Induismo

Enciclopedia del Novecento (1978)

Induismo

OOscar Botto

di Oscar Botto

Induismo

sommario: 1. Formazione del concetto di induismo. Caratteri generali. Moderne interpretazioni. 2. Induismo antico e induismo classico. Le costanti di una tradizione ininterrotta. a) Induismo protostorico e mondo vedico. b) Stadi dell'esistenza e caste. c) Viṣṇu e Śiva. Interiorizzazione della fede. d) La via universale alla salvezza. e) Gli avatāra. Kṛṣṇa e la Bhagavadgītā. Lo svadharma. f) La bhakti. g) Śaktismo e Tantrismo. h) Principali correnti. 3. Il difficile equilibrio tra nuovo e antico. 4. La continuità della tradizione. □ Bibliografia.

1. Formazione del concetto di induismo. Caratteri generali. Moderne interpretazioni

Per i lunghi millenni in cui è venuta sviluppandosi attraverso un fecondo proliferare di scuole soteriologiche locali o estese a tutto il continente, la spiritualità dei popoli che abitano l'India non si concreta in un'immagine globale del tipo che in Occidente ci forniscono le religioni cristiana, ebraica o musulmana. I diversi indirizzi che si esprimono in queste scuole tracciano sì i confini di una loro ortodossia, qualificando coloro che non coincidono con essa con termini negativi quali apathagāmin (‛fuorviato') o vaidharmika (‛oppositore della retta legge'), ma soltanto nel periodo più antico alle strutture più compatte, come quelle della comunità buddhista e giaina, sembra corrispondere la presa di coscienza di un'autonoma immagine delle corrispondenti soteriologie, alla quale si accompagna una catalogazione di ‛eresie' in cui le altre posizioni sono incasellate come modi erronei di pensare. Appunto come reazione a tali insegnamenti intolleranti, che si pongono criticamente nei confronti del retaggio immemorabile dei Veda (i testi orali della tradizione brahmanica cui le altre scuole prestano un omaggio almeno formale), i sostenitori di queste tracciano una grande distinzione tra āstika (‛assertori dell'esserci', dell'autorità dei Veda e della coscienza permanente dell'uomo nell'uno o nell'altro rapporto con l'Assoluto) e nāstika (‛negatori dell'esserci', rispetto a uno o più di questi punti). Il fatto che la stessa terminologia si ritrovi all'interno dei testi buddhisti e giaina mostra l'irrigidimento anche di tali movimenti soteriologici in una corrispondente valutazione discriminante.

All'interno dell'‛ortodossia brahmanica' così individuata, infinite differenti dottrine si affermano, talora combattendosi vicendevolmente, altre volte convivendo in reciproca tolleranza o in delicato equilibrio di potere. Non tanto il fatto di trovarsi all'interno del mondo degli āstika, di condividerne le convinzioni fondamentali nell'una o nell'altra accezione, è sentito come portatore di liberazione dal ciclo delle rinascite e garanzia di corretta prospettiva nella lettura del cosmo e della vita umana, quanto piuttosto l'appartenenza a una certa linea di successione spirituale (saṃpradāya), che in taluni casi coincide con una scuola o sottoscuola con accentuato carattere dottrinale, mentre in altri individua semplicemente l'eredità prestigiosa di qualche grande figura di Maestro, il cui divino carisma si trasmette ai suoi epigoni. L'adesione a un saṃpradāya, poi, si presenta variamente come lealtà a tradizioni familiari ancestrali, talora iscritte nella complessità della struttura castale, o come scelta individuale, compiuta attivamente dal ‛convertito' o passivamente, in obbedienza a un comando del Maestro.

Tale è la situazione al momento del collasso politico degli edifici statali indiani e della crisi della società che li ha espressi (specie a livello d'élite) sotto i colpi ripetuti delle invasioni musulmane a partire dall'XI secolo. Gli invasori si identificavano con una comunità di fede, l'Islām, che forniva un'immagine ben netta di sé ai propri seguaci, nonché un rigido sistema di classificazione di quanti a essa non appartenevano: da un lato le comunità ebraica e cristiana, partecipi di una comune matrice biblica e considerate ‛popoli del libro' (ahl al-kitāb), dall'altro i politeisti idolatri (ahl al-autān). Con i primi è lecita la convivenza - in condizioni di inferiorità rispetto ai musulmani e con il pagamento di pesanti tributi (ḫarāǧ); con i secondi, almeno in via di principio, l'alternativa è fra la conversione e la spada.

La storia del progressivo adattamento dell'Islām ai teatri umani delle sue conquiste è, in buona parte, la storia dell'estensione della prima categoria rispetto alla seconda: se in Irān essa finisce per comprendere i seguaci dell'ortodossia mazdea (non però i Manichei, perseguitati sistematicamente sotto il nome di Zindīq), in India la situazione si mantenne per secoli ben più fluida. Gli infelici popoli via via sottomessi avevano contro di loro le eloquenti testimonianze d'una vita interiore che dedicava largo spazio al culto templare e domestico di forme divine svariate, rappresentate iconicamente, ciò che li esponeva in qualsiasi momento a esplosioni di violento zelo da parte dei nuovi dominatori: massacri e spoliazioni indiscriminate stavano sospesi sul capo degli Hindu (Indiani), come, con vocabolo iraniano, i conquistatori li designarono. Solo un lento processo di adattamento permise che essi fossero alla fine riconosciuti come dimmī (protetti) allo stesso titolo dei ‛popoli del libro' e sottoposti al tributo, divenuto coll'andar del tempo un testatico (ǧizya). Questo comportò un trattamento amministrativo particolare, per cui i Maestri dei saṃpradāya più prestigiosi si videro riconoscere talora un'autorità giuridica sui loro seguaci e anche su altri settori della popolazione non islamica, similmente a quanto accadde altrove ai capi di comunità religiose cristiane ed ebraiche sotto il dominio musulmano.

Questo processo ebbe il duplice effetto di rinsaldare negli āstika l'immagine della loro ortodossia con una certa corrispondenza al concetto unitario di ‛paganesimo' che se ne facevano i dominatori allogeni, accentuando gli elementi culturali della loro Weltanschauung come fattore caratterizzante rispetto alla fede professata dai musulmani, e di porre in rilievo il complesso delle osservanze sancite nei Dharmaśāstra, i testi autorevoli relativi ai modelli di condotta configurati nella letteratura vedica e nella tradizione che ne dipende. Questo secondo effetto fu facilitato dalla vasta discrepanza tra la cultura dell'India, pur nella varietà del suo atteggiarsi nei differenti luoghi in cui si era elaborata nei millenni, e la cultura dei conquistatori: non si trattava più di opposizioni dottrinali tra āstika e nāstika, partecipi di un comune stile di vita e di un comune retaggio, ma dello stridente divario fra questo stile di vita e quello islamico, sentito come proprio di barbari (mleccha) privi dei più elementari requisiti di purezza e decenza. Un dialogo dottrinale, che avrebbe presupposto almeno un accordo di fondo su questi punti, oltre a un comune linguaggio filosofico-speculativo, doveva necessariamente mancare, fatta eccezione per una serie di sincretismi sorti nell'India settentrionale (per es. quelli fondati da Guru Nānak e da Kabīr a cavallo fra i secoli XV e XVI), in cui peraltro la soteriologia ha i tratti d'una mistica più che d'una indagine razionalmente articolata nel solco del pensiero classico dell'India.

L'arrivo degli Europei e il graduale sostituirsi del loro dominio a quello musulmano pose, tra gli altri problemi, quello di un'individuazione più meditata della peculiarità della ‛religione' indiana da parte degl'Indiani stessi. Il dato di partenza era costituito dalla distinzione tra musulmani e non musulmani o Hindu, ben consolidata nella consapevolezza dei due gruppi della popolazione e nella prassi amministrativa. Mentre le strutture di potere britanniche ne prendevano atto, e i missionari delle diverse denominazioni cristiane trattavano gli Hindu come seguaci di una ‛religione' caotica, ma riconducibile in qualche modo a un'unità ideale, gli studiosi occidentali, nel loro tentativo di comprendere e analizzare la visione del mondo indiano con le loro categorie religiose, assegnavano il nome di ‛induismo' alla fase più recente delle sue vicende. Se il nome fu universalmente e acriticamente accettato, il suo contenuto formò ben presto oggetto di precisazioni che riflettevano il disagio sollevato dal sistema di presupposti concettuali che in esso si rifletteva. Agli occhi degli Indiani, essere hindu significava non tanto abbracciare una ‛religione' nel senso occidentale del termine, quanto appartenere a una comunità dotata di una certa struttura castale, adempiere una serie di atti variamente classificabili (secondo il metro delle nostre categorie) come sociali, cultuali, magici, giuridici e rispondenti a un galateo di norme ‛civili' di comportamento, ed eventualmente, nel caso dell'appartenenza a un sampradāya, aderire agli insegnamenti espressi nel suo ambito e alla particolare prassi di vita da esso raccomandata. In una parola, questa categoria - nata per esclusione rispetto a quella di Islām - era divenuta uno strumento di comodo per designare tutta quanta la cultura e la civiltà dell'India nelle loro ripercussioni sul vivere quotidiano.

Sotto l'influsso della confusa immagine di induismo introdotta dai nuovi mleccha, che colorava intensamente il contatto fra questi e la popolazione soggetta, si fece strada rapidamente, specie negli strati d'élite di formazione culturale europea, l'esigenza di approfondire il senso e la portata della loro ‛indianità'; in verità, la nascente coscienza nazionale contribuiva come uno stimolo imperioso a questa ricerca d'identità in forme non più irriflesse. Prima e dopo la raggiunta indipendenza dell'India, la riflessione di generazioni di ‛intellettuali', sia indiani che occidentali, ha creato una serie di interpretazioni che godono di un seguito di varia consistenza numerica e di vario prestigio, e appaiono ormai consolidate. Le interpretazioni tradizionali (smārta) dell'induismo definiscono questo fenomeno socio-religioso come sanātanadharma (dharma eterno), o come vaidika-dharma (dharma che si fonda sulla rivelazione contenuta nei testi vedici), la cui ortodossa accettazione ha contraddistinto nei secoli la condotta degli āstika. Ci troviamo qui di fronte a un vocabolo di fondamentale importanza e di interpretazione assai complessa. Dharma (la parola deriva dalla radice dhr, la stessa del latino firmus (forma) è nello stesso tempo la ‛legge' morale e religiosa, ma anche sociale, l'‛ordine' non solo civile e terreno, ma anche del cosmo e, nel suo significato più sottile e più difficile a penetrare, esso è l'essenza stessa delle cose e degli eventi. La religione indiana - o, se vogliamo, l'induismo - è la storia delle varie manifestazioni del dharma attraverso i secoli, ed è nello stesso tempo la storia delle ‛vie' scoperte dagli uomini per uniformarsi alla ‛legge' eterna, per penetrarne l'imperscrutabile segreto, per trascendere la mutevolezza di un perenne divenire (saṃsāra) nella serena e indistruttibile fissità del mokṣa. I concetti di saṃsāra e di mokṣa sono di fondamentale importanza per tutta la tradizione religiosa e filosofica indiana (e non solo per quella ortodossa): il primo riguarda la credenza nel principio di esistenze cicliche la quale vuole egualmente soggetti a una medesima legge dèi e uomini, esseri animati ed esseri inanimati. Tutti quanti sono infatti trascinati e compresi in una sorta di flusso che scorre senza posa e porta con sé tutte le anime le quali maturano di esistenza in esistenza, in una serie continua di nascite e morti e sotto differenti spoglie, i frutti delle azioni (karman) compiute nelle esistenze precedenti.

Quella della rinascita non è idea peculiare dell'induismo: comune ad altre religioni antiche, essa ha tuttavia ricevuto dall'induismo una teorizzazione razionale, metafisica, con implicanze etiche di grandissima importanza. L'uomo non vive, secondo gli Hindu, una sola volta; egli può bensì rinascere e rimorire un numero infinito di volte, e può rinascere in una condizione migliore o peggiore della precedente a seconda che i frutti delle sue azioni abbiano maturato un karman positivo o negativo. La ferma convinzione che ogni singolo individuo è stato nel proprio passato artefice del proprio bene e del proprio male presente, così come lo è nella vita attuale per le sue esistenze future, porta a considerare le cose sub specie aeternitatis e determina una più matura e consapevole responsabilità morale, induce a un'accettazione rassegnata ma non fatalistica degli eventi avversi, a una maggiore misura nel soddisfacimento dei desideri.

L'ideale perseguito senza posa da ogni hindu non è tanto quello di conseguire una condizione migliore in un'esistenza futura, quanto quello di conseguire la liberazione (mokṣa, mukti) dal karman, emancipandosi da quell'eterno fluire delle rinascite nell'infinito mare dell'essere, di cui esso è la causa determinante e inesorabile. La problematica relativa al processo karmico, stabilito l'automatismo della sua dinamica e l'assenza in esso di qualsiasi principio di casualità indiscriminata e arbitraria, è dunque connessa con le diverse accezioni attribuite al termine mokṣa e, di conseguenza, con la scelta delle varie soluzioni proposte per realizzarlo. Il mokṣa, a seconda delle interpretazioni date dai diversi sistemi induisti - per non tener conto delle sue implicazioni nelle dottrine giainica e buddhista -, viene concepito quale scioglimento del vincolo costituito dalla materia e dal mondo; quale superamento dell'ignoranza (avidyā) e quale coscienza della fondamentale unità dell'Uno-tutto, dell'Assoluto (brahman) con l'anima individuale (ātman; Īśa-Upaniṣad); quale soffocamento del proprio egoismo, della passione e dell'odio; quale dominio della propria condotta e conseguente distacco dal frutto della propria azione (Bhagavadgītā), o ancora, come sostengono le correnti teiste, quale stato di ‛beatitudine cosciente'. In ogni caso, lo si intenda quale superamento dei confini dell'individualità empirica in un'identificazione con l'Assoluto impersonale, o quale fruizione - per mezzo della bhakti - di una celeste infinita beatitudine in unione perenne con un Dio personale, dispensatore di grazia, lo si consideri conseguibile ‛al momento stesso (della morte)' (sadya-mukti), o ‛per gradi' (krama-mukti), o ‛quando ancora si è in vita' (jīvan-mukti), il mokṣa è piena realizzazione di uno stato che è insito nell'individuo e non è già conquista di un qualcosa che ancora non gli appartenga. Il suo inverarsi segna ‛il cammino dello sviluppo dell'anima' in una progressiva ricerca di perfezionamento etico.

