ibridare) in vitro un breve frammento di DNA presintetizzato, composto solo da timina (oligo-dT), che viene utilizzato come innesco e allungato sino al tratto iniziale (o 5′) dell'mRNA a opera della trascrittasi inversa. Si può ottenere un singolo filamento di cDNA anche utilizzando inneschi casuali o specifici. Per caratterizzare il filamento ottenuto è preferibile clonare il cDNA; a questo fine si richiede rigorosamente una doppia elica e quindi occorre copiare il cDNA e produrre il filamento complementare. Secondo uno dei diversi protocolli disponibili, la reazione comporta l'aggiunta di poche citosine al terminale 3′, cui si fa ibridare una breve sequenza complementare di guanina (oligo-dG); oppure, se si conosce la sequenza del tratto iniziale (cioè il 5′) vi si fanno ibridare brevi frammenti di DNA complementare che servono da inneschi per la sintesi del secondo filamento. Dalla clonazione dei cDNA corrispondenti ai messaggeri presenti in un certo tipo di cellula o tessuto si ricava una banca di cDNA a doppia elica contenente i geni espressi in quelle cellule o in quei tessuti, che possono essere così analizzati per lo studio di funzioni cellulari e nel caso utilizzati per sintetizzare altre molecole.

3. PCR. - La PCR (Polymerase Chain Reaction), una delle tecniche più diffuse in ingegneria genetica, consiste nella ripetuta copiatura enzimatica e quindi nell'amplificazione di un certo segmento di DNA, lungo anche diverse migliaia di pb. Grazie alla straordinaria capacità di riconoscimento tra sequenze di DNA complementari (la più alta tra biomolecole), la PCR funziona anche se le sequenze da copiare sono scarse e poco pure. Per utilizzare la PCR occorre conoscere almeno una ventina di basi delle sequenze che fiancheggiano ai due lati il tratto da copiare. Questa conoscenza permette la sintesi chimica di due frammenti di DNA con sequenze corrispondenti, gli inneschi, che si ibridano alle sequenze terminali dei due filamenti da copiare: una DNA polimerasi copia i due filamenti del DNA compreso tra i due inneschi e successivamente anche i prodotti delle copiature precedenti. La reazione consta di tre stadi: il primo, condotto vicino a 95 °C, separa i due filamenti della doppia elica del DNA da copiare; il secondo, che opera attorno a 55 °C, permette l'ibridazione tra inneschi (presenti in notevole eccesso) e stampi (inizialmente rari, ma in aumento durante la reazione); il terzo avviene a 72 °C e porta all'allungamento dell'innesco lungo le molecole di stampo (polimerizzazione). Sono quindi richieste DNA polimerasi termoresistenti, spesso estratte da archeobatteri. Il risultato finale è un numero di copie del tratto delimitato dai due inneschi che a partire dal terzo ciclo raddoppia a ogni stadio o ciclo. In realtà il tasso di crescita (o amplificazione) è esponenziale solo all'inizio; dopo pochi cicli decresce rapidamente, ma i consueti venti-trenta cicli bastano per amplificare migliaia di volte il DNA bersaglio.

Gli esordi della PCR vanno collocati tra i primi anni settanta e i primi ottanta, a seconda dello scienziato al quale si voglia attribuire l'invenzione. A questo riguardo, particolarmente solide sono le credenziali di H. Gobind Khorana, che nel 1972 ne descrisse in dettaglio la possibilità teorica, e anche di Kary Mullis, un eccentrico chimico americano che ne mise a punto il protocollo d'impiego. La paternità dell'invenzione è stata oggetto di una lunga controversia, risolta sotto il profilo economico in tribunale, in una celebre causa discussa a San Francisco negli anni ottanta, e sul piano scientifico, significativamente, dal Comitato per il premio Nobel. Entrambe le giurie privilegiarono i meriti di Mullis, cui nel 1993 venne attribuito addirittura il Nobel per la chimica (Khorana l'aveva già avuto nel 1968 per la medicina). Va detto che la comunità scientifica ha preso nel complesso una posizione diversa: ne risulta il paradosso di un Nobel non associato a prestigiose istituzioni di ricerca, né ammesso all'Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti. A parte questo, la PCR rappresenta una delle tecniche di maggiore utilità in ingegneria genetica. In questi ultimi anni è stato possibile ovviare al più serio inconveniente della PCR, ossia gli appaiamenti spuri tra inneschi e stampi anche solo parzialmente complementari, che spesso danno falsi segnali.

La nuova versione, detta 'PCR quantitativa in tempo reale', introduce un terzo frammento, da porre tra i due inneschi, con sequenza corrispondente a un tratto noto della regione da amplificare; questo terzo frammento viene tagliato dall'attività degradativa associata alla stessa DNA polimerasi che realizza la PCR, la quale è in grado di degradare corti segmenti di DNA che incontra lungo la sequenza durante il processo di polimerizzazione. Il suo impiego permette un rigoroso controllo qualitativo e quantitativo della PCR.

4. Modificazione di geni. - Alcuni tipi di ricerche comportano l'introduzione in un gene di modificazioni predeterminate: questo permette di realizzare una genetica concettualmente 'inversa' rispetto a quella mendeliana. Mentre questa studia caratteri mutati e ne identifica le mutazioni genetiche responsabili, l'ingegneria genetica affronta il problema opposto, creando geni mutati o nuovi per scoprire quali caratteri variano e in che modo.

Esistono diversi approcci per modificare i geni. Uno dei più semplici consiste nel sintetizzare chimicamente una sequenza di DNA lunga circa 30 basi che comprenda al suo interno la mutazione desiderata, nel permetterne l'appaiamento (o ibridazione) con la sequenza naturale (non mutata), precedentemente inserita in un costrutto circolare, nell'estendere la sequenza mutata a opera di una DNA polimerasi che ne allunga il terminale (3′), correttamente appaiato allo stampo. L'estensione procede per tutta la lunghezza dello stampo circolare, sino a che raggiunge l'altro terminale della sequenza mutata usata come innesco; se anche questo è correttamente appaiato allo stampo, una ligasi unisce l'estremità in crescita all'altra estremità dell'innesco (5′) e circolarizza la copia mutata. Ne risulta una molecola solo parzialmente a doppia elica, poiché la mutazione introdotta nell'innesco non permette un completo appaiamento con lo stampo: l'eteroduplex così prodotto in vitro viene trasferito in vivo e la sua replicazione darà origine a una progenie mista, metà naturale (discendente dal filamento non mutato) e metà modificata (discendente dal filamento mutato). Di questa tecnica sono state messe a punto diverse versioni. Secondo un principio concettualmente simile si possono introdurre mutazioni predeterminate in inneschi per PCR.

