CHIMICA, INDUSTRIA

Enciclopedia Italiana - IX Appendice (2015)

CHIMICA, INDUSTRIA

Ferruccio Trifirò

L’industria chimica italiana. Il ridimensionamento della petrolchimica. La chiusura del petrolchimico di Marghera. La chimica verde: una nuova prospettiva per salvare i poli chimici. Polo verde a Marghera. Polo verde a Porto Torres. Bibliografia

L’industria chimica italiana. – A partire dagli anni Novanta del 20° sec., si è registrato un forte processo di smembramento delle grandi industrie italiane sviluppatesi con la crescita della petrolchimica, che ha portato alla loro scomparsa e alla cessione delle loro attività ad aziende straniere e ad altre aziende italiane (Trifirò 2010 e 2012; Trinchieri 2001; Zamagni 2010). D’altro canto, questo fenomeno è stato accompagnato da un processo positivo di specializzazione delle singole aziende in ragione del tipo di chimica realizzata e/o del tipo di prodotto ottenuto. In precedenza, la mancanza di specializzazione comportava una concorrenza ad ampio raggio tra le diverse aziende, che si può considerare come uno dei fattori responsabili della crisi. Un secondo aspetto positivo è stato il processo di internazionalizzazione non soltanto con la presenza in Italia delle più grosse industrie straniere, che hanno acquisito impianti nel nostro Paese, ma anche con lo sviluppo dell’industria italiana all’estero per soddisfare i mercati locali e sfruttarne competenze e materie prime, soprattutto naturali. Lo sviluppo di una chimica specialistica, in gran parte in mano a industrie italiane medio-grandi e medio-piccole, è stato finalizzato alla realizzazione di operazioni fisiche di miscelazione dei diversi componenti, nella quale le proprietà più importanti sono quelle di comportamento (Trifirò 2011).

Si stima che in Italia siano attive quasi 3000 imprese chimiche che occupano circa 108.000 addetti i quali, considerando anche l’indotto, arrivano a circa 340.000, con un valore della produzione prossimo ai 52 miliardi di euro. L’Italia è il terzo produttore chimico europeo dopo Germania e Francia e il decimo a livello mondiale. In Italia il ruolo delle piccole e medie imprese (PMI) chimiche è rilevante, coprendo il 62% dell’occupazione, contro il 41% della chimica europea. Tra le principali imprese chimiche a capitale italiano figurano grandi realtà della chimica di base, ma anche gruppi di medie-grandi dimensioni, spesso leader nel loro segmento di specializzazione e dotati di presenza internazionale, quali Mapei, Bracco, Lamberti, Colorobbia e Radici. Le aziende straniere nel nostro Paese sono 243, attive in tutti i settori, e ricoprono il 36% della produzione complessiva e una quota dell’export pari al 31%. In molti casi la localizzazione di queste industrie in Italia non è orientata soltanto alla domanda interna, ma anche ai mercati esteri. Le aziende medio-grandi coprono il 25% della produzione e le medie-piccole il 39%. Le imprese chimiche di grandi dimensioni operanti in Italia sono in buona parte di proprietà straniera (49% dell’occupazione delle imprese sopra i 250 addetti). Su una quarantina di imprese con un valore della produzione realizzata in Italia superiore ai 200 milioni di euro, ben il 60% è a capitale estero. La chimica fine e specialistica realizza il 40% del fatturato e corrisponde al 60% delle aziende. Le aziende medio-grandi italiane sono 50, 35 delle quali realizzano il loro fatturato anche con siti produttivi fuori dal nostro Paese, configurandosi in realtà come multinazionali a capitale per maggioranza italiano.