Infinite, numerose come gli esseri viventi di tutte le ere, sono le vie che conducono a questa esperienza ineffabile, ma tutte quante rientrano sostanzialmente in due grandi categorie, a seconda che sostengano la validità dell'azione nel mondo (pravṛtti) o che, all'opposto, propugnino l'efficacia dell'inazione e della passività totale (nivṛtti). Tali vie si possono basare sulle opere (karman) - siano queste intese come adempimenti rituali o come azioni compiute in base alla norma del dovere che compete al proprio stato sociale - oppure sulla conoscenza (jñāna), o infine sulla devozione amorosa (bhakti) e sullo spontaneo totale abbandono a una divinità personale e salvifica. Le varie vie sono tutte valide e tutte coesistono, e non solo non si escludono a vicenda, ma si integrano reciprocamente e si perfezionano in una visione sempre più completa della condizione umana nel mondo. In tale codice di condotta, in luogo delle caste (jāti) che concretamente rappresentano, in un mosaico di centinaia di gruppi eterogenei, il tessuto sociale dell'India, l'enfasi è posta interamente sui varṇa, le grandi divisioni funzionali teorizzate fin dai Veda e presenti in tutto il mondo indoeuropeo (si pensi alle classi della società dorica o alla Repubblica di Platone). I suoi moderni sostenitori sono quindi impegnati da un lato a estromettere, per quanto è possibile, da un induismo ideale fedele al suo antichissimo retaggio la complessità delle caste stesse, condannata come degenerazione, mentre dall'altro, sotto la pressione delle circostanze, estendono l'immagine del sanātanadharma fino ad abbracciare una vastissima gamma di modelli di comportamento relativamente recenti, anche interconnessi con la struttura castale. Lo strumento di questa riformulazione della più antica immagine consapevole che l'ortodossia brahmanica abbia fornito di se stessa è la distinzione tra sāmānyadharma (il codice di condotta comune a tutti gli uomini, il cui carattere è quello di una serie di grandi imperativi etici) e viśeṣadharma (il codice di condotta particolare di coloro che - per nascita - si trovano soggetti alla struttura sociale indiana). Si vengono in questo modo a configurare due induismi: il primo, che regge tutta l'umanità eternamente; il secondo, che è proprio degli Hindu, a partire dal dominio musulmano. È evidente come a nessuno dei due sia possibile convertirsi: a quello universale, perché già si appartiene a esso; a quello nazionale, perché gli mleccha non possono entrare a far parte delle caste donde la loro nascita li esclude a priori.

Le interpretazioni settarie, fiorite in seno ad alcuni saṃpradāya a carattere accentuatamente devozionale, i cui esponenti sono desiderosi di raccogliere proseliti (oggi si tratta di un'operazione che mode esotiche, disagio spirituale e genuino interesse collaborano a rendere facile in Occidente), identificano in genere l'induismo con gli insegnamenti di cui sono rispettivamente portatori, talora con effetti decisamente riduttivi rispetto a tale nozione. Tuttavia, questa ristrettezza è compensata da un'apertura ‛universalistica' in diretta connessione con l'appello della bhakti, l'amore fatto di dedizione totale e di gioioso abbandono al divino, a tutti gli strati della società indiana. Quella che fino a ieri era l'estensione dei requisiti per un approccio devozionale alle figure sacre della tradizione anche alle caste più disprezzate e - almeno in certi casi - alla terra di nessuno dei fuoricasta, non fatica a trasformarsi in estensione agli stessi mleccha, al di fuori dei confini del sub-continente indiano. La tensione tra interpretazioni settarie e interpretazioni tradizionali è percepibile appieno nel problema dell'accesso ai templi dei ‛convertiti' all'induismo. In molti dei più venerati santuari dell'India, la legislazione asseconda le preoccupazioni della larghissima maggioranza della popolazione interdicendo l'ingresso ai non-Hindu. Il comportamento spesso irrispettoso dei turisti occidentali, che ferisce profondamente gli umili frequentatori di questi luoghi sacri, giustifica appieno il provvedimento. Il problema sollevato sorge dalla definizione stessa del concetto di hindu: secondo le prevalenti interpretazioni tradizionali, recepite di norma dalla giurisprudenza ai fini di una determinazione giuridica di tale concetto, l'appartenenza etnica ai popoli dell'India è requisito ineliminabile perché un individuo si possa dire hindu (l'appartenza alle caste, che era considerata anch'essa requisito necessario per essere ammessi in un santuario, è stata posta in non cale dalla politica inaugurata dal Mahātmā Gāndhī). I ‛convertiti' occidentali devono essere pertanto considerati non-Hindu che hanno adottato il modo di vita degli Hindu senza divenire tali, e vanno esclusi dai templi. Un vasto movimento di opinione, specialmente nell'ambito delle popolazioni urbane occidentalizzate, è favorevole ad abolire questa restrizione, ma, caratteristicamente, i suoi argomenti si basano su un'auspicata maggior larghezza di vedute e sulla fiducia nel rispetto che i ‛convertiti' mostrerebbero verso i templi, anziché sull'opinione che essi siano divenuti realmente Hindu. Questa è sostenuta soltanto dai seguaci dei saṃpradāya in seno a cui è avvenuta la ‛conversione' (come per es. la International Society for Krishna Consciousness, che peraltro esige l'adozione del ‛modo di vita hindu' anche in dettagli che una parte degli stessi Indiani oggi trascura sotto l'effetto della laicizzazione di matrice occidentale).

Le interpretazioni moderniste contraddistinguono i primi riflessi sulla coscienza indiana del contatto con il mondo religioso anglosassone e con le sue diverse correnti al tempo della dominazione inglese. Da un lato, esse sono preoccupate di sottolineare nell'immagine dell'induismo i tratti più ‛rispettabili' a occhi occidentali o occidentalizzati, insistendo sugli elevati insegnamenti etici e speculativi come gli elementi più significativi o addirittura più genuini della religione indiana. Dall'altro, esse non solo combattono con zelo implacabile gli aspetti dell'esperienza del sacro che urtano contro i dettami dell'etica puritana assimilata dai nuovi conquistatori (quali, per es., le pratiche erotico-mistiche dei saṃpradāya di tradizione śākta, l'uso del matrimonio dei fanciulli e quello del suicidio delle vedove sulla pira funebre del marito, l'istituzione delle danzatrici sacre presso alcuni templi), ma avversano altresì le stesse forme del culto incentrato su rappresentazioni iconiche delle forme divine, condannate come una forma di superstizione che inquina la purezza dell'induismo. Organizzazioni come il Brāhmasamāj (che nella seconda metà del XIX secolo servì da punto di riferimento all'élite bengalese più aperta ai lieviti del pensiero religioso protestante) o il meno estremista Prārthanāsamāj (che gli fece eco a Bombay) hanno ormai un'importanza quasi soltanto storica; al contrario, il loro coevo Āryasamāj - punta di diamante dell'opposizione indiana all'Islām - che pagò un tributo di sangue alla sua ideologia quando la spartizione dell'India pose in mani musulmane il suo centro a Lahore, è ben vivo e battagliero, anche nell'azione politica.

Le interpretazioni scientifiche, che riflettono le convinzioni maturate da studiosi nei quali la seria preparazione accademica è talvolta colorita dalla personale appartenenza all'uno o all'altro saṃpradāya, contribuiscono a un continuo approfondimento del contenuto dell'induismo, mettendone in rilievo la poliedricità e cercandone i nuclei fondamentali nell'uno o nell'altro aspetto dottrinale. Nel profondo e sincero convincimento che l'induismo possieda implicite nei propri insegnamenti risposte e soluzioni per tutte quante le attese maturate ed espresse in ogni epoca, essi si propongono di rafforzare e rendere fattivi, sulla base di una razionalizzazione critica e costruttiva che riconosce ed emargina gli aspetti negativi dell'induismo, proprio quei principi essenziali capaci ‛di evolversi, di giungere in ogni parte, di vivificare il mondo'. È soprattutto a questo livello, in cui maggiore è l'informazione, meno rigida l'impostazione generale del pensiero e più attiva e feconda la ricerca, che il problema dell'identità degli Hindu acquista tutto il suo spessore e diviene fonte di una ricchissima serie di riflessioni, suscettibile di arrecare contributi anche fuori dell'ambito strettamente accademico, plasmando in rilevante misura la spiritualità stessa di molti aspiranti a un'esperienza liberatrice. Tale è il caso, per fare un nome ben noto anche in Occidente, dell'eminente filosofo Sarvepalli Radhakrishnan, che ha partecipato attivamente alla più recente messa a fuoco dei contenuti dell'idea di induismo.

Giova tuttavia rilevare che ogni via di razionalizzazione, di liberalizzazione, di strutturazione filosofica dell'induismo tradizionale resta, più che altro, un fenomeno di élite destinato a fare scarsa presa sulle folle, le quali, come ha sottolineato il Dandekar, ancora e sempre si accontentano di poter praticare la propria religione tradizionale in modo non dissimile dal passato, scegliendo tra le tante dottrine e confessioni, in mezzo a un'infinita gamma di riti, quelli che più si confanno alle loro attese e alla loro sensibilità, in tutto soddisfatte di quel tanto di conforto che esse sono in grado di ricavarne. In realtà, il neoinduismo ha nelle sue stesse caratteristiche essenziali e costitutive la forza per rispondere in maniera adeguata - come già nel passato - alle sollecitazioni dei tempi moderni. L'assenza di principi dogmatici, la mancanza di rigide strutture istituzionalizzate, la sincera convinzione che infinita è la pluralità delle vie per giungere alla Verità, la tolleranza nei confronti delle altre religioni e la tendenza ad assimilarne gli insegnamenti più validi, la capacità di integrare il nuovo come parte organica di una tradizione che pure ha radici tanto lontane nel tempo, il principio della non-violenza, che implica il rispetto per ogni forma di vita, ma soprattutto la forza intima della sua spiritualità assicurano all'induismo una vitale capacità di rinnovarsi e ne fanno veramente uno dei punti di riferimento per approfondire il dialogo e la comprensione reciproca fra le diverse religioni dell'umanità. Se è vero che i fenomeni storici si porgono all'analisi dell'indagatore per una valutazione globale non timorosa di smentite troppo radicali solo in quanto totalmente appartenenti alla fissità del passato, il fatto allora che l'induismo resti più che mai oggi un'etichetta sfuggente, che copre una realtà tuttora in divenire - la cui scoperta è, per essa come per uno spettatore esterno, un orizzonte che si spalanca su interrogativi irrisolti e inquietanti - prova che la visione indiana del mondo e della vita, benché appesantita da millenni di elaborazioni concettuali e dispersa in una galassia di scuole, sottoscuole, sette e tradizioni divergenti, non ha perduto nulla della profonda e complessa vitalità che l'ha sempre animata. L'induismo resta il punto d'incontro nel quale convergono e coesistono in una feconda commistione componenti eterogenee e a volte contraddittorie, lontane intuizioni e più recenti istanze speculative, elementi di culture aborigene ed esperienze di culture giunte dal di fuori dell'India. Esso è lo specchio eloquente e fedele della millenaria civiltà indiana. L'india, patria d'origine di alcune tra le più importanti religioni dell'umanità, ha infatti accolto sul proprio suolo, con spirito aperto ed egualitario, tutte le principali confessioni del mondo, e ha fatto posto a forme culturali sopravvissute a un remoto passato. Ma è proprio grazie all'induismo - tanto nella sua forma ‛sanscritica', colta e panindiana, quanto in quelle popolare e urbana - che essa ha potuto conservare intatta, dalla preistoria ai giorni nostri, in mezzo a un'infinita e caleidoscopica varietà di culti, di devozioni e di credenze, la continuità ideale della sua tradizione. Essa ha infatti resistito al penetrante attacco del buddhismo, rivoluzionario sul piano sociale e ostile ai riti; ha resistito alla fanatica ricerca di proseliti e al furore iconoclastico dei musulmani, continuando a mantenere attraverso i secoli, spesso silenziosamente, ma sempre tenacemente e senza soluzione di continuità, quel ‛sottofondo' culturale che caratterizza e qualifica tutta la civiltà dell'India.

2. Induismo antico e induismo classico. Le costanti di una tradizione ininterrotta

a) Induismo protostorico e mondo vedico

L'induismo ha origini assai lontane, origini che risalgono a prima della religione ariana vedica, per lungo tempo considerata, ma erroneamente, come la più antica fase di questo movimento religioso e sociale. In realtà, i reperti archeologici della valle dell'Indo documentano già l'esistenza di una religione iconolatrica dissimile da quella vedica (che era aniconica) e direttamente collegata con l'induismo classico. La divinità in essi raffigurata è di tipo itifallico: emblematicamente affine, se non identica, al Śiva dell'induismo classico, con il quale appare culturalmente associata dalla presenza di attributi peculiari quali il toro, il fallo e il tridente, e dalla comune connessione con il culto della Dea Madre, della fertilità e del serpente. Queste e altre connessioni, valide soprattutto - ma non esclusivamente - per quanto concerne il culto di Śiva e le sue complesse implicanze, comprovano la continuità che collega strettamente l'induismo classico alla religione preariana dell'Indo, la quale si presenta pertanto come vero e proprio induismo protostorico. È perciò evidente che forme e credenze di questa primitiva fase religiosa risultano soltanto oscurate ma non cancellate del tutto dal temporaneo sovrapporsi, in una sorta di ‛interludio' storico-culturale, delle credenze religiose vediche (v. Dandekar, 1971, p. 247).

