Impugnazioni e decadenze nel 'collegato lavoro'. Il nuovo regime delle impugnazioni e delle decadenze

Libro dell'anno del Diritto 2012

Impugnazioni e decadenze nel 'collegato lavoro'. Il nuovo regime delle impugnazioni e delle decadenze

Giovanni Amoroso

Impugnazioni e decadenze nel «collegato lavoro»

Il nuovo regime delle impugnazioni e delle decadenze.

Il contributo analizza il nuovo regime delle impugnazioni e delle decadenze previsto dall’art. 32 l. 4.11.2010, n. 183 (cd. collegato lavoro), esaminando l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento in relazione alla controversia che il lavoratore intenda instaurare con il ricorso al giudice e l’estensione ad ulteriori fattispecie di tale regolamentazione di accelerazione dei tempi di avvio del contenzioso. All’impugnativa del licenziamento si affianca, nel presente contributo, l’impugnativa del lodo arbitrale di cui all’art. 31 l. cit., che viene analizzata comparando la nuova e la precedente disciplina.

La ricognizione

La l. 4.11.2010, n. 183 (cd. collegato lavoro), recante tra l’altro, come recita il suo titolo, disposizioni in tema di controversie di lavoro, contiene in realtà norme non solo processuali, ma anche sostanziali che riguardano il rapporto di lavoro in generale ed in particolare la nuova disciplina dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento e di altri atti datoriali, nonché dell’impugnativa del lodo arbitrale irrituale. Viene in rilevo, a tal fine, l’art. 32 in tema di «decadenze e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo determinato», che ha dettato una nuova disciplina dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento e di altri atti datoriali con le connesse relative decadenze1. Alla disciplina dell’impugnazione del licenziamento (art. 32) può affiancarsi, in una visione sistematica della riforma contenuta nel «collegato lavoro», quella dell’impugnazione del lodo irrituale, di cui all’art. 31 della stessa l. 183/2010. Connessa a tale nuova disciplina delle impugnazioni è l’art. 2, co. 54, d.l. 29.12.2010, n. 225, convertito nella l. 26.2.2011, n. 10, che, poco dopo l’entrata in vigore del «collegato lavoro», ha già apportato una modifica introducendo il comma 1 bis nell’art. 32 l. n. 183/2010. Quindi, le «novità» normative, di cui si viene ora a dire, sono costituite dall’art. 32, l. n. 183/2010, come modificato dall’art. 2, co. 54, d.l. n. 225/2010, conv. nella l. n. 10/2011, quanto all’impugnativa stragiudiziale del licenziamento e di altri atti datoriali, e dall’art. 31 della stessa legge, quanto all’impugnativa del lodo arbitrale.

1.1 L’impugnazione stragiudiziale del licenziamento e di altri atti datoriali

Il primo comma dell’art. 32 l. n. 183/2010 contiene la nuova formulazione del primo e del secondo comma dell’art. 6 l. 15.7.1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) sull’impugnativa stragiudiziale del licenziamento, lasciando invariato il terzo comma, che prevede la competenza funzionale del giudice del lavoro per le controversie derivanti dall’applicazione della legge medesima2. Si prevede che il licenziamento debba essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore, anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto, ad impugnare il licenziamento stesso. Il nuovo secondo comma dell’art. 6 l. n. 604/1966 – che è la disposizione più innovativa – prevede ora che l’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo. La nuova articolata disciplina di impugnativa e decadenze, introdotta dall’art. 32, co. 1, si salda con le prescrizioni degli ulteriori commi – 2, 3 e 4 – che, in disparte il comma 1 bis aggiunto successivamente, recano la previsione dell’estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 6 novellato3. Si è previsto innanzi tutto che le disposizioni di cui all’art. 6 novellato si applicano anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento, nonché ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero la legittimità del termine apposto al contratto. Parimenti si applicano all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro. Altresì il recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto, è soggetto alla nuova disciplina dell’impugnativa stragiudiziale. La quale poi è estesa anche ad altri atti datoriali: il trasferimento del lavoratore ai sensi dell’art. 2103 c.c. e la cessione del contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’art. 2112 c.c. Infine, le disposizioni dell’art. 6 novellato si applicano in ogni caso, compresa l’ipotesi della somministrazione irregolare, in cui si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto.

