EURO, INFLAZIONE E INFLAZIONE PERCEPITA

XXI Secolo (2009)

Euro, inflazione e inflazione percepita

Paolo Del Giovane
Roberto Sabbatini

Nel gennaio 1999 undici Paesi europei hanno adottato una politica monetaria comune, e l’euro ha iniziato a essere usato come moneta ‘scritturale’, ossia nei pagamenti che non prevedono l’uso di contante e nelle operazioni finanziarie e contabili. L’introduzione delle banconote e monete in euro nel gennaio 2002 (cash changeover, in seguito per brevità changeover) ha completato il processo di unificazione monetaria nei dodici Paesi che in quel momento facevano parte dell’area (si era nel frattempo aggiunta la Grecia, seguita da altri quattro Paesi negli anni successivi). L’operazione è stata un notevole successo dal punto di vista tecnico. Sin dalle prime settimane, tuttavia, si è andata diffondendo tra i cittadini dell’area la convinzione che l’introduzione dell’euro stesse determinando un forte e generalizzato aumento dei prezzi al consumo.

In Italia questa opinione è emersa con grande evidenza dalle conversazioni tra i consumatori, dalle posizioni espresse dalle loro associazioni, dagli articoli di stampa e dai numerosi servizi e dibattiti televisivi sul tema che hanno coinvolto rappresentanti del mondo accademico, politici e responsabili della politica economica. Questa stessa convinzione è stata registrata in maniera più sistematica dai sondaggi presso i consumatori dei singoli Paesi. Come si può notare nella fig. 1, nel periodo successivo al changeover si è osservata una progressiva divaricazione tra l’inflazione percepita – misurata dall’indicatore qualitativo basato su questi sondaggi – e quella rilevata dalle statistiche ufficiali dell’ISTAT, sostanzialmente stabile. In Italia il fenomeno si è manifestato in maniera particolarmente intensa e persistente; nell’opinione pubblica si è addirittura radicata la convinzione che la ferma conversione dei prezzi in lire nella nuova moneta sia avvenuta al cambio di 1000 lire per euro (invece di 1936,27), cosa che avrebbe implicato, se vera, pressoché un raddoppio del loro livello.

Nell’ambito del vivace dibattito che è stato innescato da questi eventi, la credibilità delle statistiche ufficiali sui prezzi al consumo è stata insistentemente messa in discussione.

Le inchieste condotte dalla Commissione europea hanno inoltre segnalato che in una parte consistente dell’opinione pubblica le convinzioni riguardo all’impatto sui prezzi si sono estese a una più generale valutazione negativa degli effetti complessivi dell’adozione della moneta comune, alla quale è stato attribuito un pervasivo peggioramento delle condizioni economiche individuali. Vi ha probabilmente contribuito il fatto che il passaggio alla nuova moneta sia avvenuto in un’epoca caratterizzata dalla compresenza di altri importanti e rapidi cambiamenti: la globalizzazione, l’affermarsi su larga scala delle nuove tecnologie dell’informazione, l’invecchiamento della popolazione nelle economie avanzate, gli intensi flussi migratori. In queste circostanze, molti cittadini sembrano aver attribuito il peggioramento della propria condizione economica, o l’incertezza sulla sua evoluzione, agli effetti della moneta comune, piuttosto che all’azione di questo insieme di fattori (Visco, in The euro, 2008). Sono per contro passati in secondo piano i benefici dell’adozione dell’euro, quali l’eliminazione dell’incertezza e variabilità dei tassi di cambio all’interno dell’area e la convergenza e stabilità dei tassi d’interesse su livelli storicamente bassi; effetti, questi, particolarmente rilevanti per un Paese come l’Italia, gravato da un ampio debito pubblico, soggetto in passato a ricorrenti fasi di debolezza della valuta e costretto a pagare sui titoli di Stato tassi d’interesse molto più elevati di quelli dei Paesi più virtuosi (Bini Smaghi 2008). I vantaggi dell’appartenenza all’area dell’euro sono emersi ancor più chiaramente in concomitanza con le eccezionali turbolenze che hanno colpito i mercati finanziari dalla metà del 2007 (Draghi 2008). Alcuni Paesi dell’Unione Europea (UE) esterni all’area hanno registrato una maggiore instabilità della loro moneta e rialzi più ampi dei tassi di interesse, subendo di conseguenza effetti più penalizzanti sull’economia reale; anche in quei Paesi dove l’opinione pubblica è tradizionalmente restia all’ingresso nell’area dell’euro, i cittadini hanno iniziato a rivedere le proprie opinioni e a considerare con maggior favore l’adozione dell’euro.

Questo saggio raccoglie elementi che possono aiutare a capire se successivamente al changeover in Italia si sia effettivamente verificato un aumento forte e generalizzato dei prezzi al consumo, ovvero, in caso contrario, quali fattori possano aver concorso a radicare questa convinzione nei cittadini.

Il quadro degli indicatori

In questo paragrafo si illustrano le statistiche ufficiali sui prezzi al consumo diffuse dall’ISTAT e gli indicatori, meno noti, con cui viene valutata l’inflazione percepita dalle famiglie. Riguardo alle prime si riscontra spesso, nel dibattito pubblico, una conoscenza approssimativa delle loro caratteristiche e modalità di calcolo, degli obiettivi che si propongono e degli inevitabili limiti a cui tali statistiche sono soggette riguardo alla capacità di cogliere nella loro interezza i fenomeni inflazionistici nel Paese. Con riferimento agli indicatori delle percezioni, è importante osservare che fino al changeover essi avevano ricevuto una modesta attenzione da parte tanto della pubblica opinione quanto degli addetti ai lavori, pur essendo rilevati e pubblicati regolarmente da anni; non sorprende, pertanto, che la loro improvvisa notorietà si sia talora accompagnata ad alcune difficoltà di interpretazione.

