INFIAMMAZIONE

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1992)

INFIAMMAZIONE

Paolo Schlechter

(XIX, p. 196; App. II, II, p. 32)

Ricordiamo che per i. o flogosi s'intende un insieme di avvenimenti che si realizzano quando i tessuti di animali superiori vengono a contatto con agenti estranei tendenzialmente lesivi. In questa fenomenologia fanno spicco due particolarità: da un lato il carattere locale del processo, che appare limitato alle zone di contatto fra tessuto e agente flogogeno e a quelle adiacenti, dall'altro l'afflusso nella sede colpita di notevoli quantità di sangue. Sulla superficie cutanea questo fatto determina la comparsa di rossore (rubor) e di un aumento circoscritto della temperatura (calor), dovuto al fatto che la temperatura del sangue (37 °C) è superiore a quella cutanea.

Nei vertebrati, soprattutto in quelli superiori, il processo flogistico è costituito da una complessa serie di eventi risultanti da un lungo iter evolutivo. In ogni caso i fenomeni filogeneticamente più primitivi non scompaiono: a essi si sovrappongono e con essi s'integrano fenomeni a comparsa più tardiva sul piano dell'evoluzione, per es. quelli collegati ai fattori del complemento e dell'immunità.

Sono paradigmatiche in proposito certe differenze fra invertebrati e vertebrati: nei primi la penetrazione nei tessuti di piccoli corpi estranei della più varia natura provoca l'accorrere di particolari cellule che inizialmente formano attorno al corpo estraneo una barriera, capace d'isolarlo dal resto dell'organismo, e successivamente tendono a inglobarlo senza però riuscire a distruggerlo. L'animale sembra comunque incapace di discriminare le caratteristiche chimiche dei corpi estranei, anche se di natura vivente, in quanto si comporta in maniera sostanzialmente uniforme nei confronti di ciascuno di essi.

Il fenomeno ora descritto negli invertebrati rappresenta l'equivalente più semplice dei cosiddetti ''granulomi da corpo estraneo'' che si osservano negli animali superiori a seguito della penetrazione nei tessuti di corpi estranei inerti (granuli di polveri minerali, fibre vegetali, ecc.). Ma negli animali superiori esistono altre possibilità di risposta in rapporto alla natura del corpo estraneo: se questo è dotato di potere irritante e/o lesivo la risposta si configura come un'i. acuta, a rapida evoluzione, con imponente partecipazione del microcircolo, come già accennato; se il corpo estraneo è anche immunogeno, in grado cioè di provocare nell'ospite la comparsa di una reazione immunitaria, la fenomenologia da quest'ultima innescata può associarsi alle altre cause nel determinismo delle manifestazioni circolatorie. In casi particolari queste manifestazioni vengono a mancare e la risposta immunitaria si sovrappone e s'integra a quella più primitiva di un granuloma da corpo estraneo dando origine a i. croniche granulomatose.

Qui di seguito verranno presi in considerazione anzitutto i fenomeni di origine generale che stanno alla base delle risposte di tipo acuto, a prescindere dalla loro origine, e in un secondo momento gli aspetti più salienti di distinzione fra i vari tipi di risposte acute e fra questi e le risposte di tipo granulomatoso; un breve cenno sulle manifestazioni generali dei processi flogistici completerà l'esposizione.

Infiammazioni acute o vascoloematiche. − Sul piano evoluzionistico vanno ritenute come l'aspetto più recente di reazioni locali ad agenti lesivi; si caratterizzano per la rapida evoluzione e tendono a estinguersi altrettanto rapidamente. Esse rappresentano la conseguenza di nuove situazioni morfofunzionali ravvisabili essenzialmente: a) in una partecipazione prioritaria del microcircolo, con fenomeni di vasodilatazione e vasopermeabilizzazione; b) nella comparsa dei granulociti, cellule molto mobili capaci di migrare rapidamente dal sangue nell'interstizio e di esercitare un'attiva fagocitosi.

I granulociti costituiscono un perfezionamento dei meccanismi cellulari di difesa: infatti, accanto a fagociti fissi (i macrofagi tessutali, presenti anche nei granulomi da corpo estraneo) compaiono fagociti mobili in grado di accorrere velocemente nella zona lesa, purché vi siano stati richiamati.

Gli agenti lesivi che possono provocare un'i. acuta sono estremamente eterogenei: fisici (calore, radiazioni, ecc.), chimici (sostanze minerali e inorganiche come acidi o basi, sostanze organiche della più varia natura come per es. la trementina o la carragenina ma comunque dotate di potere irritante), biologici (batteri, virus, metazoi, tutti attivi sia grazie a particolari sostanze che li costituiscono sia tramite prodotti del loro metabolismo), anticorpi, complessi immuni. Di fronte a questa eterogeneità delle cause sta una fenomenologia reattiva relativamente uniforme, responsabile di quella che è stata definita la ''monotonia'' del processo infiammatorio.

Alterazioni vascolari e loro cause. − Il processo flogistico inizia con una fugace (durata: circa 15÷20 sec.) vasocostrizione a livello delle aree sfinteriche precapillari (il fenomeno manca nelle lesioni da calore), vasocostrizione addebitabile alla liberazione di catecolamine da parte delle terminazioni nervose locali irritate dallo stimolo. Queste attivano l'adenilciclasi presente all'interno delle cellule muscolari lisce dei vasi, e il conseguente aumento di AMPc (adenosinmonofosfato ciclico) stimola le strutture contrattili e determina vasocostrizione. Le catecolamine vengono comunque subito distrutte dalle monoaminoossidasi presenti in loco e il loro effetto rapidamente scompare.

Alla vasocostrizione segue immediatamente una vasodilatazione che interessa in misura preminente le arteriole e le venule postcapillari: ne deriva un cospicuo aumento di sangue nella zona infiammata, la cosiddetta iperemia attiva. Questa è destinata a durare a lungo e può presentare un andamento mono- o più spesso difasico (fig. 1), in rapporto da un lato alla durata e all'intensità dello stimolo e dall'altro alla diversa natura dei mediatori iniziali e di quelli che intervengono in un secondo tempo (v. oltre). La dilatazione è costantemente accompagnata da un'abnorme permeabilizzazione delle pareti dei piccoli vasi a cui consegue una fuoriuscita di acqua, elettroliti e altre sostanze a piccola molecola (glucosio, aminoacidi, ecc.) e di proteine plasmatiche, di grandezza molecolare diversa a seconda del grado di permeabilizzazione; il liquido fuoriuscito prende il nome di essudato.

Se l'agente flogogeno è di natura fisica, come per es. il calore o un trauma meccanico, l'aumento di permeabilità coinvolge tutti i vasi distrettuali (arteriole, capillari, venule) per una lesione diretta di essi; negli altri casi, invece, la permeabilizzazione è dovuta a sostanze liberate nel sito di lesione (i cosiddetti mediatori) e risultano colpite con maggiore specificità le venule. Si tratta in questo caso di un'amplificazione, che sconfina nella patologia, di un fenomeno fisiologico, poiché anche in condizioni normali vengono prodotte e/o liberate in minima quantità le medesime sostanze vasodilatatrici e vasopermeabilizzanti attive prevalentemente sulle venule.