Furono comunque gli Ārya, o ‛nobili', come essi amavano chiamare se stessi per contrapporsi alle popolazioni conquistate (dāsa) a introdurre in India, insieme con una nuova lingua (il vedico, che sta alla base del sanscrito classico) e con un nuovo sistema sociale, i principi di quella religione cosmica che essi e i loro antenati, i proto-Ārya, avevano concepito quando ancora vivevano uniti intorno a Balkh, prima della loro diaspora verso le regioni dei Mitanni, l'Irān e le terre dei ‛sette fiumi' nella piaga nord-occidentale dell'India. Proprio a queste popolazioni arie risale (c. 1500-500 a. C.) quella innologia religiosa che costituisce la più antica documentazione letteraria di questa civiltà, ossia il Veda, espressione del ‛sapere' sacro e profano a un tempo, considerato ancor oggi come rivelazione divina (śruti). Nel suo significato più restrittivo, il Veda comprende solo la ‛triplice scienza' (trayī-vidyā), costituita da tre raccolte (saṃhitā) di inni, canti e formule sacrificali denominate rispettivamente Ṛgveda, Sāmaveda e Yajurveda. In senso lato, invece, il Veda comprende, oltre alla trayī-vidyā una raccolta di formule magiche (Atharvaveda), una serie di manuali di ritualistica (Brāhmaṇa), opere teologiche integrative (Ārạyaka), testi di dottrina arcana (Upaniṣad) e, infine, una serie di opere di carattere ausiliario che trattano di tutte le branche del sapere profano e religioso e, in particolare, delle scienze più strettamente connesse con il rito e la pratica sacrificale; questi ultimi testi, per essere redatti in una particolare prosa aforistica, sono noti sotto il nome comprensivo di Sūtra.

Durante questo periodo la società indiana è dominata dai membri della prima delle quattro caste (varṇa) cioè dai brāhmaṇa (sacerdoti), detentori per eccellenza della rivelazione, conoscitori perfetti del Veda e del corretto compimento dei riti e delle opere sacrificali. In sottordine ai brāhmaṇa stanno gli appartenenti alle altre caste: gli kṣatriya (guerrieri), i vaiśya (artigiani e mercanti) e gli śūdra (addetti ai lavori servili). I brahmani sono dunque una classe sociale privilegiata: essi soli sono, nel mondo, gli interpreti - ma non gli autori - della trayī-vidyā. La composizione del Veda è dovuta a famiglie di ṛṣi (veggenti) che raccolsero questa rivelazione per comunicarla agli uomini. I loro inni (alludiamo qui in particolare a quelli del Ṛgveda, musicati poi per il canto rituale nel Sāmaveda) ci presentano un pantheon di divinità le cui caratteristiche si richiamano ai fenomeni più imponenti e appariscenti della natura. Ma il significato intimo e reale delle divinità vediche non si esaurisce semplicemente nella sola componente naturalistica. Il pantheon vedico, infatti, ben più complesso e comprensivo nei suoi motivi di ispirazione, si appoggia su una mitologia in progressiva evoluzione, nella quale trovano posto l'aspetto cosmico e l'aspetto eroico e, come nel caso di Indra - attorno alla cui figura si sono cristallizzati antichi temi popolari di lotte cruente contro demoni e draghi -, gli esiti di un processo di mitizzazione della storia. La teologia vedica - inquadrata nella concezione di un Universo in completa armonia, di un cosmo retto dalla legge indefettibile del ṛta, sulla quale si imperniano tanto l'ordine del macrocosmo quanto l'ordine umano, l'etica e la condotta sociale - si presenta pertanto come ‟un grandioso tentativo di interpretare gli eventi e l'ordine del cosmo" (v. Gonda, 1971, p. 287).

Fra le divinità del pantheon vedico - che i commentatori più tardi provvidero a distribuire secondo una suddivisione tripartita, ma centralmente agerarchica, in divinità del cielo, dell'atmosfera e della terra, per un totale di trentatré dei - emergono le figure di Sūrya (il Sole), Uṣas (l'Aurora), Varuṇa (forse il greco Urano, ordinatore del cosmo e custode del ṛta), Mitra (l'‛Amico' per eccellenza degli uomini). Nell'atmosfera domina Indra, il dio delle tempeste e della pioggia fecondatrice: la sua mitologia ha il tema centrale e dominante nella terribile battaglia che egli ingaggia contro il demone Vṛtra - l'antagonista per eccellenza - e la vittoria che egli ottiene sul demone simboleggia la vittoria del progresso e del bene (sat) contro le forze dell'inerzia e del male (asat). Indra, con il suo corteggio dei Marut (i Venti), è divinità tipica della casta guerriera, che fin dall'epoca più antica si contrappone a quella sacerdotale (la cui divinità per eccellenza è Varuṇa) in un contrasto sempre fecondo di nuovi fermenti. Le principali divinità terrestri sono, invece, connesse con il sacrificio (yajña), che sta senza dubbio al centro della religiosità vedica: così Soma (una bevanda inebriante che i brahmani libavano alle divinità bevendone poi essi stessi) e Agni (lat. ignis, il fuoco, in particolare il fuoco sacrificale) che non solo funge da tramite tra gli uomini e le divinità, consentendo a queste ultime di cibarsi dei sacrifici loro offerti, ma riveste anche le funzioni di psicopompo, accompagnando le anime dei defunti nell'aldilà attraverso la pira funebre.

Il sacrificio vedico è in realtà un vero e proprio sistema religioso a sé stante, non condizionato da fattori esterni ma essenziato di connessioni cosmiche e spesso correlato alle ricorrenze cicliche dei fenomeni naturali. Ai sacrifici più complessi di carattere pubblico (a uno o più fuochi) partecipano diverse classi di sacerdoti, e tra questi il brahman viene ad assumere gradatamente una posizione di primo piano, circondato com'è da un alone di magia che lo innalza agli occhi dei fedeli e dei committenti, i quali individuano in lui il conoscitore della vera essenza e, per così dire, dell'intimo segreto dell'opera sacrificale. Il suo stesso nome, brahman, che usato al neutro indica la formula magica che garantisce la fruizione dell'opera sacrificale, ripreso nella speculazione delle Upaniṣad vi indicherà l'Assoluto indifferenziato che è l'essenza di tutte le cose. Ai sacrifici solenni - come quello del Soma, o quello del cavallo (aśvamedha), inteso a sancire la supremazia di un sovrano - si affiancano sacrifici pubblici e sacrifici privati, e quasi tutti gli atti e i gesti della vita quotidiana finiscono per assumere il carattere di un sacrificio. Questa presenza del senso del rito e del sacro in tutta la vita serve a salvaguardare il brahmano da ogni forma di impurità, e gli consente di compiere atti che sarebbero altrimenti impuri, come ad esempio il cibarsi di carne, che va contro il principio dell'ahiṃsā (cioè della rinuncia al desiderio di uccidere); il brahmano potrà pertanto cibarsi di carne, purché questa sia costituita dai ‛resti' (śeṣa) delle vittime offerte agli dei. Quello dell'ahiṃsā (letteralmente: ‛assenza del desiderio di uccidere') è un altro dei principi fondamentali della civiltà indiana. Probabilmente di origine non vedica e pre-ārya, questo principio fu esaltato soprattutto dal buddhismo e dal giainismo, ma ha ispirato nello stesso tempo gran parte della vita religiosa dell'India all'interno dell'ortodossia brahmanica. In virtù di questo principio non solo i brahmani divennero vegetariani, per scelta deliberata, ma in generale ogni forma di vita cominciò a essere fatta oggetto del massimo rispetto, non escluse le forme di vita vegetale. La radice del comandamento dell'ahiṃsā si trova nella legge del saṃsāra, secondo la quale le anime individuali possono rivestirsi di svariati corpi, appartenenti a ogni forma di vita animata, e tale principio è tutt'oggi così radicato in India da costituire una delle costanti del modo di vivere di ogni indiano timorato di Dio e da informarne profondamente i sentimenti e la condotta. È questo principio che, perdurando immutato nel tempo come pilastro essenziale dell'etica dell'induismo, assumerà nel Novecento, insieme con la nozione correlata del satyāgraha, forme più intense e peculiari, quelle, per intenderci, che Gāndhī esalterà sul piano politico e sociale, come estrinsecazioni della forma dello spirito contrapposte alla ‛violenza' che è invece ‛legge della forza bruta'.

b) Stadi dell'esistenza e caste

Non solo la vita quotidiana del brahmano, ma la sua intera esistenza è regolata da leggi precise, e si deve svolgere entro uno schema in quattro ‛stadi' (āśrama) successivi la cui impostazione risale forse al momento dell'incontro fra gli Ārya e le popolazioni indigene dell'India, e la cui struttura fu certo influenzata dal principio dei tre debiti ‛ che accompagnano l'uomo al suo nascere: il debito contratto con gli dei (deva-ṛṇa), il debito con i ṛṣi (ṛṣi-ṛṇa) e quello con gli antenati (pitṛ-ṛṇa). Il primo di questi stadi - la cui realizzazione pratica è oggi, almeno quanto a osservanza delle prescrizioni tradizionali, piuttosto rara comporta la castità, un periodo dodecennale di alunnato (brahmacārya) e l'obbedienza a un maestro (guru) dal quale si apprenderà l'insegnamento dei testi rivelati. Nello stadio di ‛capo famiglia' (gṛhastha) il brahmano, oltre a ottemperare ai propri doveri familiari e sociali, deve compiere i propri grandi doveri morali (yajña, ‛sacrifici'), che comportano la conservazione del patrimonio culturale acquisito alla scuola del guru, l'omaggio quotidiano ai propri antenati, l'offerta agli dei e alle ‛creature', e infine il superamento dell'egoismo e l'impegno a spartire il proprio con altri. Nella stessa linea ideale di quest'ultimo ‛sacrificio', Vinoba Bhave porrà nel Novecento l'atto purificatorio della rinuncia alla proprietà, quello cioè con cui i proprietari terrieri attueranno le distribuzioni di terre (bhūdān) a favore dei meno abbienti. Al terzo stadio dell'esistenza corrisponde l'abbandono della vita attiva, la rinuncia a ogni vincolo affettivo e sociale, il ritiro in meditazione in un eremo (vānaprasthāśrama). Unico scopo diventa, a questo punto, quello di realizzare la liberazione finale (mokṣa) attraverso il superamento dei vincoli limitativi e inibitori dell'egoità (ahaṃkāra) e dell'interesse personale (mamakāra), in assenza assoluta di desideri (kāma), grazie a quel progressivo e completo distacco dal mondo che soltanto la vita ascetica (saṃnyāsa, quarto e ultimo āśrama) consente appunto di realizzare.

A questa quadruplice organizzazione del corso della vita, le cui precipue implicazioni fissano la struttura etica dell'esistenza individuale, si affianca una divisione della collettività in quattro ordini castali (varṇa) i cui principî costitutivi definiscono i lineamenti dell'organizzazione etica della vita sociale degli Indiani. Incerte e ancor oggi opinabili (e forse destinate a restare tali) sono le diverse teorie avanzate intorno all'origine del sistema castale. Gli stessi termini usati per indicare i quattro ordini sociali pongono una duplice possibilità di interpretazione. Varṇa, il termine ricorrente nel Ṛgveda, significa propriamente ‛colore' e sembrerebbe tener conto di una differenza puramente somatica, quella cioè dovuta al diverso ‛colore' della pelle che distingueva le popolazioni arie (āryavarṇa) dalle popolazioni indigene che gli Ārya avevano sopraffatto (dāsavarṇa). L'altro vocabolo usato per indicare casta (e sotto-casta), jāti, sembrerebbe piuttosto sottintendere un'origine razziale o tribale delle caste, che vedrebbe nei brahmaṇa, negli kṣatriya, nei vaiśya rispettivamente i sacerdoti, i guerrieri, i commercianti Ārya, e negli śūdra - relegati al servizio delle tre prime classi sociali - gli schiavi degli Ārya; al di là di queste, una quinta classe abbraccerebbe l'insieme delle tribù aborigene e incolte. In realtà, origine ed evoluzione dell'ordinamento castale indiano - lo dimostra del resto il gran numero di teorie formulate singolarmente, e tendenziosamente, dalle diverse caste e sottocaste - sono legate a fattori molteplici e complessi. Nel lungo processo che portò gradualmente alla definitiva costituzione del sistema castale, intervennero senza dubbio molti fattori, legati inizialmente al contatto dell'organizzazione sociale degli Ārya con quella delle comunità indiane autoctone, connessi in epoca vedica con intendimenti magico-rituali e successivamente con esigenze di particolari tradizioni settarie, oppure dovuti a discriminazioni suggerite dal revivalismo neo-brahmanico o alla necessità di legittimare via via nuove situazioni di fatto che potevano richiedere ora un riconoscimento istituzionale e cautelativo di questa o quella categoria professionale o artigiana, ora una classificazione appropriata dello stato giuridico e familiare dei nati da matrimoni misti. In pratica, ogni casta - dalle quattro più importanti a tutte quelle, e sono numerosissime, che vanno sotto la denominazione comprensiva di sottocaste - rappresenta un'unità sociale a sé stante e autonoma, e custodisce gelosamente le proprie abitudini di vita e le proprie leggi interne. Tuttavia, nonostante questa componente particolaristica, il sistema castale, sotto la spinta della realtà storica e quotidiana che attenua e modifica le più accese intransigenze teoriche - indubbiamente reali agli esordi del sistema - ha finito con l'integrarle tutte in un insieme organico e coesivo. Col risultato di salvaguardare da una parte un tessuto unitario di base, ma di ostacolare dall'altra, nella misura stessa in cui si perpetuava con esso l'iniziale rapporto di disuguaglianza soprattutto tra i due grandi blocchi di componenti, ogni forma di progresso sociale.

