MONTANELLI, Indro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 75 (2011)

MONTANELLI, Indro

Sandro Gerbi
Raffaele Liucci

– Nacque a Fucecchio (Firenze) il 22 apr. 1909 da Sestilio e da Maddalena Doddoli, entrambi originari del borgo toscano.

Il padre, professore di filosofia al liceo (poi anche preside), era figlio di un fornaio; la madre, invece, cattolicissima, apparteneva alla buona borghesia locale. Il nome Indro venne impartito al M. da Sestilio volgendo al maschile il nome della nota divinità indiana.

Passò i primi anni a Fucecchio, quindi seguì il genitore nei suoi spostamenti professionali: a Lucca, Nuoro e Rieti. Ma ogni estate tornava nell’agreste Fucecchio. Pur con qualche irrequietudine (avendo già cominciato a soffrire di quegli attacchi di depressione che lo avrebbero tormentato per quasi tutta la vita), ebbe un’adolescenza felice, che si concluse con una brillante maturità classica a Rieti, nell’estate del 1926, e con la successiva iscrizione alla facoltà di giurisprudenza, a Firenze. Il M. aderì al fascismo attraverso l’organizzazione degli studenti, il Gruppo universitario fascista (GUF). Già all’epoca nutriva ambizioni insieme giornalistiche e letterarie. Pubblicò il suo primo articolo (Byron e il cattolicesimo) sulla rivista Il Frontespizio, diretta da P. Bargellini, nell’estate del 1930. Ma l’esordio reale avvenne tre anni e mezzo dopo, su L’Universale di Berto Ricci. Nel frattempo si era laureato sia in giurisprudenza (1930), con una tesi sulla riforma elettorale fascista, sia in scienze politiche (1932), con una tesi sullo «splendido isolamento inglese». L’incontro con Ricci, intorno al 1933, fu l’evento centrale della sua giovinezza.

Questi aveva fondato, nel 1931, e dirigeva il mensile (poi quindicinale) radicalfascista L’Universale, dagli accesi toni anticapitalistici e antiborghesi. Tramite Ricci, suo «maestro di giornalismo» e coscienza morale, il M. conobbe intellettuali e artisti come R. Bilenchi, M. Maccari, V. Pratolini, E. Vittorini, O. Rosai e L. Longanesi.

Sull’Universale, dal dicembre 1933 fino alla chiusura della rivista nell’aprile 1935, il M. scrisse una ventina di articoli, spesso irriverenti, di politica interna ed estera o di cultura.

Importante deve considerarsi il primo pezzo, dedicato a una generazione, la sua, che si sentiva defraudata non avendo potuto, per ragioni anagrafiche, partecipare alla Grande Guerra.

In quel periodo collaborò pure, con cadenza pressoché mensile, al quotidiano Il Popolo d’Italia, e il 5 luglio 1934 fu ricevuto in udienza dal duce insieme con gli amici dell’Universale, alla presenza di G. Ciano, all’epoca capo dell’Ufficio stampa di B. Mussolini. Quell’estate il M. si trasferì a Parigi, come redattore (poi caporedattore) del settimanale La Nuova Italia (o L’Italie nouvelle), organo del Fascio locale, in cui pubblicò una cinquantina di articoli finché, nel dicembre 1934, fu licenziato per aver attaccato alcune istituzioni fasciste della capitale transalpina. Questo non gli impedì di continuare, nei primi mesi del 1935, con le collaborazioni agli altri fogli sopra accennati cui se ne aggiunsero di nuovi (per esempio, Critica fascista e Meridiani).

A metà giugno del 1935 il M. si arruolò come volontario e partì per l’Etiopia.

Con il grado di sottotenente (che mantenne per tutta la seconda guerra mondiale), fu a capo del XX battaglione eritreo, una piccola banda di ascari. Ma il suo impegno bellico si limitò a modeste scaramucce, e solo dall’inizio delle ostilità (3 ottobre) fino a dicembre, allorché fu ricoverato in ospedale per un’imprecisata «piaga tropicale».

Dal gennaio 1936, su incarico dell’Ufficio stampa e propaganda dell’Esercito, lavorò per il quotidiano La Nuova Eritrea, diretto da L. Gana, organo dei Fasci di combattimento, continuando a scrivervi per alcuni mesi, come editorialista di politica estera, anche dopo il suo rientro in Italia, nell’estate dello stesso anno.

L’avventura africana, costantemente rievocata con nostalgia dal M., gli ispirò tre libri, fra l’autobiografico e il narrativo: XX Battaglione Eritreo (Milano 1936), elogiato da U. Ojetti nel Corriere della sera; Guerra e pace in A. O. (Firenze 1937), raccolta di coloriti bozzetti coloniali; e il racconto Ambesà (Milano 1938). In precedenza il M. aveva pubblicato il suo primo volume, Commiato dal tempo di pace (Roma 1935), un insieme di ricordi di gioventù e di «colloqui» con il duce. Da ricordare che, nel secondo dopoguerra, il M. negò per trent’anni, in polemica con lo storico A. Del Boca, l’uso di gas tossici nella campagna d’Africa, salvo arrendersi all’evidenza documentaria nel 1995.

Il M. ha sempre fatto risalire il suo distacco dal regime al 1937 allorché, deluso dall’impresa d’Etiopia, avrebbe iniziato un’attività di «fronda» (anche in seguito a un incontro parigino con C. Rosselli nella primavera di quell’anno). Si tratta, in verità, di un’affermazione forse troppo impegnativa, perché il suo «antifascismo» si limitò a un allora diffuso (anche tra i gerarchi) ius mormorandi e non trapelò quasi mai fino al 25 luglio 1943.