Le statistiche sui prezzi al consumo

Una delle critiche più ricorrenti mosse alle statistiche dell’ISTAT è che esse non coglierebbero l’effettivo aumento del costo della vita, soprattutto per le famiglie meno abbienti. In generale questa convinzione risente della difficoltà di capire quali fenomeni vengono effettivamente misurati dalle statistiche ufficiali, quali ne sono i limiti intrinseci, quali le scelte di metodo a esse sottostanti e le ragioni per cui tali indicatori difficilmente potrebbero essere calcolati in modo molto diverso.

Una prima considerazione fondamentale è che i numeri indice dei prezzi si riferiscono: a) alla media delle quotazioni di un insieme eterogeneo di beni e servizi, il cosiddetto paniere; b) ai consumi del complesso delle famiglie italiane.

Circa il primo aspetto, ciascuna voce è il risultato di un’aggregazione di beni o servizi simili tra loro per la tipologia di consumi che soddisfano, aggregazione ottenuta ponderando i singoli prodotti con pesi proporzionali alla rispettiva spesa; l’indice di prezzo di questi prodotti specifici è a sua volta ottenuto come media di quotazioni rilevate sull’intero territorio nazionale. Il peso di ciascuna quotazione all’interno della voce aggregata è spesso modesto, per cui le variazioni dei prezzi dei singoli prodotti finiscono, in generale, per influenzare l’indice aggregato in misura altrettanto contenuta.

La fonte statistica principale per l’attribuzione dei pesi alle singole voci è rappresentata dalle informazioni sui consumi finali delle famiglie, disponibili nell’ambito dei conti nazionali, integrate con i risultati ottenuti dall’indagine annuale sui consumi delle famiglie, condotta dall’ISTAT su un campione rappresentativo di famiglie italiane.

Circa la popolazione di riferimento rispetto alla quale si valutano i consumi, l’aspetto da sottolineare è che nella definizione del paniere si considerano gli italiani come un’unica ‘grande famiglia’. Per tenere conto dell’importanza relativa della spesa realizzata nell’arco di un anno per i singoli beni e servizi acquistati da questa ‘famiglia’, si associa a ogni bene e servizio un peso dato dal rapporto tra la spesa per tale voce e quella complessiva per consumi. Poiché il riferimento viene fatto al complesso degli italiani e non a singoli individui o gruppi di individui, nell’insieme delle spese considerate rientrano i prodotti di largo consumo acquistati tutti i giorni dalla maggior parte delle famiglie (quali i generi alimentari), ma anche i beni di consumo durevole comprati più raramente o soltanto da una parte della popolazione (per es., un’automobile, un elettrodomestico, un computer) e i servizi (come quelli di ristorazione, di trasporto, finanziari) acquistati in misura e con frequenza diversa dalle varie categorie di individui.

In sintesi, dalla natura di media dell’indice discendono due importanti osservazioni. La prima è che variazioni anche molto grandi del prezzo di un singolo prodotto incidono marginalmente sull’inflazione media se tale prodotto ha un peso contenuto nel paniere. La seconda osservazione è che la struttura dei consumi del singolo individuo non corrisponde mai esattamente a quella media riferita all’intera popolazione e usata nel calcolo dell’indice; per alcune categorie di consumatori, che potrebbero addirittura non acquistare mai certi beni e servizi, essa ne differisce sensibilmente. Un buon esempio è quello degli affitti. In Italia solo una quota modesta di famiglie, circa il 20%, vive in una casa non di proprietà. Per queste categorie di famiglie, i canoni di locazione hanno un’incidenza assai elevata sul complesso degli esborsi mensili (soprattutto se si tratta di nuove locazioni), mentre sono ininfluenti per coloro che possiedono l’abitazione in cui risiedono. Il peso nel paniere della voce ‘affitti’, che costituisce una media di quello per le due tipologie di individui, è relativamente modesto, data la percentuale piuttosto bassa di famiglie che vivono in una casa in affitto, e inevitabilmente poco rappresentativo della rilevanza di tale spesa per gli individui che si trovano in questa condizione abitativa.

Un secondo aspetto importante relativo alle caratteristiche degli indici dei prezzi è che essi consentono di misurare esclusivamente la variazione percentuale dei prezzi nel corso del tempo, ma non forniscono alcuna indicazione utile a stabilire se i beni e servizi sono più cari in un luogo anziché in un altro.

Infine, l’indice fa riferimento ai soli consumi finali delle famiglie, ovvero sono escluse le spese con finalità d’investimento. Ciò è molto rilevante per il trattamento degli acquisti di immobili residenziali, che in Italia come nella maggior parte dei Paesi europei sono esclusi dall’indice per la sostanziale impossibilità di distinguere se tale acquisto rifletta scelte di consumo oppure d’investimento (si acquista una casa in alternativa all’impiego dei risparmi in altre attività finanziarie; per i dettagli, v. Muzzicato, Sabbatini, Zollino 2008). Anche in questo caso vi è una inevitabile mancanza di corrispondenza tra l’inflazione misurata dall’istituto di statistica e quella ‘personale’ di chi ha acquistato un immobile.

Dalla metà degli anni Novanta, i metodi adottati nel calcolo degli indici dei prezzi al consumo sono stati innovati e armonizzati tra i Paesi della UE in alcuni aspetti fondamentali, quali: la selezione delle voci da includere nel paniere di spesa e la loro classificazione, le formule di aggregazione dei dati elementari, la frequenza dei cambi di ‘base’ dell’indice (ovvero il periodo rispetto al quale si calcola la struttura di ponderazione in relazione ai consumi delle famiglie e si acquisiscono i prezzi di riferimento dei singoli prodotti da utilizzare nelle rilevazioni mensili successive al fine di misurarne le variazioni). Grazie a tale processo, tuttora in corso, sono stati introdotti metodi che corrispondono, anche in Italia, a quelli ritenuti più avanzati a livello internazionale. Ciò non significa, d’altra parte, che essi non siano migliorabili o che non vi siano delle aree d’incertezza, in particolare negli aspetti operativi della fase di rilevazione, nella misurazione della variazione dei prezzi per alcuni beni e servizi e nel modo in cui si scorporano da tali variazioni quelle ascrivibili a una migliore o peggiore qualità dei prodotti.