Contro il sistema castale - che tuttavia non si traduce, in particolare ai nostri giorni e contrariamente a quanto si crede, in una prevaricazione delle classi privilegiate su quelle d'ordine inferiore, ma in una sorta di consensualità consuetudinaria - si sono battuti numerosi riformatori indiani moderni, a cominciare da Rām Mohan Roy. Questa azione approderà ai primi risultati concreti soprattutto nel Novecento, e specialmente con Gāndhī che, pur non essendo avverso in linea di principio al sistema delle caste, nel quale vedeva in un certo senso un contributo dell'induismo alla civiltà universale, ne combatté le deformazioni e gli eccessi, lottando in particolare contro il principio dell'intoccabilità dei paria.

La situazione delle caste è attualmente in via di evoluzione grazie alla spinta delle mutate condizioni economiche, ai riflessi di vicende storiche interne ed esterne che coinvolgono tutti gli strati della società, a nuove e più aperte relazioni umane instaurate tra appartenenti a caste diverse, a rinnovate istanze sociali, all'affermarsi dei fattori economici come nuovi criteri di discriminazione. Alla stratificazione castale, sempre più anacronistica, lo Stato indiano si sforza oggi di contrapporre le linee di nuovi ordinamenti nei quali - per espressa norma costituzionale - si condanna il principio stesso dell'‛intoccabilità' e si afferma l'illegittimità - in termini di discriminazione - di qualsiasi considerazione di razza, di casta, di sesso, di religione, di luogo di nascita. È chiaro tuttavia che soltanto una radicalizzazione di tale politica potrà portare, a lunga scadenza, a una completa e definitiva soluzione di questo problema sociale.

c) Visnu e Siva. Interiorizzazione della fede

Nel mondo religioso vedico e brahmanico si afferma sostanzialmente una bipolarità: da una parte la conservazione di un ordine morale e sociale - di cui il varṇāśrama-dharma è l'aspetto più saliente - e dall'altra la rinuncia. Da questa duplice polarità prendono avvio le fasi successive dell'induismo, perché proprio a essa sono connesse due divinità che rivestono un'importanza ancora secondaria nel Ṛgveda, ma che nell'induismo classico vengono considerate quali ‛Essere supremo' (Puruṣa) e ‛supremo Signore' (Īśvara). Si tratta di Viṣṇu, che nelle sue più lontane origini era stato concepito come dio della fertilità, in veste di uccello, ed era divenuto più tardi - per un tipico processo di gerarchizzazione mitologica - divinità secondaria del corteggio solare; e di Śiva, attestato in origine come semplice epiteto eufemistico di Rudra, usato per sottolineare gli aspetti benevoli di questo dio. Ma l'aspetto più interessante di queste due divinità è che Viṣṇu sia connesso con il sacrificio e spesso identificato con esso, e sia quindi anche il dio che sta al centro di una vita sociale organizzata e ispirata al dharma; Śiva invece è la personificazione di ciò che nel sacrificio vi è di impuro e di contaminante e rappresenta nello stesso tempo la rinuncia per il tramite dell'ascesi.

Questo processo che porta a identificare ora Viṣṇu ora Śiva con il supremo Puruṣa o con il supremo Īśvara si verifica all'epoca delle Upaniṣad, i testi che costituiscono la ‛conclusione' del corpus vedico e che perciò sono anche detti Vedānta o ‛fine del Veda'. Le Upaniṣad rappresentano uno degli aspetti più interessanti di una reazione - nata fra liberi pensatori - all'eccessivo ritualismo propugnato dalla casta brahmanica e, quindi, allo strapotere intellettuale e sociale della medesima. L'essenza del sacrificio, trasformato via via da mezzo per un fine a fine per se stesso, si era del tutto snaturata: alla decadente funzione di questa ‛pratica religiosa di basso livello' (avaraṃ karma) la quale antepone la forma esteriore dell'atto rituale allo ‛spirito', che ne dovrebbe invece essere alla base, si contrappone ora una forma di ‛religione' del tutto interiore e spiritualizzata. Proprio nelle Upaniṣad, infatti, che pure non hanno ancora la struttura di un sistema dottrinale religioso-filosofico omogeneo, trovano una loro prima formulazione, come abbiamo detto, i concetti fondamentali di saṃsāra e di karman: in esse il tema assillante della liberazione finale (mokṣa) prende corpo nella ricerca di una ‛via' (mārga) che non passi attraverso il rito (karman). La via delle Upaniṣad è la via dell'asceta (saṃnyāsin), comporta la rinuncia, o meglio trasferisce il rito sacrificale su di un piano interiore, ricerca nell'intimo il segreto della vera ‛conoscenza' (jñāna), la quale consiste nella consapevolezza dell'identità del ‛proprio sé' (ātman: che è altra cosa dal sé empirico, jīva) con l'Assoluto (Brahman), sola e unica realtà cosmica.

L'onnipresenza del Brahman e la sua identità con il Tutto hanno spesso fatto pensare a una sorta di panteismo, un'idea che falserebbe profondamente il pensiero delle Upaniṣad e di tutto il sistema filosofico del Vedānta. In alcune Upaniṣad, quali la Kaṭha- e la Śvetāśvatara, il Brahman si personalizza in veste di Puruṣa, si identifica con Viṣṇu o Śiva. La liberazione deve coincidere con il superamento dell'individualità empirica e con la compenetrazione totale nel Puruṣa: la ‛via' proposta per realizzarla è quella dello yoga. Yoga significa ‛unione', ‛concentrazione (di tutte le facoltà umane)', ed è processo di identificazione con la propria vera natura attraverso il progressivo distacco da tutto ciò che costituisce un ostacolo o un orpello esteriore. Lo yoga è anzitutto un metodo, una disciplina mirante alla realizzazione dello spirito (sādhana). Tra le vie che conducono a questa esperienza spirituale, tre hanno assunto particolare rilievo, quelle del karma-yoga, del bhakti-yoga e dello jñāna-yoga: la loro unificazione in una sola pratica, globalmente chiamata ‛yoga integrale' (pūrṇa-yoga), verrà raccomandata dal più grande filosofo mistico indiano del Novecento, Aurobindo Gosh, come la via più efficace per affrettare quel processo che porta l'essere umano a integrarsi nel Divino. La prima di tali vie ha trovato la sua migliore enunciazione nelle parole che costituiscono l'insegnamento di Kṛṣṇa nella Bhagavadgītā; il bhakti-yoga ha trovato i propri seguaci nelle scuole devozionali, mentre le scuole nondualistiche (advaita) - specialmente quella di Śaṅkara - hanno evidenziato soprattutto lo yoga della conoscenza (jñāna). Lo yoga rimane comunque e soprattutto una disciplina psico-fisica le cui origini sono molto antiche. Le tappe successive dell'ascesa yoghica verso la purezza del Puruṣa supremo sono le stesse che, capovolte nell'ordine, tracciano i piani successivi della manifestazione del cosmo nella più tarda cosmogonia, nella quale lo stesso Puruṣa si presenta come sommo Yogin (Viṣṇu o Śiva). Trasformato l'Assoluto Brahman indifferenziato e impersonale in un dio supremo, era inevitabile che ne conseguisse una trasformazione anche nei rapporti fra l'uomo e l'Assoluto stesso: e si giustifica ampiamente il fatto che proprio la Kạtha- e la Śvetāśvatara-upaniṣad (che si rivolgono la prima a Viṣṇu e la seconda a Śiva) pongono in luce un fattore nuovo e determinante che consiste in una sorta di grazia, di elezione divina, indispensabile perché si possa conseguire il successo sulla via della liberazione. E non sorprende davvero il fatto che proprio nella Śvetāśvatara-upaniṣad compaia (VI, 23) il concetto della bhakti (‛partecipazione', ‛abbandono fiducioso') destinato a diventare, più tardi, punto focale di ogni rapporto con il divino.

d) La via universale alla salvezza

A cominciare dall'epoca delle Upaniṣad si afferma in modo sempre più forte un'esigenza fondamentale: rendere accessibile la via della salvezza a tutti, non soltanto cioè ai ‛nati due volte', ai membri delle caste privilegiate, ma anche agli śūdra. Si tratta di un'esigenza che non può trovare soddisfacimento nella sfera del dharma, dell'ordine costituito, in quanto proprio in virtù della legge sociale e religiosa i Veda non sono accessibili agli uomini di bassa casta e neppure alle donne in generale. La speculazione delle Upaniṣad matura in ambiente kṣatriya, e nei dialoghi miranti a impartire il nuovo insegnamento e a rivelare la via della conoscenza (jñāna-mārga) sono introdotti anche personaggi femminili. Un impulso ulteriore viene dato dal buddhismo, il quale, a partire dal VI secolo, svolge un'opera di totale contestazione dell'ortodossia brahmanica rifiutando la sacertà dei testi vedici e indicando nella dottrina della soppressione del dolore attraverso la soppressione della sete di vivere una via universale per il conseguimento della salvezza. Nasce cosi in seno all'induismo l'esigenza di conferire un particolare alone di sacralità a una serie di testi facenti parte della tradizione (smṛti) e accessibili alle donne e agli śūdra, in altre parole alle componenti più umili e trascurate della società indiana: per questo si parla delle raccolte di racconti epici e leggendari, Mahābhārata, Rāmāyaṇa e Purāṇa, come di un ‛quinto Veda', al quale viene riconosciuto un grandissimo valore religioso. L'enciclopedismo che caratterizza il contenuto del Mahābhārata, dovuto a interpolazioni e rimaneggiamenti occorsi lungo un secolare processo di assestamento e segnato da caratteristiche etico-religiose che si accompagnano con la nascita e il progressivo espandersi della fede krishnaita, diventa sistematico ed essenziale nei Purāṇa, il cui contenuto, secondo una diffusa definizione, dovrebbe trattare cinque argomenti (pañcalakṣaṇa): creazione primaria, creazione secondaria, genealogie di dei e ṛṣi, epoche dei Manu (progenitori del genere umano) e storie delle dinastie di sovrani. Di fatto, però, tali argomenti (che dovrebbero essere temi d'obbligo solo per i Mahāpurāṇa) non occupano che la minima parte ditali testi, i quali appaiono letteralmente farciti di trattati di ogni genere, di leggende e racconti edificanti, di insegnamenti religiosi e morali, di glorificazioni di luoghi santi, culti e pratiche religiose (māhātmya); queste ‛glorificazioni', pervenuteci anche in redazioni indipendenti, sono di estremo interesse per l'illustrazione che ci danno di culti locali o settari, e per le descrizioni che contengono di santuari e luoghi di pellegrinaggio.

I Purāṇa sono pertanto testi fondamentali (insieme con quelli della rivelazione vedica) per la conoscenza della civiltà e della cultura tradizionale dell'India. Gli insegnamenti, le norme di vita, le idee contenute in tali testi continuano anche nel nostro secolo a ispirare il comportamento di milioni di Hindu, e molte delle idee apparentemente nuove e originali espresse da mistici e riformatori dell'epoca medievale e moderna si trovano già enunciate nei Purāṇa o, per lo meno, hanno in essi la loro origine e i loro motivi ispiratori. Nel mondo religioso dell'epica e dei Purāṇa - che è il mondo religioso dell'induismo recente - Viṣṇu e Śiva dominano incontrastati; a essi si affianca, sia pure in posizione di secondaria importanza, Brahmā, forma maschile del Brahman delle Upaniṣad, che riveste le funzioni di dio creatore del mondo, dopo che il processo di involuzione del supremo Yogin ha portato come risultato alla formazione di un uovo cosmico in cui tutto l'universo è compreso. Il maggiore rilievo che ricevono le figure di Viṣṇu e Śiva è dovuto al fatto che questi dei vengono identificati con quel supremo Yogin: essi soltanto sono chiamati Īśvara, e preesistono pertanto a quello stadio in cui sono affiancati a Brahmā nella Trimūrti. Secondo questa concezione, che solo inopportunamente si potrebbe accostare a quella della Trinità cristiana, Brahmā, Viṣṇu e Śiva sono i tre aspetti del divino: il primo come creatore, Viṣṇu come conservatore del mondo, e Śiva come distruttore. Ma, come s'è detto, solo Viṣṇu e Śiva sussistono anche al livello di Īśvara, e questo non avviene a caso: sono essi infatti che incarnano la bipolarità del mondo religioso. vedico. Viṣṇu, che è connesso con il sacrificio, e quindi con l'ordine costituito nel mondo, è il naturale custode del dharma nell'intervallo fra una creazione e la successiva distruzione del mondo; Śiva, invece, per la sua connessione. con la componente impura del sacrificio e con la rinuncia che l'ascesi comporta, ha il compito di riportare l'universo a un caos indifferenziato. Soltanto Viṣṇu e Śiva sono le divinità connesse con la bhakti, e si giustifica quindi il fatto che i Purāṇa, che sono i testi per eccellenza della bhakti, siano dedicati nella loro quasi totalità all'uno o all'altro di questi due dei.

e) Gli avatāra. Kṛṣṇa e la Bhagavadgītā. Lo svadharma

Viṣṇu e Śiva suscitano nei propri devoti, con la loro grazia, gli slanci più appassionati, la dedizione più completa: essi aprono la via al conseguimento della liberazione senza il necessario tramite del rito e, quel che più conta, possono incarnarsi in forme ferme o umane per soccorrere i propri fedeli. Viṣṇu in particolare - e ciò è anche dovuto alle sue funzioni di conservatore del mondo e di custode del dharma nell'ambito della Trimūrti - ‛scende' (ava-tarati) periodicamente nel mondo, non già nella sua forma divina, del resto non percepibile e incomprensibile all'uomo, ma assumendo forme concrete, per evitare che esso vada incontro a una completa rovina. Egli attua in tal modo quel principio che la Bhagavadgītā (IV, 7) enuncia in questi termini: ‟Ogni volta che langue la giustizia e l'ingiustizia si afferma, io creo me stesso". Sono questi gli avatāra, le discese, le incarnazioni del dio. Kṛṣṇa nel Mahābhārata (e soprattutto nella Bhagavadgītā) e Rāma nel Rāmāyaṇa sono, ancora nei nostri tempi, le due più celebri e più seguite: Kṛṣṇa difende le esigenze del dharma in un mondo caratterizzato dal sovvertimento di tutti i valori umani, Rāma realizza in terra l'esempio del sovrano perfetto, consapevole dei propri doveri e per tal modo scrupolosamente ossequiente al dharma.