Nel luglio 1937, il M. si recò in Spagna per seguire alcune fasi della guerra civile. A parte un accordo con L’Illustrazione italiana e Omnibus di Longanesi per l’invio di qualche corrispondenza, si era fatto accreditare dal quotidiano romano Il Messaggero, cui mandò ogni giorno, a partire dal 29 luglio, articoli di schietta ispirazione franchista. Con una notevole eccezione (il 19 luglio), che gli valse il richiamo in patria: e cioè il racconto in termini niente affatto eroici della conquista di Santander, che irritò moltissimo il comando militare italiano. Per di più, l’articolo era stato scritto non dalla zona dei combattimenti, bensì da Saint-Jean-de-Luz, oltre frontiera, in territorio francese.

Il M. sostenne poi che, in seguito a questo incidente, gli furono ritirate sia la tessera del Partito nazionale fascista (PNF; mai più richiesta) sia quella di iscrizione all’Albo dei giornalisti, subito restituita. Ma i due provvedimenti non trovano alcun riscontro documentario. Circa il primo, un recente esame dello stato di servizio militare del M., all’Archivio storico dell’Esercito, dimostra (sia pur in modo indiretto) che non vi fu alcuna espulsione dal PNF. Quanto all’Albo dei giornalisti, all’epoca il M. non era ancora iscritto (lo sarebbe stato solo a partire dal 1940, come risulta dal Bollettino del Sindacato nazionale fascista dei giornalisti).

In ogni caso, grazie alla protezione di G. Bottai, ministro dell’Educazione nazionale, il M. evitò il peggio e nel settembre del 1937 fu mandato a dirigere l’Istituto italiano di cultura di Tallin, in Estonia, all’epoca un Paese relativamente tranquillo. Qui rilanciò l’Istituto, tenendo corsi di lingua e letteratura italiana, sia nella capitale sia presso l’Università di Tartu. Ma soprattutto, nonostante la lontananza, riuscì a mantenere vivo il proprio ricordo in patria, inviando sei corrispondenze all’Illustrazione italiana e ben nove al quotidiano torinese La Stampa, diretto da A. Signoretti.

Rientrato in Italia nell’estate del 1938, il M. rischiò un nuovo «incidente» denunciando al ministero della Cultura popolare (Minculpop), in un rigurgito di zelo fascista, un funzionario di quel dicastero da lui considerato poco leale al regime. Dopodiché, si verificò la grande svolta professionale, auspice forse il ministro Bottai: l’ingaggio, sia pur all’inizio come semplice collaboratore (tre pezzi al mese e obbligo di esclusiva), da parte del Corriere della sera, dopo due tentativi precedenti (nel 1936 e nel 1937) andati a vuoto, sempre con il direttore A. Borelli. Il M. vi sarebbe rimasto fino al 1973, diventando ben presto la principale firma di «via Solferino».

In Estonia il M. aveva completato un breve romanzo, Giorno di festa, iniziato in Abissinia e apparso a puntate su L’Illustrazione italiana nella seconda metà del 1938 (poi riunito in volume, Milano 1939).

Protagonista è una vecchia signora, rigida e fuori dal tempo, proprietaria di una tenuta in Toscana. L’annuale festa del titolo allude al ricordo dell’inaugurazione della luce elettrica in villa. Attorno alla padrona ruotano vari personaggi, uno dei quali pare ispirato allo stesso M.; ma, di là dagli aspetti autobiografici, il romanzo è interessante per la comparsa di una vaga aura di «fronda», per esempio laddove si prospetta l’immagine negativa di una classe sociale, gli agrari, già all’origine delle fortune del fascismo.

L’esordio sul Corriere avvenne il 9 sett. 1938, con un racconto in terza pagina, di ambientazione canadese; ma ben presto il M. si recò all’estero. Prima tappa – dal novembre 1938 al marzo 1939 – fu l’Albania.

Dall’Albania il M., d’accordo con Borelli, inviò molti articoli di 'varietà' destinati alla terza pagina. Aveva anche ricevuto dall’ambasciatore F. Jacomoni l’incarico di scrivere un libretto su quel Paese, a uso del Minculpop (poi uscito autonomamente in volume, con il titolo Albania una e mille, Torino 1939, dopo che il ministero aveva richiesto delle modifiche, non accolte).

Da Tirana il M. rientrò una settimana prima dell’inizio della campagna d’Albania (7 apr. 1939), perdendo così un’importante occasione professionale. Dopodiché, per intuito o per fortuna, egli si sarebbe trovato su tutti gli scenari bellici più importanti.

Nell’agosto del 1939 fu incaricato di seguire un gruppo composito di giovani fascisti e nazisti diretti in bicicletta dall’Italia in Germania. Era dunque a Berlino quando Hitler annunciò l’invasione della Polonia e poté descrivere quei tragici eventi in presa diretta. Un mese dopo fu a Helsinki, giusto in tempo per fare la cronaca della guerra russo-finlandese e sostenere – del tutto in linea con la stampa fascista – l’eroismo del popolo finnico assalito dal gigante bolscevico.

Furono questi articoli a determinarne l’assunzione al Corriere in pianta stabile come inviato di guerra (gennaio 1940) e a consacrarne la popolarità in Italia. Al termine del conflitto russo-finlandese si spostò in Norvegia, riuscendo anche ad assistere all’invasione nazista del Paese.

Tali esperienze furono riversate in tre libri: I cento giorni della Finlandia (Milano 1940); La lezione polacca (ibid. 1942); e Guerra nel fiordo (ibid. 1942), tutti e tre poi ristampati in un unico volume (ibid. 1978).