Va anche osservato che il trattamento di alcune voci specifiche, per quanto metodologicamente corretto, potrebbe comunque concorrere a uno scostamento tra la dinamica misurata dalle statistiche ufficiali e quella percepita dagli acquirenti. Due esempi – sui cui si è, e non a caso, più volte concentrato il dibattito pubblico – sono particolarmente rilevanti a questo riguardo. Il primo concerne la rilevazione dei prezzi di frutta e verdura. Innanzitutto, i dati dell’ISTAT sono riferiti a un insieme di prodotti e, per ciascuno di essi, di varietà (per es., all’interno del prodotto composito ortaggi e legumi freschi si considera il prodotto semplice insalata, per il quale vengono rilevate le quotazioni di più varietà). Nell’aggregazione delle singole quotazioni, inoltre, sono escluse di volta in volta le voci che registrano rincari eccezionalmente elevati, in quanto si ritiene che i consumatori tendano a sostituirle con altri prodotti. Questa procedura, seppure fondata su un’ipotesi plausibile riguardo ai comportamenti di spesa, implica che l’impatto sull’indice di prezzo di forti rincari di varietà specifiche viene eliminato o fortemente attenuato; ciò contrasta con l’esperienza del consumatore, che osserva comunque gli aumenti di prezzo anche se decide di non acquistare tali prodotti. Il secondo esempio riguarda le spese per l’assicurazione dei mezzi di trasporto, il cui modesto peso nell’indice (in Italia circa l’1,2% nel paniere 2008) riflette il fatto che le famiglie considerate nel loro complesso, a fronte dei premi pagati, ricevono dalle compagnie di assicurazione i rimborsi per i sinistri. Sebbene questa procedura sia metodologicamente corretta, essa implica che, dal punto di vista di un singolo consumatore che nell’anno non ha subito sinistri e non ha pertanto ricevuto alcun rimborso, l’incidenza effettiva di questa voce sul complesso delle spese personali risulta nettamente più elevata di quella media nell’indice, mentre per chi ha beneficiato di un rimborso l’esborso netto potrebbe addirittura essere negativo. Anche in questo caso la procedura che viene adottata, benché sia da ritenere corretta, determina inevitabilmente discrepanze tra le statistiche ufficiali e le esperienze personali.

Più in generale, un problema importante e molto presente nel dibattito riguarda la diversa rilevanza delle voci di spesa nel paniere di consumo individuale a seconda della condizione socioeconomica. Una delle critiche che più frequentemente vengono mosse alle statistiche ufficiali, infatti, è che esse non riescono a cogliere l’andamento dell’inflazione subita da particolari categorie di consumatori, in special modo i meno abbienti e i pensionati, che secondo queste argomentazioni risulterebbe sistematicamente più elevata di quella media. Una valutazione su questo punto può essere svolta considerando le informazioni desumibili dall’indagine sui bilanci di famiglia dell’ISTAT, che consentono di raggruppare le famiglie in classi relativamente omogenee al loro interno in base all’ammontare complessivo dei consumi da esse sostenuti nel periodo di riferimento; sebbene tale classificazione non coincida necessariamente con un raggruppamento per classe di reddito (dato, questo, che non viene rilevato nell’indagine), è però possibile presumere che la correlazione tra consumi e reddito sia molto elevata.

I dati confermano che gli acquisti per prodotti di consumo più frequente e di prima necessità, quali gli alimentari, i beni energetici e le tariffe pubbliche, incidono in misura nettamente più elevata sulle famiglie più povere rispetto alle più abbienti, mentre vale l’opposto per gli altri beni e per i servizi a prezzo libero.

Tenendo conto di queste differenze, l’ISTAT ha pubblicato, dall’inizio del 2008, tre sottoindici dell’indice nazionale dei prezzi per l’intera collettività (il cui acronimo convenzionale è NIC), in cui i beni e servizi che lo compongono sono raggruppati in base alla frequenza con cui essi vengono acquistati dalle famiglie: alta, media e bassa frequenza. L’indice dei prodotti acquistati più spesso comprende i generi alimentari e le bevande, i tabacchi, gli affitti, i beni non durevoli per la casa, i carburanti, i trasporti urbani, i giornali, i ristoranti e i servizi per la pulizia e la manutenzione della casa. La fig. 2 mostra come nel corso del 2008 il ritmo di crescita sui dodici mesi dei prezzi dei beni e servizi acquistati più spesso sia fortemente salito, sin quasi al 6% nella media del terzo trimestre del 2008, oltre 2 punti più di quanto registrato dall’inflazione complessiva.

Riguardo a questi pur utili e interessanti indicatori, va tuttavia osservato che, contrariamente alla lettura che in alcuni casi ne è stata data dai mezzi d’informazione, quello relativo agli acquisti più frequenti non equivale a una misura dell’inflazione dei beni e servizi ‘di prima necessità’, ossia quelli che le famiglie non possono fare a meno di acquistare. Tale indicatore, infatti, esclude i medicinali, i servizi sanitari e altri importanti consumi di base, classificati dall’ISTAT tra quelli a media frequenza, quali, per es., l’elettricità, l’acqua, lo smaltimento dei rifiuti e i servizi telefonici, che vengono pagati a intervalli di tempo superiori al mese anche se il loro consumo avviene quotidianamente; per contro, esso comprende alcuni beni e servizi non indispensabili, come la spesa al ristorante. Inoltre, le variazioni dell’indice dei prezzi dei beni e servizi acquistati più spesso non devono neanche essere confuse con l’inflazione subita dalle famiglie a più basso reddito, non solo, come si è visto, per la rappresentazione parziale dei beni e servizi di prima necessità, ma anche perché i pesi utilizzati per aggregare le singole voci sono relativi al paniere di spesa dell’intera popolazione e non sono, di conseguenza, rappresentativi della struttura dei consumi delle famiglie meno abbienti.