La lista degli avatāra ‛classici' annovera dieci incarnazioni di Viṣṇu, ma alcuni testi ne elencano un numero assai più grande, e non è certo un fatto insolito che uomini santi, mistici e asceti, o comunque benefattori dei propri simili vengano salutati come avatāra, cioè come discese del divino, come viventi testimonianze di quelle virtù che nella divinità si trovano presenti in sommo grado. Così fu, ad esempio, che nei primi del '500, sotto la sollecitazione di una particolare emotività che animava di nuovi toni e di nuove estasi mistiche l'esperienza religiosa, folle entusiastiche salutarono in Caitanya (1485-1533) un'incarnazione vivente della divinità. Così del pari avvenne per Nānak, fondatore del movimento religioso dei Sikh sul finire del sec. XV, il quale fu salutato dai suoi contemporanei come ‛maestro' (guru) per eccellenza e avatāra divino. In questo senso vi somo innumerevoli avatāra non solo di Viṣṇu, ma anche di diverse divinità o, se vogliamo, dell'unico Dio che è assoluto e senza nome.

L'avatāra più interessante e più fecondo di implicazioni etico-religiose per la storia dell'induismo fino ai nostri tempi è quello di Kṛṣṇa. E Kṛṣṇa che nella Bhagavadgītā impartisce un insegnamento apportatore di salvezza, inteso a conciliare le esigenze dell'ordine costituito (dharma) con quelle della devozione amorosa (bhakti) alla divinità. Il problema che assilla la mente di Arjuna, uno dei cinque Panduidi, nell'imminenza della battaglia in cui dovrà misurarsi con i cugini-avversari Kuruidi, nasce dalla consapevolezza che il dharma non deve mai essere in contrasto con gli altri due ‛fini' (puruṣārtha) che l'uomo deve armoniosamente perseguire nella sua vita terrena: il kāma (l'amore inteso come fruizione sessuale e come stimolo affettivo in genere) e l'artha (l'utile, la ricchezza, il potere). Ogni uomo deve tendere all'armoniosa realizzazione di questi tre fini. In senso stretto, però, il dharma compete in particolare ai brahmani, che sono per questo i legislatori dell'artha e del kāma, mentre il kāma è, in particolare, appannaggio delle donne, come l'artha lo è dei principi. Il termine sanscrito che si usa per esprimere questa pertinenza specifica di doveri nell'ambito dei puruṣārtha è svadharma: esso indica, quindi, l'insieme dei propri obblighi sociali destinati ad assicurare, nel loro equo contemperamento e nel rispetto responsabile della sostanziale interdipendenza delle caste, la sicurezza, l'unione, il progresso della società umana (lokasaṃgraha). Lo svadharma di Arjuna, che è principe e guerriero, è dunque l'artha, e il conseguimento di questo obiettivo comporta che egli combatta e uccida, quali che siano i suoi nemici, anche se il dharma - nella sua accezione di ‛legge universale' - gli dice di non uccidere. Da questo contrasto apparentemente insolubile tra dharma e svadharma nasce il dubbio tormentoso di Arjuna, ed egli, sul campo di battaglia dove gli eserciti già si affrontano, lo palesa al suo scudiero e auriga Krsna; l'insegnamento di quest'ultimo - che altri non è se non il dio Visnu sotto spoglie umane - costituisce la Bhagavadgītā; il ‛canto' che resta tutt'oggi, al di là di ogni evoluzione religiosa, l'affascinante vangelo dell'India. Le parole di Kṛṣṇa portano Arjuna alla piena consapevolezza che le persone fisiche sono pura apparenza, che la vera essenza dell'uomo è l'anima, indistruttibile e immortale, che l'‛azione' compiuta per se stessa, senza partecipazione passionale, ma con animo sereno e distaccato, indifferente agli esiti dell'azione stessa, non produce potenzialità karmiche vincolanti alle rinascite. Pertanto, grazie a questa ‛azione senza desiderio' (niṣkāma-karman), Arjuna potrà conseguire il mokṣa senza rinunciare alle esigenze dell'ordine sociale e dello svadharma, cioè della legge inerente al proprio stato.

È però estremamente arduo per l'uomo riuscire a realizzare un simile distacco; ed è a questo punto che sulla dottrina del karma-yoga si innesta quell'elemento nuovo che è la bhakti, via aperta a tutti (almeno in linea di principio, perché in realtà si approdò talvolta a esiti contraddittori) senza preclusioni dettate da distinzioni di casta, di sesso o di credo. Arjuna infatti potrà riuscire nell'impresa perché Viṣṇu - che gli si palesa sul finire della Bhagavadgītā, nel suo aspetto invisibile e sconosciuto agli uomini - lo aiuterà con la sua grazia; in cambio l'eroe non dovrà fare altro che abbandonarsi totalmente alla divinità, con animo devoto e fiducioso. Questo tentativo di superamento dell'ordine socio-morale brahmanico sulla base di un rapporto col divino fondato sull'amore non cancella comunque lo stato di incertezza e di crisi di cui troviamo eloquente testimonianza in altri episodi del Mahābhārata. Significativo fra tutti quello di Yudhis.thira, il quale, ancorato alle leggi del dharma tradizionale, rifiuta lo svadharma dei ‛guerrieri' ed esalta nella ‛verità' e nell'ahiṃsā i supremi valori umani. L'atteggiamento di Yudhiṣṭhira è rivelatore di una profonda crisi di valori: una crisi che riflette in termini ancor più marcati la necessità - già avvertita dalle Upaniṣad - di superare il piano del dharma tradizionale e ortodosso per entrare nella sfera di un'esperienza religiosa e spirituale completamente diversa. Il coesistere, nella Bhagavadgītā; di karma-, jñāna- e bhakti-yoga, come tre aspetti dell'azione di Arjuna, in equilibrato contemperamento, rappresenta un'ulteriore conferma di questo momento di fermento e di transizione.

f) La bhakti

Mentre nel Mahābhārata (compresa la Bhagavadgītā) le esigenze della bhakti si trovano ancora a contendere spazio a quelle dell'ordine sociale e religioso brahmanico, nei Purāṇa si assiste al trionfo della tendenza devozionale destinata a costituire il leit motiv dell'induismo in epoca medievale e moderna: in pratica, infatti, a partire dal IX-X secolo - non ultimo per l'influenza esercitata dalle correnti mistiche dei Nayianār e da quelle devozionali degli Āḷvār - la tendenza bhaktica costituisce la parte più vitale dell'induismo. Questa tendenza esprime i toni più alti e più vibranti della spiritualità religiosa e continua anche ai giorni nostri a esercitare il suo affascinante richiamo su folle di devoti; le sue linee maestre permangono, nella loro sostanza, quali già le troviamo concepite nel mondo religioso puranico. Al centro di questo mondo sono, come s'è detto, Śiva e Viṣṇu, o meglio, Śiva da una parte, e dall'altra Viṣṇu e i suoi avātara; fra questi, quello di Kṛṣṇa assume - specialmente per quanto riguarda la bhakti - un'importanza tale da passare dal ruolo di ‛manifestazione' di Han-Visnu a quello di divinità indipendente e suprema. Il rapporto che si instaura fra il dio e il suo devoto (bhakta) è concepito come un rapporto d'amore propiziato dalla stessa affinità sostanziale che sottende la natura del devoto e quella del suo dio personale e che rende possibile la comunione finale di quello con questo. Esso trova la sua rappresentazione più plastica nell'amore fra il dio Kṛṣṇa e la sua amante Rādhā, un amore che, sublimandosi, è fatto simbolo dell'unione mistica e spirituale fra creatore e creato, e che i testi descrivono non come kāma, ma come preman, per sottolineare le caratteristiche peculiari che vanno al di là delle categorie ricorrenti nella vita terrena.

Sono le stesse divinità della bhakti che, attraverso i testi, illustrano ai fedeli le caratteristiche di questo particolare atteggiamento religioso. Nell'Īśvaragītā (Il canto del Signore, poemetto che per gli Scivaiti è il parallelo della Bhagavadgītā visnuita) Śiva in persona esalta la bhakti come la sola e unica forza in grado di far conoscere agli uomini il dio che, pur onnipresente e onnipervadente, resterebbe altrimenti inconoscibile; nella Bhagavadgītā è lo stesso Viṣṇu-Kṛṣṇa che, dopo essersi manifestato ad Arjuna nella sua forma suprema, in una grandiosa teofania, rivela che il segreto per realizzare la beatifica visione del dio e per compenetrarsi in lui sta nella devozione ‛esclusiva' (ananya), nella dedizione totale, nel distacco dalle cose del mondo, nel fissare la mente e l'intelletto soltanto in lui. La ‛disponibilità' del dio per un rapporto personale con il devoto appare qui ancora condizionata a quel totale, sereno e fiducioso abbandono che è appunto la bhakti; molte leggende edificanti contenute nei Purāṇa e ambientate soprattutto nel mondo religioso della mistica krishnaita vanno assai più in là, mostrando come l'uomo - o qualunque altro essere animato - possa a volte conseguire il fine ultimo della sua esistenza (ossia il mokṣa) in modo del tutto insperato, inatteso, e addirittura fortuito, senza la sua attiva partecipazione ma unicamente per effetto di una elezione divina ‟che si attua mediante la potenza redentrice e salvifica della ‛grazia' (prasāda)".

Il culto devozionale, questa forma di teismo su basi emotive, di cui sono forse anticipazioni alcuni inni rigvedici a Varuna e la Śvetāśvatara-Upaniṣad, proprio per una ricerca di adattamento a tutti gli strati sociali dei credenti può assumere gli aspetti più svariati. Nella molteplicità delle sue forme esso può parimenti comprendere le altissime vette della speculazione filosofico-religiosa o della poesia mistica, le pratiche cultuali e gli atti devozionali più umili. Nel mondo religioso della bhakti, ‟che è devozione profonda e mistica, sentimento fedele e abbandono" (nel dio; v. Gonda, 1960) e che si fonda su una serie di esperienze emozionali più che su un apparato dottrinale, è naturale che Krsna sia il dio per eccellenza, e la leggenda della sua vita terrena, narrata nel X libro del Bhāgavata-purāṇa, diventa uno dei testi fondamentali di questa nuova ‛religione dell'amore'. Kṛṣṇa è una figura nella quale le esigenze della fantasia, dell'immaginazione, dell'amore spontaneo e improvviso stanno in primo piano: non a caso il giovanile gioco d'amore di lui con le figlie dei pastori, nelle quali la simbologia mistica adombra le anime anelanti di annullarsi nell'Assoluto, viene interpretato come un meraviglioso ‛gioco' divino (līlā) di cui l'uomo non riesce a penetrare il segreto. Nascono appunto dalla celebrazione delle leggende di Krsna e dei suoi amori con le pastorelle, e particolarmente con Ràdha, quei ‛canti in comune' (bhajana) che ritroviamo nel Novecento e quelle periodiche rappresentazioni sceniche che particolarmente nel Sud dell'India si accompagnano con altre forme cultuali di tendenza bhaktica.

g) Śaktismo e Tantrismo

Un'altra componente essenziale dell'induismo recente è lo Saktismo. Il termine śakti significa propriamente ‛potenza', ‛energia divina'; esso rappresenta la forza creativa della divinità maschile, quella che consente al dio di divenire altro da sé, di uscire dalla sua immota beatitudine per estrinsecarsi nel mondo e nella molteplicità degli esseri e delle cose create. L'idea che il mondo abbia avuto origine da una sorta di simbolica unione fra un principio maschile e uno femminile mediante un vero atto di procreazione è in India molto antica, e se ne trovano tracce già nel periodo vedico. Nell'induismo recente essa si manifesta attraverso la visualizzazione di una serie di coppie divine, per cui a ogni divinità maschile viene affiancata la sua śakti. Così, accanto a Brahmā troviamo Sarasvatī, la dea dell'eloquenza; accanto a Viṣṇu, Śrī o Lakṣmī, la dea della prosperità e della bellezza; accanto a Kṛṣṇa, Rādhā, e infine, accanto a Śiva, troviamo la più eminente di queste figure, venerata - e spesso temuta - con intenso ardore fino ai nostri giorni e considerata dai suoi seguaci come divinità suprema, come la Madre divina, che soccorre e salva il suo devoto. Tale divinità assume i nomi più svariati, come Durgā (l'Inaccessibile), Pārvatī (la Figlia della montagna), Kālī (la Nera), oppure, come denominazione generica, può semplicemente portare i nomi di Devī (la Dea), o di Mahādevī (la Grande Dea), e l'ambivalenza della sua natura può estrinsecarsi volta a volta come potenza benevola o come forza terrifica. In suo onore lungo il corso dei secoli e ancora nel Novecento, nei numerosi templi che le sono dedicati, il devoto ne recita quotidianamente le vicende leggendarie, perché tale recitazione gli procura salute, alimenti e liberazione dal ciclo delle esistenze.

La presenza di queste divinità femminili e la tendenza a simboleggiare nella loro unione con la divinità maschile l'unione mistica del bhakta col supremo Īśvara hanno consentito alla religiosità hindu di superare uno degli ostacoli più ardui per ogni esperienza religiosa. L'amore umano, infatti, al quale è legato il mistero della vita terrena e che ripete nel processo procreativo il ‛gioco' stesso della divinità perpetuando la vita e il ciclo samsarico, è sempre stato considerato come contrastante con la ricerca dell'Assoluto metafisico. Duplice la soluzione che l'induismo propone con sottile gioco dialettico a questa angosciosa antitesi: l'una è la via della rinuncia e consente di realizzare il mokṣa in questo mondo, permettendo così di vivervi senza desiderio, senza kāma, che è il primo motore dell'amore umano; l'altra è la ricerca del mokṣa proprio nel kāma, considerando il rapporto amoroso come un'esperienza di ‛depossesso' del proprio io. Il rapporto amoroso può pertanto essere sublimato e trasposto su un piano divino ove simboleggia l'unione mistica dello Spirito cosmico con il mondo. In questa nuova tendenza religiosa, alla quale si suol dare il nome di Tantrismo, la divinità è concepita come una coppia unita in rapporto amoroso. Il termine Tantra viene usato in generale per indicare una ‟successione sistematica di riti e cerimonie" (v. Gonda, 1971, p. 360), ma in particolare vale a designare una serie di testi sacri, che prendono il nome di Saṃhitā presso i visnuiti di Āgama presso gli scivaiti, di Tantra in senso stretto per le correnti śākta; tali testi trattano in particolare della prati a religiosa, in una sorta di fusione fra ritualismo e yoga, dedicando ampio spazio a speculazioni mistiche sulla śākti. L'induismo popolare è molto influenzato da questi test ‛uali si rivolgono ai fedeli senza alcuna distinzione di casta o di sesso, e dettano loro i doveri relativi al culto domestico e pubblico, alle feste religiose e a ogni altra pratica cultuale.