Il giorno della dichiarazione mussoliniana di guerra alla Francia (10 giugno 1940), il M. si trovava a Roma. Inviato per pochi giorni sul fronte francese, a metà luglio tornò nei Balcani, fermandosi soprattutto in Romania. A fine ottobre partì nuovamente per l’Albania, seguendo in Grecia la disgraziata campagna fascista. Rientrato in Italia a metà aprile 1941, raggiunse la Finlandia 'coprendo', sempre per il Corriere, la seconda guerra russo-finlandese. In ottobre fece ritorno in patria per alcuni mesi. Fu poi nuovamente in Albania ai primi di maggio 1942 e un paio di mesi dopo in Croazia (dove visitò il campo di concentramento di Jasenovac, senza che gliene venissero mostrati gli orrori). In settembre – continuando fino al luglio dell’anno successivo – iniziò a collaborare settimanalmente a Tempo di Alberto Mondadori, firmando, con lo pseudonimo di Calandrino, una vivace ma allineata rassegna della stampa estera.

Il 25 nov. 1942 il M. si unì in matrimonio a Milano con l’austriaca Margarethe Colins de Tarsienne: un legame già finito nell’immediato dopoguerra (il 6 sett. 1974 sposò in seconde nozze la scrittrice Colette Rosselli, sua compagna da venticinque anni).

Nei primi mesi del 1943 il M. considerava il fascismo un’esperienza ormai conclusa, ma non militò in alcun gruppo clandestino, limitandosi a sporadici contatti con la principessa Maria Josè (nei suoi velleitari tentativi di defenestrare Mussolini) e con alcuni cattolici liberali, come S. Jacini e T. Gallarati Scotti.

Il 25 luglio si trovava a Portofino, ma tornò subito a Milano, dove il direttore Borelli era stato sostituito dall’ex corrierista E. Janni. Durante i 45 giorni di Badoglio firmò vari articoli antimussoliniani, sia per il Corriere sia per Tempo. Così, dopo l’armistizio dell’8 settembre, fu costretto a entrare in clandestinità.

Già in questi suoi primi anni di attività lo stile giornalistico del M. presentava gli specifici caratteri che nel dopoguerra lui stesso avrebbe teorizzato e messo costantemente in pratica: innanzitutto l’uso di una scrittura brillante, arguta, spesso caustica, che corrispondeva al suo temperamento toscano, in cui si riscontrava un’abbondante presenza della prima persona accompagnata dall’affermazione di un reiterato «io c’ero», a volte forzato; poi una manifesta predilezione per il verosimile rispetto al vero, che lo indusse a frequenti alterazioni della realtà: frutto peraltro della commistione fra giornalismo e letteratura, così tipica delle terze pagine di quei tempi. Analoga fu l’impostazione del suo amico-nemico Curzio Malaparte, dotato però di una vena letteraria molto più ricca.

All’inizio di febbraio del 1944, il M. venne arrestato sul lago d’Orta. Perso ogni collegamento cittadino, aveva cercato di prendere contatto con F. Beltrami, comandante partigiano in Val d’Ossola, ma, a causa d’una sua leggerezza (una lettera fatta recapitare alla moglie, rimasta a Milano), era stato individuato dalla polizia. Fu rinchiuso dapprima a Gallarate, poi, dal 9 maggio, nel carcere milanese di S. Vittore (insieme con la moglie). Stando alla documentazione disponibile, non fu mai condannato a morte, però, al pari degli altri detenuti politici, rischiò in ogni momento di essere risucchiato nel gorgo di qualche rappresaglia. Riuscì a eclissarsi il 1° agosto.

Principale artefice della sua «liberazione» era stato L. Ostèria, ex funzionario della polizia politica fascista (OVRA) e abile doppiogiochista, che in quei mesi di guerra lavorava per i Tedeschi. Dietro compenso pecuniario (fornito, pare, dai Crespi, proprietari del Corriere), Ostèria convinse Th. Saevecke, capo della Gestapo a Milano e responsabile di S. Vittore, a firmare un falso ordine di trasferimento.

Il M., insieme con altri due prigionieri, ne approfittò riuscendo, il 14 agosto, a riparare in Svizzera; tre furono i luoghi della sua residenza elvetica: Lugano (agosto-ottobre 1944), dove trascorse la quarantena presso la clinica S. Rocco; Davos (ottobre 1944 - febbraio 1945), nei Grigioni; infine Berna (marzo-maggio 1945). In quel periodo collaborò a diversi giornali locali, fra cui Libertà (punto di riferimento per i rifugiati di area cattolica), Gazette de Lausanne e soprattutto Illustrazione ticinese.

In virtù dell’internamento a Gallarate e a S. Vittore, il M. riteneva d’essere accolto a braccia aperte dagli altri fuorusciti, i quali, invece, si tennero alla larga da lui, cingendolo con una sorta di cordone sanitario. Sin dai giorni successivi alla sua accoglienza in Svizzera, infatti, si era diffusa la voce che egli era fuggito grazie a Ostèria, reputato un personaggio losco e sospetto. A questo si aggiunse la naturale diffidenza che poteva comunque suscitare una figura come quella del M., con un pedigree antifascista tanto sui generis e tutto interno al regime.

La parentesi elvetica scavò così un incolmabile fossato fra il M. e gli antifascisti, contribuendo al formarsi della sua impalcatura ideologica postbellica. Il più importante scritto teorico del M. – apparso nei primi mesi del 1945 sull’Illustrazione ticinese e in settembre incluso nel suo libro Qui non riposano (Milano) – è il Testamento di Antonio Bianchi.