Gli indicatori di inflazione percepita

La convinzione che l’introduzione del circolante in euro abbia determinato un innalzamento dei prezzi emerge, da una parte, da evidenze aneddotiche per lo più riferite a specifici beni e servizi, dall’altra, da una percezione di generale perdita di potere d’acquisto e di difficoltà economica da parte delle famiglie, rilevata da numerosi sondaggi d’opinione. Esiste tuttavia un’indagine, cui si è fatto cenno nell’introduzione, che da ben prima dell’arrivo dell’euro rileva in maniera sistematica e metodologicamente fondata le opinioni dei consumatori sull’andamento dei prezzi. Si tratta del sondaggio congiunturale armonizzato condotto ogni mese in tutti i Paesi europei presso un insieme di famiglie rappresentativo delle rispettive popolazioni; in Italia l’indagine viene svolta dall’Istituto di studi e analisi economica (ISAE) e si basa sulle interviste condotte presso circa 2000 famiglie. Riguardo ai prezzi, agli intervistati viene richiesto di esprimere le proprie opinioni circa le tendenze nei precedenti e nei successivi dodici mesi (rispettivamente ‘percezioni’ e ‘aspettative’ d’inflazione). Una misura sintetica delle risposte fornite si ottiene calcolando il saldo ponderato tra le frequenze relative alle varie modalità di risposta (Malgarini 2008).

È importante sottolineare che agli intervistati non viene chiesta una valutazione numerica della dinamica dei prezzi ma solo di esprimere un giudizio; pertanto questo indicatore è di natura esclusivamente ‘qualitativa’ e non può quindi essere confrontato direttamente con le misurazioni quantitative dell’inflazione da parte degli istituti di statistica. In altri termini, un raffronto tra i livelli delle due curve riportate nella figura 1 sarebbe del tutto fuorviante, essendo diverse le rispettive unità di misura: variazioni percentuali (scala di sinistra) nel caso dell’inflazione misurata; saldo delle risposte (scala di destra) in quello delle percezioni. Il modo corretto di interpretare la figura è invece di confrontare i movimenti delle due curve; ciò consente in particolare di distinguere i periodi in cui l’inflazione misurata e le percezioni dei consumatori si muovono nella stessa direzione, e con un’intensità qualitativamente comparabile, da quelli in cui, invece, le variazioni delle percezioni non trovano riscontro nelle misure ufficiali dell’inflazione.

Gli effetti sui prezzi dell’introduzione del contante in euro

In Italia, tra il 1990 e il 2001, gli andamenti dell’inflazione misurata e di quella percepita appaiono strettamente correlati, con scostamenti relativamente contenuti e temporanei (fig. 1). Successivamente al changeover, invece, si osserva un brusco peggioramento delle percezioni cui non corrisponde un rialzo dell’inflazione misurata, sostanzialmente stabile nella media del 2002. Le percezioni d’inflazione si sono mantenute in prossimità dei valori massimi fino a tutto il 2003 e hanno iniziato a riportarsi verso i livelli osservati prima del changeover solo nella prima metà dell’anno successivo. Dall’estate del 2007 si è osservato un nuovo, forte aumento; in questo caso, tuttavia, tale andamento trova una corrispondenza nella netta ripresa dell’inflazione al consumo registrata dalle statistiche ufficiali e ascrivibile ai forti rincari dei beni alimentari e di quelli energetici (Banca d’Italia 2008).

Il primo quesito sollevato dal divario tra inflazione percepita e misurata dopo il changeover è se l’evidenza empirica confermi o meno la diffusa convinzione che l’introduzione del circolante in euro abbia avuto un forte impatto sulla dinamica dei prezzi. A tal fine è utile da una parte analizzare in dettaglio i dati diffusi dall’ISTAT, dall’altra illustrare alcune evidenze desumibili dalle informazioni, sui prezzi e su altre variabili economiche, di fonte alternativa.

Secondo i dati dell’ISTAT, nella media del 2002 l’inflazione al consumo (misurata dall’indice NIC) è scesa in Italia al 2,5%, dal 2,8 dell’anno precedente (tab. 1). Questo miglioramento è ascrivibile principalmente alla forte decelerazione dei prezzi dei beni e servizi regolamentati, a sua volta in gran parte spiegata dalla riduzione delle tariffe energetiche (-3,4% a fronte di un incremento del 5,8% nell’anno precedente). Tra le voci non regolamentate, invece, l’inflazione dei servizi è nettamente salita, al 3,9% (dal 3,2), e quella degli alimentari è rimasta sui livelli più elevati dalla metà degli anni Novanta (3,6% nella media del 2002). In definitiva i dati aggregati non segnalano alcuna impennata dei prezzi al consumo in Italia, pur registrando andamenti dei prezzi assai differenziati tra le varie componenti del paniere generale (evidenze analoghe si registrano negli altri Paesi dell’area).