Il seguace dei Tantra mira, come ogni hindu, alla realizzazione di se stesso (sādhana): per ottenerla, l'adepto (sādhaka) tende a conseguire una ‛visione' di Dio attraverso lo yoga. Con questa pratica egli deve cercare di sollecitare la manifestazione di quella forza che gli è inerente (śakti), e che è rappresentata in forma di serpente (kuṇḍalinī) arrotolato alla base della spina dorsale, e deve fare in modo che essa gradualmente pervenga all'unione con il puruṣa. Si tratta di un'unione fra due poli opposti, perché il puruṣa appartiene all'Essere e con esso si identifica, mentre l'entità psico-fisica dell'uomo appartiene al mondo e al divenire. Quanto alla divinità, Dio è Essere (sat), Pensiero (cit) e Beatitudine (ānanda); la sua Essenza assoluta è caratterizzata da un'eterna immobilità, mentre la sua śakti è attiva e rappresenta non solo il momento creativo della divinità, ma anche il divenire, la forza che crea, conserva e distrugge ogni cosa. Nonostante questa intima unione, Dio non viene mai contaminato da tale forza, non rischia mai di confondersi col piano del divenire: può tradursi nel mondo pur restando sempre perfettamente immoto e puro. Questo avviene grazie alla sua māyā; la potenza magica che sta all'origine stessa del mondo, l'energia inconcepibile che consente al suo possessore di dar vita a cose mirabili (v. Gonda, 1959, p. 192), l'‛illusione' che fa parte in qualche modo del ‛gioco' (līlā) della divinità. La māyā è presentata, soprattutto in seno al sistema Vedānta, come un'illusione cosmica, come una sorta di ‛velo magico' che si interpone fra l'uomo e la vera realtà, che lo confonde, portandolo a considerare come reale ciò che invece è transitorio, inducendolo a dare fiducia ai propri sensi, che sono i principali responsabili della percezione di questa speciosa realtà. L'unica realtà è il brahman, dicevano le Upaniṣad: se ne deduce che tutto il resto è māyā. La māyā finisce quindi per identificarsi con il mondo (così è di fatto non solo in Śaṅkara, ma anche nelle correnti mistiche medievali) e con la natura (prakṛti), perché la vita stessa dell'uomo e del creato è questa ‛illusione', contrapposta alla quale sta l'eterna fissità dell'Essere. Il passaggio dalla meditazione religiosa alla speculazione filosofica, come si vede, assume toni sempre più definiti: di fatto, nell'ambito dell'induismo non esiste una distinzione netta fra religione e filosofia, sia perché la prima - specie a livello delle sue sollecitazioni soteriologiche - è essenzialmente intesa come ricerca, o come conseguimento di una conoscenza illuminante, sia perché la seconda non è concepibile se non in ordine alla salvezza e finisce quindi per perseguire in ultima analisi un fine prettamente religioso.

h) Principali correnti

Nei primi secoli della nostra era, mentre le varie correnti di pensiero filosofico andavano assumendo la loro sistemazione definitiva, anche le varie correnti religiose organizzarono in modo più chiaro il loro culto e la loro struttura dottrinale. È l'affermarsi e l'evolversi di tali correnti che in tanta parte continua a connotare la natura e le caratteristiche dell'induismo del nostro tempo. Se l'opera dei brahmani fu determinante nell'armonizzazione dei principî dottrinali e nell'unificazione culturale dell'India, un ruolo di primaria importanza lo ebbero i centri religiosi e gli eremi, i templi e i luoghi di pellegrinaggio, naturali punti di incontro e di confronto di idee e di credenze. Venerati per la presenza di particolari templi o per antiche tradizioni connesse con mitiche imprese di dei o di asceti, o anche per la sola presenza di un guado su un fiume, o di un luogo adatto alle abluzioni (tīrtha), questi ‛luoghi santi' dell'induismo attirano ancora oggi masse imponenti di fedeli da ogni parte del territorio indiano. Forse nessun popolo è tanto incline ai pellegrinaggi quanto quello indiano; proprio gli spostamenti continui di singoli devoti o di folle di credenti che si svolsero intorno a tali luoghi hanno favorito fin dai tempi antichi l'incontro e la diffusione di idee e di tendenze religiose diverse.

L'animo indiano è sempre stato caratterizzato da un particolare spirito di tolleranza: una tolleranza non irrazionale e neppure acritica, ma suggerita dal profondo convincimento del reale polimorfismo della ‛religione'. Proprio per coerenza con questa convinzione non fu mai motivo di turbamento per un hindu il pensiero che all'interno dell'induismo potessero coesistere, fianco a fianco, correnti filosofico-religiose diverse, e talora addirittura contrapposte. L'induismo tese sempre ad assimilare qualsiasi forma di religiosità, consapevole che a qualsiasi divinità si rivolga la fede del devoto, è comunque sempre il solo e unico Dio quello che si finisce implicitamente con l'onorare, seppure ‟non secondo la norma" (Bhagavadgītā IX, 23). Nell'induismo non esistono pnncipl dogmatici, e si tende in generale ad ammettere che ‟la scelta che uno fa sia quella che a lui più si adatta" (v. Gonda, 1971, p. 325). Proprio per questo non ci si deve affatto stupire che all'interno di questo fenomeno religioso, sociale e culturale abbiano preso corpo e continuino a coesistere ai nostri tempi tante correnti, alcune delle quali, com'è il caso del Visnuismo e dello Scivaismo, quasi assumono l'aspetto di vere e proprie religioni indipendenti.

Sia il Visnuismo che lo Scivaismo hanno cominciato ad avere ampio seguito a partire dal IV sec. d. C., cioè a partire dall'epoca Gupta, favoriti in questo anche dalle particolari condizioni storiche e politiche in cui versava allora la penisola indiana. Entrambe le correnti religiose ricevettero un forte impulso dal movimento della bhakti e, in particolare, da una serie di poeti religiosi dravidici del Sud, che conducevano la loro vita vagando di tempio in tempio e cantando con insolito fervore il loro amore per la divinità. Per il Visnuismo tali cantori furono gli āḷvār, che fiorirono tra il VI e il IX secolo e le cui opere furono raccolte nel Divya Prabandha di Nāthamuni. Questi cantori, la cui lingua era il tamil, propugnavano una fede intima di carattere devozionale, sostenuta dalla fiducia nel potere determinante della grazia divina (prasāda) e combattevano la speculazione fine a se stessa, la filosofia, le pratiche yoga e il ritualismo. L'esaltante e appassionata esperienza degli āḷvār, convinti al di là di ogni dubbio di potersi unire - ancor viventi - con il proprio dio (personale), al quale tendevano con lo slancio di una fede mistica di rara intensità, esercitò un'influenza profonda sulla vita religiosa dei loro tempi.

Alla progressiva affermazione delle due più importanti correnti dell'induismo fa riscontro la comparsa, sotto la spinta di nuove e diverse istanze, di una serie di correnti minori fondate da singoli ‛maestri' religiosi (ācārya) le cui dottrine qualificano e differenziano ancor oggi le diverse sette visnuite o scivaite. Figurano fra i primi ācārya lo stesso Nāthamuni, raccoglitore dei canti laudativi degli āḷvār, e dopo di lui Yamuna (918-1038) che fu alla guida del grande tempio di Śrīraṅga e che è considerato il primo vero ‛teologo' dell'indirizzo che prese il nome di Śrī-Vaiṣṇava, in quanto venera contemporaneamente Viṣṇu e la consorte o śakti di lui, Śrī. A guida della scuola e come massima autorità del tempio di Śrīraṅga gli successe Rāmanuja (1050-1137), prestigiosa figura di filosofo e di maestro, considerato a ragione come il più insigne rappresentante, dopo Śaṅkara, della speculazione religiosa dell'India brahmanica. Rāmānuja espose i principi di una dottrina che è fondamentalmente monistica, ma che non è più concepita in termini di monismo assoluto śankariano, bensì di ‛non-dualismo differenziato, qualificato' (Viśiṣṭādvaita). Secondo Rāmānuja coesistono infatti tre principi eterni e reali: le anime individuali (senzienti), il mondo materiale (inanimato) e Dio (Īśvara); i primi due, pur essendo diversi dal Dio supremo, sono inscindibili da lui, ne rappresentano i modi o le forme e costituiscono con lui una triplice unità. Il Dio supremo, onnisciente e onnipervadente, appare al mondo quale Nārāyaṇa-Viṣṇu; conseguita la liberazione, soprattutto grazie alla fede e all'amore di Dio, l'anima, pur senza perdere la sua individualità, fruirà di una partecipazione del divino, godendo dell'ininterrotta beatitudine che le viene dalla costante presenza del brahman supremo. Con Madhva (1197-1276) si afferma invece la tesi di un dualismo ontologico fondato sul riconoscimento dell'esistenza ab aeterno di due distinti principi: l'uno è il brahman (in forma di Viṣṇu-Hari), causa efficiente dell'ordine cosmico, l'altro le anime individuali e la materia, gerarchicamente e totalmente soggette all'arbitrio di Viṣṇu.

A Nimbārka (XII-XIII secolo) fece capo una setta la cui dottrina rappresentò un interessante tentativo di conciliazione fra tendenze dualiste e tendenze moniste, ma fu solo con Vallabha (1479-1531) che la penetrazione dell'elemento religioso devozionale si fece ben più sensibile. Nell'indicare le due vie che conducono alla salvazione, circoscritte anche qui alla conoscenza del Veda e alla bhakti, egli pose infatti l'accento sulla seconda, che è la sola in grado di portare alla realizzazione della più alta forma del divino. I fedeli che si affidano totalmente a Dio con intima, appassionata dedizione fruiranno per grazia divina (puṣṭi), fattore determinante della salvazione, della più alta beatitudine e parteciperanno per sempre ai giochi di Kṛṣṇa nell'eccelso paradiso del dio.

Per quanto riguarda lo Scivaismo, si deve anzitutto os- servare che, nonostante gli aspetti molteplici e talora contraddittori che si possono riscontrare nella figura di Śiva - la divinità che nella fase preariana dell'induismo protostorico era celebrata come dio ‛rosso' (in proto-dravidico ‛śiva') -, il movimento religioso che si ispira a questa figura divina si rivela in generale più unitario del movimento visnuita e tende a dare un maggior rilievo alle pratiche yoga in ordine al conseguimento della salvezza. Le correnti religiose scivaite identificano il loro dio con il Brahman delle Upaniṣad e con il supremo Īśvara, e sono caratterizzate dalla fede in tre principî: il Signore (pati), il gregge (paśu, cioè le anime individuali) e i legami (paśa) rappresentati dalla materia e dal karman. La più antica corrente scivaita, quella denominata Paśupata in quanto venera Śiva nel suo aspetto di Paśupati, cioè di ‛Signore del gregge' o ‛delle anime', considera unica via per giungere alla liberazione la pratica dello yoga e l'osservanza dei comandamenti (yama) dettati da questa dottrina. Talune pratiche ascetiche (come l'usanza di cospargersi il corpo di cenere), affermatesi presso i Pāśupata e portate da altri a limiti estremi, hanno caratterizzato movimenti scivaiti particolari, come quello dei Kāpālika (che veneravano Śiva come asceta portatore di teschi - kapālin - e seguivano una serie di pratiche piuttosto ripugnanti, quali il bere in teschi umani, il nutrirsi di cibi repellenti, il dimorare nei luoghi di cremazione) o quello degli Aghora (i quali mangiavano carne umana ed escrementi).

Altro movimento tipico dello Scivaismo è quello dei Vīraśaiva, i quali non riconoscono alcun valore ai sacrifici, al culto delle immagini, alle caste, e sostengono l'obbligatorietà di un insegnamento di tipo iniziatico trasmesso a ogni singolo discepolo dal proprio guru (maestro), che può per tale via trasferire in lui la propria potenza spirituale. Ai seguaci di questa scuola viene fatto obbligo di portare sempre con sé un piccolo liṅga: di qui deriva ai Vīraśaiva la denominazione di Lin̄gāyat, cioè di ‛portatori di liṅga'. Tale oggetto, per quanto simbolo fallico del culto di Śiva, non ha alcuna implicazione di tipo erotico: è raffigurazione astratta dell'Assoluto, è simbolo della presenza di Śiva, è immagine evocativa, purificata e spiritualizzata, è ‟manifestazione trasparente di ciò che, emergendo dalla terra, risale verso la regione trascendente e senza fine" (v. Panikkar, 1969; tr. it., p. 157).

Fortemente caratterizzato da un'impronta filosofica e di tendenza monistica è lo Scivaismo del Kashmir, noto col nome di Trika (Triade), a seguito della distinzione che in esso si fa dei tre principî di Siva, Śakti e aṇu, o a causa della triplice potenza (intelligenza, volontà e attività) che, insita in Śiva, lo muove alla creazione dell'universo. Nell'India meridionale, dove aveva ispirato la poesia devozionale dei cantori dravidici (nāyanār), lo Scivaismo ha trovato la sua sistemazione dottrinaria nello Śaiva-Siddhānta, sistema che afferma l'esistenza, accanto a Dio, delle anime individuali e del mondo materiale e che esalta la spontaneità e la facilità irrisoria con cui Śiva è in grado di realizzare i momenti evolutivo, conservativo e involutivo del mondo e quello della liberazione delle anime. Dagli esiti dell'impurità capitale (āṇava-mala) che rende operante la forza del karman - autonomo e accidentale - le anime individuali vengono infatti tratte in salvo grazie all'intervento diretto e illuminante che Śiva attua su di esse e per esse, rivelandosi nelle vesti di un ‛buon maestro'.