Sotto le mentite spoglie di Antonio Bianchi, uomo qualunque per antonomasia, si nasconde lo stesso M., che qui riassume le principali tappe della sua vita, da fascista dapprima convinto a fascista a suo modo critico e quindi ad antifascista scettico. È in Svizzera che Antonio Bianchi ha occasione di redigere le sue ultime volontà, sicuro d’essere raggiunto da una pallottola se fosse tornato in Italia. Pur proclamandosi morituro (per colpa, diretta e indiretta, «di quel deprecabile e funesto fenomeno che si chiama fascismo»), egli, nel contempo, rinuncia all’aureola di «martire». Arrivato infine alla critica e al rigetto del regime di Mussolini, il suo antifascismo, tuttavia, non ha nulla a che vedere con quello degli oppositori clandestini o dei fuorusciti. Antonio Bianchi il fascismo l’aveva attraversato, facendosi contaminare nel bene e nel male dalla realtà del Ventennio, respirandone l’aria a pieni polmoni. Se al termine dell’esperimento mussoliniano era corretto tracciarne un bilancio negativo, questo non obbligava a demonizzarlo in toto, a sradicarlo violentemente dalla storia italiana. Il vero antifascismo, poi, non era quello dei «puri» e degli incorrotti, ma quello di Antonio Bianchi, che il Paese reale l’aveva conosciuto dal vivo. In un’epoca insanguinata dalle passioni partigiane, il suo desiderio era ormai quello di non essere più attore, bensì solo spettatore: «Io volevo stare alla finestra […] volevo avere il diritto di non pensare alla politica […] perché la politica la gente dabbene non la fa».

Il Testamento fu accolto malissimo dagli esuli italiani; le stesse reazioni suscitò in Italia, innescando un dibattito cui parteciparono, fra gli altri, U. Segre, G. Pampaloni, E. Montale, V.E. Alfieri ed Edilio Rusconi (uno dei pochi a difendere il M.). Da sinistra fioccarono le accuse di qualunquismo, disimpegno e denigrazione della Resistenza.

Altro tassello fondamentale dell’antifascismo del M. – mirante a storicizzare il passato littorio, contrastando l’ondata epurativa e sostituendo alla pregiudiziale antifascista quella anticomunista – è Il buonuomo Mussolini (ibid. 1947).

Vi è riprodotto un testamento, palesemente falso, in cui il duce ripercorre in chiave assolutoria il cammino del regime fascista. Il M. vi fissò i paradigmi del revisionismo presente e futuro: «In poche decine di pagine, troviamo concentrati quasi tutti gli argomenti storici e politici che per mezzo secolo avrebbero alimentato l’arsenale dell’anti-Resistenza» (S. Luzzatto, Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, Torino 1998, p. 123). Lungo questa direttrice si pose anche Il generale della Rovere (Milano 1959), rielaborazione della sceneggiatura stesa dal M. per l’omonimo film diretto in quell’anno da R. Rossellini, con V. De Sica, che interpreta il pregiudicato Giovanni Bertone, il protagonista, che, ricattato dai Tedeschi per i suoi trascorsi, è rinchiuso nel carcere di S. Vittore e costretto a fingersi Fortebraccio Della Rovere, valoroso generale della Resistenza, per spiare i capi antifascisti imprigionati. Imbroglione sì, ma in fondo bonario e generoso, Bertone si immedesima talmente nel ruolo, da rompere il patto con i nazisti e morire eroicamente nel campo di Fossoli. Un personaggio apolitico e facilone, che si sacrifica per un malinteso senso del dovere, e perciò lontanissimo dai modelli invalsi nella memorialistica partigiana.

Il M. tornò in Italia il 22 maggio 1945. Riprese subito servizio presso il Corriere (diretto sino all’agosto 1946 da M. Borsa, di simpatie azioniste). Formalmente riassunse il ruolo d’inviato speciale (reportages dalla Val d’Aosta e dall’Alto Adige), ma fu poi incaricato di dirigere – dal settembre 1945 all’ottobre 1946 – la Domenica degli italiani, provvisoria denominazione della vecchia Domenica del Corriere. Sul Corriere fu invece emarginato e ridotto a stendere per lo più scarne schede cinematografiche. L’infelice coabitazione con Borsa rafforzò nel M. l’ostilità verso il Partito d’azione, di cui non condivideva l’intransigenza e la mistica del «lavacro morale». Questo, tuttavia, non gli impedì di instaurare solidi legami con alcuni illustri azionisti, quali U. La Malfa, L. Valiani, A. Garosci e A. Galante Garrone.

Dopo la parentesi di Borsa, con i nuovi direttori G. Emanuel (1946-52) e M. Missiroli (1952-61), il M. tornò in auge, ormai consacrato a giornalista principe del Corriere. Fu inviato speciale in Europa, Asia, Africa e America.

A fine ottobre 1949 inaugurò la sua celebre galleria degli Incontri con i grandi personaggi del tempo, poi raccolti in vari volumi. Ritratti né apologetici né denigratori, si muovono sul sottile crinale che divide l’adulazione dalla perfidia e spesso riportano episodi inventati o deformati, frutto della consueta subordinazione del vero al verosimile del Montanelli.

Nel marzo del 1950 uscì il primo numero de Il Borghese, l’ultimo periodico ideato e diretto da Longanesi, che vantava collaboratori del calibro di G. Ansaldo e G. Prezzolini e sosteneva le ragioni d’una Destra che non si vergognasse di definirsi tale e potesse scalzare dal governo la Democrazia cristiana (DC). Il M. divenne una delle colonne ideologiche della rivista, soprattutto a partire dal 1954, allorché, allentati gli impegni da inviato all’estero, poté dedicarsi con maggior frequenza alle questioni italiane.

I suoi articoli, firmati con uno pseudonimo (soprattutto Adolfo Coltano e Antonio Siberia), erano molto più pepati, aggressivi e antidemocratici rispetto a quelli ospitati dal Corriere. In questo quadro, si collocano anche le lettere che, fra maggio e settembre 1954, il M. scrisse all’ambasciatrice degli Stati Uniti a Roma, Clare Boothe Luce, in cui ipotizzava un «colpo di Stato» in caso di vittoria elettorale delle sinistre. Questi documenti sono stati rinvenuti alla fine degli anni Novanta presso i National Archives di Washington dallo storico italiano M. Del Pero.