Un altro metodo, pur concettualmente simile ma attuabile in vivo (cioè in cellule, ad esempio cellule embrionali staminali di topo coltivate in vitro), utilizza fenomeni ricombinativi naturali delle cellule (ricombinazione omologa), i quali, sfruttando la parziale omologia tra una sequenza sintetizzata mutata e la controparte genomica non mutata, permettono l'inserimento della mutazione nel genoma. Una difficoltà è costituita dalla bassa frequenza con cui questi fenomeni ricombinativi avvengono nelle cellule. Se migliorata, la ricombinazione omologa potrebbe fornire la soluzione ai molti problemi che derivano all'ingegneria genetica da alterazioni casuali di sequenze endogene ed esogene diverse da quelle programmate, con effetti spesso imprevedibili.

5. Sintesi totale di geni. - La sintesi totale di geni ha l'interessante peculiarità di non dipendere da un modello o da uno stampo naturale, per cui le sequenze di DNA sintetico, o artificiale, possono anche non esistere in natura. Essa si realizza aggiungendo una base all'altra secondo un ordine prestabilito e con la formazione dei corretti legami tra le basi. Per ottenere un prodotto di lunghezza standard (circa venti basi) occorrono quasi altrettante aggiunte (le aggiunte possono essere di singole basi, di doppiette, di triplette, ecc.). Se si vuole un prodotto di qualità soddisfacente è indispensabile che la resa a ogni aggiunta sia altissima, oltre il 99°. Questa tecnica, sviluppata negli anni sessanta dal gruppo di Khorana, permise di sintetizzare dapprima tutti i possibili mRNA artificiali che portarono alla decifrazione del codice genetico e, successivamente, i primi geni artificiali. I limiti della tecnica consistono nelle dimensioni del prodotto finale, a stento superiori a cento pb.

La conversione di un singolo filamento sintetico in una doppia elica è spesso necessaria per i normali impieghi del DNA e avviene in modi diversi. Quello storicamente più importante sfrutta una DNA ligasi: due segmenti adiacenti vengono allineati fra loro grazie alla presenza di un terzo segmento, anch'esso sintetico, che s'appaia agli altri due, o a loro parti, e tiene così in giustapposizione le loro estremità da saldare. Oggi una doppia elica può essere ottenuta più facilmente per copiatura enzimatica del singolo filamento sintetico, attuata da una DNA polimerasi che estende un appropriato innesco. La sintesi chimica viene usata spesso per la produzione di sonde per il riconoscimento di sequenze naturali e in misura crescente per la produzione di inneschi da PCR. La procedura attualmente è automatizzata e fornisce le sequenze desiderate nel giro di poche ore, laddove ai tempi pionieristici di Khorana (fine anni sessanta) ci volevano anni.

b) Vettori e cromosomi artificiali

Approntati i geni o i frammenti di interesse, occorre creare dei vettori, ossia strutture molecolari che ne facilitino il trasferimento in vivo e permettano le transazioni cellulari richieste. Infatti, il semplice trasferimento di un gene entro una cellula è in genere possibile, ma dà rese marginali: il DNA è una molecola troppo grossa e troppo carica elettricamente per attraversare le membrane cellulari. I frammenti che vi penetrano passivamente sono pochi e nel corso delle divisioni cellulari verrebbero diluiti e degradati; di qui la necessità di ricombinare il DNA da clonare con un vettore che ne assicuri la replicazione intracellulare, in quanto derivato da un elemento naturalmente contenuto nella cellula ospite. Tra i vettori più diffusi ricordiamo quelli ottenuti dalla modificazione di plasmidi, anelli di DNA a doppia elica. Naturalmente presenti nel citoplasma (donde il nome) soprattutto delle cellule batteriche, rispetto al cromosoma batterico principale sono dotati di una più elevata mobilità intercellulare e di un sistema di replicazione autonoma e più flessibile nel controllo del numero di copie per cellula, che varia da una a qualche centinaio. Queste funzioni sono state selezionate in natura perché i geni portati dai plasmidi spesso codificano per enzimi che contrastano l'azione di sostanze nocive per la cellula che li ospita (ad esempio gli antibiotici), e di conseguenza la loro mobilità e la loro abbondanza favoriscono la diffusione delle cellule che ne sono dotate. In laboratorio tali funzioni agevolano la selezione delle cellule che contengono un vettore derivato da un plasmide, che di norma viene privato delle sequenze non essenziali proprio per fare fisicamente posto all'inserto: infatti, le dimensioni della struttura ricombinante non possono superare di molto quelle dei plasmidi naturali. Opzionalità della loro presenza intracellulare, variabilità delle loro dimensioni, mobilità, presenza di caratteri selezionabili o identificabili fanno dei plasmidi i vettori elettivi per clonare frammenti dell'ordine delle migliaia di pb, o kilobasi (kb).

Quando l'obiettivo dell'intervento manipolativo è quello di ottenere numerose copie dell'inserto, si parla di vettori 'di replicazione'; se ne è richiesta la decodificazione in proteine, i vettori sono 'di espressione'. Particolari elementi genetici possono essere introdotti in un plasmide per migliorarne l'impiego come vettore.

Se il progetto sperimentale esige il trasferimento intracellulare di porzioni di genoma dell'ordine delle centinaia o migliaia di kb, si deve ricorrere a vettori di seconda generazione. Con l'avvio dei Progetti genoma si sono prospettati numerosi e importanti sviluppi, che dipendono però dalla disponibilità di lunghi inserti. In parallelo, le esigenze produttive sono diventate sempre più sofisticate e specifiche, e richiedono la compresenza di diverse sequenze geniche e regolative. Incrementi di dimensioni degli inserti sono stati ottenuti usando come vettori virus batterici, tipo il fago lambda, e strutture ibride, tipo i cosmidi, costituiti in parte da plasmidi e in parte da sequenze virali, dette 'cos' (siti coesivi rappresentati dalle estremità a singolo filamento del DNA a doppia elica del fago lambda); in questo modo gli inserti possono raggiungere, rispettivamente, le 15 e le 45 kb. Proprio grazie alla presenza dei siti 'cos' gli inserti vengono tagliati nella misura giusta per essere poi impacchettati in involucri proteici simili a capsidi virali e venir così più efficacemente iniettati in cellule ospiti. Nella tab. I sono riportate le capacità medie di diversi vettori.

Soprattutto l'esigenza di maggiori capacità vettoriali, ma anche l'opportunità di ridurre il danno di integrazioni casuali nei cromosomi residenti, nonché il crescente interesse nei confronti di caratteri complessi determinati da sequenze necessariamente più lunghe di singoli geni, hanno suggerito di ricorrere a cromosomi eucariotici artificiali.