1.2 L’impugnativa del lodo arbitrale

L’art. 31 l. n. 183/2010 prevede plurime disposizioni in tema di arbitrato e più specificamente di arbitrato irrituale: i commi 5, 6 ed 8, che riscrivono rispettivamente l’art. 412 c.p.c. (Risoluzione arbitrale della controversia), l’art. 412 ter c.p.c. (Altre modalità di conciliazione e arbitrato previste dalla contrattazione collettiva) e l’art. 412 quater c.p.c. (Altre modalità di conciliazione e arbitrato); i commi 10 e 11, che prevedono la possibilità di clausole compromissorie in materia di arbitrato irrituale; il comma 12, che prevede la possibilità di istituzione di camere arbitrali presso gli organi di certificazione di cui all’art. 76 del d.lgs. 10.9.2003, n. 2764. I punti essenziali della disciplina dell’impugnativa del lodo sono i seguenti. Innanzi tutto, è previsto che il lodo «produce tra le parti gli effetti di cui … all’art. 2113, quarto comma, c.c.»; proposizione normativa abbastanza oscura e forse superflua. Il quarto comma dell’art. 2113 contempla l’eccezione alla regola dei primi tre commi, ossia contempla la fattispecie esclusa alla quale le disposizioni dei precedenti commi – che disegnano una speciale impugnativa di rinunce e transazioni – non si applicano; si tratta della conciliazione intervenuta ai sensi degli artt. 185, 410 e 411 c.p.c., cui ora bisogna aggiungere – per effetto della modifica di cui all’art. 31, co. 9 – quella intervenuta ai sensi degli artt. 412 ter e 412 quater. La prescrizione che il lodo di arbitrato irrituale produce questo stesso effetto sta a significare che, come la conciliazione intervenuta ai sensi degli artt. 185 , 410, 411, 412 ter e 412 quater, si sottrae all’applicazione dei primi tre commi, anche al lodo arbitrale questa disciplina della speciale impugnativa non si applica. Un altro punto essenziale della disciplina comune è la previsione che il lodo è impugnabile ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c. In questa parte il legislatore del 2010 (l. n. 183/2010) si allinea a quello del 2006 (d.lgs. n. 40/2006) con una disposizione specifica: l’impugnativa del lodo arbitrale irrituale nelle controversie di lavoro è la stessa di quella prevista per il lodo arbitrale irrituale in generale.

La focalizzazione

Possono ora passarsi in rassegna le questioni più importanti che pone la nuova normativa sopra segnalata.