I dati disaggregati diffusi dall’ISTAT consentono di far luce su una delle principali preoccupazioni presenti prima dell’introduzione del circolante in euro, relativa alle possibili ripercussioni sull’inflazione al consumo degli arrotondamenti dei prezzi nella nuova unità di conto (Banca centrale europea 2002). Tali arrotondamenti dei prezzi rientrano in tre tipologie principali: ‘psicologici’ (per es., 1,99 euro invece di 2,00), utilizzati quando si ritiene che le ultime cifre siano inconsciamente sottovalutate dall’acquirente di un certo bene; ‘frazionali’ (per es., 1,70 euro invece di 1,67), praticati per semplificare i resti in moneta metallica e rendere quindi i pagamenti più semplici e veloci; ‘esatti’ (per es., 50 euro), fissati tipicamente per importi elevati e che non comportano l’uso di monete metalliche o banconote di piccolo taglio nei resti. Sulla base di un insieme piuttosto ampio di quotazioni elementari di prezzo rilevate mensilmente dall’ISTAT, uno studio (Mostacci, Sabbatini 2005) stima che, sull’inflazione al consumo in Italia nella media del 2002 (pari al 2,5%), l’effetto ascrivibile all’arrotondamento dei nuovi prezzi in euro su livelli attraenti sia compreso tra 0,2 e 0,5 punti percentuali. Si tratta dunque di un impatto nel complesso modesto. L’analisi tuttavia evidenzia che gli effetti di arrotondamento nel settore dei servizi sono stati nettamente superiori rispetto a quelli registrati per i beni; per questi ultimi, inoltre, l’impatto più marcato ha riguardato i prodotti distribuiti attraverso i canali di vendita tradizionali, mentre risultano assai contenuti quelli rilevati per la grande distribuzione. Valutazioni analoghe scaturiscono nello stesso studio dall’esame delle variazioni di prezzo che risultano eccezionali nel 2002 rispetto agli anni precedenti, e che, non essendo attribuibili a cause ben individuabili, appaiono verosimilmente da attribuire alle particolari circostanze createsi con l’introduzione del circolante in euro.

Un’indagine accurata dei dati disaggregati diffusi dall’ISTAT, inoltre, contraddice la diffusa convinzione che le statistiche ufficiali non colgano le variazioni eccezionali dei prezzi. Nel 2002 infatti si rilevano aumenti dei prezzi molto elevati per alcuni prodotti di largo consumo, sia nel comparto alimentare (per es., del 13,6% per gli ortaggi e legumi freschi) sia in quello dei servizi (oltre il 10% per i giornali e l’assicurazione degli autoveicoli).

È interessante notare che tra il 1998 e il 2002 il rincaro cumulato di alcuni beni e servizi di largo consumo si colloca su livelli molto elevati (tra il 25 e il 58%). Come verrà in maniera più ampia argomentato successivamente, ciò suggerisce che le percezioni dei consumatori sarebbero meno in contrasto con le statistiche ufficiali se fossero riferite, anziché all’inflazione media annua, a specifiche voci di spesa e alla loro variazione cumulata su più anni.

Infine, l’analisi di un sottoinsieme rappresentativo di dati disaggregati relativi alle quotazioni di singoli beni e servizi di fonte ISTAT conferma che nel 2002 nel comparto dei servizi è aumentata la quota di rincari molto elevati (superiori al 5% trimestre su trimestre). In alcuni casi questi rincari possono essere spiegati dalla presenza di costi di revisione dei listini, che ha spinto gli operatori a concentrare le modifiche dei prezzi in corrispondenza del changeover, quando era divenuto comunque necessario esprimerli nella nuova unità monetaria, anticipando o posticipando variazioni normalmente più diluite nel tempo. In altri casi, tuttavia, la difficoltà dei consumatori a percepire correttamente il livello dei prezzi nella nuova valuta può aver fornito alle imprese soggette a minor pressione concorrenziale l’opportunità di praticare rincari più marcati, non spiegabili sulla base dell’andamento dei costi e della domanda.

Nel complesso, l’analisi dei dati ufficiali diffusi dall’ISTAT suggerisce che a fronte di una sostanziale stabilità dell’inflazione al consumo in Italia nel 2002 si sono registrati importanti movimenti di alcuni prezzi, anomali rispetto agli anni precedenti, in particolare in alcuni comparti dei servizi meno esposti alle pressioni concorrenziali. Tale analisi rivela anche come in ciascun anno l’ISTAT registri variazioni anche ampie dei prezzi di singoli beni e servizi, il cui impatto sull’indice medio, tuttavia, tende a essere compensato dagli incrementi più contenuti, e in alcuni casi dalle riduzioni, di altri prodotti (per es., i beni durevoli a più alto contenuto tecnologico).

Nell’esaminare l’impatto sui prezzi dell’introduzione del contante in euro è particolarmente utile l’impiego di fonti alternative all’ISTAT, dati i dubbi sollevati da molti sulla qualità delle rilevazioni ufficiali. A questo proposito, evidenze empiriche interessanti per l’Italia scaturiscono da due studi empirici.

Il primo studio (Gaiotti, Lippi 2004) si concentra sull’andamento dei prezzi dei ristoranti, un caso particolarmente interessante in quanto in Italia (come in molti altri Paesi dell’area) si ritiene che gli operatori di questo settore siano tra quelli che maggiormente hanno approfittato del changeover per praticare rincari eccezionali, addirittura nell’ordine del 100%. Gli autori prendono in esame i prezzi di un pasto consumato presso 2500 ristoranti nel periodo 1998-2004, utilizzando le informazioni pubblicate in una nota guida dei ristoranti d’Italia (Il gambero rosso). I risultati indicano che nel 2002 l’aumento medio dei prezzi è stato in effetti molto elevato, pari al 9,3%; tale variazione è superiore di circa 5 punti percentuali a quella misurata dall’ISTAT, che tuttavia fa riferimento a un campione di ristoranti e pizzerie di vario livello e non solo agli esercizi di qualità più elevata rilevati da Il gambero rosso. L’incremento, d’altra parte, è stato inferiore a quello massimo del 2001 (10,5%). In confronto agli anni precedenti, l’aspetto di eccezionalità che caratterizza il 2002 è rappresentato dalla quota assai più elevata del normale di prezzi variati – anche in relazione alla necessità di dover comunque ristampare i listini con i nuovi prezzi in euro – piuttosto che dall’entità dei singoli rincari. I dati, pur indicando forti aumenti, smentiscono in particolare l’ipotesi che l’introduzione dell’euro abbia indotto un raddoppio dei prezzi. L’analisi rivela, infine, come i rincari più forti si siano concentrati nelle aree dove la concorrenza tra gli esercizi di ristorazione è inferiore.