Il primo cromosoma artificiale YAC (Yeast Artificial Chromosome) risale al 1987 e contiene elementi genomici del fungo Saccharomyces cerevisiae, o lievito di birra. Il lievito è stato scelto in quanto i suoi 16 cromosomi non solo sono relativamente brevi, in media mille kb (o una megabase, Mb) l'uno, ma inoltre presentano una sequenza centromerica (CEN) che è essenziale per l'appaiamento e la segregazione dei cromosomi alla divisione cellulare: la sequenza CEN di lievito è lunga solo un centinaio di pb, migliaia volte meno che negli altri Eucarioti. Anche le sequenze per la replicazione autonoma (ARS) sono brevi, talvolta meno di un centinaio di pb, contro le diverse migliaia stimate per gli altri Eucarioti. Per funzionare come un cromosoma naturale, uno YAC deve essere presente in un'unica copia per cellula, replicarsi fedelmente, segregare correttamente nel corso delle divisioni cellulari e veicolare un inserto che porti la lunghezza finale del cromosoma artificiale ai valori tipici dei cromosomi naturali (100 kb-3Mb). Gli elementi essenziali per le funzioni cromosomiche vengono preliminarmente assemblati in un plasmide (pYAC) che viene fatto replicare in Escherichia coli al fine di assicurarne una facile e ampia sintesi, utile ai fini di una più precisa caratterizzazione e di un più efficace impiego. Le regioni ARS permettono la replicazione fisiologica del cromosoma una sola volta per ciclo cellulare. La presenza delle terminazioni che conferiscono ai cromosomi eucariotici integrità e indipendenza (i telomeri, o TEL) viene ottenuta con l'introduzione nel plasmide di due brevi sequenze contenenti le ripetizioni telomeriche, che presentino polarità opposte; queste, una volta introdotte nella cellula ospite, devono essere allungate dagli appositi enzimi, detti telomerasi, che ne normalizzano la lunghezza.

Per i cromosomi artificiali di animali, e in particolare di mammifero (MAC, Mammalian Artificial Chromosome), la situazione è più complessa. Normalmente le loro regioni CEN ammontano a diverse Mb; inoltre, data la povertà di informazioni per ora disponibili sulle origini di replicazione del DNA (qui chiamate REP), un approccio modulare simile agli YAC non è praticabile. In questi ultimi anni, comunque, sono state messe a punto diverse procedure per il loro assemblaggio. Come negli YAC, sono necessari diversi elementi genici: in mezzo una regione CEN, alle estremità due TEL, e una o preferibilmente più origini di replicazione (REP), peraltro non ancora ben caratterizzate. A ragione si ritiene che le REP debbano essere naturalmente presenti in diverse posizioni nei DNA eucariotici, le cui lunghezze sono dell'ordine delle Mb. Anche per via delle loro dimensioni, l'assemblaggio dei pezzi di un MAC avviene intracellularmente (v. Sgaramella ed Eridani, 2004).

Occorre qui ricordare altri due vettori ricombinanti: PAC (Phagic Artificial Chromosome) e BAC (Bacterial Artificial Chromosome). Si tratta di 'cromosomi artificiali' derivati rispettivamente dal fago P1 e dal batterio Escherichia coli (donde i nomi). In realtà sono esempi di costrutti basati su elementi genetici procariotici, quindi più plasmidici che cromosomici: tuttavia il termine cromosoma è stato adottato per indicare la loro capacità vettoriale, che supera le centinaia di kb. Grazie alla facilità di preparazione e propagazione, BAC e PAC vengono spesso usati per i fini analitici propri dei vari Progetti genoma.

Per interventi sui vegetali si ricorre a vettori derivati dai plasmidi del batterio Agrobacterium tumefaciens - detti 'Ti' in quanto responsabili dell'induzione di tumori benigni - oppure a vettori di derivazione virale: i primi integrano stabilmente il transgene nel genoma ospite, a differenza dei secondi (spesso derivati da virus del mosaico del cavolfiore o del tabacco), che permettono quindi solo espressioni transitorie.

c) Produzione di ricombinanti

Una volta che il gene da trapiantare e il vettore siano disponibili, occorre integrare il primo nel secondo.

La ricombinazione tra gene da clonare e vettore avviene in vitro e solitamente richiede l'intervento di enzimi (DNA ligasi, ricombinasi, topoisomerasi). I sistemi che utilizzano le ligasi sono i più diffusi: le due molecole di DNA da ricombinare devono possedere estremità 'coesive', dotate di un singolo filamento che sporge di poche basi rispetto al complementare. La ligasi unisce le due estremità dei singoli filamenti giustapposte in una struttura a doppia elica grazie alla presenza di un filamento continuo e complementare alla sequenza dei due frammenti da saldare. Particolarmente adatte alla ricombinazione in vitro si sono fortunatamente rivelate le estremità prodotte dalle endonucleasi di restrizione. Altrettanto inattesa a suo tempo è stata la scoperta che anche DNA a doppia elica e a estremità piatte possono appaiarsi ai terminali e quindi essere saldati tra loro (v. Sgaramella e Khorana, 1972).

A volte la natura dei terminali presenti nelle molecole di DNA da ricombinare è tale da rendere preferibile demandare alla cellula ospite il compito di legarle al vettore, col quale devono però aver già interagito attraverso legami deboli, come quelli a idrogeno. È questo il caso delle estremità costituite da ripetizioni di adenina utilizzate nella sintesi di cDNA, e dalle timine aggiunte ai relativi vettori.

Anche le rotture meccaniche generano nel DNA estremità non immediatamente ricombinabili in vitro: occorre quindi introdurre ulteriori modificazioni operate da enzimi, come ad esempio una 'limatura' enzimatica, in modo da renderle piatte e quindi ligabili o all'inserto o a speciali adattatori; oppure (in analogia con i cDNA) occorre allungare le due estremità del gene con brevi sequenze di adenina o timina. I prodotti della PCR possono essere saldati al vettore sfruttando la presenza di un'adenina nel loro terminale 3′, e quindi introducendo una timina nel terminale corrispondente del vettore.

Specie se si parte da un genoma naturale, che può constare di poche kb (nel caso di alcuni virus) ma anche arrivare a miliardi di basi (o Gb, come nel caso dell'uomo), la ricombinazione in vitro dei frammenti origina una miscela con un numero di costrutti tanto maggiore quanto più alto è il numero di frammenti in cui è stato ridotto il genoma di partenza; un'attenta preparazione della reazione dovrebbe in teoria assicurare che ogni frammento genomico sia legato a una molecola di vettore da solo (e quindi non in ricombinazioni spurie ad altri frammenti genomici). Solo così la collezione di molecole ricombinanti prodotta in vivo potrà rappresentare in modo adeguato il genoma di partenza. In pratica, si appronta una collezione di frammenti i cui terminali siano variabili come posizione genomica (quindi abbiano sequenze parzialmente sovrapponibili) e che assommati diano una lunghezza complessiva almeno cinque volte maggiore di quella del genoma di partenza. Sfasatura dei tagli e ridondanza delle sequenze clonate migliorano la rappresentatività della collezione, che è tanto più elevata quanto maggiore è la probabilità di ritrovare in essa ogni sequenza presente nel genoma.