2.1 Le modifiche all’art. 6 l. n. 604/1966

L’art. 6, primo e secondo comma, nella sua originaria formulazione poneva il regime di decadenza dell’impugnazione del licenziamento, che già di per sé costituiva una deroga alla disciplina dell’invalidità del negozio giuridico, tale dovendo considerarsi l’atto unilaterale di recesso dal rapporto di lavoro. La violazione di una disposizione imperativa, quale quella posta dall’art. 1 l. n. 604/1966, che prescriveva e prescrive tuttora che «il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 del codice civile o per giustificato motivo», comporta l’invalidità dell’atto di recesso in ragione dell’applicabilità della disciplina dell’invalidità del contratto applicabile agli atti unilaterali, quale il recesso, per il tramite dell’art. 1324 c.c. Il regime derogatorio sta non già nel tipo di vizio dell’atto, che trattandosi di violazione di norma imperativa dovrebbe essere quello della nullità ex art. 1418 c.c. (pur se la giurisprudenza5 ritiene applicabile in particolare il termine quinquennale di prescrizione dell’azione di annullamento di cui all’art. 1442 c.c.), ma nella previsione dell’onere di un atto di impugnazione del licenziamento che il lavoratore licenziato deve porre in essere in un breve termine di decadenza. Questo onere – a carattere eccezionale e derogatorio dell’ordinaria disciplina dell’invalidità negoziale (e quindi di stretta interpretazione) 6 – rappresentava una limitazione e un condizionamento della tutela giurisdizionale che il lavoratore, licenziato in violazione di legge in quanto senza giusta causa o giustificato motivo, poteva invocare per l’accertamento in sede contenziosa, innanzi al giudice, del vizio dell’atto. La giurisprudenza7 ha ritenuto che questo regime della previa tempestiva impugnazione stragiudiziale del licenziamento, entro un breve termine previsto a pena di decadenza, non presenti profili di incostituzionalità in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., atteso, in particolare, che non rende eccessivamente difficoltoso al lavoratore l’esercizio dell’azione. Questo onere, in termini di più incisivo condizionamento della tutela giurisdizionale, risulta ora rafforzato dalla nuova formulazione dell’art. 6, co. 1, ad opera dell’art. 32, co.1, l. n. 183/2010. La decadenza non riguarda più solo la previa impugnativa, quale atto negoziale, del licenziamento, ma anche la successiva impugnativa, quale atto di promuovimento di una controversia di lavoro. Il lavoratore che subisce un licenziamento illegittimo, perché privo di giusta causa o di giustificato motivo e quindi intimato in violazione della disposizione imperativa posta dall’art. 1 l. n. 604/1966, vede un duplice diaframma rispetto all’ordinaria tutela giurisdizionale di chi agisce in giudizio per l’accertamento dell’invalidità di un atto negoziale (nullità o invalidità che sia). Non solo deve in tempi brevi, a pena di decadenza, contestare nei confronti del datore di lavoro la legittimità del recesso con un atto negoziale di impugnativa (ciò che solo prescriveva il «vecchio» art. 6), ma deve poi in tempi comunque ristretti – a pena di inefficacia dell’impugnativa e quindi, in via mediata, a pena di decadenza – promuovere la controversia di lavoro o attivare le procedure di conciliazione e arbitrato. È questa una disciplina differenziata e derogatoria che comprime, nella scansione di plurimi termini di decadenza, il diritto di azione del lavoratore licenziato in violazione di legge; si tratterà di verificare se questo più incisivo condizionamento sia, o no, compatibile con l’ampiezza della tutela giurisdizionale assicurata dall’art. 24 Cost., nonché con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.). Ciò induce innanzi tutto a privilegiare tendenzialmente, nei vari problemi interpretativi che la disposizione pone, una lettura costituzionalmente orientata che faccia perno sulla finalità acceleratoria dei tempi di avvio del contenzioso relativo alla contestata legittimità del licenziamento (e di altri atti datoriali di gestione del rapporto), piuttosto che su una finalità deflattiva di scoraggiamento del ricorso del lavoratore al giudice.