Anche in questo caso, la diffusa percezione di aumenti dei listini superiori a quelli effettivamente osservati potrebbe riflettere il rincaro molto elevato cumulatosi in questo settore su un arco di tempo pluriennale: tra il 1998 e il 2003 esso è stato pari in media al 40% per l’insieme dei locali inclusi nel campione e al 75% (non lontano quindi da un raddoppio) per il decile di esercizi che hanno aumentato di più i propri menu. Non si può escludere che – complice anche una memoria imprecisa riguardo agli ultimi prezzi in lire (v. oltre) – i consumatori abbiano imputato al changeover anche rincari che si sono verificati prima di questo evento e che vanno di conseguenza attribuiti a fattori del tutto diversi.

Il secondo studio (Angelini, Lippi 2007) analizza gli effetti inflativi dell’introduzione dell’euro in Italia sulla base di evidenze indirette ricavate dall’andamento del circolante e degli altri strumenti di pagamento. L’intuizione alla base della ricerca è che se dopo il changeover si fosse effettivamente verificato un forte innalzamento del livello dei prezzi, questo avrebbe dovuto riflettersi sull’ammontare dei prelievi di contante da parte dei titolari di carte Bancomat, ovviamente tenendo conto anche dell’andamento degli altri strumenti di pagamento (bonifici, assegni, transazioni con carte di credito e di debito) e della possibilità che la sostanziale stabilità dei consumi nominali nasconda un peggioramento di quelli reali non colto dalle statistiche ufficiali (come fanno gli autori nella loro analisi empirica). La principale conclusione dello studio è che non vi sono segnali di discontinuità nel numero e nell’importo medio dei prelievi dai Bancomat, il cui andamento risulta sostanzialmente coerente con l’inflazione misurata dalle statistiche ufficiali.

Nell’insieme, i lavori considerati in questa sezione suggeriscono che nelle misurazioni dell’inflazione eseguite dall’ISTAT nel periodo successivo al change­over, non sono presenti distorsioni sistematiche o sottostime macroscopiche. Revisioni rilevanti, tuttavia, si sono registrate per i listini di alcuni settori o canali distributivi, soprattutto nel comparto dei servizi e nei segmenti del mercato caratterizzati da un minor grado di concorrenza; come si vedrà in seguito, un’evidenza analoga si riscontra anche in altri Paesi.

Alla luce di queste prime indicazioni, restano dunque da individuare le ragioni del divario eccezionale tra l’inflazione percepita e quella misurata.

I fattori all’origine del divario tra inflazione percepita e misurata

Prima dell’introduzione di banconote e monete in euro le percezioni d’inflazione, seppure rilevate regolarmente, non erano state oggetto d’indagine approfondita nei Paesi dell’area. Dopo l’impennata delle percezioni nel 2002, tuttavia, esse sono diventate oggetto di innumerevoli riflessioni, da cui sono scaturite varie ipotesi interpretative, sintetizzate di seguito.

a) Frequenza degli acquisti. Nel 2002 i consumatori dei Paesi dell’area si sono trovati a dover rapidamente familiarizzare con i prezzi espressi in euro. In queste circostanze è verosimile che le loro percezioni sull’inflazione siano state maggiormente influenzate dai rincari dei beni e servizi acquistati più spesso che nel periodo successivo al changeover sono stati più elevati di quelli medi. Questa interpretazione appare ancor più rilevante per spiegare il nuovo, forte peggioramento dei giudizi individuali osservato, in Italia e nel resto dell’area, dall’estate del 2007 (fig. 2). In questo caso il rialzo delle percezioni è in linea con i forti rincari che hanno interessato alcuni beni acquistati con frequenza elevata, in primo luogo i prodotti alimentari e la benzina, determinati dai notevoli e persistenti aumenti dei corsi delle corrispondenti materie di base (Banca d’Italia 2008).

b) Distribuzione delle variazioni dei prezzi. I dati disponibili indicano che nel periodo del changeover si è concentrato un numero eccezionalmente alto di revisioni dei prezzi, sia in aumento sia in diminuzione, nonché una percentuale superiore al normale di rincari molto elevati in alcuni settori. Queste variazioni dei prezzi, che nel complesso hanno avuto un impatto modesto sull’inflazione media, sono tuttavia coerenti con un aumento di quella percepita se, come appare verosimile in base a evidenze in campo cognitivo, l’attenzione dei consumatori viene colpita dagli aumenti di prezzo più che dalle loro diminuzioni, anche quando i primi riguardano beni che hanno un peso modesto nel paniere di consumo.

c) Paniere medio e consumi individuali. L’inflazione subita dai singoli consumatori riflette l’andamento dei prezzi dei beni e servizi che compongono il paniere personale di consumo, che ovviamente non coincide in generale con quello medio. Percezioni più elevate per alcune categorie di consumatori potrebbero pertanto discendere da una maggiore inflazione effettivamente subita con riferimento ai rispettivi panieri di consumo. Sulla base dei dati disponibili sui consumi delle famiglie, distinte per classe di spesa equivalente (la spesa che ciascun componente dovrebbe affrontare se vivesse da solo per raggiungere lo stesso tenore di vita che ha in famiglia) e verosimilmente caratterizzate da una composizione della spesa relativamente omogenea al proprio interno, è possibile effettuare alcune stime della rispettiva inflazione, che consentono di apprezzare l’effettiva rilevanza delle differenze sperimentate da classi diverse della popolazione. Le stime dell’inflazione ottenute classificando le famiglie per classe di spesa non evidenziano differenze di rilievo in occasione del changeover. Nel 2002, infatti, le famiglie con un livello della spesa più basso sono state penalizzate maggiormente dalla dinamica dei prezzi dei prodotti alimentari (3,6%), nettamente superiore a quella dell’indice generale, ma hanno beneficiato dell’andamento più favorevole di altre due voci con un peso elevato nel loro paniere: i beni energetici (i cui prezzi sono diminuiti dell’1,9%) e i beni e servizi a prezzo regolamentato (il cui rincaro è stato dello0,3%). Nel loro paniere di spesa, inoltre, hanno scarsa incidenza (circa il 15%) i servizi non regolamentati, i cui prezzi sono cresciuti fortemente (3,9%); per contro questa voce ha inciso in misura notevole sul tasso d’inflazione per le famiglie più abbienti, per le quali ha un peso di circa il 35%. Divari significativi si osservano invece tra la metà del 2007 e l’anno successivo, quando l’inflazione subita dagli individui appartenenti alla classe di spesa più bassa (primo decile) è salita sino a una media del 5,2% nel terzo trimestre del 2008, circa 2 punti percentuali al di sopra di quella per la classe più elevata (ultimo decile) nello stesso periodo. Tale divario è ascrivibile alla diversa incidenza del forte rincaro dei consumi di beni alimentari e prodotti energetici, il cui peso, come abbiamo visto in precedenza è nettamente più elevato nel paniere di spesa dei meno abbienti.