In vivo, come in vitro, la fusione di due molecole di DNA può avvenire anche grazie a siti di riconoscimento/ricombinazione presenti nelle molecole da unire: queste si scambiano reciprocamente le due parti a monte e a valle del sito di ricombinazione, come due linee ferroviarie in corrispondenza di uno scambio. Uno di questi approcci si basa sull'impiego del sistema di ricombinazione CRE-loxP del fago P1: l'enzima ricombinativo CRE riconosce due siti, chiamati loxP, e li incrocia, scambiandone le metà. La natura dei prodotti dipende dalla posizione dell'orientamento dei due siti loxP.

d) Trasferimento in vivo

Se le cellule fossero naturalmente permeabili al DNA, anche se legato a un vettore, la loro individualità genetica sarebbe a rischio. L'incorporazione di DNA e il suo eventuale trasporto nel nucleo sono eventi improbabili, e si rende quindi necessario indurli mediante un intervento esterno. Sono rari i casi in cui certi DNA, dotati di specifiche sequenze di riconoscimento, vengono incorporati da cellule. Ciò è possibile, ad esempio, nel caso di cellule di Hemaeophilus influenzae e di Neisseria gonorrheae. Numerose cellule batteriche presentano naturalmente recettori per le particelle virali, o virioni, e questa caratteristica è stata sfruttata dall'ingegneria genetica inserendo il transgene nel genoma virale (è il caso dei cosmidi e dei PAC), ossia impacchettando il DNA ricombinante in virioni ricostituiti in vitro e capaci di riconoscere i relativi recettori batterici.

In altri casi sono state elaborate procedure diverse. Alcune cellule assorbono DNA anche eterologo, ma solo in particolari condizioni. Questo si riscontra nei batteri più usati nella ricerca, Escherichia coli e Bacillus subtilis. Di solito le loro cellule diventano permeabili al DNA grazie a trattamenti chimici, enzimatici o fisici, oppure in brevi fasi della loro crescita. Occorre infatti alterare temporaneamente e reversibilmente l'integrità delle membrane cellulari, ricorrendo a tal fine al lavaggio con sali di calcio accompagnato da un breve shock termico (da 0 ÷ 5 °C a 37 ÷ 45 °C), oppure con 'protoplastizzazione' delle cellule mediata dalla rimozione enzimatica della membrana periplasmatica. A questi trattamenti si sta sostituendo l'elettroporazione, uno shock elettrico che altera la membrana delle cellule e nel processo ne uccide molte. Le poche cellule superstiti incorporano però efficacemente il transgene e possono essere selezionate e poi amplificate per aumentare la resa del processo.

Per le cellule eucariotiche si ricorre all'elettroporazione, al bombardamento con proiettili metallici ricoperti di DNA (spesso usato per le cellule vegetali, dotate di robuste pareti di cellulosa), all'inglobamento del DNA in particelle lipidiche (liposomi) capaci di fondersi con la cellula da modificare. Se è possibile segregare il DNA eterologo sotto forma di cromosoma (o frammento cromosomico) in una cellula donatrice (o una microcellula, risultante dalla polverizzazione di una cellula intera in frammenti capaci di contenere singoli cromosomi o loro frammenti), l'elettroporazione può portare alla fusione tra cellula donatrice e cellula ricevente e quindi al trasferimento del transgene in quest'ultima.

Una procedura interessante quanto controversa, messa a punto da un gruppo italiano verso la fine degli anni ottanta, è stata impiegata di recente per l'inserimento di un gene umano in maiali, anche al fine di ridurre l'incompatibilità di organi suini trapiantati nell'uomo. Tale tecnica impiega gli spermatozoi, sfruttandone la capacità di aggregare al loro esterno frammenti di DNA estranei e impiegandoli poi in un processo di fecondazione artificiale. La maggioranza della progenie contiene il transgene, lo esprime e a sua volta e lo trasmette alla discendenza. Se confermata, la tecnica potrebbe trovare vasti impieghi in transgenetica (v. Lavitrano e altri, 2002).

Particolare importanza hanno assunto le tecniche di microiniezione di DNA in cellule bersaglio di dimensioni adeguate, come gli oociti. Siringhe microscopiche controllate da sofisticati manipolatori depositano in prossimità del nucleo (o di uno dei due pronuclei, nel caso di ovuli fecondati) minuscole goccioline contenenti il transgene, che poi passa nel nucleo e viene integrato nel genoma. La microiniezione è una delle due tecniche d'elezione adottate nella clonazione riproduttiva animale per il trasferimento di interi nuclei somatici in ovociti enucleati (l'altra è la fusione cellulare).

e) Cloni di molecole, cellule, organismi

Il termine clone - che la biologia molecolare ha mutuato dalla genetica di popolazioni, la quale a sua volta l'ha attinto dalla genetica agraria - deriva dalla parola greca clon, e designa un ramoscello che, interrato, può rigenerare una pianta completa. Per analogia, si definisce clone un gruppo di strutture biologiche dotate di identico patrimonio genetico. Quando l'ingegneria genetica ottiene il trasferimento di un gene eterologo in una cellula, e per successive divisioni binarie questa dà origine a un numero anche molto elevato di cellule figlie, la cellula ingegnerizzata, e quindi anche il transgene, sono stati clonati. Un clone cellulare contiene quindi un clone molecolare: un'insieme di cellule identiche contiene un insieme di identiche molecole di DNA estraneo.

Si parla anche di clonazione di organismi quando si ottiene una copia geneticamente identica di un organismo pluricellulare non attraverso la riproduzione sessuale - che porta alla comparsa di un patrimonio genetico nuovo, in parte diverso da quello di ciascun genitore - bensì per successive divisioni binarie di una sua cellula somatica. Queste divisioni devono essere accompagnate prima da un improbabile processo di de-differenziamento (tutte le cellule somatiche sono differenziate) e poi di nuovo differenziamento e sviluppo fisiologico. Le indicazioni fornite da numerosi esperimenti finalizzati alla clonazione di organismi complessi come i Mammiferi, spesso attuati per trasferimento di nuclei somatici in ovociti enucleati, non hanno per ora soddisfatto le aspettative, in quanto il numero di copie dei cloni (va sottolineato che qui di necessità per clone si intendono i singoli organismi prodotti, non i loro insiemi) è basso, con rese che a stento superano l'1°. In più la qualità degli organismi clonati lascia a desiderare: non solo essi sono geneticamente diversi dall'animale donatore (il loro genoma nucleare viene dalla cellula somatica, quello mitocondriale dall'oocita), ma spesso la loro salute è precaria, probabilmente a causa sia degli inevitabili maltrattamenti imposti al materiale biologico impiegato, sia delle alterazioni strutturali, genetiche ed epigenetiche (ad esempio le metilazioni, o le interazioni con proteine) che il genoma delle cellule somatiche donatrici è programmato a subire nel corso del differenziamento. Si tratta di problemi difficilmente individuabili e ancor più difficilmente risolvibili. Il fatto che nei sistemi vegetali la clonazione somatica nel complesso funzioni in modo soddisfacente può essere dovuto a una separazione meno netta tra linee germinale e somatica, a un minor numero di tessuti diversi e quindi a un minor differenziamento delle piante rispetto agli animali. Anche una caratterizzazione molecolare genomica dei cloni potrebbe fornire utili indicazioni per spiegare questa peculiarità dei vegetali.