Il 25 febbr. 1953 incontrò per la prima volta Prezzolini, nella sua «soffitta» di New York. Questi, ormai sdegnoso «anti-italiano», rimase sempre una delle guide spirituali del M., il quale si fermò a New York sino a maggio. Dalle corrispondenze inviate al Corriere e dal suo diario privato si evince un certo spaesamento, se non una repulsione, di fronte all’American way of life.

Nel gennaio 1954 pubblicò su Epoca (cui collaborava in genere sotto pseudonimo) una lettera aperta al direttore Arnoldo Mondadori, lanciando l’idea di un «processo alla borghesia italiana», accusata di viltà e debolezza di fronte alla minaccia comunista. Ne seguì un acceso dibattito sulla stampa.

Bloccato a Budapest dopo l’invasione sovietica del 4 nov. 1956, fu uno dei pochi giornalisti europei a poter raccontare dal vivo la rivoluzione ungherese.

Le sue corrispondenze per il Corriere, giudicate troppo «progressiste», perché mettevano in luce il carattere operaio e studentesco dell’insurrezione, gli attirarono feroci critiche a destra, provocando la fine del suo sodalizio con Longanesi (spentosi nel settembre 1957). L’interpretazione del M. fece scandalo in Italia perché proveniva da chi si era sempre cucito addosso, non senza civetteria, l’etichetta di «reazionario».

L’esperienza di Budapest – rievocata nella sua pièce teatrale I sogni muoiono all’alba (1960) e tradotta in film l’anno seguente – rappresenta uno spartiacque nella biografia del Montanelli. Da quel momento, infatti, pur continuando a dichiararsi uomo della destra liberale (anche se a modo suo, con venature anarchicheggianti, alla Prezzolini o alla Longanesi), addolcì a poco a poco la propria avversione verso tutto ciò che odorasse di sinistra. Iniziò a dialogare con gli ex comunisti, non nascose alcune significative aperture al centro-sinistra (considerato il male minore), mentre suo politico di riferimento rimase quasi sempre Ugo La Malfa.

Nel 1957 uscì la Storia di Roma (Milano), il primo d’una fortunatissima serie divulgativa di oltre venti volumi dedicati alla storia d’Italia, pubblicati da Rizzoli. Ad affiancarlo in quest’impresa chiamò due colleghi: R. Gervaso (dal 1965 al 1970) e M. Cervi (dal 1979 sino alla fine), mentre negli anni Settanta firmò da solo cinque volumi.

In genere avversata dagli storici di mestiere, la Storia d’Italia del M. riscosse tuttavia uno straordinario successo di pubblico e fece del suo autore il più seguito divulgatore di storia patria dai tempi di C. Cantù. Lo stile era affabile, confidenziale, accessibile a tutti, e rispecchiava un suo celebre motto: «Scrivi in modo che ti possa leggere il lattaio dell’Ohio». Il gusto per i ritratti dei grandi personaggi, colti – quasi con occhio da voyeur – nella loro dimensione privata, fra tic, debolezze e luoghi comuni (innegabile l’eco degli Incontri, quasi una prova generale della Storia d’Italia). Il richiamo, spesso forzato, all’attualità. Il rifiuto dei paradigmi idealisti e marxisti. La centralità dell’aneddoto, senz’altro l’artificio retorico più vistoso. L’afflato de-eroicizzante, ovvero l’assenza di distanza epica o tragica. Il tutto condito dei tipici ingredienti del 'montanellismo', sempre più evidenti mano a mano che ci si avvicina alla storia contemporanea: l’antitalianismo di marca prezzoliniana, lo scontroso scetticismo, l’antiantifascismo, il mito del «buonuomo Mussolini».

Alla fine degli anni Cinquanta, il M. conquistò un’altra tribuna: L’Europeo, dove dal 1957 al 1964 firmò ogni settimana, con lo pseudonimo di Marmidone, un vibrante filo diretto con i lettori (I nostri affanni). Dal luglio 1964 traslocò alla Domenica del Corriere, che gli affidò una seguitissima rubrica, presto ribattezzata La stanza di Montanelli. Com’era già accaduto con Il Borghese, il M. poté utilizzare su entrambe le testate toni assai più scanzonati e provocatori di quelli concessi dal paludato Corriere alla cui direzione, nell’ottobre 1961, A. Russo subentrò a Missiroli.

Tra i più notevoli servizi del M. apparsi sul Corriere negli anni Sessanta, vi furono le cinque bordate contro la gestione dell’Ente nazionale idrocarburi (ENI), apparse fra il 13 e il 17 luglio 1962, in cui il M. prese di mira il presidente, E. Mattei, per l’uso disinvolto della «rendita petrolifera», per i bilanci a suo dire criptici, per la corruzione esercitata nei confronti di partiti politici e organi di stampa; a quanto pare il M., nella sua azione, sarebbe stato ispirato dai vertici della Confindustria. Quindi i reportages dedicati a Sardegna, Toscana, Emilia Romagna e Lombardia, nell’ambito di una lunga serie sulle Regioni intitolata Italia sotto inchiesta, apparsa fra il 1963 e il 1965. Infine una campagna – iniziata il 10 febbr. 1968 e protrattasi fino al 1973 – che portò alla ribalta nazionale la salvaguardia di Venezia e della sua laguna, minacciata da nuovi insediamenti industriali (poi non realizzati).

Sempre in questi anni, nell’ambito della produzione teatrale del M. è da segnalare Kibbutz, una pièce ispirata al processo ad A. Eichmann, andata in scena a Milano il 10 nov. 1961.