Nei secoli XIV-XV si affermò nell'India settentrionale, non a opera di asceti, ma di piccoli artigiani e di uomini appartenenti ai ceti inferiori della popolazione, un importante movimento religioso, quello dei Sant (‛santi'). Si trattava praticamente di bhakta, i quali avevano ereditato alcune tendenze di una scuola mistico-devozionale del Mahārāṣṭra che venerava il dio Viṣṇu sotto l'aspetto di Viṭṭhal o Viṭhobā a Paṇḍharpur e ad Alandi. La differenza fondamentale fra i Sant e questa scuola visnuita - la cui fondazione è attribuita a Jñāneśvara - consiste nel fatto che, mentre i bhakta visnuiti facevano oggetto del loro amore devozionale un avatāra di Viṣṇu considerato come dio personale e quindi ‛dotato di attributi' (saguṇa), i Sant veneravano invece un Essere supremo assoluto e impersonale - assai simile al Brahman delle Upaniṣad - e quindi ‛privo di attributi' (nirguṇa), senza forma, trascendentale e non riducibile nei limiti di alcun avatāra. Oltre a quello della bhakti visnuita, altri due elementi confluirono nel movimento religioso dei Sant: le pratiche di tipo yoga del movimento di stampo scivaitico dei Nāth o Nātha-yogin (fondato nell'India settentrionale a opera del mitico Gorakh Nāth e sviluppatosi anche con l'apporto della tradizione del buddhismo tantrico) e la concezione ascetico-mistica dei ṣūfī. Quest'ultimo elemento fu introdotto in India dalla Persia e costituì l'apporto più positivo dato all'India, sul piano religioso, dall'invasione islamica.

Il Sufismo trovò in India un terreno molto favorevole, e alcune affinità di base - specie la convinzione che l'unione con Dio è resa possibile dall'amore - lo legarono ben presto ai movimenti bhakta: il suo rigido monoteismo di stampo islamico contribuì sicuramente al formarsi della concezione del divino tipica del movimento dei Sant. Il più illustre e popolare rappresentante di questa ‛tradizione' fu Kabīr (1440?-1518), tessitore di professione ma in realtà asceta girovago, illetterato ma predicatore affascinante, nato da famiglia convertita alla fede islamica ma aperto e incline agli insegnamenti professati dai Nāth. L'insegnamento di Kabīr rappresenta una sintesi fra l'induismo di tendenza bhaktica - in cui l'esperienza estatica è realizzata attraverso la fede più totale, con l'aiuto delle tecniche di tipo haṭhayoga - e le tendenze monoteistiche avverse al culto delle immagini ed esaltate dall'Islām: delle due fedi in conflitto, esso raccoglie e concilia gli insegnamenti comuni e validi, additando il solo cammino per giungere all'Uno ‛dai mille nomi'. Ostile, come tutti gli altri Sant, a ogni forma di idolatria e di riti esteriori, Kabīr esaltò invece l'adorazione silenziosa (ajapa-jap), la ripetizione mentale del nome di Dio e la pratica del kīrtana, della recitazione (o del canto) individuale o corale di inni laudativi, e sulle linee di un dichiarato teismo spirituale esaltò come ‛metodo di realizzazione' (sādhana) l'amore (preman) all'unico Brahman senza forma (nirguṇa) al quale gli uomini hanno dato i nomi più diversi. Sulla via che conduce alla mistica unione con l'unico Dio, individuò nella ‛mente' (l'‛io', man) l'ostacolo che tiene l'uomo prigioniero della māyā e additò nella vittoria sulla propria individualità la forza che consente di realizzare una ‛unione spontanea' (sahaja) e piena di beatitudine dell'uno col tutto.

3. Il difficile equilibrio tra nuovo e antico

Se la cultura indiana, come si è detto, al di fuori dei fenomeni periferici di sincretismo fioriti nel Nord più intensamente islamizzato non trovò un terreno fecondo di dialogo con quella musulmana, ciò è dovuto in parte al fatto che ai portatori della civiltà islamica - fatta eccezione per figure particolari come il poligrafo al-Bīrunī (XI secolo), l'imperatore Akbar (m. 1605) o il suo pronipote Dārā Šukoh - il retaggio dell'India non pareva così ricco di interessi stimolanti, mentre per parte loro gli eredi della cultura indiana non potevano assimilare il patrimonio culturale degli invasori senza rompere i ponti con il proprio. Diversa invece è la situazione per quanto riguarda il più recente incontro tra India e Occidente. Mentre infatti l'India ha lasciato tracce comparativamente deboli sull'Occidente, la cui élite, al di fuori di casi isolati e del tutto particolari, non ha mostrato negli ultimi due secoli alcuna reale volontà di assimilare idee o metodi espressi dall'India, la cultura occidentale ha inciso profondamente sui popoli del subcontinente indiano. Il fatto che l'assimilazione della cultura europea, per quanto alienante, non implicasse necessariamente l'abbandono della propria identità ancestrale, ha giocato un ruolo determinante nella creazione di un ampio strato della società indiana, aperto simultaneamente a entrambe le culture. Si tratta, in parte, di quello stesso strato che ha dapprima svolto il ruolo indispensabile di mediatore fra il governo britannico e i suoi sudditi in terra d'India, poi ha preso le redini dello Stato nei giorni dell'indipendenza. La sua esistenza in quanto elemento di congiunzione del mondo indiano con quello occidentale fornisce il terreno d'incontro alle loro rispettive Weltanschauungen; sugli effetti di tale incontro vale la pena di soffermarsi, data la sua importanza nella spiritualità indiana contemporanea.

Occorre sottolineare le condizioni particolarissime del terreno su cui il contatto ha luogo: l'impadronirsi da parte indiana delle metodologie e degli apparati concettuali dell'Occidente va, il più delle volte, di pari passo con un'educazione che lascia poco o punto spazio alla tradizione del paese, e questa deve esser riscoperta faticosamente con i dubbi e le incertezze di uno straniero in patria ma anche con gli slanci e gli entusiasmi di chi recupera il tesoro nascosto di un passato che gli appartiene senza saperlo, e di colpo si scopre eguale anziché inferiore rispetto ai suoi ‛maestri'. I pandit di formazione tradizionale sono, di regola, ben più informati ed equilibrati nella valutazione delle idee indiane che non i pensatori occidentalizzati, sovente incerti e insicuri tra le due culture. Questi ultimi, poi, anziché alle formulazioni più recenti delle concezioni autoctone, infinitamente ricche ed eredi della sottigliezza di secoli e secoli d'elaborazione e d'ampliamenti dovuti alla fatica paziente dei commentatori, si volgono di preferenza ai testi antichi, più accattivanti per classica concisione e immediata facilità d'accesso. Risultato di una tale scelta è uno sfasamento temporale, per cui, salvo rari casi, il confronto non si svolge tra due culture contemporanee, ma tra il presente dell'Occidente e una certa immagine del passato dell'India, che la tradizione ancor viva colorisce solo parzialmente e in modo irriflesso. Ciò è reso tanto più facile dall'alta considerazione che i testi classici godono anche presso i continuatori attuali della tradizione. Del resto, la vastità del compito di padroneggiare allo stesso tempo nella loro realtà odierna i due patrimoni, immensamente vari e complessi, della cultura indiana e di quella occidentale con la loro dovizia di sistemi di valori, impostazioni di metodo, schemi interpretativi dell'esperienza, tipologie semantiche, è tale che essa sembra precludere ogni speranza di confronti significativi tra di esse se non in aree ristrette, o all'interno di grandiose sintesi creative. Il formarsi di sintesi siffatte è appunto il fenomeno che, nel processo di acculturazione, costituisce il fatto di maggiore rilievo.

I due casi più notevoli per la loro eco sono quelli del Mahātmā Gāndhī e di Aurobindo Gosh. La riscoperta creativa della tradizione ha condotto il primo a porre in risalto con formidabile coerenza d'impegno etico-politico gli antichi valori della non-violenza (ahiṃsā) e della corrispondenza della vita intera alla realtà oggetto di ferma convinzione (satya), strappandoli al quieto mondo degli asceti che li avevano vissuti da età immemorabili per forgiare con essi l'anima nuova della nazione indiana. Il catalizzatore di questa riformulazione fu, per Gāndhī, una serie di ideali extra-indiani, da quelli evangelici a quelli tolstoiani, che influenzarono in modo rilevante la sua ‛lettura' del dato tradizionale, discostandola a tal punto dall'ortodossia brahmanica, che finì per armare la mano del suo uccisore. Dopo la scomparsa del Mahātmā e della sua straordinaria forza accentratrice, l'insegnamento gandhiano si è progressivamente distaccato dalla prassi del governo dell'India, sia per le numerose sollecitazioni poste dalle realtà del momento, sia per la difficoltà di conservare l'alta tensione spirituale necessaria per una sua applicazione integrale.

Al di fuori dell'agone politico vero e proprio, ma non senza conseguenze nell'ambito di esso, l'iter tracciato da Gāndhī trova coerente continuazione nel Sarvodayasamāj, da lui stesso fondato al tramonto della sua vita. Guida di questo movimento, che approfondisce gli ideali del Mahatma in un dialogo serrato con la difficile realtà dei problemi quotidiani del sub-continente, è stato per decenni Vinoba Bhave. Un più saldo contatto con la tradizione ha reso la sua opera meno ‛scandalosa' a occhi ortodossi di quella di Gāndhī, senza peraltro appannarne il dinamismo creativo; a lui si deve la riformulazione, accanto ad ahiṃsā e satya, di un antico valore che a differenza di questi è specificamente connesso alla condizione di quanti non si sono ritirati dal mondo: il dono (dāna), che l'India ha sempre sentito come via maestra all'acquisizione di meriti, e che gli autorevoli testi del passato magnificano senza riserve. Vinoba Bhave sul piano teoretico ha posto in rilievo nella pratica del dono quelle valenze di abnegazione e di dedizione alla divinità che specialmente i saṃpradāya a carattere devozionale erano venuti sviluppando nei tempi antichi, mentre sul piano concreto ha fatto ditale pratica lo strumento di una distribuzione di terre (bhūdān) e di risorse fuori d'ogni conflitto sociale; questa sua impostazione rappresenta un'altissima lezione di civiltà data dall'India al resto dell'umanità. I più recenti leaders del Sarvodayasamāj sembra stiano ritornando a un impegno politico in senso stretto, utilizzando gli strumenti di pressione sul potere creati da Gāndhī, come il digiuno e la protesta non-violenta, il cui uso, del resto, si è generalizzato negli ultimi anni sia in India che altrove.

La riscoperta della cultura antica si presenta ancora più netta nel caso del filosofo e mistico Aurobindo Gosh, sostenitore di un induismo ecumenico che dovrebbe realizzare la sintesi dei valori spirituali e religiosi espressi dalla cultura indiana con i più validi e vitali principi del mondo occidentale. Tenuto al riparo dal padre, risolutamente occidentalizzato, da qualsiasi contatto con l'ambiente indiano (fino ai vent'anni fu educato in Inghilterra, ignorando persino la lingua materna, il bengalese), egli dovette accostarsi ai testi antichi e alla vivente esperienza spirituale dell'India come uno straniero, portando con sé la dottrina del progresso inculcatagli dalla sua formazione europea e uno zelo rivoluzionario del tutto occidentale. Con ardore e intelligenza egli si dedicò ad apprendere il suo retaggio ancestrale sviluppando simultaneamente una dinamica attività politica che non rifuggiva dalla violenza organizzata; i due aspetti del suo contatto con il mondo indiano furono coordinati in un'unica ricerca personale, finché le circostanze misero fine al suo impegno pratico. Il pensiero di Gosh introduce il concetto di sviluppo, nato e cresciuto in Europa, in un tessuto d'idee che aveva sempre presentato ogni disegno di evoluzione e di involuzione del mondo delle forme confinato in un eterno presente o in una vicenda di cicli cosmici precipitanti dall'età dell'oro verso una progressiva degenerazione. Il suo pensiero innova quindi profondamente i materiali tradizionali, che recepisce, in particolare, dai testi classici e dai saṃpradāya vedantici e śākta. Senza rinunciare all'articolazione verticale, gerarchica, dei livelli di esperienza che l'India ha teorizzato per secoli, questo pensatore ha proiettato la loro struttura nella successione orizzontale del tempo, con un entusiasmo millenaristico che ricorda sotto certi aspetti Mazzini e le ‛religioni' del progresso caratteristiche dell'età romantica.

A differenza del sistema di Hegel, cui l'impostazione di fondo in certo modo finisce per affratellarlo, l'insegnamento di Gosh non vede la meta finale dell'evoluzione in una conoscenza totale dell'Assoluto che recupera se stesso al di là e al di sopra degli individui, ma conserva un'articolazione tra Assoluto e individuo che costituisce insieme il punto di partenza e il luogo di realizzazione del processo evolutivo, conformemente all'importanza che articolazioni siffatte hanno sempre avuto sul suolo dell'India. Il risultato di questa posizione è il delinearsi di una nuova soteriologia che si propone di attingere hic et nunc l'Assoluto, manifestandolo in ogni aspetto dell'esistenza e bruciando, per così dire, i tempi dell'evoluzione entro i ristretti confini d'una vita umana: tale stato, detto gnostic being, è teorizzato con acume e profondità, e Gosh si fa maestro di una via spirituale che conduce a esso. Se il numero di coloro che hanno aderito alla sua scuola, che si presenta come un nuovo saṃpradāya, è in India piuttosto ridotto, l'influenza delle vedute di Gosh è vastissima, sia nel campo del pensiero - egli è considerato tra i più importanti filosofi dell'età moderna e viene studiato con passione - sia per gli echi ridestati nei movimenti spirituali più vari e diversi. Dalla fiducia quasi illuministica del Radhakrishnan in un futuro trionfo dei più alti principî, destinato a trasformare la vita umana in un paradiso in terra con la fine d'ogni particolarismo, alla propaganda di tecniche di meditazione ricevute per iniziazione secondo il tradizionale modello dei saṃpradāya, che ha luogo anche in Occidente a opera di organizzazioni quali la Self-realization Fellowship, la Maharishi International University o la Divine Light Mission, l'accento è posto costantemente sulla creazione di una individualità nuova, in costante contatto, comunione o identità con il Divino e attivamente operante nel tessuto sociale come fattore di trasformazione positiva. Il ruolo di Aurobindo Gosh nella nascita e diffusione di questo clima ideale, aperto a molte possibilità di strumentalizzazione, ma molla potente di generosi sforzi di autoperfezionamento individuale e collettivo per centinaia di migliaia di esseri umani dentro e fuori dell'orizzonte della spiritualità indiana, è difficile a valutarsi adeguatamente.