4. Applicazioni

Le applicazioni dell'ingegneria genetica sono evidenti in tutti i campi delle moderne bioscienze e biotecnologie: se è ormai difficile trovare nella ricerca di base settori che non utilizzano l'ingegneria genetica, è ancora più difficile individuare un settore produttivo nel quale non trovino impiego almeno alcune delle tecniche descritte sopra.

La panoramica che segue coprirà quindi necessariamente solo alcune delle tecnologie sviluppate sino a oggi. Considereremo innanzi tutto l'attività legata alla ricerca di base, che ancora caratterizza molti di questi settori, per poi esaminare la biomedicina, la sintesi di sostanze (in prevalenza proteine) per mezzo di organismi o cellule (bioreattori) e in ultimo alcune applicazioni in campo aperto, di tipo agroalimentare e/o ecologico.

a) Ricerca

Solo raramente la ricerca è andata identificandosi con la tecnologia come nel caso dell'ingegneria genetica. Il fenomeno è testimoniato da un lato dalla comparsa, specie negli Stati Uniti, ma anche in Gran Bretagna, Germania, Francia, Giappone, di innumerevoli piccole imprese create da ricercatori già impegnati presso centri universitari o accademici che sostanzialmente continuano la loro attività in laboratori privati, spesso di fortuna; dall'altro lato, dall'enorme domanda di know-how e di innovazione strumentale stimolata dalla diffusione di queste ricerche. Gruppi di ricercatori attivi in prevalenza presso le grandi università statunitensi si aggregano attorno a una scoperta o a una tecnologia di volta in volta emergente (sintesi totale, sequenziamento, produzione di enzimi, PCR, manipolazioni cellulari, clonazione), affermandosi come compagnie d'avanguardia, piccole e dinamiche, che pubblicano lavori di ottimo livello e di ampia circolazione, accumulano brevetti di base e vengono poi incorporate da grandi multinazionali. Una frazione cospicua del volume d'affari in ambito biotecnologico deriva dal settore degli strumenti (prodotti, apparecchi, metodologie) richiesti dalla sperimentazione e quindi oggetto a loro volta di assidua innovazione.

Molte iniziative si sono sviluppate secondo queste linee di tendenza, in primo luogo i Progetti genoma: inizialmente i genomi di numerosi Procarioti, poi il Progetto genoma umano e, più recentemente, quelli di svariate specie animali o vegetali, dal riso al pesce zebra. Il ruolo, le strategie e le tattiche adottate ad esempio da Craig Venter - già membro dei National Institutes of Health (NIH), poi fondatore del TIGR (The Institute for Genome Research), quindi della Celera Genomics, che nel 2001 ha portato a compimento il Progetto genoma umano - e in parallelo gli sforzi dei gruppi associati nel consorzio pubblico - che è arrivato contemporaneamente allo stesso risultato - a volte in competizione tra di loro, a volte in collaborazione, costituiscono dei veri paradigmi dell'evoluzione dell'ingegneria genetica e delle sue potenzialità, soprattutto in ambito analitico.

La ricerca di base - che ha portato alla risoluzione di sequenze del genoma e alla creazione di banche di cDNA dell'uomo o di altri organismi - è stata di volta in volta definita, risolta, brevettata e commercializzata come un bene di consumo. La recente decifrazione dei genomi della zanzara Anopheles gambiae e del Plasmodium falciparum, rispettivamente l'insetto vettore e il parassita responsabile della malaria, oltre alla disponibilità dei dati sul genoma umano, rappresentano forse un mutamento di paradigma nella ricerca biomedica, che vede compagnie private e consorzi pubblici collaborare strettamente e apertamente per andare incontro a esigenze particolarmente sentite nel Terzo Mondo. Ciò dovrebbe permettere una più razionale mobilitazione di tutte le risorse per un impegno non più eludibile: eliminare la malaria (o altre patologie che affliggono i paesi più poveri, come l'AIDS) focalizzando le attività di ricerca sull'insieme dei geni che nei tre organismi (uomo, zanzara, plasmodio) risultano coinvolti in questa piaga globale.

Un altro recente esempio di intervento dell'ingegneria genetica nella ricerca di base e nelle prevedibili applicazioni biomediche e agroalimentari consiste nella cosiddetta 'interferenza di RNA', o RNAi, una tecnica volta a indurre in cellule animali e vegetali la sintesi di brevi molecole di RNA a doppio filamento e con sequenza identica a porzioni del gene bersaglio, con l'obiettivo di sopprimere specifiche funzioni geniche senza alterare la sequenza genica interessata. La strategia si richiama da un lato alla scoperta di meccanismi di questo tipo nella regolazione genica cellulare, e dall'altro all'uso, già ampiamente sperimentato in vitro, di singoli filamenti di RNA antisenso esogeni. Gli effetti dell'RNAi, peraltro, paiono più interessanti e aprono nuove prospettive di impiego in quanto l'inibizione da RNAi è sistemica, cioè diffusibile, e catalitica, cioè superiore alle attese sulla base del prodotto. La natura stessa dell'RNAi di norma non prospetta impieghi nei casi in cui si voglia indurre la comparsa di un carattere assente per qualsivoglia ragione. Gli RNAi solitamente non vengono introdotti dall'esterno, ma sintetizzati dalla cellula ospite. Ciò avviene attraverso la produzione, controllata da un promotore messo a monte della sequenza da trascrivere, di un singolo filamento di RNA capace di ripiegarsi su se stesso e originare così una doppia elica; oppure inserendo due promotori, uno a monte e uno a valle di una breve sequenza di DNA che sia parte del gene da inattivare, della quale verranno quindi trascritti entrambi i filamenti, con la produzione di due RNA complementari che formeranno la molecola di RNAi a doppio filamento. In entrambi i casi si ottiene un'inattivazione del gene bersaglio efficace e soprattutto non irreversibile, come nel caso della terapia genica mediata da DNA.

b) Biomedicina

Oltre a iniziative dirette alla produzione di sostanze utili, come i farmaci, le applicazioni dell'ingegneria genetica all'uomo sono state sinora in prevalenza di due tipi: gli interventi manipolativi di terapia genica, a livello somatico, e le indagini genomiche per fini diagnostici. Unanime o quasi è l'opposizione a interventi sulla linea germinale, così come la perplessità nei confronti dell'uso di vettori retrovirali, anche se 'disarmati', cioè spogliati di ogni sequenza ritenuta pericolosa al fine di minimizzarne l'infettività, ma non per questo privati della loro capacità di integrazione genomica incontrollata e quindi di possibili riattivazioni (v. anche terapia genica; v. Fischer e altri, 2002; v. Marshall, 2002; v. anche genomica; v. Sgaramella e Riva, 1997; v. Davies, 2001).