2.2 Il co. 1 dell’art. 32 l. n. 183/2010

Il nuovo primo comma dell’art. 6, come novellato dall’art. 32, co. 1, è la risultante degli originari primi due commi del medesimo art. 6 l. n. 604/1966; nella sostanza, una operazione di restyling normativo. Si prevede – come in passato – che il licenziamento debba essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. Può quindi ribadirsi che, come in precedenza, questa impugnazione stragiudiziale del licenziamento ha natura di atto negoziale unilaterale a carattere ricettizio e deve rivestire la forma scritta ad substantiam, sicché di essa non può essere data prova testimoniale. È sufficiente ogni atto scritto con il quale il lavoratore, anche mediante la sua organizzazione sindacale, manifesti al datore di lavoro, indipendentemente dalla terminologia usata e senza necessità di formule sacramentali, la volontà di contestare la validità e l’efficacia del licenziamento. In proposito la Corte costituzionale8 – nel dichiarare manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 101 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, nella parte in cui, stabilendo che il licenziamento debba essere impugnato, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla relativa comunicazione con «qualsiasi atto scritto», conterrebbe una previsione di eccessiva genericità – ha rilevato che «proprio la genericità della previsione tende ad assicurare idoneità all’impugnativa posta in essere non solo con documenti sottoscritti dalla parte interessata ma anche con ogni altro scritto a questa riferibile, con la condizione esplicitamente posta, dell’idoneità a rendere nota la volontà del lavoratore di impugnare il licenziamento». L’originario secondo comma dell’art. 6 prevedeva espressamente la decorrenza di tale termine, fissandola dalla comunicazione del licenziamento ovvero dalla comunicazione dei motivi ove questa non sia contestuale a quella del licenziamento. Nulla è mutato per effetto della sua riscrittura ad opera dell’art. 32 cit. L’impugnazione anzidetta deve quindi considerarsi tempestiva e pertanto non opera la decadenza prevista dalla norma in esame, anche nel caso in cui la lettera raccomandata contenente l’atto di impugnazione sia, entro il termine di sessanta giorni, consegnata all’ufficio postale ed ancorché essa venga recapitata dopo la scadenza di quel termine. Per il rispetto di tale termine vale la più recente giurisprudenza delle Sezioni unite9 che ha affermato appunto che l’impugnazione del licenziamento ai sensi dell’art. 6, formulata mediante dichiarazione spedita al datore di lavoro con missiva raccomandata a mezzo del servizio postale, deve intendersi tempestivamente effettuata allorché la spedizione avvenga entro sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento o dei relativi motivi, anche se la dichiarazione medesima sia ricevuta dal datore di lavoro oltre tale termine.