Nel 2013 la chimica in Italia ha avuto un deficit commerciale pari a 9,2 miliardi di euro, concentrato essenzialmente nella chimica di base e nelle fibre, mentre i settori dei detergenti, dei cosmetici e di altre specialità hanno avuto un saldo positivo. Con la scomparsa della grande industria e lo sviluppo di tante medie e piccole aziende, la chimica italiana sta diventando sempre di più una chimica dei prodotti a comportamento (qualificati in merito alle loro prestazioni). Le prestazioni finali di questi prodotti dipendono, oltre che dalla loro struttura molecolare, anche dalla presenza di ausiliari (additivi, coadiuvanti o promotori), ossia dalla cosiddetta formulazione. L’individuazione delle numerose reazioni chimiche coinvolte nelle diverse fasi della formulazione è un obiettivo non facile da perseguire e richiede forti competenze di termodinamica delle miscele, di chimica-fisica delle soluzioni, delle sospensioni, degli aerosol e dei colloidi, di chimica delle superfici, di chimica-fisica degli equilibri di fase. L’aspetto che caratterizza maggiormente un’attività di formulazione è la capacità di utilizzare tali competenze per prevedere un gran numero di proprietà come adesione, biodegradabilità, vita, resistenza alle intemperie, proprietà allergeniche, infiammabilità e così via.

L’aumento improvviso del costo del petrolio nel 1974, che aveva messo in ginocchio la nostra industria, come anche altre, aveva portato a ritenere che l’era della petrolchimica fosse terminata. Era previsione largamente condivisa che i Paesi arabi produttori di petrolio avrebbero sviluppato la petrolchimica e che quindi fosse necessario ‘rifugiarsi’ in altri settori della chimica a valle. In effetti, il ridimensionamento più pronunciato dell’i. c. italiana si è verificato essenzialmente nella petrolchimica e nella produzione di fibre. Le vicende che hanno interessato questi settori, per evidenziare le diverse cause responsabili, sono esemplificate nella storia della chiusura del polo chimico di Marghera. Peraltro, diversamente da quanto si fosse previsto nei decenni scorsi, la petrolchimica non si è spostata solamente verso i Paesi arabi, ma anche verso altri Paesi europei, dove erano localizzati impianti di grandi dimensioni e poli chimici importanti per la produzione di diversi intermedi.

Il ridimensionamento della petrolchimica. – Negli anni 1960-78 si era arrivati alla presenza in Italia di nove impianti di steam-cracking (processo di pirolisi di idrocarburi condotto ad alte temperature) della nafta pesante, proveniente dalle raffinerie locali, per la produzione di materie prime destinate alla chimica dal petrolio; nel 1995 questi si erano ridotti a 5 ed era stato appena chiuso quello di Ragusa. A partire da quella data tutti gli impianti appartenevano a Enichem (ora Versalis), con una potenzialità di produzione superiore al passato per l’avvenuto ampliamento degli impianti di Priolo e di Brindisi. Nel 2008 fu chiuso il cracking di Gela, successivamente quelli di Porto Torres e di Marghera. Attualmente gli impianti di steam-cracking funzionanti in Italia si trovano a Brindisi (per la produzione di olefine) e a Priolo (per olefine e aromatici), mentre a Sarroch è attiva la produzione di aromatici e di propilene direttamente dalla raffineria. Parallelamente alla diminuzione della produzione di materie prime per l’i. c., a partire dalla fine degli anni Novanta si è verificata una diminuzione dell’attività chimica di trasformazione di tali prodotti nei siti stessi di produzione (i cosiddetti poli petrolchimici). Questa tendenza a inviare le materie prime da trasformare verso altri siti è stata una delle cause della chiusura degli steam-cracking, che si è aggiunta al problema dei maggiori costi dovuti alla piccola dimensione degli impianti rispetto ai giganti stranieri. Nello stesso periodo si è mantenuta invece un’attività chimica significativa in altri siti, dove non c’era più la chimica di base, come nelle zone di Ferrara, Bergamo, Mantova, Ravenna, Varese, Novara, Trento e Ottana.

Altro fenomeno rilevante avvenuto nella chimica italiana a partire dal 1995 è stata la scomparsa di molti impianti cloro-soda, soprattutto quelli a celle a mercurio per i pesanti problemi ambientali, con i relativi impianti di clorurazione e della produzione di alcuni intermedi per la produzione di polimeri, in particolare acrilonitrile, cloruro di vinile, ossido di propilene, acetato di vinile, acroleina, toluendiisocianato e ε-caprolattame.