Può risultare qui interessante un rapido accenno a un modello animale per la cura di un danno genetico al sistema immunitario. Il protocollo fa ricorso a diversi approcci terapeutici e prevede le seguenti operazioni. Si coltivano in vitro cellule di un topo in cui è stata indotta un'immunodeficienza simile alla sindrome di Omenn (assenza di linfociti B e T, riconducibile a difetti di enzimi ricombinativi). Le cellule vengono usate come donatrici di nuclei da trasferire in ovociti enucleati, e gli pseudozigoti così ottenuti si lasciano sviluppare sino allo stadio di blastocisti. Le cellule della massa interna vengono isolate e i loro genomi vengono modificati per ricombinazione omologa (particolarmente efficace nelle cellule embrionali staminali, o ES, di topo). Le cellule così modificate vengono coltivate in vitro e fatte differenziare in cellule staminali ematopoietiche, per poi essere trasfuse nei topi malati che riescono così a produrre immunoglobuline (Ig). Si tratta di un interessante esperimento che dimostra, almeno nell'animale, la fattibilità di abbinare il trasferimento di nuclei che è alla base della clonazione con terapie geniche e cellulari (v. Rideout e altri, 2002).

c) Biotecnologie

Dopo il primo successo delle biotecnologie molecolari, conseguito quasi trent'anni fa con la storica sintesi della somatostatina, sono state ottenute numerose proteine umane ricombinanti che stanno rimpiazzando i vecchi prodotti estrattivi o sintetici, rispetto ai quali presentano i vantaggi di una maggiore purezza e dell'assenza di pericolose contaminazioni virali. Tra queste sostanze occorre ricordare insulina, interferoni, vaccini, fattori di crescita e di coagulazione, enzimi proteolitici (come l'attivatore del plasminogeno) e nucleolitici (come la DNasi usata contro la fibrosi cistica). Particolarmente promettente in questo senso è l'uso di piante, specie per il Terzo Mondo dove le torride temperature e la mancanza di adeguati sistemi di refrigerazione possono compromettere il trasporto e la conservazione dei farmaci, che grazie a questo tipo di ingegneria genetica verrebbero invece prodotti e consumati in loco (v. Galun e Galun, 2001).

Un recente sviluppo della transgenetica è rappresentato dalla transcromosomica, che comporta il trasferimento di un cromosoma di una specie, naturale o artificiale. Questa procedura, ancora sperimentale, è stata tentata su modelli animali, come topi e bovini. È significativo il fatto che nei casi descritti si siano trasferiti HAC (Human Artificial Chromosome) contenenti sequenze umane di rilevanza biomedica: in un caso sono state trasferite regioni lunghe qualche decina di Mb e contenenti tutte le informazioni per la sintesi delle Ig in vista della produzione su larga scala di anticorpi policlonali umani in animali. L'utilità degli anticorpi in terapia è nota, ma le applicazioni sono state sinora limitate dalla loro scarsa disponibilità.

Dal punto di vista operativo un interessante HAC è stato assemblato attraverso una serie di manipolazioni effettuate in vivo per via delle grandi dimensioni dei componenti. Tra i due cromosomi umani coinvolti, il 14 e il 22, dove risiedono rispettivamente le famiglie dei geni per le catene pesante e leggera delle Ig, si induce una ricombinazione (mediata da CRE, il cui gene è stato introdotto con un vettore plasmidico su due siti loxP previamente integrati nei due cromosomi per ricombinazione omologa). In questo modo le due famiglie geniche si ritrovano sullo stesso HAC. Per trasferirlo nel bovino, l'HAC dapprima viene introdotto in fibroblasti fetali per fusione con microcellule. I fibroblasti fetali vengono poi iniettati in ovociti enucleati, come per una clonazione di tipo somatico. Dopo il consueto sviluppo in vitro sino allo stadio di blastocisti, si è provveduto al loro trasferimento in utero. Per sfruttare un effetto di 'ringiovanimento' delle cellule transcromosomiche, i feti sono stati recuperati e le loro cellule sono state fuse con nuovi ovociti enucleati. Un secondo ciclo di sviluppo in vitro ha prodotto nuove blastocisti, che sono state reimpiantate nell'utero di vacche portatrici dove hanno completato lo sviluppo. Nel sangue dei bovini nati sono stati individuati gli anticorpi umani. Questi HAC si sono rivelati stabili nella mitosi e nella meiosi anche nei sistemi eterologhi rappresentati da bovini e topi (v. Tomizuka e altri, 2000; v. Kuroiwa e altri, 2002).

d) Settore agroalimentare ed ecologia

Le tecnologie messe a punto negli ultimi due decenni del XX secolo aprono prospettive estremamente allettanti per le applicazioni nel settore agroalimentare: animali resistenti alle più comuni malattie, piante in grado di crescere in condizioni sfavorevoli, eliminazione diretta di contaminanti industriali o accidentali tramite sistemi biologici, miglioramento delle caratteristiche dei prodotti in termini di qualità, quantità e durata, trasformazione di organismi vari in bioreattori per la produzione di proteine umane (v. Wall, 1999) e addirittura, attraverso un'ingegneria genetica di seconda generazione (o ingegneria metabolica), creazione di organismi con strumenti biosintetici per produrre amminoacidi (come quelli aromatici), vitamine (come la vitamina A), oli e amido.

Le applicazioni dell'ingegneria genetica nel settore agroalimentare e in ecologia sono tanto interessanti quanto controverse, specialmente in Europa. Oltre alle difficoltà intrinseche alle manipolazioni genetiche, si pone il problema del rilascio ambientale di agenti nocivi, uno degli argomenti più scottanti nell'attuale dibattito. I rischi associati all'uso industriale di organismi geneticamente modificati (OGM) possono essere ridotti da sistemi di contenimento di tipo biologico oppure di tipo fisico. Il contenimento fisico mira a impedirne la fuga attraverso l'adozione di barriere architettoniche. Purtroppo, la natura stessa degli organismi pluricellulari e le loro inevitabili interazioni con altri componenti degli ecosistemi coinvolti, che non possono essere trasformati in compartimenti a tenuta stagna, come avviene nel caso di agenti altamente infettivi, rischiano di vanificare molti degli approcci proposti, a meno di soluzioni troppo complesse. Il contenimento biologico mira invece a 'disarmare' il sistema, nella speranza di ridurne la sopravvivenza, ma così facendo opera in direzione opposta alle normali attese di durata proprie dei prodotti commerciali (v. anche alimentazione: Organismi vegetali geneticamente modificati).