La permeabilizzazione patologica è dovuta a un'abnorme ampiezza degli spazi fra le cellule endoteliali, provocata dalla contrazione di strutture actomiosiniche presenti negli endoteli e simili a quelle delle cellule muscolari lisce. Questo spiega perché tutte le sostanze vasopermeabilizzanti risultano contemporaneamente anche contratturanti dei muscoli lisci sono tutte per es. broncocostrittrici.

Dilatazione e permeabilizzazione vasali sono provocate dagli stimoli flogogeni mediante: a) liberazione di sostanze vasoattive già preformate e immagazzinate allo stato inattivo nei siti di produzione; b) neoproduzione di altre sostanze vasoattive; si parla in tutti questi casi di mediatori chimici della flogosi. Si noti anche che nel focolaio flogistico arrivano anche numerose cellule ematiche quali granulociti e monociti, capaci di liberare sostanze vasoattive simili a quelle presenti in loco oppure di altra natura, nonché diversi enzimi dotati di attività litiche, contenuti nei loro granuli lisosomiali. Tra questi enzimi ha importanza particolare un'elastasi, liberata prevalentemente dai granulociti neutrofili (PMN o polimorfonucleati), che scinde le molecole di collageno tipo iv e quelle dei proteoglicani contenenti eparansolfato, cioè dei principali costituenti delle membrane basali dei piccoli vasi.

Mediatori e sistemi correlati. − Comprendono le sostanze sicuramente impegnate in campo umano nei fenomeni di dilatazione e permeabilizzazione e i sistemi che, una volta attivati, le producono; non saranno considerate le sostanze il cui intervento rimane presunto o comunque non sicuramente documentato, o che risultano attive negli animali da esperimento e non nell'uomo.

a) Il mediatore da più tempo e meglio conosciuto è l'istamina, prodotta dai mastociti e dai granulociti basofili, che per molti aspetti possono essere considerati come un equivalente circolante dei mastociti. L'istamina si forma per decarbossilazione dell'aminoacido istidina, viene resa temporaneamente inattiva mediante copulazione con grossi complessi proteici e quindi immagazzinata in granuli assieme ad altre sostanze, tra cui predomina l'eparina (sono i numerosissimi gruppi acidi di quest'ultima a conferire la basofilia ai granuli, sia dei mastociti che dei granulociti basofili). Diversi stimoli della più varia natura, capaci di turbare gli equilibri di membrana di queste cellule, provocano l'espulsione dei granuli e la messa in libertà delle sostanze in essi contenute.

Una volta libera, l'istamina, come altre sostanze vasodilatatrici, si lega a recettori presenti sulle cellule endoteliali e determina il rilascio da parte di queste ultime di particolari fattori miorilassanti detti Endothelium Derived Relaxing Factors (EDRF), i quali attivano la guanilciclasi delle cellule muscolari lisce dei vasi; il conseguente aumento di GMPc (guanosinmonofosfato ciclico) all'interno di queste cellule porta a un rilassamento delle strutture contrattili e quindi alla vasodilatazione (fig. 2). La permeabilizzazione dipende invece dal citato aumento degli spazi interendoteliali. L'istamina si deve considerare come la responsabile della prima fase della risposta vasale nella flogosi, come riportato nella fig. 1.

Secondo alcune osservazioni fatte sull'uomo, di natura puramente clinica, l'azione permeabilizzante dell'istamina sarebbe modulata dal sistema nervoso centrale (SNC): esisterebbe cioè un'azione favorente da parte della corteccia sensoriale, a incerta localizzazione, e un'attività inibitrice da parte di certe zone del talamo posteriore; il controllo verrebbe esercitato tramite fibre decorrenti in senso antidromico nel fascio spinotalamico.

Si tratta di osservazioni isolate e non molto recenti, per le quali mancano conferme, ma che potrebbero trovare appoggio in altre più recenti osservazioni. Secondo una di queste, il Nerve Growth Factor (NGF), la cui produzione sembra aumentare in condizioni di stress, provocherebbe una degranulazione dei mastociti e conseguentemente dei fenomeni di dilatazione e permeabilizzazione vasali su base istaminica.

Un altro dato, forse più importante per chiarire i rilievi clinici sopra riportati, riguarda un effetto analogo, cioè di degranulazione dei mastociti, da parte della sostanza P, un neurotrasmettitore specifico degli stimoli dolorosi prodotto a livello di terminazioni nervose periferiche e di neuroni esterocettivi dei gangli spinali, che per via verosimilmente antidromica raggiungerebbe i mastociti locali (cioè della zona bersaglio degli stimoli dolorosi).

b) Accanto all'istamina esiste un sistema di origine extracellulare, il sistema delle chinine, che interviene nella seconda fase. Il punto di partenza è rappresentato dall'attivazione del fattore Hageman (FH) o fattore XII della coagulazione, quello d'arrivo dalla formazione di bradichinina, passando attraverso la neoformazione di un enzima proteolitico, la callicreina, che stacca la bradichinina dal suo precursore, il chininogeno (fig. 3).

La bradichinina è dotata di una potente azione vasodilatatrice e vasopermeabilizzante, inoltre esplica una notevole azione algogena per irritazione delle terminazioni nervose locali (dolor). La partecipazione di questo sistema alla genesi della flogosi, un tempo messa in dubbio per la possibile presenza di inibitori plasmatici della callicreina e del FH attivato, è oggi confermata in quanto gli enzimi proteolitici liberati dai PMN distruggono sistematicamente gli inibitori lasciando invece intatti la callicreina e il FH attivato. L'avvio iniziale da parte di un fattore quale il FH mette in evidenza gli stretti rapporti fra chininogenesi, coagulazione e fibrinolisi: si tratta in effetti di sistemi a cascata, le cui varie tappe consistono di fenomeni proteolitici determinati da enzimi entro certi limiti intercambiabili; per es. la callicreina può attivare, oltre al FH e al chininogeno, anche il plasminogeno, trasformandolo in plasmina. In ogni caso non è ancora del tutto chiarita la modalità di attivazione iniziale del FH; è certo che essa si verifica solamente in presenza di una superficie fortemente elettronegativa, che può essere costituita da materiale inerte come il caolino, da materiali biologici come cristalli di urati o di pirofosfato di calcio, cartilagine articolare, connettivo collageno, membrane basali. Si parla di attivazione da contatto e il contatto è reso possibile da un segmento della molecola del FH molto ricco di istidina, glicina e lisina, e pertanto dotato di una forte carica elettropositiva. È verosimile che il contatto provochi modificazioni nella conformazione molecolare del FH tali da determinarne un'iniziale e modesta autoattivazione; a questa seguirebbe l'attivazione della procallicreina (PK) e quindi la comparsa di callicreina, l'attivatore più potente del FH.