d) La condizione economica individuale. La percezione di un aumento dell’inflazione maggiore di quello misurato e le differenze nei giudizi riscontrate tra le varie tipologie familiari possono dipendere, oltre che da una diversa inflazione subita, anche da altri fattori che concorrono a determinare la condizione economica individuale, in particolare l’andamento dei redditi per le varie fasce di popolazione. I consumatori, in altri termini, potrebbero attribuire all’inflazione anche le perdite di potere d’acquisto dovute a un più generale impoverimento provocato da altre cause. Per quanto concerne l’andamento dei redditi, le indagini sui bilanci delle famiglie italiane condotte dalla Banca d’Italia nel 2004 e nel 2006 indicano che tra il 2000 e il 2004 l’aumento del reddito disponibile è stato in media modesto per il complesso delle famiglie, pari al 13% in termini nominali e all’1,9 in termini reali (tab. 2), con forti differenze in relazione alla condizione lavorativa del capofamiglia: a fronte di un incremento, in termini nominali, del 26,8% del reddito disponibile delle famiglie aventi per capofamiglia un lavoratore autonomo (15,7% in termini reali), per quelle con capofamiglia lavoratore dipendente l’aumento è stato solo del 7,8%, con un calo del 3,3% in termini reali; per i pensionati gli andamenti sono stati solo di poco più favorevoli. Nell’insieme queste osservazioni suggeriscono che una maggiore percezione d’inflazione da parte di alcune categorie di famiglie può riflettere un loro effettivo impoverimento relativo, sebbene tale evoluzione non sembri poter essere spiegata dai differenziali d’inflazione per classe di reddito o di spesa (su questi temi, v. anche: Baldini 2004; Golinelli, Parigi 2005; Saraceno 2004).

e) Il ricordo impreciso dei prezzi. È possibile che una sopravvalutazione degli effetti dell’introduzione dell’euro sui prezzi derivi anche da un ricordo impreciso dell’ultimo prezzo in lire. Ciò potrebbe verificarsi nel caso in cui l’acquisto a cui si riferisce tale ricordo sia stato effettuato molto prima del dicembre 2001, oppure quando il consumatore, senza rendersene conto, prende come riferimento non l’ultimo prezzo in lire, ma una media dei prezzi osservati in un certo arco temporale; in entrambi i casi verrebbe attribuita al periodo successivo al changeover una variazione che si è in realtà cumulata in un periodo più ampio. Tale effetto può essere particolarmente rilevante per i beni e servizi che hanno subito forti rincari per più anni consecutivi, come nel caso del pasto al ristorante, a cui si è accennato in precedenza. Uno studio (Cestari, Del Giovane, Rossi-Arnaud 2007) mostra, in effetti, che il ricordo dei prezzi può essere fortemente distorto.

La conclusione che si può trarre da questa rassegna è che nessuna delle spiegazioni avanzate in precedenza è sufficiente, singolarmente, a giustificare il divario tra l’inflazione percepita e quella misurata osservato dopo l’introduzione dell’euro; esso, tuttavia, può essere in gran parte spiegato considerando l’effetto congiunto di questi molteplici fattori, che nel periodo in esame hanno agito nella stessa direzione.

Sebbene l’analisi delle percezioni d’inflazione abbia ricevuto grande attenzione dopo l’introduzione del contante in euro, evidenze per gli anni successivi mostrano che anche in periodi ‘normali’, ossia non caratterizzati da eventi o fenomeni inflazionistici eccezionali, si possono osservare differenze notevoli tra l’inflazione misurata e quella percepita. Tutto questo emerge chiaramente da due distinti studi (Del Giovane, Fabiani, Sabbatini, in The euro, 2008; Malgarini 2008) che raggiungono risultati coerenti tra loro. Il primo è che alla fine del 2006, un periodo non contraddistinto da eventi oppure fenomeni inflazionistici di carattere eccezionale, gran parte dei consumatori italiani forniva una valutazione della variazione dei prezzi negli ultimi dodici mesi compresa tra il 15 e il 20%, lontanissima, quindi, dal 2% circa misurato dall’ISTAT. In base ai risultati riportati dall’altro studio, tali valutazioni avevano raggiunto addirittura un picco di circa il 40% nel corso del 2003.

Il secondo risultato è che le percezioni d’inflazione individuali risultano significativamente correlate con le caratteristiche socio-demografiche e con le condizioni economiche. In particolare, esse sono nettamente più elevate per le donne che per gli uomini, anche tenendo conto della composizione dei rispettivi panieri di consumo – un risultato già riscontrato negli studi sugli Stati Uniti – e per gli intervistati con un più basso livello di istruzione. L’inflazione percepita è più alta per chi appartiene a famiglie in condizioni di disagio economico.