In questo settore le applicazioni più diffuse riguardano la resistenza a diserbanti e parassiti. Contro questi ultimi sono state messe a punto manipolazioni che consentono ai geni di codificare per prodotti letali per parassiti vegetali. A oggi sono state rese geneticamente resistenti a Insetti piante di cotone, mais, patate, e altre, trasferendovi un gene di Bacillus thuringiensis che codifica per una tossina potente e specifica per un certo numero di insetti; spesso si introducono modificazioni di sequenze in risposta alle esigenze del nuovo ospite. Operazioni simili portano alla produzione di piante rese geneticamente resistenti a erbicidi, quali il glifosato. Grande notorietà ha avuto il caso del pomodoro FlavrSavr, il cui invecchiamento era stato ritardato grazie all'inibizione della trascrizione del gene per la poligalatturonasi, un enzima che degrada i polisaccaridi responsabili della consistenza del pomodoro; se la durata del prodotto risultava effettivamente prolungata, sulla conservazione del sapore cui accenna il nome commerciale i giudizi sono stati discordanti (v. botanica).

Effetti ritardanti l'irrancidimento sono stati ottenuti usando sequenze antisenso contro i due geni responsabili della biosintesi di etilene, una sostanza con attività ormonale che permette la maturazione dei frutti. Più problematici, sia per le tecnologie impiegate sia per il loro impatto sociale, sono altri tipi di manipolazione genetica, di cui i sistemi definiti, in modo un po' truculento, terminator (v. Oliver e altri, 1998) costituiscono un esempio paradigmatico. Si tratta di manipolazioni che, pur non interferendo con la normale crescita e l'accumulo di sostanze nutritive della pianta, la rendono sterile attraverso l'introduzione nel suo genoma di una serie di geni che attivano funzioni letali per i semi quando la pianta è trattata con un induttore subito prima della germinazione (v. Primrose e altri, 20016).

Secondo lo stesso principio sono stati introdotti in alcune piante dei geni che controllano certi caratteri vantaggiosi, come la capacità di crescere in ambienti aridi o salini; si tratta però di un controllo 'condizionato', nel senso che tali caratteri vengono espressi solo se le piante sono state spruzzate con un appropriato composto chimico, fornito esclusivamente dall'industria che vende i semi. In assenza di questa induzione, la pianta si svilupperà normalmente, ma non presenterà i caratteri modificati (v. Masood, 1999). Analogo è il caso dei geni cosiddetti 'suicidi', progettati per determinare automaticamente la morte della cellula ospite in seguito alla loro attivazione, determinata da perdita di controllo delle condizioni di crescita: il gene suicida porta alla trasformazione di un precursore innocuo in un metabolita tossico.

Con la diffusione di questi sistemi di controllo, le multinazionali proteggono i loro investimenti nella ricerca, ma gli agricoltori perdono un plurisecolare diritto alle sementi prodotte dalle piante acquistate in precedenza. Resta inoltre da chiarire il problema ecologico, in considerazione del comprovato e incontrollato movimento 'orizzontale' di geni tra organismi anche di specie diverse (v. Doolittle, 2002; v. Zardoya e altri, 2002), che potrebbero estendere ad altri sistemi queste caratteristiche che da vantaggiose potrebbero diventare disastrose.

5. Aspetti etici, sociali e legali

Alcuni aspetti etici, sociali e legali delle ricerche di ingegneria genetica cui abbiamo fatto cenno nei capitoli precedenti meritano una considerazione più approfondita. All'ingegneria genetica va riconosciuto il merito di aver reso disponibili diverse proteine umane, altrimenti difficili da assicurare in quantità e qualità soddisfacenti per i più diversi impieghi diagnostici, preventivi e terapeutici. Inoltre, occorre ricordare che sono state le preoccupazioni degli stessi ingegneri genetici a richiamare l'attenzione dei media, dei politici e dell'opinione pubblica sulle implicazioni extra-scientifiche delle loro attività, cosa che non accadeva dalla fine della seconda guerra mondiale, quando i fisici atomici incominciarono a dibattere pubblicamente i dilemmi etici che il nucleare poneva. È in questo contesto che si è sviluppata la bioetica, che si propone di affrontare i problemi etici posti dalla scienza, e in particolare quelli posti di recente dall'ingegneria genetica, oltre che dalla 'procreatica', ossia dall'applicazione delle biotecnologie alla procreazione, affermatasi in Inghilterra negli anni settanta.

Quando si ottennero i primi risultati concreti relativamente alla possibilità di produrre molecole di DNA ricombinante, nel febbraio del 1975 un piccolo gruppo di ricercatori indisse il famoso convegno di Asilomar, in California (v. Fredrickson, 2001). I primi dati sul DNA ricombinante erano infatti usciti dai laboratori di Stanford e della vicina University of California a San Francisco (v. Mertz e Davis, 1972; v. Hedgepeth e altri, 1972; v. Sgaramella, 1972; v. Jackson e altri, 1972; v. Lobban e Kaiser, 1973). Dopo quattro giornate di estenuanti discussioni, i 150 ingegneri genetici di tutto il mondo che partecipavano al convegno si videro costretti a raccomandare una moratoria sugli aspetti più controversi: l'uso di virus oncogeni come vettori, l'impiego di resistenze ad antibiotici come sistemi selettivi e l'impatto ecologico degli organismi modificati. Ciò nonostante, ad Asilomar vennero poste le basi di una partecipazione sociale che, seppur confusamente, ha aperto un nuovo capitolo nella pratica e nell'etica della scienza, come attestano il successivo dibattito sul Progetto genoma umano (v. Sgaramella e Riva, 1997; v. Davies, 2001) e quello tuttora in corso sugli OGM, sulla clonazione e sulla terapia genica. Se agli occhi di alcuni il convegno di Asilomar sembrò avallare un ingiustificato assedio alla torre d'avorio della scienza da parte di un pubblico necessariamente impreparato, con pericolose interferenze nel progresso della ricerca, altri lo considerarono un forzato ma utile momento di riflessione. Di certo esso ha dimostrato che la ricerca non può procedere senza incorporare nel suo processo decisionale anche considerazioni extrascientifiche, attinenti all'etica, alla sociologia e alla giustizia. Nel corso dei successivi, innumerevoli dibattiti internazionali sui problemi dell'ingegneria genetica e durante i lavori dei comitati creati per la regolamentazione del settore, e quindi per l'armonizzazione globale delle regole, è emersa l'insofferenza dei ricercatori, specie statunitensi, nei confronti delle difficoltà - a loro avviso pretestuose e comunque di ispirazione moralistica - sollevate soprattutto dai colleghi europei in merito a quella che essi consideravano una priorità irrinunciabile, ossia la massimizzazione della velocità di avanzamento della ricerca. Il riconoscimento dell'importanza degli aspetti non strettamente scientifici dell'ingegneria genetica è avvenuto gradualmente e ha raggiunto livelli di apprezzabile consapevolezza nel corso del dibattito sul genoma umano. È significativo a questo proposito che proprio negli Stati Uniti il consorzio pubblico guidato dagli NIH abbia stanziato il 5° del bilancio totale del Progetto Genoma Umano per l'approfondimento dei suoi problemi legali, etici e sociali. A questo cambiamento di rotta ha contribuito in misura non irrilevante la consapevolezza che per conservare il primato mondiale nel settore delle bioscienze e delle biotecnologie gli Stati Uniti avrebbero dovuto prestare la debita attenzione, oltre che agli aspetti tecnico-scientifici, anche a quelli etici (rispetto per gli attori 'deboli', come i pazienti, l'ecosistema, le generazioni future), sociali (riconoscimento dei diritti delle culture tradizionali, ridimensionamento del determinismo genetico), e soprattutto giuridici (proprietà intellettuale e brevetti, uso legale delle impronte di DNA, rispetto per la privacy genetica).