È importante sottolineare l'esistenza di due chininogeni: ad alto peso molecolare (HMWK, High Molecular Weight Kininogen) e a basso peso molecolare (LMWK, Low Molecular Weight Kininogen). Importanza determinante spetta al primo in quanto nel plasma esso forma dei complessi separati con la PK e con il fattore XI. Questi complessi aderiscono alle superfici elettronegative in vicinanza del FH grazie a un segmento della molecola del HMWK molto ricco d'istidina e perciò fortemente elettropositivo (fig. 4). Ne consegue che il HMWK funge, oltre che da precursore della bradichinina, da ''ponte di ancoraggio'' alla superficie attivante per PK e fattore XI; e poiché l'ancoraggio si verifica per motivi elettrostatici in vicinanza di quello del FH, l'attivazione da parte di quest'ultimo di PK e fattore XI risulta grandemente facilitata. I rapporti spaziali ora descritti hanno un rilevante significato per ciò che riguarda la già citata embricazione fra chininogenesi, coagulazione e fibrinolisi: sono stati infatti dimostrati difetti coagulativi in plasmi carenti del solo HMWK (per mancato ancoraggio del fattore XI) o di PK (per insufficiente attivazione del FH), difetti prontamente corretti dall'aggiunta del fattore XI. Rimane da chiedersi se nel processo infiammatorio acuto la chininogenesi venga privilegiata, e in quale modo, nei confronti della coagulazione, oppure se le due manifestazioni procedano appaiate. È questa l'ipotesi più verosimile, non tanto per particolari motivi teleologici quanto per una casualità derivante da motivi filogenetici: esiste infatti una notevole analogia (fino al 58% d'identità) tra le molecole del fattore XI e della PK, tanto da far pensare che le due proteine abbiano un'origine ancestrale comune. D'altra parte il processo coagulativo riveste una certa utilità in quanto può bloccare le vie di deflusso (soprattutto linfatiche) dal focolaio, impedendone la diffusione. Se in eccesso, esso viene neutralizzato in un primo tempo e per lo meno in parte dall'eparina liberata assieme all'istamina dai mastociti, e in un secondo tempo dalla fibrinolisi avviata dall'attivazione del plasminogeno a opera dell'αFHa (α = attivato) e della callicreina (fig. 3).

c) Si deve far cenno in questa sede della fenomenologia dipendente dall'attivazione del complemento, per ciò che riguarda non tanto la via classica (il cui innesco richiede la presenza di una reazione antigene-anticorpo) quanto la via alternativa, filogeneticamente più antica. Esiste anche in questo caso un'attivazione da contatto, pur trattandosi di un contatto meno specifico di quello richiesto dal FH, tanto è vero che diverse endotossine possono mettere in movimento la via alternativa.

Durante le reazioni a cascata che caratterizzano l'attivazione complementare si formano sostanze vasodilatatrici e permeabilizzanti, quali le cosiddette anafilotossine (C3a e C5a) e il C3b attivato. Inoltre altri composti, quali il complesso C567 e il C3bBb (quest'ultimo proveniente dalla sola via alternativa), sono dotati di un notevole potere chemiotattico, per cui il quadro s'identifica con quello dell'i. acuta. Le correlazioni fra i sistemi che risentono dell'attivazione da contatto sono testimoniate anche dall'azione degli inibitori, spesso caratterizzata da una certa polivalenza, cioè dalla capacità di bloccare reazioni appartenenti a sistemi diversi. Per es. l'inibitore del C1 (via classica del complemento) si dimostra fortemente attivo tanto sull'αFHa e sul βFHa quanto sulla callicreina; l'antitrombina III inibisce αFHa, βFHa e callicreina, oltre al fattore XI. Si tratta evidentemente di effetti non strettamente specifici in quanto esercitati su enzimi proteasici a loro volta non strettamente specifici. Questa polivalenza è chiaramente indicativa di numerose analogie strutturali e funzionali fra i componenti (enzimi e substrati) dei diversi sistemi.

d) Un altro gruppo di sostanze capaci di provocare caratteristiche alterazioni vasali è costituito dai derivati dell'acido arachidonico, un acido grasso poliinsaturo a 20 atomi di C contenuto nei fosfolipidi di membrana; da questi viene staccato a opera di un enzima, la fosfolipasi A2, ogni qual volta la membrana cellulare venga in qualche modo stimolata. L'acido arachidonico appena liberato va incontro a una rapida metabolizzazione attraverso due possibili vie, sostenute da due diversi sistemi enzimatici: la prima via, sostenuta dal sistema della cicloossigenasi, dà origine alle prostaglandine (PG; v. anche prostaglandine, App. IV, iii, p. 75) e ai trombossani (TRX); la seconda via, sostenuta dal sistema della 5lipoossigenasi, dà origine ai leucotrieni (LT; fig. 5).

Il sistema cicloossigenasico è diffuso in tutte le cellule di tutti i tessuti, quello 5-lipoossigenasico è reperibile solamente nei granulociti (neutrofili, eosinofili e basofili), nei monociti e macrofagi e nei mastociti. Ciò depone a favore di compiti molto differenti per prostaglandine e trombossani da una parte e leucotrieni dall'altra. Alle PG, tanto della serie E (PGE) che della serie F (PGF), spetta infatti un compito di modulazione di molteplici attività cellulari nei confronti sia della cellula che le produce sia di altre cellule, specie viciniori, e la loro azione si esplica tramite il sistema del AMPc e forse anche del GMPc; dei trombossani quello attivo, il TRXA2, è dotato di attività aggregante sulle piastrine e quindi procoagulatoria. I leucotrieni si caratterizzano invece per buona parte come contratturanti delle muscolature lisce e pertanto come vasopermeabilizzanti, mentre qualcuno di essi svolge un'azione eminentemente o esclusivamente chemiotattica.

Di conseguenza le PG intervengono nei processi infiammatori non con un'azione diretta ma potenziando (PGE) o riducendo (PGF) gli effetti dell'istamina e della bradichinina; solamente la prostaciclina (PGI2) sembra dotata di una propria azione vasodilatatrice. Nei focolai infiammatori le PG, soprattutto la PGE2, sono presenti in grande quantità nonostante la loro brevissima emivita, e questo dipende dalla presenza di un enorme numero di PMN e di macrofagi, grandi produttori di PG.

L'intervento dei leucotrieni va accreditato alla loro spiccata attività contratturante sulle muscolature lisce: si tratta di un intervento diretto che determina: a) una cospicua vasopermeabilizzazione per contrazione delle cellule endoteliali; b) una significativa costrizione arteriolare e dei bronchi per contrazione della muscolatura liscia di queste strutture. Sotto quest'ultimo aspetto i leucotrieni LTC4, LTD4 e LTE4 si configurano come gli agenti più potenti finora conosciuti. A queste azioni tipicamente vascolotrope si aggiunge l'effetto chemiotattico del LTB4, per cui si crea un classico fenomeno di autoamplificazione, nel quale PMN e macrofagi polmonari (v. fig. 5) richiamano mediante il LTB4 da loro stessi prodotto altri PMN. Si è voluto parlare di una terza fase prostaglandinica del processo flogistico; non è corretto, in quanto si deve parlare semmai di una terza fase leucocitaria la cui principale componente, PMN e monociti e macrofagi (MØ), è responsabile dell'accumulo di PG e LT. La fig. 6 riassume schematicamente quanto finora descritto.

e) Un altro mediatore sufficientemente caratterizzato è il PAF (Platelet Activating Factor) o fattore attivante delle piastrine; si tratta di un fosfolipide e precisamente di una 1-alchil-2-acetil-glicerofosforilcolina. Il PAF viene prodotto soprattutto dai mastociti, dai granulociti basofili e dai PMN, in minor misura da MØ e dalle cellule endoteliali, per cui risulta presente e attivo fin dalle prime fasi del processo flogistico.