Attualmente nel settore della petrolchimica e dei polimeri, precedentemente in mano a poche industrie che partivano dalle materie prime e arrivavano al prodotto finito (Montecatini, Montedison, Enichem, Sir), è possibile individuare, a seguito dell’evoluzione sin qui delineata, cinque tipi di aziende italiane con elevato fatturato (Trifirò 2011): una sola società (Versalis, azienda del gruppo ENI) che produce le materie prime di base ed è attiva anche nella trasformazione a valle di alcune di queste nello stesso sito o in altri siti per la produzione di gomme e plastiche; le aziende che ricevono le materie prime di base o loro derivati da Versalis e da aziende straniere e realizzano una variegata ramificazione di reazioni chimiche producendo polimeri e intermedi utilizzati come materie prime per le specialità (Polynt e Radici); aziende che ricevono i monomeri dal mercato e sono specializzate nella produzione di un solo tipo di polimero e nella sua trasformazione (Mossi & Ghisolfi, Sinterama, Aquafil e COIM); aziende che trasformano in prodotti finiti i polimeri (materie plastiche, gomme, fibre e resine) ricevuti da altre aziende; infine, aziende che trasformano i diversi prodotti petrolchimici ricevuti dalle precedenti aziende o dal mercato internazionale per produrre specialità (Trifirò 2014).

La chiusura del petrolchimico di Marghera. – La chiusura del petrolchimico di Marghera è emblematica per capire i diversi motivi della contrazione della petrolchimica in Italia e del deficit della bilancia dei pagamenti della chimica, concentrato essenzialmente in questo settore. Il declino del petrolchimico è iniziato nel 2002 con la chiusura della produzione di caprolattame, cui sono seguite le chiusure del toluendiisocianato e, successivamente, degli idrofluorocarburi, il dimezzamento della produzione di fibre acriliche, la chiusura della produzione di polivinilcloruro (PVC) e dell’impianto cloro-soda e infine, dopo la fermata dell’impianto di steam-cracking di tutte le altre attività chimiche (Francini, Trifirò 2006).

L’impianto di Marghera, chiuso nel 2002, era l’ultimo esistente in Italia per la sintesi di ε-caprolattame, intermedio per produrre nylon 6. La produzione di Marghera era assorbita per il 10% dalla Aquafil e per il 90% da Radici. L’impianto apparteneva a Enichem e avrebbe dovuto essere rilevato da Radici, utilizzatrice principale del monomero, ma dopo accordi preliminari avuti anche con il governo, l’azienda rinunciò all’acquisto. Dopo la chiusura di Marghera, Aquafil acquistò uno stabilimento che produceva ε-caprolattame in Slovacchia, mentre Radici dapprima mise in marcia un impianto in Germania per la produzione degli intermedi per il nylon 6.6 e successivamente lo ampliò per produrre il monomero per il nylon 6 (la materia prima è la stessa). Il processo Enichem, dal punto di vista strettamente chimico, era penalizzato rispetto ai processi dei concorrenti essenzialmente per la produzione di solfato di sodio, la cui separazione dal sale di ammonio (altro coprodotto) risultava difficile e costosa. Il solfato di sodio, inoltre, utilizzato fino ad alcuni anni prima nella detergenza e nella produzione del vetro, nel 2003 non aveva più mercato. Tuttavia, questi aspetti penalizzanti, e anche i costi energetici coinvolti, non possono motivare interamente le perdite che hanno portato alla chiusura, perché la chimica del processo e l’incidenza dei costi ambientali erano simili a quelle coinvolte nei processi dei concorrenti stranieri. A penalizzare la produzione di ε-caprolattame di Marghera è stata una peculiarità della produzione: diversamente da quella dei concorrenti, non era realizzata in una sola linea compatta, ma in più linee con tecnologie diverse, e con unità dislocate in parti differenti del petrolchimico (a distanza perfino di chilometri). Questa collocazione, dovuta a ragioni storiche (impianti appartenenti a industrie diverse) determinava elevati costi di manutenzione dei chilometri di tubi che distribuivano attraverso il petrolchimico reagenti, intermedi e coprodotti, e un utilizzo eccessivo di manodopera per il controllo e la gestione delle diverse e separate unità di produzione. Altro aspetto negativo del processo di Marghera rispetto ai concorrenti era la poca integrazione a monte e a valle: il cicloesanone veniva prodotto a Mantova da Polimeri Europa, mentre il monomero prodotto a Marghera veniva inviato ad altre aziende in altri luoghi per produrre il nylon 6. Dsm, Basf e Bayer producevano, invece, ‘in casa’, non soltanto il cicloesanone (materia prima per la sintesi del monomero), ma anche il prodotto finale (nylon 6). Queste aziende erano quindi integrate su tutto il ciclo produttivo e vendevano solo l’ε-caprolattame prodotto in eccesso rispetto alle loro esigenze. La gravità della chiusura dell’impianto di Marghera fu accresciuta, fra l’altro, dalla presenza di una linea dimostrativa basata su una nuova tecnologia, sviluppata dall’ENI, nella quale era utilizzata acqua ossigenata come ossidante, non venivano ottenuti coprodotti e non venivano utilizzati reagenti tossici (uno dei primi e più significativi esempi al mondo di chimica verde). Dopo la chiusura dell’impianto, ENI vendette questa licenza alla Sumitomo, che mise in marcia l’impianto in Giappone. Si trattò di una grande occasione persa, che avrebbe potuto rilanciare Marghera e dare fiducia alle altre aziende presenti sul polo, e, più in generale, di una grave perdita per la chimica italiana.