In un kibbutz israeliano di frontiera un gruppo di coloni di diversa età e provenienza si interroga sul proprio passato. A scatenare il dramma è la scoperta che Rachele, un’ebrea napoletana eroina del kibbutz, ha partecipato allo sterminio della propria gente. È stata infatti l’amante di uno stretto collaboratore di Eichmann, da lei poi ucciso per amore e per pietà. La difende il vecchio Saul, un tempo Ugo Volterra, avvocato fiorentino, che a sua volta confessa le proprie colpe: ha preso in prestito un padre ariano, tacciando la madre di adulterio, e ha in tal modo mantenuto incarichi di rilievo nelle gerarchie fasciste. Ne sorgono gravi problemi di coscienza, discussioni accorate e la decisione finale di non deferire Rachele al tribunale del kibbutz. Dimenticare e assolvere: questo il punto di vista del M. che scatenò, come al solito, furibonde discussioni sui giornali dell’epoca.

Il 12 febbr. 1968, G. Spadolini subentrò a Russo nella direzione del Corriere.

Di fronte alle rivendicazioni studentesche (e poi anche operaie) di quegli anni, il foglio milanese oppose un compatto rifiuto. Lo stesso M. entrò nel mirino dei 'sessantottini', anche se in realtà i suoi articoli non erano così reazionari come poteva sembrare allora. Infatti, pur non condividendo quelle forme di lotta, tuttavia riconosceva che le ragioni dei contestatori non erano del tutto infondate, in una società sclerotizzata come quella italiana. Piuttosto, il M. non nascose mai la propria idiosincrasia verso i «salotti radical-chic»: di qui, la sua Lettera a Camilla Cederna, pubblicata nel Corriere il 21 marzo 1972, che generò un mare di polemiche, per le espressioni grevi utilizzate contro la giornalista, svillaneggiata a causa delle sue simpatie «sinistrorse». Da non dimenticare, comunque, che in quegli stessi anni il M. si schierò senza riserve per la legge sul divorzio (approvata alla fine del 1970) e contro il referendum abrogativo promosso dai cattolici (poi bocciato dagli elettori nella primavera del 1974). I suoi interventi durissimi contro il papa e le ingerenze clericali suscitarono sdegnate reazioni e gli costarono anche una querela. Un orgoglioso laicismo, che lo avrebbe accompagnato sino agli ultimi mesi di vita, quando si espresse a sostegno dell’eutanasia (intesa come suicidio assistito).

Dopo quattro anni di direzione Spadolini, la proprietà del Corriere (Giulia Maria Crespi in testa), preoccupata anche dal peggioramento dei conti, il 15 marzo 1972 portò al vertice di via Solferino P. Ottone, con l’intenzione di svecchiare il quotidiano e di farne l’organo della borghesia più liberale. Onde, per esempio, le collaborazioni di P.P. Pasolini e alcune significative inchieste sulle morti bianche. Il M., che pure da qualche tempo si trovava a disagio con la proprietà, disagio accentuatosi con il licenziamento di Spadolini, mantenne all’inizio rapporti abbastanza distesi con Ottone, salvo ben presto criticarne lo sbilanciamento a sinistra e le eccessive aperture ai sindacati interni. Giunse così alla decisione, nell’ottobre 1973, di abbandonare il Corriere e di fondare un nuovo quotidiano, insieme con una folta pattuglia di redattori e firme di via Solferino, quali E. Bettiza, E. Corradi, M. Cervi, C. Zappulli e G.G. Biazzi Vergani. Contemporaneamente, lasciò pure la Domenica del Corriere, iniziando (il 22 novembre) una nuova rubrica settimanale su Oggi, che continuò fino alla morte. In quel periodo di interregno, il M. collaborò per alcuni mesi a La Stampa, diretta da A. Levi.

La Società europea di edizioni (SEE), proprietaria della testata Il Giornale nuovo, fu costituita nel febbraio 1974. Soci fondatori: lo stesso M. (direttore), Bettiza, G. Piovene (presidente), G. Granzotto (amministratore delegato, poi presidente a fine anno, dopo la morte di Piovene), Zappulli, R. Trionfera e Biazzi Vergani, destinato a diventare il motore organizzativo dell’impresa. I fondi necessari furono forniti dalla Società pubblicitaria italiana (SPI), una importante concessionaria di pubblicità (entrata in quei mesi nell’orbita della Montedison di E. Cefis), che si impegnò nel nuovo quotidiano con un minimo garantito di 12 miliardi di lire. Il 25 giugno 1974 uscì dunque il primo numero de Il Giornale nuovo (dal 1983 Il Giornale).

Da un punto di vista grafico Il Giornale si presentava come un foglio molto tradizionale, a nove colonne, con un’impostazione sobria, quasi minimalista. In 'taglio basso', spiccava il Controcorrente, un breve corsivo in cui, con perfidia e sarcasmo epigrammatico, il M. (spesso coadiuvato dai suoi collaboratori) infilzava il bersaglio di turno. In economia, il nuovo quotidiano era liberista. In politica interna, laico e anticomunista, ferocemente contrario al «compromesso storico» e quindi all’avvicinamento del Partito comunista italiano (PCI) all’area di governo. In politica estera, filoatlantico e filoisraeliano. In una parola, era liberalconservatore; ma si trattava di un «liberalconservatorismo» schierato, militante, orgogliosamente fazioso. I lettori del Giornale, comunque, si collocavano sensibilmente più a destra del M., come risulta evidentissimo dalla rubrica di lettere al direttore, dove non mancavano toni apertamente forcaioli, reazionari e nostalgici. L’abilità del M. si dimostrava nella capacità di tenere a bada i propri estimatori, senza farne emergere gli umori più antidemocratici. Lui stesso, però, a volte non sarebbe riuscito a nascondere il proprio disagio di fronte a lettori politicamente tanto distanti da lui: «approvo di tutto cuore la sua decisione di non leggermi più. Lei non ha soltanto sbagliato giornale: ha sbagliato secolo» (7 sett. 1982).