È importante tener presente la struttura di questa molecola in quanto il gruppo acetilico in posizione 2 del glicerolo viene inserito durante l'ultima tappa del processo di sintesi in sostituzione di un gruppo acilico, cioè di una molecola di acido grasso rappresentato dall'acido arachidonico. Il composto precursore del PAF in altre parole può fungere anche da donatore di acido arachidonico, capostipite della serie degli eicosanoidi (PG ed LT). Assume in proposito grande importanza la constatazione che nei macrofagi e nei PMN attivati la produzione di PAF si accompagna a un drammatico aumento di attività della fosfolipasi A2, l'enzima che dà l'avvio alla produzione degli eicosanoidi; questo fatto, unitamente ad altre concordanti osservazioni sperimentali, significa che i processi di sintesi del PAF e degli eicosanoidi sono strettamente correlati sul piano funzionale, nonostante le profonde differenze di struttura chimica tra i prodotti finali.

Al PAF sono state attribuite diverse attività: quella di degranulazione delle piastrine, di dilatazione e permeabilizzazione dei vasi, una potente azione chemiotattica; è necessario però distinguere gli effetti diretti da quelli indiretti. È certo che il PAF determina, dopo essersi legato ai suoi recettori sulle cellule bersaglio (PMN, mastociti e granulociti basofili, MØ), un aumento intracellulare del calcio, noto attivatore enzimatico. A sua volta l'aumento del Ca++ nel citosol determina effetti diversi nelle diverse cellule bersaglio del PAF: a livello dei mastociti favorisce la liberazione d'istamina, in tutte le cellule attiva da un lato il ciclo dei fosfoinositidi e dall'altro la metabolizzazione dell'acido arachidonico con formazione di PG, TRX ed LT. Risulta logico pensare che gli effetti vascolotropi possano essere mediati almeno parzialmente da istamina e leucotrieni e l'effetto chemiotattico dal LTB4. Si tenga presente quanto già detto sopra, e cioè che il PAF viene sintetizzato anche dagli endoteli, per cui non è necessario attendere l'arrivo nel focolaio di PMN e monociti affinché venga avviata la sua produzione e quindi l'azione tramite istamina.

In accordo con un effetto di questo tipo sta anche l'osservazione che il PAF stimola la GTPasi (guanosintrifosfatasi), enzima preposto alla prima tappa nella sintesi del GMPc (guanosinmonofosfato ciclico); e in precedenza si è visto come l'istamina sia responsabile della vasodilatazione in quanto stimola via EDRF la sintesi di GMPc. Infine il contemporaneo blocco dell'adenilciclasi e la conseguente mancata formazione di AMPc, che facilitano la vasodilatazione, favoriscono su un altro versante l'aggregazione piastrinica.

Si ha insomma l'impressione che il PAF rappresenti soprattutto o per lo meno in parte un meccanismo amplificatore di varie attività cellulari a livello di particolari bersagli e in collaborazione con altri sistemi. In questo senso parla anche l'enorme potenziamento esercitato sulla sua azione a livello di PMN dal 5-Hete, prodotto assieme agli LT (fig. 5).

Intervento dei leucociti e fenomeni connessi. - Com'è stato sottolineato più volte la componente cellulare più coinvolta sul piano quantitativo è rappresentata dai PMN, anche se il ruolo dei MØ risulta altrettanto di rilievo nonostante il loro minor numero. Il loro accumulo locale si realizza attraverso una serie di fenomeni successivi e obbligatori, riassumibili − nelle grandi linee − nella chemiotassi e nella diapedesi, cui fa seguito la fagocitosi coi suoi effetti collaterali.

La chemiotassi dipende da vari fattori di natura chimica, in parte raccolti nella tab. 1. Essa è resa possibile dalla presenza sulla membrana leucocitaria di recettori per le varie sostanze chemiotattiche; il contatto con una di queste dà l'avvio all'interno del leucocita a una serie di reazioni il cui risultato è rappresentato dall'avvicinamento della cellula al punto di maggior concentrazione della sostanza in questione. Per quanto riguarda i PMN, i meccanismi che presiedono all'avvicinamento sono GMPc-dipendenti; nei monociti si ha invece un'inversione dei meccanismi per cui l'avvicinamento è favorito dal sistema del AMPc. Taluno vede in questa differenza la causa dei diversi tempi di arrivo nel focolaio flogistico dei due tipi di cellule (i monociti arrivano nella fase più tardiva, quella ricca di PGE2 prodotte dai PMN, che notoriamente stimolano il sistema del AMPc).

La diapedesi, cioè il passaggio di cellule dal sangue agli interstizi, e quindi al focolaio flogistico, è attribuita alla capacità di PMN e monociti di attraversare le pareti vasali con movimenti propri. In condizioni normali di circolo gli eritrociti scorrono al centro del lume vasale mentre i leucociti, a causa del loro minor peso specifico, tendono a disporsi lungo le pareti; se la corrente sanguigna rallenta il fenomeno si accentua, PMN e monociti (oltre ai linfociti) si addossano alla parete e praticamente si arrestano o quasi. A questo punto l'adesione all'endotelio parietale costituisce la conditio sine qua non perché le cellule possano attraversare la parete, e per tale motivo è affidata a meccanismi sufficientemente precisi da garantirne l'attuazione: sulla membrana delle cellule endoteliali sono situate molecole proteiche, o complessi proteici, prodotti dalle cellule stesse e detti ligandi, con una brutta traduzione dall'inglese; queste molecole vengono riconosciute da recettori posti sulle membrane leucocitarie e denominati integrine. Ligandi e recettori sono uguali per PMN, monociti e linfociti, e la loro interazione permette l'ancoraggio delle cellule alla parete, ancoraggio indispensabile al successivo attraversamento.

Si tratta dell'aspetto particolare di un fenomeno più generale in quanto monociti e linfociti sono dotati di numerosi recettori adatti anche a ligandi presenti nei connettivi interstiziali, quali la fibronectina, la vitronectina, il collageno, la laminina (nelle lamine basali). Si aggiunga che la specificità di questi recettori non è strettissima, poiché essi riconoscono diversi ligandi, purché contenenti in un determinato punto della molecola il gruppo Arg-Gli-Asp; ma questa caratteristica si risolve in un vantaggio in quanto rende possibile l'ancoraggio a ligandi diversi negli spazi interstiziali senza la necessità di sintetizzare una serie di integrine specifiche per ciascun ligando.

La fissazione di cellule ematiche ai tessuti, al di fuori delle pareti vasali, costituisce un'altra importante funzione delle integrine, com'è dimostrato da diverse osservazioni: a) le cellule ematiche, anche della serie eritroide, rimangono ancorate alla fibronectina nel midollo osseo fino alla loro completa maturazione, quando vengono liberate in circolo; b) negli uccelli la colonizzazione del timo è resa possibile dall'esistenza di recettori linfocitari per fibronectina e laminina; c) monociti e linfociti, che durante il processo flogistico permangono a lungo in sedi extravascolari grazie anche alla loro lunga vita media, sono provvisti di integrine adatte ai ligandi connettivali che mancano invece nei PMN, la cui permanenza fuori dai vasi è di breve durata.