Nel 2005 fu organizzata a Marghera una consultazione popolare per chiedere la chiusura delle attività che coinvolgevano il cloro. Sotto accusa non c’erano soltanto l’impianto cloro-soda e quello PVC, ma anche la produzione di toluendiisocianato, monomero per la sintesi di poliuretani, nella quale veniva utilizzato fosgene. L’impianto di produzione di toluendiisocianato, che era oramai fra i più complessi esistenti in Italia per il numero di reazioni coinvolte, soddisfaceva tutte le sofisticate norme di sicurezza (fatta eccezione per un recipiente intermedio di fosgene che avrebbe dovuto essere eliminato), in accordo con le procedure stabilite a livello internazionale dalle aziende del settore. Nell’agosto del 2006, un mese dopo la conclusione della consultazione (risultata favorevole alla chiusura del ciclo del cloro), arrivò la notizia che l’impianto di produzione del toluendiisocianato, acquistato dalla Dow alcuni anni prima, era stato chiuso per iniziativa aziendale, giustificando la chiusura con un eccesso di produzione europea. Nello stesso tempo, la società annunciò la realizzazione di un nuovo impianto in Europa. È molto probabile che la non accettazione da parte della cittadinanza e di alcuni politici locali dell’utilizzazione del fosgene (gas dotato di forte tossicità acuta, utilizzato come arma chimica nella Prima guerra mondiale), abbia contribuito alla scelta della Dow. Inoltre, la stessa società aveva contemporaneamente annunciato la produzione in Olanda di ossido di propilene per la sintesi di polioli, l’altro comonomero dei poliuretani, con una tecnologia nuova a basso impatto ambientale, ottenuta dall’ENI quando aveva acquistato un vecchio impianto di produzione di ossido propilene a Priolo, che era stato subito dopo chiuso. La stessa azienda si era comportata in modo analogo con l’impianto di produzione dell’altro monomero, il difenilmetanodiisocianato, a Brindisi, acquistato e poi chiuso. In tal modo, in pochi anni fu eliminata la produzione dei monomeri per i poliuretani in Italia, a vantaggio di siti europei diversi.