La sezione culturale del Giornale fu tra le più vive e interessanti nel panorama della carta stampata. Intorno alla terza pagina ruotava, infatti, «tutto un ambiente di uomini di cultura dalle insospettabili radici democratiche (o liberaldemocratiche) che sono stati sospinti verso posizioni di centro, se non di destra, da una motivata allergia al sinistrese e alle sue pose concettualmente sommarie e formalmente analfabetiche» (N. Ajello, Lezioni di giornalismo, Milano 1985, p. 163). Un ambiente che in passato aveva frequentato riviste come Il Mondo di M. Pannunzio e Tempo presente di N. Chiaromonte. Particolare attenzione era dedicata ai fermenti democratici nei Paesi dell’Est e ad autori quali Hannah Arendt, I. Berlin, L. von Mises, F. von Hayek, K. Popper, J. Schumpeter, E. Vogelin (nomi allora non tutti ben conosciuti in Italia). Fra i collaboratori spiccavano R. Cantoni, N. Abbagnano, C.L. Ragghianti, M. Praz, G. Pampaloni, G. Zampa, R. De Felice, R. Romeo, C. Laurenzi, P. Buscaroli, R. Aron, F. Fejtö, E. Ionesco e P. Samuelson.

Forse soltanto con Il Giornale il M. diventò un giornalista politico a tutto tondo. Certo, s’era sempre occupato della materia, ma il suo approccio era stato umorale, irridente, sarcastico. Ora, pur conservando uno stile brioso, indossava i panni del politologo. Nei suoi editoriali indagava uomini e correnti, suggeriva alleanze, delineava strategie, si sbilanciava in previsioni a lungo termine. Nell’intimo, disprezzava il «Palazzo», eppure s’era assunto il difficile compito di separare il grano dal loglio, per offrire un affidabile vademecum elettorale ai lettori che pendevano dalle sue labbra.

In occasione delle elezioni anticipate del 20 giugno 1976, il M. rivolse ai suoi lettori un celebre invito a votare DC come male minore, per scongiurare il temuto «sorpasso» comunista. Il 2 giugno 1977 fu gambizzato a Milano da un commando delle Brigate rosse; anni dopo incontrò e perdonò i suoi attentatori.

Nel marzo 1983 il condirettore Bettiza lasciò Il Giornale, dopo che il M. ne aveva contestato l’apprezzamento troppo aperto al Partito socialista italiano (PSI) di B. Craxi (diventato, dopo la fine del «compromesso storico», l’ago della bilancia nella politica italiana); i due si riconciliarono solo nel 1996. Il 1989 fu l’anno della «fine del comunismo» e del crollo del Muro di Berlino. Il M. se ne rallegrò, anche se i suoi articoli al riguardo furono venati da un’evidentissima sfumatura malinconica, per la scomparsa di quel mondo bipolare in cui era riuscito a ritagliarsi un ruolo da protagonista. Nel 1991 il M., per conservare la propria indipendenza, rifiutò il seggio di senatore a vita, propostogli dall’allora presidente della Repubblica, F. Cossiga.

Centrale, nella storia del Giornale del M., fu il ruolo di S. Berlusconi. Questi nel 1977, già immobiliarista di successo, era diventato azionista della SEE, con una quota del 12 % (pari a quella dell’imprenditore A. Boroli). Il quotidiano, pur con una tiratura di circa 270.000 copie, chiudeva i propri conti con perdite allora modeste, ma destinate a crescere. Per porvi riparo, in quell’anno il M. riuscì a far subentrare alla SPI la concessionaria pubblica Società italiana pubblicità per azioni (SIPRA), che garantì un lauto «minimo garantito» per un altro quinquennio. Nell’ottobre del 1979 Berlusconi portava la propria quota al 37,5 %.

Negli anni Ottanta, Berlusconi stava costruendo il proprio impero televisivo. Il Giornale lo affiancò in tutto quel periodo, sostenendo la «libertà d’antenna» (e quindi la legislazione conseguente) contro il monopolio pubblico della RAI. Solo a tratti ci furono tensioni con il M. per alcune sue bordate contro il politico in quel momento più vicino a Berlusconi, e cioè Craxi, presidente del Consiglio dall’agosto 1983: ammirato dal M. per l’anticomunismo e il filoatlantismo, ma criticato per il temperamento arrogante. A parte questi incidenti, Berlusconi e il M. filarono sempre in perfetto accordo, anche dopo la scoperta dell’iscrizione del primo alla loggia massonica P2 (1981), su cui il M., pur deprecandone il retroterra affaristico e approvandone lo scioglimento, dette un giudizio quasi assolutorio, reputando il suo capo, L. Gelli, una sorta di golpista da operetta.

Nel 1987 – con Il Giornale attestato su una vendita di circa 150.000 copie al giorno e in costante «rosso» – Berlusconi raggiunse la maggioranza assoluta della SEE, sostituendo alla SIPRA la Publitalia, del gruppo Fininvest. Nell’estate del 1992, in ossequio ai dettami della «legge Mammì» – secondo la quale i possessori di tre reti televisive non potevano possedere anche quotidiani nazionali – Paolo Berlusconi subentrò al fratello, almeno giuridicamente, quale azionista di maggioranza della SEE.

Nel gennaio 1994, dopo mesi di frizioni, avvenne la rottura irreparabile tra il M. e Silvio Berlusconi, in coincidenza con l’annuncio della «discesa in campo» di quest’ultimo: non tollerando di avere un «padrone» impegnato in politica, il M. abbandonava la direzione del Giornale, trasformandosi in uno dei più duri oppositori del leader di Forza Italia. L’evento suscitò grande scalpore nel mondo giornalistico.