Va fatto ancora presente che nell'i. alcune citochine stimolano gli endoteli ad aumentare la produzione di ligandi onde consentire una diapedesi di maggiori proporzioni; la IL-1 e il TNF prodotti dai monociti (v. oltre) provocano un aumento di ligandi per tutti i tipi di leucociti, l'IFN-γ (interferon γ) prodotto dai linfociti solo per queste ultime cellule.

Vale infine la pena di rilevare che la scoperta delle integrine ha ampliato il bagaglio terapeutico in certe gravi forme infiammatorie: l'impiego di anticorpi rivolti contro determinati recettori leucocitari o contro il ligando endoteliale ha permesso infatti di ottenere parecchi lusinghieri risultati, anche se per ora evidentemente limitati. Nell'infarto miocardico per es. è stata osservata una riduzione dell'area danneggiata di circa il 40%, nel corso di infezioni batteriche si è raggiunta una notevole limitazione dell'infiltrato peritoneale e, dato ancor più importante, è stata segnalata una diminuzione dell'80% dei segni nella reazione del trapianto contro l'ospite, la cosiddetta Graft Versus Host Reaction (GVHR).

In altre parole queste metodiche, bloccando il passaggio dal sangue all'interstizio di PMN e monociti, consentono di limitare grandemente l'intensità del processo infiammatorio, a queste cellule correlata (v. oltre).

Una volta completata l'adesione, i PMN e i monociti iniziano a emettere pseudopodi e con modificazioni successive di forma, dette ''movimenti ameboidi'', passano attraverso i varchi della parete costituiti dalle giunzioni interendoteliali (fig. 7). È questo il motivo principale per il quale la diapedesi avviene quasi esclusivamente a livello delle venule post-capillari, caratterizzate da giunzioni interendoteliali più ampie. La diapedesi dei monociti, che già di norma sono localizzati ai margini dei capillari, avviene con modalità leggermente diverse e non tutte note: è certo che il loro passaggio è collegato, oltre che ai movimenti ameboidi, alla presenza sulla loro membrana di proteasi neutre, enzimi proteolitici capaci di scindere certe componenti proteiche degli endoteli. Questa modalità ricorda molto da vicino il comportamento delle cellule tumorali, che si avvalgono di enzimi consimili per abbandonare il circolo e localizzarsi nelle sedi tessutali ove daranno origine alle metastasi.

I movimenti ameboidi sono resi possibili: a) dalla presenza nel citoplasma di queste cellule di actina (che nei monociti costituisce addirittura il 12% delle proteine cellulari) e di miosina, in altre parole di un apparato contrattile simile a quello delle cellule muscolari lisce e degli endoteli; b) dall'apparato microtubulare che assicura la direzionalità dei movimenti. Questo spiega perché la diapedesi, come del resto anche la fagocitosi, in quanto dipendenti ambedue da movimenti ameboidi, possono essere bloccate dalla citocalasina B, che arresta la sintesi delle molecole di actina, e dalla colchicina, che blocca la formazione dei microtubuli. Diviene chiara pertanto l'azione antinfiammatoria in particolare della colchicina, in quanto risulta inibito l'arrivo nel focolaio dei PMN e il conseguente loro effetto dannoso sui tessuti (v. oltre).

Una volta pervenuti nel focolaio, PMN e monociti, in collaborazione con i macrofagi locali, iniziano la loro attività vera e propria, che per i primi si compendia prevalentemente nella fagocitosi (e nei suoi effetti collaterali); i MØ si caratterizzano invece anche per una più multiforme attività secretoria. L'azione fagocitante viene espletata con le medesime modalità dai due tipi di cellule e consiste nella sequenza: riconoscimento → attacco → inglobamento → lisi. La ricognizione e il successivo riconoscimento sono affidati ai recettori per gli agenti chemiotattici. L'attacco consiste nell'adesione del leucocita al materiale da inglobare; il fenomeno è favorito da certe molecole proteiche presenti nel plasma e collegate col sistema immunocompetente (IgG) e con quello complementare (C3b), denominate opsonine, la cui funzione consiste nell'aderire, coprendolo, al corpo che deve venir fagocitato. L'effetto opsonico si spiega col fatto che tanto i PMN quanto i monociti sono dotati di recettori per il braccio Fc delle IgG e per il C3b; essi pertanto sono in grado di riconoscere le opsonine che ricoprono il corpo da fagocitare e si fissano ad esse aderendo di conseguenza al corpo stesso. A questo punto il leucocita, grazie all'energia prodotta dai processi glicolitici (non da quelli ossidativi!), emette pseudopodi che progressivamente circondano il materiale estraneo fino all'inglobamento. Nel citoplasma si osservano allora granuli, detti fagosomi, costituiti dal materiale fagocitato circondato dai resti della membrana cellulare, che nel frattempo è stata prontamente ripristinata; i fagosomi vengono quindi avvicinati ai lisosomi con i quali si fondono dando origine ai fagolisosomi (fig. 8). I lisosomi sono notoriamente ricchi di enzimi litici a tipo di idrolasi acide, quali proteasi, elastasi, collagenasi, che provocano la lisi del materiale inglobato, purché naturalmente costituito da materiali idonei come substrati per questi enzimi. Durante quest'ultima tappa della fagocitosi si verifica nei PMN una forte stimolazione del metabolismo ossidativo con produzione di notevoli quantità di radicali liberi dell'O2; questi determinano fenomeni di lipoperossidazione che a loro volta provocano gravi danni a tutte le membrane cellulari (in quanto ricche di strutture lipidiche e lipoproteiche), comprese quelle lisosomiali. Ne consegue la loro rottura e l'uscita del materiale in esse contenuto, per cui gli enzimi liberi continuano nella loro attività litica all'interno del citoplasma provocando la morte del PMN: si parla di ''suicidio'' del PMN.

Nei MØ questa fenomenologia manca, verosimilmente per una scarsa produzione di radicali liberi dell'O2; si manifesta invece una vivacissima attività secretoria, nei cui prodotti un posto di primo piano spetta alle cosiddette citochine. Tra queste le più importanti sono rappresentate dall'interleuchina 1 (IL-1) e dal Tumor Necrosis Factor (TNF). Nella tab. 2 sono riportate le principali caratteristiche di queste due citochine che si dimostrano dotate di un'azione non solo proflogistica ma anche favorente la risposta immunitaria: esse sono infatti in grado di attivare da un lato tutta la serie linfocitaria (immunità cellulomediata e umorale) e dall'altro tutta la serie macrofagica a livello dei vari organi. Va fatto presente che non vi sono differenze rilevabili di attività fra TNFα e TNFβ (nonostante la diversa sede di produzione e la non grande omologia tra le due molecole) in quanto esiste un solo recettore per le due sostanze.

Dai fagociti morti si liberano enzimi (elastasi, collagenasi, catepsine, in genere proteasi acide) che ne continuano l'opera di demolizione rivolgendosi alle strutture tessutali più o meno indenni del focolaio flogistico. La loro attività è facilitata: a) dal pH acido dell'essudato dovuto principalmente all'ipossia da ristagno ematico; b) dal fatto che i loro inibitori vengono bloccati dai radicali liberi dell'O2 (v. sopra).