Altra vicenda rilevante per il declino di Porto Marghera è quella dell’Ineos, che possedeva l’impianto di produzione di PVC, unitamente ad altri impianti a Porto Torres e a Ravenna. A partire dal 2003, la società aveva chiesto l’autorizzazione da parte della commissione tecnica VIA (Valutazione Impatto Ambientale) a realizzare un progetto di bilanciamento degli impianti di produzione di PVC e del suo monomero, che comportava l’aumento della produzione del cloruro di vinile monomero (CVM) e del relativo polimero e, contemporaneamente, l’investimento in miglioramenti ambientali di tutta la produzione. In caso di autorizzazione all’ampliamento, Ineos avrebbe avviato un percorso di modifiche degli assetti impiantistici, manifestando interesse all’acquisto da Syndial (ENI) dell’impianto cloro-soda per trasformarlo dalla tecnologia a catodo a mercurio a quella a celle a membrana, più accettabile dal punto di vista ambientale, e dell’impianto di produzione di 1,2-dicloroetano per clorurazione dell’etilene. L’Ineos, inoltre, aveva richiesto insieme ad altre aziende presenti nel polo che fosse costruita una nuova centrale elettrica a turbogas da 400 MW per abbassare il costo dell’energia elettrica, determinante soprattutto per il processo cloro-soda. Il ritardo nel ricevere l’autorizzazione e alcune preoccupazioni sulla sicurezza degli impianti da parte degli esperti del ministero (nonostante l’azienda avesse ribadito la propria disponibilità a sostituire i reattori in discussione) spinsero l’azienda a effettuare grossi investimenti in altri siti. Prima della chiusura di Marghera, Ineos acquistò in Norvegia due impianti cloro-soda con celle a membrana (uno appena costruito), un impianto di cracking di paraffine leggere per produrre etilene e propilene e diversi impianti di polimerizzazione, fra i quali uno di PVC. In Norvegia l’energia elettrica e l’etilene erano a più basso prezzo ed era possibile trasportare i prodotti via mare in Germania e, da qui, in Europa continentale. L’autorizzazione VIA per l’impianto di Marghera fu concessa soltanto il 19 marzo 2008, direttamente dal Consiglio dei ministri, ma Ineos si era oramai di fatto spostata in Norvegia. La stessa società avrebbe dovuto anche acquistare l’impianto cloro-soda e quello di dicloroetano della Syndial di Assemini e, nello stesso tempo, aumentare la produzione di PVC di Porto Torres, tuttavia nel 2010, insieme a Marghera, chiuse anche la produzione di Porto Torres e di Ravenna e uscì dall’Italia.

È inoltre opportuno segnalare che Solvay produceva a Marghera gas refrigeranti a base di idrofluorocarburi (HFC), adatti per rispettare il protocollo di Montreal sul buco dell’ozono, con un impianto di sintesi di HF e un secondo impianto che utilizzava questo composto per la fluorurazione di etileni alogenati. L’impianto di fluorurazione, un gioiello di tecnologia avanzata, fu chiuso, con una decisione motivata dalla sovrapproduzione di HFC e dalla forte concorrenza sui prezzi dei Paesi asiatici. Paradossalmente, il 29 dicembre 2009, poco dopo la chiusura dell’impianto, sarebbe scattato il divieto di produrre e commercializzare gli idroclorofluorocarburi, perché inquinanti, e quindi sarebbe subentrata la necessità di disporre in Italia di grandi quantità di HFC che, oramai chiuso l’impianto di Marghera, il Paese avrebbe dovuto importare dall’estero. Infine, Montefibre dapprima ridusse a Marghera la produzione di fibre acriliche a partire da acrilonitrile a 40 kt/a da una potenzialità nominale di 150 kt/a (riduzione motivata dall’alto costo dell’acrilonitrile, che non veniva più prodotto in Italia). Nel 2008 avvenne la chiusura definitiva. Montefibre costruì, dopo la riduzione della potenzialità di Marghera, un impianto di fibre acriliche da 100 kt/a in Cina, possedendone già un altro da 95kt/a a Miranda de Ebro in Spagna.