L'ostracismo al quale era stata condannata la chimica verso la metà del secolo scorso in ragione dei suoi danni ecologici e dei suoi impieghi bellici impone una più seria riflessione sull'impatto della biomedicina. A partire dagli anni settanta, una tipica oscillazione del pendolo delle mode, anche scientifiche, era arrivata a far privilegiare negli interventi ambientali le strategie di tipo genetico (ad esempio piante rese transgeniche per la resistenze ai parassiti) rispetto a quelle di tipo chimico (uso dei corrispondenti prodotti genici): alla 'durezza' della chimica veniva contrapposta la 'compatibilità naturale' della biologia, trascurando l'ovvia considerazione che anche i prodotti biologici sono sostanze chimiche e soprattutto che la controllabilità e la reversibilità di un intervento chimico rispetto a un intervento genetico, se entrambi comportano un rilascio ambientale, rendono a priori preferibile il primo: i geni, come i diamanti, sono per sempre. E ciò vale anche in medicina per quel che riguarda la contrapposizione tra terapie genica e farmacologica.

6. Conclusioni

Oggi possiamo introdurre praticamente qualsiasi gene nel genoma di qualsiasi organismo. A volte otteniamo anche il risultato voluto, ma sappiamo poco sulle conseguenze generali della maggior parte di queste manipolazioni. Conosciamo la sequenza dei 3,2 miliardi di basi del genoma umano, ma ne conosciamo solo con enorme approssimazione il numero dei geni, poco le funzioni di ciascuno e ancor meno le interrelazioni.

Nello sviluppo della nostra civiltà, la comprensione di un fenomeno dovrebbe precederne l'eventuale sfruttamento o applicazione, secondo l'onorato insegnamento rerum cognoscere causas. La sua versione pragmatica nel moderno gergo scientifico, knowledge is power, forse andrebbe corretta con la postilla che l'azione senza (adeguata) conoscenza è arroganza, hybris, specie se i suoi eventuali errori sono difficili da identificare e da correggere. Nel campo della genetica, a una comprensione rapida e gratificante, ma in realtà superficiale e approssimativa, della struttura e del funzionamento dei geni, hanno fatto riscontro applicazioni a volte apprezzabili, ma spesso avviate in modo affrettato e presentate in maniera capziosa. Di frequente i risultati sono stati eccessivamente enfatizzati, o addirittura incautamente commercializzati, prima di essere debitamente confermati: presunte conquiste vantate come straordinarie hanno dovuto essere ridimensionate, se non smentite. Il realistico riconoscimento di questi errori è preliminare alla soluzione dei molti problemi che limitano le necessarie esplorazioni e le auspicabili fruizioni delle potenzialità della biosfera.

I limiti più seri dell'ingegneria genetica derivano non solo dall'intrinseca difficoltà dei problemi, ma anche dall'impostazione forse eccessivamente riduttiva che ha dominato questa fase d'avvio: i suoi dogmi hanno permesso progressi ragguardevoli in settori specifici, ma hanno messo in ombra aspetti generali che ora emergono con chiarezza. Un genoma è molto di più della somma delle sue sequenze di DNA. Non è più accettabile la distinzione tra DNA funzionale e DNA inutile (junk), così come va rivista l'attribuzione univoca di una specifica funzione a una precisa sequenza genomica. Gli effetti della collocazione cromosomica di un particolare transgene riguardano non solo la funzione canonica della sequenza introdotta, ma anche quelle della regione cromatinica e genomica che ne risulta manipolata (effetti di posizione). La collocazione e la dose genica di un transgene sono sostanzialmente incontrollabili e possono alterare la funzione codificata in modo contrario all'atteso: più geni in tandem a volte portano a inferiori livelli di espressione a causa di effetti indotti dall'alterazione della struttura locale (v. Garrick e altri, 1998).

Non è facile suggerire strategie per limitare questi ipotetici ma non impossibili inconvenienti: una, minimale, potrebbe essere quella di introdurre modificazioni in siti precisi e limitati, sfruttando al meglio le potenzialità della mutagenesi sito-specifica e della ricombinazione omologa, e lavorando all'indispensabile approfondimento delle tecniche di base.

L'alternativa offerta dall'uso di cromosomi artificiali riduce il rischio di modificare geni residenti, ma non quello di alterare la composizione cromosomica della cellula bersaglio e non elimina possibilità di ricombinazioni indesiderate, stimolate probabilmente dagli stessi eventi manipolativi.

La complessità di un organismo anche semplice come un virione, o una cellula batterica, non ha impedito di arrivare al suo assemblaggio totale a partire solo da elementi purificati o addirittura sintetici, come nel caso del Poliovirus (v. Block, 2002). Ora, la capacità di copiare fedelmente geni e genomi è una condizione preliminare e necessaria, ma non sufficiente, per il successo di interventi manipolativi, specie se ne sono previsti rilasci ambientali o usi terapeutici.

La corretta gestione di un gene estraneo trasferito in un genoma complesso potrebbe essere un compito paragonabile alla corretta gestione di una cellula manipolata trapiantata in un organismo estraneo, e ancor di più al corretto controllo di questo dopo che sia stato lasciato libero di diffondersi e riprodursi in un sistema ecologico complesso. L'impostazione razionale dei tre problemi è alla base del successo dell'ingegneria genetica nelle sue applicazioni produttive, terapeutiche ed ecologiche: non è retorico ricordare che la loro auspicabile soluzione richiede scienza e coscienza, entrambe da incoraggiare a livello individuale e sociale.

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