Molti non capirono. Dopo tutto, il Berlusconi «politico» stava per appropriarsi del lessico utilizzato per vent’anni dal Giornale. Il richiamo ai perduti «valori morali»; la retorica dello scontro di civiltà fra «anticomunisti» e «comunisti». L’ammirazione per gli Stati Uniti di R. Reagan e l’Inghilterra di Margaret Thatcher. Il peana al «libero mercato». Il revisionismo sul fascismo e la Resistenza; il disprezzo per il «Palazzo». La diffidenza verso i giudici «politicizzati» (anche se, dal 1992, il foglio milanese era divenuto uno dei più calorosi fiancheggiatori di «Mani pulite»). In realtà il M., ergendosi a portavoce del senso comune dell’italiano medio, aveva offerto autorevolezza agli impulsi qualunquistici e anarcoidi presenti nel nostro corpo sociale. Solo quando Berlusconi s’incaricò di dare per la prima volta, nel 1994, una rappresentanza politica a questo magma informe, il M. si rese conto di avere involontariamente recitato la parte dell’«apprendista stregone».

Alla tenera età di 85 anni, il M. si lanciò dunque nella nuova avventura de La Voce, affidandosi a una cordata di imprenditori, il cui sostegno si sarebbe però rivelato inferiore alle aspettative e alle necessità. Con lui vennero molti colleghi del Giornale, tra cui il condirettore F. Orlando, e i giovani M. Travaglio e B. Severgnini. Il nuovo quotidiano uscì il 22 marzo 1994 ed ebbe all’inizio un successo travolgente. A poco a poco, però, le vendite calarono attestandosi sulle 50.000 copie. Finché, il 12 apr. 1995, La Voce fu costretta a chiudere.

Giornale graficamente aggressivo (il fotomontaggio caricaturale in prima pagina ne sarebbe rimasta la cifra distintiva), La Voce – nonostante la programmatica equidistanza liberaldemocratica –, indirizzò i propri strali soprattutto verso Berlusconi e il suo primo governo (maggio-dicembre 1994), tuonando contro il «conflitto di interessi» e difendendo i magistrati di «Mani pulite». Nei suoi articoli, il M. non avrebbe dissimulato la propria ripugnanza – forse estetica prim’ancora che etica e politica – verso la nuova destra incarnata da Berlusconi («una nomenclatura cafona come questa in Italia non si era mai vista»: 26 ag. 1994).

Nel maggio 1995, il M. ritornò come editorialista al Corriere, diretto da P. Mieli, che pure, a decorrere dal 1° ottobre, gli affidò una seguitissima Stanza quotidiana di dialoghi con i lettori.

Accusato da diversi simpatizzanti berlusconiani di essere «passato al nemico», il M. trascorse gli ultimi anni della sua vita a difendere l’idea di un’«altra destra», sobria, conservatrice, colta, pessimista, diffidente della società di massa, una destra che forse esisteva soltanto nel suo cuore.

Alle elezioni del 1996, il M. appoggiò senza entusiasmo il candidato del centrosinistra, R. Prodi, poi risultato vincitore. Ancora alla vigilia delle elezioni del 13 maggio 2001, il M. dichiarò di voler votare per il centro-sinistra. Le forze di centro-destra, attraverso televisioni e giornali, sferrarono contro di lui una campagna violentissima e diffamatoria, alla quale replicò colpo su colpo.

Il M. morì a Milano il 22 luglio 2001.

Il M. ha sempre suscitato passioni contrastanti. Del resto, nell’Italia repubblicana la sua penna ha rappresentato un unicum: non assimilabile né al prevalente giornalismo filogovernativo e soporifero, sintonizzato sulla lunghezza d’onda della DC, né al giornalismo liberaldemocratico alla Mario Pannunzio (cui pure il M. non mancò di tributare lodi di circostanza). Negli anni successivi alla morte, ripetuti sono stati i tentativi di appropriarsi della sua figura. Sia da parte della «sinistra», che ha sorvolato sul suo conservatorismo e sull’anticomunismo, per valorizzarne invece la militanza antiberlusconiana dell’ultima stagione. Sia da parte della «destra», che, dopo averlo dipinto come un «utile idiota» passato al soldo della sinistra postcomunista, ha cercato di fabbricarsi un M. a propria immagine e somiglianza, rimuovendo l’insanabile conflitto del M. con il Berlusconi politico.

Del M., oltre ai volumi già citati, si veda: I conti con me stesso. Diario 1957-1978, a cura di S. Romano, Milano 2009 (un lavoro peraltro lacunoso e filologicamente poco attendibile). Per una Bibliografia delle opere di I. M., si rinvia ai due volumi di S. Gerbi - R. Liucci, Lo stregone. La prima vita di I. M., Torino 2006, pp. 377 s., e M. l’anarchico borghese. La seconda vita 1958-2001, ibid. 2009, pp. 269-271.

Fonti e Bibl.: Le carte del M. sono conservate principalmente a Milano, presso l’Archivio storico del Corriere della sera; Fucecchio, Fondazione Montanelli Bassi; Pavia, Università degli studi, Fondo manoscritti. Per ulteriore bibliografia, con particolare riferimento ad alcune fonti secondarie meritevoli di menzione, si rimanda ai due citati volumi di R. Liucci - S. Gerbi. Da ricordare, inoltre, i recenti lavori di R. Broggini, Passaggio in Svizzera. L’anno nascosto di I. M., Milano 2007; nonché, sullo stato di servizio militare del M., S. Gana Cavallo, M. miles gloriosus, in Storia in rete, 2009, n. 47, pp. 54-61.

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