La chimica verde: una nuova prospettiva per salvare i poli chimici. – Polo verde a Marghera. – Nel 2013 ha avuto inizio la trasformazione della raffineria ENI di Marghera in bioraffineria, nella quale verranno utilizzati come materia prima, al posto del petrolio, oli vegetali e grassi animali, sulla base della tecnologia Ecofining, brevettata e sviluppata da ENI insieme all’azienda americana UOP. Si tratta del primo caso al mondo di riconversione di una raffineria convenzionale in bioraffineria. La produzione di biocarburanti è iniziata e crescerà progressivamente a fronte dell’entrata in esercizio di nuovi impianti, in particolare di un ulteriore impianto di produzione di idrogeno, che saranno completati nel primo semestre del 2015. La produzione di HVO (Hydrogenated Vegetable Oil) a Marghera, dove il prodotto principale sarà il diesel verde, coprirà il 50% delle esigenze di diesel dell’ENI, con una prima produzione di 300 milioni di t/a e poi, nel 2015, di 500 milioni di t/a. La materia prima, l’olio di palma, arriverà via nave dalla Malesia e dall’Indonesia, mentre successivamente saranno utilizzati anche oli non alimentari, quali oli di scarto da industrie alimentari, oli e grassi animali, oli esausti, olio da coltivazioni energetiche come jatropha e alghe. L’auspicio è che in futuro, a partire da questi biocarburanti, si potrà arrivare a biotensioattivi, biosolventi, biovernici, biocollanti, bioinchiostri, bioresine, biopolimeri, bioplastificanti e bioplastiche e quindi a una nuova chimica. Il diesel verde prodotto con il processo Ecofining viene ottenuto idrogenando l’olio a paraffine C16-C18 con coproduzione di propano.

Versalis, inoltre, ha stipulato un accordo con il governo nel novembre 2014 per attivare un polo chimico verde a Marghera insieme all’azienda americana Elevance renewable sciences, con l’intento di produrre biodetergenti, biolubrificanti e oli utilizzabili per perforazioni petrolifere a basso impatto ambientale. Inizialmente sarà realizzato un impianto di metatesi per trasformare oli vegetali ed etilene in bioolefine C8 -C10 e biolefine con gruppi acidi, che saranno poi trasformate in detergenti e lubrificanti mediante altri due impianti. Gli impianti a Marghera saranno realizzati entro il 2017 con un investimento di 200 milioni di euro.

Polo verde a Porto Torres. – Nel giugno 2014 è stato varato il primo impianto di chimica verde da parte di Matrìca, joint venture al 50% tra Versalis e Novamont, con l’obiettivo di riconvertire il petrolchimico di Porto Torres in uno dei più innovativi complessi integrati di chimica verde al mondo. Sul sito è prevista la costruzione di 7 impianti, per realizzare la bioraffineria più grande d’Europa e così riconvertire il vecchio polo petrolchimico chiuso da alcuni anni. La materia prima per la raffineria dovrà essere un olio vegetale insaturo; attualmente è utilizzato olio di girasole proveniente dalla Francia, ma in futuro si prevede di usare un olio proveniente dalle alghe, da oli esausti e da colture oleaginose autoctone come il cardo (c’è già un terreno coltivato di 13 ettari) e il cartamo. L’olio prodotto in Sardegna non dovrà provenire da colture alimentari e dovrà essere prodotto su terreni marginali, anche se sembra che la materia prima ideale sia un olio di girasole o di colza modificato per ottenere un elevato contenuto di acido oleico, che potrebbe essere in futuro coltivato in Sardegna. I prodotti di tutte queste materie prime costituiranno i monomeri per polimeri biocompostabili, materie prime per farmaci e cosmetici (liberi da olio di palma), biolubrificanti biodegradabili adatti per motori che operano in siti delicati (in mare e nell’agricoltura), bioplastificanti alternativi agli ftalati tossici, oli estensori per gomme per pneumatici con resistenza al rotolamento e aderenza all’asfalto bagnato maggiore rispetto a quella degli oli fossili, bioerbicidi.

Bibliografia: G. Trinchieri, Le industrie chimiche in Italia dalle origini al 2000, Mira 2001; A. Francini, F. Trifirò, Presente e futuro del petrolchimico di Marghera, «La chimica e l’industria», 2006, 9, pp. 18-23; F. Trifirò, Perché le industrie straniere continuano a lasciare l’Italia, «La chimica e l’industria», 2010, 2, p. 5; V. Zamagni, L’industria chimica italiana e l’IMI, Bologna 2010; F. Trifirò, Presente e futuro della chimica specialistica, «La chimica e l’industria», 2011, 8, pp. 98-105; F. Trifirò, Come sta cambiando l’industria chimica?, «La chimica e l’industria», 2012, 6, p. 5. Si veda inoltre: F. Trifirò, Le cinquanta industrie medio-grandi italiane, «La chimica e l’industria», 2014, 8, https://www.soc.chim.it/ files/chimind/pdf/2014_8_3717_on.pdf (13 apr. 2015).

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