Accanto a effetti macroscopici quali quelli che si sono ora ricordati, il contatto fra le due culture ha prodotto anche sterili sincretismi e patetiche ingenuità nei rappresentanti meno agguerriti dell'intellettualità dell'India, come è avvenuto in casi consimili anche in altre antiche civiltà; tuttavia il numero e l'entità di questi risultati aberranti sono largamente compensati dall'abbondanza di contributi d'un certo valore nel campo del pensiero, dell'indagine critica sul passato (in cui però si distinguono specialmente i paṇḍit che a un'approfondita preparazione tradizionale hanno saputo accoppiare un rigore filologico di origine almeno parzialmente occidentale) e delle diverse discipline scientifiche. In queste ultime la componente indiana non sta tanto in specifici apporti di contenuti, quanto nell'audacia speculativa che una plurimillenaria abitudine a spingere una dottrina fino alle sue estreme conseguenze non può non produrre. Nel campo della spiritualità indiana propriamente detta, più che con le religioni giudeo-cristiane, appare fecondo il confronto di discussioni sugli antichi postulati con la moderna filosofia occidentale e le conseguenti riformulazioni dottrinali: specialmente l'epistemologia dei sistemi classici e dei saṃpradāya a essi più vicini, che è la chiave di volta delle soteriologie espresse dall'India in passato, è oggetto di puntuali aggiornamenti che coinvolgono anche la logica e la filosofia del linguaggio. La speculazione indiana non ha mai conosciuto, invero, spaccature significative fra filosofemi e teologismi e sembra più agevole delineare la possibilità di un apporto vitale delle attuali scuole di pensiero occidentali nei confronti di essa che non rispetto allo stesso discorso religioso occidentale, sempre più attento a prendere le distanze da ogni approccio ‛razionale' e laico alla realtà.

Oltre al lavoro di presentazione in vesti attuali di antiche idee, si possono segnalare anche contributi autonomi alla spiritualità indiana, che non sono mai disgiunti da un approccio acutamente analitico all'esperienza umana. Collegato al saṃpradāya del maestro Bhau Mahārāj, R. D. Ranade ha elaborato un'interessante presentazione dell'esperienza mistica come fondamento ultimo del fatto religioso, così come delle diverse varietà di pensiero monistico. Più sistematico è K. C. Bhaṭṭācārya, che mira a un superamento dei limiti della gnoseologia kantiana attraverso una complessa indagine che coinvolge simultaneamente le relazioni del linguaggio con i suoi oggetti e un'originale rivalutazione di moduli dell'antica logica indiana: tale superamento si risolve in una forma di advaita che presenta indubbi nessi con quello insegnato dalle prestigiose scuole non-dualiste tradizionali. Fra tutti gli esponenti contemporanei del ‛rinascimento' intellettuale dell'India, il più distaccato dalle radici culturali autoctone è in apparenza Jiddu Kṛṣṇamūrti, formato in seno alla Società teosofica come profeta e maestro di un nuovo secolo da Annie Besant, che ebbe una piccola parte anche nelle vicende politiche che condussero all'indipendenza del subcontinente. Egli finì per ripudiare questo ruolo imbarazzante per seguire una sua via di ricerca fondata su una spietata demitizzazione di ogni sistema ideologico e sull'affrancamento da ogni abitudine mentale. Ma, a ben guardare, anche un iter siffatto ha analogie con tecniche di liberazione del pensiero a fini soteriologici fiorite in passato in India sia nelle scuole buddhiste che in quelle non-dualiste dell'ortodossia brahmanica.

Accanto alle risposte positive dello strato sociale occidentalizzato alla sfida rappresentata dalla presenza di un passato in attesa d'esser riscoperto, si devono registrare, forse in maggiore quantita', quelle negative. Spesso l'adozione acritica della cultura occidentale ne inibisce ogni processo di assimilazione creativa e ha come tragico effetto lo sradicamento dall'‛indianità', considerata con un misto di disprezzo e di diffidenza segnatamente nei suoi aspetti spirituali. Il disagio che, in diversa misura, contraddistingue quasi tutti coloro che si trovano sospesi tra i due mondi, in una frazione sempre crescente della popolazione urbana diviene crisi acutissima d'identità, sfociando nell'ateismo pratico che sembra accompagnarsi alla civiltà industriale sotto tutti i cieli, e in una corsa al benessere che le condizioni economiche dell'India rendono ben più affannosa e disperata di quanto già non sia in contrade più prospere. Se ciò può sembrare una novità, non si deve dimenticare che prima delle invasioni musulmane e del rinsaldamento dei saṃpradāya come nucleo di continuità etnica e culturale, che ne fu conseguenza, il mondo cittadino indiano aveva prodotto scuole di pensiero che definiremmo in termini nostri fieramente materialistiche, predicanti l'inesistenza del Divino al di fuori del potere terreno dei governanti, la non-sopravvivenza alla morte e un edonismo conseguente.

4. La continuità della tradizione

A fianco del dialogo spesso tormentato tra cultura occidentale e passato dell'India che ha luogo con le modalità ora accennate, un dialogo più pacato e profondo si verifica tra i maestri dei saṃpradāya ancora presenti e l'immenso patrimonio d'idee di cui essi sono eredi e depositari. Il ritmo del cambiamento si attenua qui fino a divenire quasi impercettibile: la novità si deve ricercare in una glossa brillante a qualche famoso subcommentario secentesco, o in una risposta meditata ai dubbi di qualche discepolo che per un caso non erano mai stati presi in considerazione prima nell'ambito del sistema. Il maggior fattore di aggiornamento per quanto concerne i saṃpradāya (che affondano le loro radici in una tradizione speculativa millenaria, come quelli appartenenti all'ambito del Vedānta: non-dualisti, dualisti modificati e dualisti integrali) è certo il perdurare ininterrotto delle dispute tra l'uno e l'altro sistema, che proseguono senza soluzioni di continuità metodologiche la grande stagione del pensiero indiano. Facendo appello ai presupposti ontologici, logici ed esegetici consacrati dal passato, dialettici abilissimi e mistici che vivono la loro esperienza del Sacro con lucido rigore razionale si sforzano di difendere la loro visione del mondo dalle critiche acute dei fautori di visioni consorelle. Strumento di questi dibattiti è una letteratura in sanscrito difficilmente accessibile ai non iniziati per la complessità delle conoscenze che presuppone. Tra i lavori moderni più significativi, che godono ormai il prestigio di classici nelle scuole che li hanno prodotti, si possono segnalare il Nyāyenduśekhara di Rāju Śāstrin (Advaitasaṃpradāya) e il Nyāyabhāskara di Anantāḷvār (Śrīsaṃpradāya).

Con l'affievolirsi delle istituzioni tradizionali per la formazione dei fanciulli di casta brahmanica secondo i dettami della ortodossia vedica (pāṭhaśālā), che dopo l'indipendenza dell'India hanno visto assottigliarsi e spesso svanire il sostegno economico della pia munificenza dei principi, mentre il risoluto laicismo della politica culturale governativa non le favorisce, il numero di pan dit qualificati tende a decrescere, anche per la concorrenza delle seduzioni del mondo cittadino occidentalizzato. Per questo fatto, i saṃpradāya tendono sempre più a esercitare una funzione di sostegno nei confronti di tali istituzioni, in cambio di un'accentuazione talora piuttosto netta della ‛confessionalità' dell'insegnamento da esse svolto. Simultaneamente, un attivo lavoro di propaganda nei centri urbani più importanti, accompagnato da diffusione di testi e volgarizzazioni, tenta di contrastare, talora con successo, lo sradicamento culturale e religioso di cui i milieux che risiedono in tali centri soffrono in particolare.

Tale contatto con la parte occidentalizzata della popolazione indiana, che si estende in taluni casi anche alle comunità di emigrati al di fuori del subcontinente, ha lentamente modificato il quadro dei rapporti tra ambienti tradizionali e visione del mondo proveniente dall'esterno che tende a diffondersi in tali ambienti: da un atteggiamento di disinteresse analogo a quello mostrato nei secoli scorsi nei confronti della cultura islamica si sta passando a un dialogo con l'Occidente che ha anche risvolti ecumenici. Non a caso Paolo VI, nel corso del suo viaggio in India, ha trovato un attento uditorio nei capi e nei maestri dei più prestigiosi saṃpradāya che si erano riuniti per l'occasione: anziché come un mleccha impuro e portatore di dottrine irrilevanti e incomprensibili, il pontefice è stato accolto come una personalità spirituale pari per dignità a questi rappresentanti della tradizione.

Nel passato, uomini dalla formazione ‛laica' e uomini che debbono alla cultura indiana il loro universo di ideali e di valori si sono studiati reciprocamente con un certo disagio e una diffidenza pronta a sboccare in recise condanne. Ora la tensione è minore: se infatti si consolida nel mondo della tradizione una certa apertura nei confronti della cultura occidentale - così come i suoi portatori indiani la vivono - anche nell'altra direzione si va facendo strada, specie tra coloro che appartengono a istituzioni universitarie, una considerazione meno affrettata e più positiva del retaggio autoctono. Non si può ancora parlare di un vero processo di osmosi, ed è difficile formulare previsioni per l'avvenire, ma l'esistenza di alcune personalità di studiosi che recepiscono entrambe le culture senza rifiutare né totalmente né parzialmente la visione e la prassi del loro saṃpradāya è meno rara d'un tempo. Entro e fuori le strutture istituzionali, la continuità della vita interiore affermatasi nel corso dei secoli come uno dei tratti più significativi della spiritualità dell'India è sempre ben viva. La figura del guru, o precettore, che funge da tramite tra l'esperienza del Sacro delle precedenti generazioni e l'individuo dedito alla ricerca di essa mediante l'una o l'altra disciplina ascetica (sādhanā) seguita sotto la guida del maestro - sia essa permanente o impartita mediante un unico insegnamento (upadeśa) destinato ad accompagnare l'aspirante per tutta la sua vicenda terrena - è ancora il fatto centrale dell'‛induismo'. Anzi la sua importanza è persino accresciuta, se pure ciò è possibile, dal venir meno dello stile tradizionale di vita. La devozione al guru rimane l'unica ancora di salvezza nella coscienza di moltissimi che, nella loro quotidiana esperienza a contatto con le sollecitazioni e le restrizioni della nuova situazione dell'India, assistono impotenti al degradarsi delle osservanze, di cui l'esistenza dei padri era intessuta.

Lungo è l'elenco dei maestri contemporanei che godono di maggior seguito; tra quelli noti anche in Occidente occorre far menzione almeno di Ramaṇa Maharṣi, che si è imposto al di fuori d'ogni saṃpradāya per santità di vita e profondità d'esperienza personale secondo i moduli del non-dualismo antico, proponendo ai suoi discepoli una discesa ininterrotta nel proprio ‛io' fino a conseguire la dissoluzione dell'identità illusoria e la scoperta dell'Assoluto; egli gode della considerazione di numerosi pensatori che s'accostano ai suoi lucidi discorsi, registrati di volta in volta dai seguaci in occasione di dialoghi estemporanei, come ai classici trattati dell'advaita vedantico. Vivente è Satyanārāyana Sai Bābā che gode di immensa popolarità per i prodigi di cui folle devote lo vedono assiduo artefice. Il suo prestigio, che è dovuto anche a una serie di insegnamenti non privi di addentellati con la tradizione, non ha mancato di renderlo oggetto di vigorosi attacchi: cosa del resto abbastanza frequente in India, dove lo stesso clima devozionale che circonda i maestri, fatti segno a onori divini, non può non accendere gli animi a meno nobili emozioni quando si profilano rivalità fra i discepoli dell'una o dell'altra figura.

L'elasticità e il carattere individuale che contraddistinguono il rapporto tra discente e guru aprono in molti casi, anche a occidentali che pure intendono restare estranei ai saṃpradāya, un accesso al mondo dell'induismo a metà fra la ‛conversione' e l'interesse non formalizzato per un approccio personale al Divino. Una tale configurazione del contatto con l'India, rarefatta e spesso slegata da salde basi naturali, s'avvicina singolarmente a quella che si può riscontrare nel mondo occidentalizzato del subcontinente e probabilmente costituirà in futuro una delle sfaccettature più importanti della ‛religiosità' indiana, nella sua diffusione in Occidente non meno che nella madrepatria. Lo spogliamento dell'immagine dell'induismo dei suoi tratti arcaici più marcati e della componente rituale-cerimoniale che essi comportavano può facilmente divenire banalizzazione. Ma, nella misura in cui il maestro è portatore d'una esperienza vera e non superficiale, questo rischio non diventa certezza e anzi è possibile che ci troviamo di fronte a uno strumento di adattamento della tradizione ineguagliato per fecondità e duttilità d'applicazione. Resta un tema interessante di riflessione se un tale adattamento possa ancora dirsi contenuto nei pur vasti e imprecisi confini dell'induismo, o li travalichi verso quella religione non particolaristica dell'umanità futura che molti in India, come il Radhakrishnan, hanno sognato di vedere realizzata.

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