Le risposte fornite a una sezione specifica del sondaggio condotto nel primo studio mostrano, inoltre, che anche una scarsa familiarità con il concetto d’inflazione e la difficoltà a comprendere le statistiche utilizzate per misurarlo sono in media associate a percezioni più elevate. Ciò viene rilevato, per es., nel caso degli intervistati che confondono le variazioni con i livelli dei prezzi, che non hanno chiaro il concetto di variazione percentuale o che hanno un’idea della composizione del paniere dell’indice dei prezzi al consumo molto diversa da quella adottata dall’ISTAT. Il sondaggio conferma inoltre i risultati dello studio citato in precedenza (Cestari, Del Giovane, Rossi-Arnaud 2007) sulla memoria dei prezzi e sul suo legame con le percezioni d’inflazione. L’analisi condotta nel secondo dei due studi prima citati (Malgarini 2008) mostra inoltre la presenza di un legame tra i giudizi espressi sull’andamento dei prezzi e un più generale atteggiamento di ottimismo o pessimismo sulla condizione economica personale e del Paese.

L’evidenza per gli altri Paesi

I lavori per gli altri Paesi dell’area forniscono indicazioni simili a quelle illustrate nei paragrafi precedenti per l’Italia. I risultati delle varie indagini condotte sull’arrotondamento dei prezzi e sulla presenza di variazioni ‘eccezionali’ indicano che gli effetti del changeover sull’inflazione del 2002 sono stati nel complesso modesti anche negli altri Paesi dell’area per i quali tali stime sono disponibili. Per alcuni prodotti i rincari sono stati di carattere temporaneo e dovuti prevalentemente a fattori specifici facilmente identificabili e non riconducibili all’introduzione dell’euro. Nel caso dei forti aumenti registrati dai prezzi di alcuni servizi, invece, in particolare laddove non si rilevano incrementi nei costi di produzione tali da giustificare i rincari osservati, appare fondata l’ipotesi di una relazione con l’introduzione del circolante in euro.

Solo per pochi Paesi dell’area sono disponibili analisi altrettanto dettagliate come quelle sull’Italia circa gli effetti sulla distribuzione delle variazioni dei singoli prezzi dell’introduzione dell’euro. Tali analisi mostrano in generale come in concomitanza con il changeover si siano osservati comportamenti dei prezzi in parte difformi dal passato, con una quota eccezionalmente elevata di variazioni e, limitatamente al comparto dei servizi, di rincari molto forti.

Altri studi si sono concentrati sulle ragioni del brusco aumento delle percezioni d’inflazione. La maggior parte di essi conferma l’importanza che hanno avuto le variazioni dei prezzi dei prodotti acquistati più frequentemente (v., per es., Banca centrale europea 2003 e 2007). Vengono inoltre messi in evidenza i possibili legami tra percezioni e cambiamenti nelle caratteristiche della distribuzione delle variazioni dei prezzi in concomitanza con il changeover (soprattutto il maggior numero di rincari eccezionalmente elevati nel settore dei servizi), evidenziati in precedenza.

Infine, alcuni studi sperimentali in campo psicologico hanno rivelato aspetti interessanti circa la relazione tra le aspettative individuali sugli effetti dell’introduzione dell’euro e il modo in cui tali effetti vengono percepiti a posteriori. Tra questi, un’indagine condotta su un campione di cittadini tedeschi (Traut-Mattausch, Schulz-Hardt, Greitemeyer, Frey 2004) ha mostrato la tendenza da parte dei singoli individui a sovrastimare sistematicamente l’effetto inflativo dell’introduzione dell’euro. Lo studio rileva, inoltre, che tale sovrastima è tanto maggiore quanto peggiori erano le attese individuali circa gli effetti inflativi del changeover. Tale relazione viene attribuita alla propensione dei consumatori a verificare meno accuratamente i dati che confermano le proprie aspettative rispetto a quelli che le smentiscono, secondo un meccanismo definito di ‘correzione selettiva del risultato’. Nell’ambito dello stesso filone di analisi, sono interessanti anche i risultati di uno studio sperimentale su un campione di cittadini dei Paesi Bassi (van Raaij, van Rijen 2003) in cui si verifica l’ipotesi che i consumatori siano soggetti a un fenomeno di ‘illusione monetaria’ quando il prezzo in euro è inferiore, in termini nominali, a quello equivalente espresso nella vecchia valuta nazionale (come accaduto anche nel caso dell’Italia). Tale effetto indurrebbe i consumatori a sottovalutare i prezzi in euro e a spendere più di quanto farebbero con una corretta percezione del prezzo nella nuova unità di conto. Quando essi ‘alla fine del mese’ si rendono conto di aver sostenuto una spesa sproporzionata rispetto alle proprie disponibilità economiche, potrebbero essere indotti ad attribuire questo risultato a un aumento generalizzato dei prezzi, con un conseguente deterioramento delle proprie percezioni d’inflazione.

Conclusioni

L’introduzione delle banconote e delle monete in euro, all’inizio del 2002, è stata associata dalle famiglie a un forte aumento dell’inflazione, che non corrisponde a quanto registrato dalle statistiche ufficiali.

La prima parte di questo saggio mostra che in Italia l’introduzione dell’euro ha avuto un impatto in media modesto sull’inflazione registrata nel 2002, anche se forti rincari si sono registrati per specifici beni e servizi, soprattutto in alcuni settori caratterizzati da minore concorrenza.

I risultati raccolti nella seconda parte indicano che il divario tra l’inflazione percepita e quella misurata può essere spiegato dall’azione congiunta di più fattori esplicativi, sia nel caso del periodo immediatamente successivo al changeover, sia in anni successivi e non caratterizzati da eventi eccezionali. Alcuni di questi fattori si applicano specificamente alla fase del passaggio all’euro (per es., la concentrazione dei cambiamenti dei listini a ridosso dell’introduzione della moneta comune); altri hanno una valenza più generale. Nell’insieme, le opinioni dei consumatori su ciò che essi percepiscono come ‘inflazione’ appaiono orientate anche dalle rispettive caratteristiche personali e da fenomeni che, seppure non direttamente collegati con la dinamica dei prezzi, incidono sulla condizione economica individuale. Tali opinioni, inoltre, possono risentire di una scarsa comprensione delle statistiche utilizzate per misurare l’inflazione e di un ricordo impreciso dei prezzi.

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