Si arriva così alla necrosi, cioè alla mortificazione tessutale; nell'i. acuta la necrosi è solitamente di tipo colliquativo.

Evoluzione del processo flogistico. − Tale evoluzione può seguire due vie: a) lo stimolo flogogeno si estingue e non si ripete; in tal caso si assiste alla guarigione, caratterizzata da processi riparativi nei quali l'iperplasia connettivale sostiene un ruolo predominante (v. oltre); b) se invece si stabilisce una sorta di equilibrio anomalo fra processi degenerativo-necrotici, fenomeni infiammatori e processi riparativi, la manifestazione morbosa può trascinarsi anche per un tempo molto lungo. In questo secondo caso si parla d'i. acuta cronicizzata, nella quale la presenza di una reazione immunitaria, testimoniata in particolare da un essudato ricco di linfociti e MØ, è sufficiente a impedire il diffondersi ulteriore della malattia ma è incapace di distruggere l'agente morboso nel focolaio infiammatorio.

In caso di guarigione i processi riparativi seguono uno schema sempre uguale, qualunque sia il tipo d'i. che sta a monte di essi, e caratterizzato dalla proliferazione di fibroblasti, le cellule immature del connettivo collageno che danno origine al connettivo adulto; si ripete anche in questa evenienza la ''monotonia'' già citata a proposito dei fenomeni vascoloematici. L'iperplasia connettivale inizia: a) con la proliferazione dei fibroblasti e la produzione da parte di questi di sostanza fondamentale, la cosiddetta matrice extracellulare, costituita essenzialmente da glicoproteine; b) con la formazione di numerosissimi cordoni endoteliali le cui cellule a un certo punto si ripiegano formando tubi concavi, cioè capillari. Nella sostanza fondamentale compaiono inoltre filamenti che diverranno in seguito fibrille collagene. Le gittate di fibroblasti e capillari neoformati procedono preferenzialmente lungo i ponti di fibrina formatisi durante la fase di essudazione, che fungono da ''binari'', fino alla completa occupazione dell'area necrotica. Raggiunta tale condizione, la proliferazione dei fibroblasti si arresta e i capillari progressivamente si obliterano. Le cellule si riducono di numero assumendo nel contempo l'aspetto di cellule mature, cioè di fibrociti. Si assiste inoltre a un cospicuo incremento della sostanza fondamentale, nella quale diminuiscono i polisaccaridi e aumentano progressivamente le fibrille. Alla fine il tessuto neoformato si presenta come un connettivo fibroso denso che lentamente si retrae dando origine alla cosiddetta cicatrice.

La conseguenza più importante è rappresentata dalla perdita di funzione della zona sede dell'i., in quanto un tessuto nobile viene sostituito da connettivo collageno.

Fattori che regolano il processo di cicatrizzazione. − L'innesco e la stimolazione della proliferazione dei fibroblasti vedono l'intervento di molteplici fattori, alcuni dei quali meritano un cenno particolare anche in questa sede; per altri fattori (TGF-α o Transforming Growth Factor α, TNF o Tumor Necrosis Factor) e per altre notizie sui fattori di accrescimento, v. accrescimento: Fisiologia umana, in questa Appendice.

Il fattore derivato dalle piastrine o PDGF (Platelets Derived Growth Factor) è una glicoproteina del peso molecolare di 30.000 dalton, prodotta da numerose cellule di origine mesenchimale (monociti, macrofagi, cellule endoteliali, cellule muscolari lisce sottointimali dei vasi arteriosi) che la trasferiscono alle piastrine, che a loro volta la portano in circolo per liberarla con la loro dissoluzione. Ha numerose cellule bersaglio, ugualmente di origine mesenchimale (fibroblasti, cellule muscolari lisce soprattutto sottointimali dei vasi arteriosi, condrociti, microglia); ha azione chemiotattica e vasocostrittrice, ma, soprattutto, un intenso effetto mitogeno, collegato con una cospicua preliminare sintesi di PGE2 e con una captazione lipoproteica (LDL, VLDL): si tratta di fenomeni tra loro collegati da rapporti ancora allo studio, ma presumibilmente importanti per gli effetti patologici che ne possono derivare, per es. di fibrosi polmonare, di cirrosi epatica e, almeno come attualmente si ha ragione di supporre, come primum movens nell'istituzione dell'ateroma.

Il Fibroblast Growth Factor (FGF) è costituito da un'unica molecola polipeptidica che, a seconda della struttura del carbossile terminale, contiene 140 o 146 aminoacidi: il primo, o aFGH, è fortemente acido e si estrae dal tessuto cerebrale; il secondo, o bFGF, è basico e deriva principalmente dall'ipofisi. In vitro risultano attivi sulle cellule di origine mesodermica; in vivo è stato dimostrato un effetto di stimolo a livello degli endoteli vasali, che può favorire l'accrescimento dei tessuti tumorali. Va sottolineato che la sequenza completa dei FGF costituisce la frazione carbossiterminale, biologicamente attiva, dei precursori dell'interleuchina 1β (IL-1β) e in minor misura dell'interleuchina 1α (IL-1α); infatti, l'IL-1β è mitogena per i fibroblasti (v. tab. 2) mentre d'altra parte i FGF non sono dotati di attività interleuchinosimile.

Il Transforming Growth Factor-β (TGF-β) è un altro fattore di crescita connettivale, costituito da una molecola omodimera, formata cioè da due catene uguali di 112 aminoacidi l'una, unite da legami disulfidici. I suoi effetti, di stimolazione e d'inibizione delle funzioni cellulari, tuttora in corso di studio su cellule coltivate in vitro, appaiono condizionati dalle caratteristiche dell'ambiente in cui avviene la coltura; è, peraltro, interessante notare che la sua azione di stimolo sulla proliferazione delle cellule mesenchimali è preceduta e accompagnata dalla sintesi di notevoli quantità di proteine ''di adesione cellulare'' (fibronectina, collagene, ecc.), proprietà interessante nei confronti dei processi di cicatrizzazione, tale da giustificare la prospettiva di un uso pratico del TGF-β in chirurgia e, in genere, nella terapia di lesioni patologiche.

Per completezza dev'essere fatto presente che sui tessuti epiteliali il TGF-β agisce bloccando la loro proliferazione e stimolandone la differenziazione, mentre su quelli connettivali, o meglio mesenchimali, ha un effetto opposto: blocca la differenziazione e stimola la proliferazione.

Infiammazioni acute immunomediate. − Vale la pena di considerare brevemente e a parte alcuni aspetti di questo tipo di i.: non perché costituiscano manifestazioni peculiari, differenti da quelle finora descritte, ma per sottolineare come fattori eziopatogenetici anche molto diversi, sul piano umorale e su quello cellulare, possono essere alla base di una fenomenologia comune.

In effetti le flogosi immunomediate si distinguono in quanto provocate dall'ingresso nell'organismo di materiale estraneo dotato di potere immunogeno, cioè di proprietà antigene. A prescindere dalla possibilità, sempre presente, d'innescare una flogosi non immunomediata, in quanto agente irritante, il materiale antigenico dà origine ai seguenti fenomeni: a) attivazione dei macrofagi (per la cooperazione con i linfociti); b) sensibilizzazione e mobilitazione dei linfociti TH e B per la produzione di anticorpi specifici; c) sensibilizzazione e mobilitazione di linfociti TK per la secrezione di citochine (in particolare degli interferoni); d) mobilitazione di cellule cosiddette Natural Killer (NK), capaci di attività antiantigeni cellulari, anche se meno specifica; e) eventuale formazione di complessi immuni; f) attivazione della via classica del complemento da parte di anticorpi, liberi o legati nei complessi immuni, purché provvisti del braccio Fc che aggancia il complemento. Tutte queste manifestazioni risultano inoltre amplificate dall'attivazione macrofagica con secrezione di IL-1 e TNF.

L'azione flogogena va accreditata essenzialmente ai fattori derivanti dall'attivazione del complemento, anche se citochine e i soli anticorpi da una parte e linfociti TK e cellule NK dall'altra possono affiancarla, specie se il materiale antigenico è costituito da cellule.

La tab. 3 mostra le principali differenze nei tempi di comparsa, nel tipo di cellule coinvolte e nelle caratteristiche dei mediatori fra i. acute immunomediate e non. Sia chiaro che l'evoluzione non si discosta da quella descritta per le altre i. acute; anche forme che perdurano a lungo a seguito di un'attivazione protratta del complemento per un'abnorme persistenza nell'organismo dell'antigene, oppure per una persistenza di fattori non antigenici capaci di attivare la via alternativa (per es. il fattore nefritogeno), non fanno eccezione: si realizza infatti in questi casi uno stato flogistico che si protrae nel tempo e che appare del tutto sovrapponibile alle i. croniche già citate.

Infiammazione allergica. − Può esser considerata come una variante particolare dell'i. immunomediata; la più importante condizione per il suo verificarsi concerne l'attitudine del soggetto allergico a produrre grandi quantità di IgE in risposta a determinati stimoli antigenici. Com'è noto, la maggior parte delle IgE secrete non si ferma in circolo ma va a fissarsi ai mastociti e ai granulociti basofili; perciò in caso di un'ulteriore penetrazione dell'antigene l'unione con l'anticorpo nel frattempo prodotto avviene a livello di queste cellule provocando una rottura degli equilibri di membrana e quindi un'attivazione sufficiente a determinare l'espulsione dei granuli con liberazione d'istamina e la sintesi dei leucotrieni vasoattivi (si ricorda che il leucotriene chemiotattico, e cioè l'LTB4, è prodotto solamente da PMN e MØ). I mastociti liberano invece il fattore chemiotattico per i granulociti eosinofili (ECF-A), e questo spiega l'accumulo di eosinofili nel focolaio d'i. allergica e l'eventuale eosinofilia presente in circolo durante l'insorgenza o la riacutizzazione di manifestazioni allergiche.

D'altra parte la molecola delle IgE risulta priva del braccio Fc per il complemento, per cui anche questa caratteristica, in aggiunta all'assenza di potere chemiotattico negli allergeni, contribuisce al mancato richiamo di PMN e MØ: di conseguenza l'i. allergica si arresta alla fase vascolare.

La mancata partecipazione dei fattori vasoattivi del complemento ma soprattutto l'assenza di PMN e monociti limitano anche i danni vasali, e pertanto si ha quasi sempre a che fare con un essudato di tipo sieroso. Queste caratteristiche implicano: a) la possibilità di un riassorbimento completo dell'essudato; b) lo scarso significato delle lesioni presenti nella sede di flogosi; c) non formazione di connettivo cicatriziale ma mantenimento della funzionalità nella zona colpita.

In altre parole la flogosi allergica appare meno grave degli altri tipi, immunomediati e non, anche se frequentemente la sua localizzazione a settori strategici come occhi, bronchi, ecc., in quanto in comunicazione con l'esterno e perciò suscettibili di venire a contatto con quantità cospicue di antigene, la può rendere ugualmente pericolosa (v. anche immunopatologia: Interpretazione patogenetica dei fenomeni allergici, in questa Appendice).

Infiammazioni granulomatose. - Sono dovute all'integrazione fra due tipi di risposta, o meglio alla sovrapposizione di una risposta di tipo immunitario a quella caratterizzata dalla formazione di un granuloma da corpo estraneo. Per la realizzazione di questa evenienza è necessario che l'agente flogogeno presenti due particolarità: deve comportarsi come un corpo estraneo entro certi limiti inerte, privo cioè di azione irritante immediata, poiché in caso contrario farebbe entrare in gioco i meccanismi della flogosi acuta; e poi deve possedere qualità immunogene, cioè deve presentarsi come un antigene o come un mosaico di antigeni. Queste caratteristiche sono peculiari di alcuni batteri e di certi funghi micro- o macroscopici, che risultano pertanto gli agenti causali delle flogosi granulomatose.

Nella tab. 3 sono segnalate le cellule coinvolte e i lunghi tempi necessari allo sviluppo di questo tipo di flogosi (in ottemperanza al predominare della partecipazione macrofagica); è significativo il fatto che gli unici mediatori sono quelli prodotti da linfociti e da MØ attivati mentre tutti gli altri mancano oppure sono presenti in quantità ininfluenti. L'importanza del sistema immunocompetente nella genesi di queste i. è testimoniata non solo dalle caratteristiche morfofunzionali ma anche dal fatto che questo tipo di granulomi non compare quando gli animali siano stati resi incapaci di reagire in senso immunitario mediante timectomia alla nascita o mediante trattamento con siero antilinfocitario. Mentre i granulomi da corpo estraneo presentano aspetto uniforme a prescindere dall'agente eziologico, i granulomi provocati da agenti infettivi, e quindi immunogeni, possono distinguersi per caratteristiche peculiari che li differenziano e che sono in rapporto all'agente eziologico o forse meglio al tipo di risposta immunitaria che questo è in grado di suscitare.

In caso di risposta di tipo cellulomediato o prevalentemente tale, provocata per es. dal micobatterio della tubercolosi, il granuloma è composto eminentemente da macrofagi nella sua parte centrale e da linfociti disposti ad anello attorno alla massa centrale che viene da essi parzialmente infiltrata (fig. 9). I macrofagi, ai quali spetta il compito di fagocitare i micobatteri e/o altro materiale, assumono un aspetto poligonale e si dispongono a stretto contatto, tanto da esser chiamati ''cellule epitelioidi''. Si tratta di elementi a vita breve in quanto il loro contenuto in materiale fagocitato ricco di antigeni tubercolari li rende bersaglio preferenziale dei linfociti T che fanno parte del granuloma.

Sempre i macrofagi al centro di questo tendono a fondersi attorno ad altri macrofagi morti, e la fusione dà origine alle cosiddette ''cellule giganti'' o di Langhans, con i nuclei superstiti disposti alla periferia e zone di necrosi (di tipo caseoso) al centro. I fenomeni necrotici vanno addebitati per una parte alla scarsa vascolarizzazione del granuloma (la necrosi inizia infatti al centro di esso, cioè nel punto più lontano dai vasi) e per l'altra parte all'attività dei linfociti.

Nel granuloma luetico prevale invece la risposta immunitaria di tipo umorale, i cui equivalenti morfofunzionali sono un'infiltrazione di cellule immunocompetenti principalmente sul piano umorale quali linfociti ma soprattutto plasmacellule, cioè linfociti B trasformati in senso anticorpopoietico, e lo stabilirsi di una certa microcircolazione da neoformazione vasale (fig. 10). Quest'ultimo fatto non basta però ad assicurare un adeguato apporto ematico, per cui anche il granuloma luetico va incontro a processi di necrosi, in questo caso di tipo colliquativo (formazione della cosiddetta ''gomma luetica''). Alla periferia di tutti i granulomi inizia infine, divenendo sempre più evidente, una proliferazione di fibroblasti che circondano e talvolta sostituiscono con tessuto connettivo fibroso il granuloma stesso.

Nella successiva evoluzione si presentano due possibilità: il processo di fibrosi si dimostra più veloce di quello necrotico e in questo caso vi sono buone probabilità che il granuloma venga circoscritto o eliminato; in caso contrario, la necrosi si fa strada nei tessuti viciniori e la sua eventuale eliminazione all'esterno lascia uno spazio vuoto (questo meccanismo porta alla formazione delle caverne tubercolari).

Ripercussioni generali. − Compaiono nelle flogosi, specie di tipo acuto, come conseguenza di un focolaio infiammatorio sufficientemente esteso, e la loro entità è proporzionale a questa estensione. Le manifestazioni generali dipendono per lo più dall'attività di PMN e MØ.

A questo proposito sembrano necessarie le seguenti precisazioni:

a) i PMN, che si ammassano preferibilmente in pools localizzati marginalmente sulle pareti dei piccoli vasi, specie del polmone, possono essere mobilitati dalle loro sedi di stazionamento, in particolare dagli ormoni corticosteroidi: si osservano infatti leucocitosi periferiche fisiologiche da adrenalina, da stress e naturalmente da ipercortisolismo (morbo di Cushing), ovviamente per modificata distribuzione e non per aumentata produzione;

b) i macrofagi presenti nei vari tessuti derivano sempre dai monociti circolanti e acquisiscono aspetti morfofunzionali diversi a seconda della sede (cellule di Kuppfer nel fegato, microglia nel sistema nervoso centrale, macrofagi alveolari nei polmoni, ecc.). Nonostante questa differenziazione essi mantengono alcuni caratteri comuni, soprattutto l'attività fagocitante (per cui costituiscono anche un sistema definito reticoloistiocitario) e la capacità di produrre IL-1 e TNF.

Le principali manifestazioni di un'i. acuta, a qualunque livello, sono compendiabili in febbre, leucocitosi e comparsa o aumento nel plasma di particolari proteine, denominate perciò proteine della fase acuta (proteina C-reattiva, α−2-macroglobulina, aptoglobina, ecc.).

La febbre è dovuta all'azione di determinati peptidi − i cosiddetti pirogeni −, prodotti dai PMN, in maggiore misura, e dai MØ, che agiscono sui centri termoregolatori, sia direttamente sia tramite la IL-1, della quale stimolano la produzione a livello del SNC a opera della microglia; a questa attivazione dei centri termoregolatori, con particolari modalità, partecipano anche la PGE2 e il TNF, in quanto stimolatore della produzione di IL-1. La leucocitosi è ugualmente attribuita a due fattori, questa volta di segno opposto: la diminuzione dell'azione frenante esercitata sull'attività leucopoietica del midollo osseo dai caloni leucocitari, riferibile al consumo delle cellule che li producono (PMN e MØ) nel focolaio flogistico; in secondo luogo e anche in questo caso, l'IL-1, che se raggiunge il midollo osseo stimola la messa in circolo di PMN, mentre a livello ipotalamico, oltre alla già descritta azione sulla termoregolazione, favorisce il rilascio del CRF (Corticotropin Releasing Factor) che a sua volta agisce sull'asse ipofiso-surrenalico promuovendo un'azione che approda a una ridistribuzione in circolo dei PMN nel senso più sopra riportato. L'aumento delle proteine della fase acuta va messo in conto alle cellule di Kuppfer, cioè ai macrofagi epatici attivati.

Da quanto esposto emerge il ruolo centrale dei macrofagi nella genesi di queste manifestazioni generali: accanto alla produzione di pirogeni, in parallelo con i PMN, i macrofagi sono in grado, grazie alla loro polivalenza funzionale, di provocare direttamente la febbre, di modificare la distribuzione dei PMN e di alterare il quadro sieroproteico.

Il quadro delle manifestazioni generali è completato dall'intervento dei leucotrieni, la cui azione si manifesta soprattutto sul circolo e va addebitata alla loro potente attività arteriolocostrittrice che provoca una ridotta irrorazione a valle delle arteriole e quindi un'ipossiemia; da questa dipendono in particolare un effetto inotropo negativo, da insufficienza dei piccoli rami coronarici, e una diminuzione del filtrato glomerulare da riduzione di calibro delle arteriole afferenti.

L'i. immunomediata può dare origine a quadri morbosi caratteristici soprattutto se raggiunge lo stadio della cronicità: i più importanti di questi quadri sono rappresentati dalle malattie da complessi immuni. Sotto questo aspetto vanno anzitutto considerate le forme autoimmuni (v. anche immunopatologia, in questa Appendice), nelle quali l'antigene è un self, appartiene cioè al portatore stesso della malattia; si tratta delle cosiddette mesenchimopatie o collagenopatie: tra le più importanti il lupus eritematoso disseminato o sistemico (LES), la sindrome di Sjögren, la sclerodermia, l'artrite reumatoide. Accanto a queste si trovano le forme morbose nelle quali l'antigene che forma i complessi immuni proviene dall'esterno. Va menzionata in proposito la glomerulonefrite streptococcica (nei complessi immuni l'antigene è di origine streptococcica), oggi meno frequente grazie alle terapie antibiotiche. In tutte queste manifestazioni l'elemento patogenetico centrale è rappresentato dall'attivazione del complemento, sempre che gli anticorpi che entrano a far parte dei complessi immuni siano provvisti del braccio Fc.

Nell'i. allergica è possibile che quantità di antigene, sufficienti a provocare, dopo l'unione con le IgE legate ai mastociti, la liberazione di sostanze vasoattive in misura eccessiva e a livelli diversi, determinino per questa via un'imponente vasodilatazione generalizzata che porta a un collasso circolatorio. Si parla in tali evenienze di shock anafilattico, pur se un quadro di questo genere può derivare anche da un'''invasione'' generalizzata di complessi immuni anch'essi capaci, se in adeguata concentrazione, di stimolare i mastociti.

Bibl.: G. B. Ryan, G. Majno, Acute inflammation, in Amer. J. Pathol., 86 (1977); E. Ciaranfi, P. Schlechter, A. Bairati, Automatismo dell'infiammazione, in Automatismi biologici e malattia, Milano 1979; G. Favilli, G. Prodi, Il processo infiammatorio, in Patologia generale, ivi 1983n,8; J. V. Hurley, Acute inflammation, Londra-Melbourne-New York 19832; F. Kozin, C. G. Cochrane, The contact activation system of plasma: biochemistry and pathophysiology, in Inflammation basic principles and clinical correlates, a cura di J. I. Gallin, I. M. Goldstein, R. Synderman, New York 1988; R. A. Lewis, K. F. Austen, Leucotrienes, ibid.; G. Guidotti, Patologia generale, Milano 1991.

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