2.3 Il termine di decadenza per il ricorso introduttivo del giudizio di impugnazione

La vera novità apportata dall’art. 32, co. 1, sta in realtà nel nuovo secondo comma dell’art. 6 l. n. 604/1966, che prevede che l’impugnazione sia inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo. La ratio della disposizione è quella di accelerare il ricorso al giudice al fine che la res litigiosa emerga subito e – laddove le procedure di conciliazione ed arbitrato siano risultate non percorribili – si trasferisca rapidamente in sede giudiziaria in modo da evitare che l’incertezza di una lite possibile, insita nell’impugnativa negoziale del licenziamento, covi per anni facendone lievitare la posta in gioco e quindi il «costo» del contenzioso. Il ricorso al giudice – prevede ora il nuovo secondo comma dell’art. 6 – deve essere proposto entro un breve termine (duecentosettanta giorni) a pena di inefficacia dell’impugnativa che, quest’ultima a pena di decadenza, condiziona l’esercizio del diritto. Sicché, per via mediata l’onere di tempestiva proposizione del ricorso è presidiato anch’esso da una decadenza di carattere sostanziale. Il dies a quo di tale termine è l’impugnativa negoziale del primo comma dell’art. 6 novellato; ciò discende sia dal dato testuale del secondo comma dell’art. 6, che prefigura l’ipotesi del ricorso giudiziale che segua l’impugnazione del licenziamento, sia dal carattere ricettizio di quest’ultima. Occorre allora che l’impugnativa sia stata comunicata e a tal fine operano gli artt. 1334 e 1335 c.c. L’atto unilaterale è comunicato quando giunge a conoscenza del destinatario e si presume tale conoscenza quando l’atto giunge all’indirizzo del destinatario. Non rileva pertanto il momento della spedizione della comunicazione, ma quello della ricezione della stessa; è da questo momento che comincia a decorrere il termine di 270 giorni per proporre il ricorso giudiziale. In tal senso può richiamarsi quella giurisprudenza10 formatasi in riferimento ad una fattispecie, in un certo senso, similare; quella del termine, a pena di improcedibilità, per il deposito del ricorso per cassazione. Mentre per la tempestività del ricorso rileva, quanto al rispetto del termine per proporlo, la sua consegna all’ufficiale giudiziario per la notificazione ovvero la spedizione dell’atto in caso di notifica a mezzo del servizio postale, invece per la tempestività del suo deposito rileva, come dies a quo del termine per effettuarlo, il perfezionamento della notifica del ricorso stesso. Il dies ad quem del termine perché il lavoratore licenziato proponga il ricorso è fissato dallo stesso secondo comma dell’art. 6 nel (mero) deposito del ricorso, avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento, nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro, deposito che ha l’effetto di stabilizzare l’efficacia dell’impugnativa stessa senza che rilevi l’esito, anche meramente processuale, del ricorso stesso. La norma – pur di stretta interpretazione perché derogatoria rispetto al regime ordinario della proposizione della domanda in giudizio – va però letta alla luce della finalità perseguita dal legislatore (l’accelerazione dei tempi di avvio del contenzioso) e tenendo conto della particolare struttura del processo del lavoro che vede una scissione tra pendenza della lite (che si determina con il deposito del ricorso) e vocatio in ius (realizzata con la notifica del ricorso stesso). Un’interpretazione sistematica della norma induce a ritenere che il deposito del ricorso in tanto può raggiungere l’effetto perseguito dalla norma in quanto si completi con la notifica del ricorso stesso. Del resto, mutatis mutandis, la giurisprudenza11 ritiene, con riferimento al primo termine di 60 giorni, che il ricorso giudiziale recante l’impugnativa del licenziamento individuale sia idoneo ad impedire la decadenza di cui all’art. 6 l. n. 604/1966, se notificato al datore di lavoro. Però, una volta che la lite è pendente per effetto del tempestivo deposito del ricorso, seguito dalla sua notifica e quindi dall’instaurazione del contraddittorio, la controversia è «avviata» e tanto basta al fine del rispetto del termine di 270 giorni previsto dall’art. 6 novellato. L’effetto di conferma dell’efficacia dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento è radicato in questo rapido avvio della controversia di lavoro che realizza la finalità perseguita dalla norma: l’accelerazione dei tempi di avvio del contenzioso. L’eventuale successiva inattività delle parti, con possibile cancellazione della causa dal ruolo senza alcuna decisione nel merito12, non farebbe venir meno il già realizzato effetto di stabilizzazione dell’impugnativa del licenziamento; e così neppure la eventuale declaratoria di nullità del ricorso stesso. Il «ricorso» al quale fa riferimento il secondo comma dell’art. 6, novellato dall’art. 32, è da intendersi come iniziativa giudiziaria di contestazione della legittimità del licenziamento senza alcuna limitazione di altro genere. Pertanto, il ricorso, il cui deposito vale a stabilizzare l’impugnativa del licenziamento, può anche essere diretto alla richiesta di una misura cautelare fondata sulla contestata legittimità del licenziamento. Il nuovo secondo comma dell’art. 6 aggiunge poi che rimane ferma la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso, così apportando una deroga all’art. 415, co. 1, c.p.c. che prescrive che i documenti devono essere depositati insieme con il ricorso.

2.4 Il termine di decadenza per il tentativo di conciliazione o l’arbitrato

L’ipotesi ordinaria – essendo il tentativo di conciliazione divenuto facoltativo – è quella del lavoratore che, dopo aver comunicato al datore di lavoro l’atto negoziale di impugnativa del licenziamento, proponga direttamente il ricorso al giudice; in tal caso deve rispettare il suddetto termine di 270 giorni. Ma è possibile che il lavoratore richieda il tentativo di conciliazione o l’arbitrato. In tal caso opera un doppio termine, sicché complessivamente vi è una triplice linea di sbarramento temporale, sempre a pena di inefficacia dell’impugnativa di licenziamento: entro 60 dalla comunicazione del licenziamento il lavoratore deve comunicare l’impugnativa del licenziamento; entro il successivo termine di 270 giorni deve comunicare al datore di lavoro la richiesta del tentativo di conciliazione o di arbitrato; entro l’ulteriore termine di 60 giorni dall’eventuale rifiuto della conciliazione o dell’arbitrato ovvero dal mancato raggiungimento dell’accordo per espletarlo deve depositare il ricorso al giudice. Quanto alla richiesta del tentativo di conciliazione alle commissioni di conciliazione istituite presso la Direzione provinciale del lavoro, opera l’art. 410, co. 5, c.p.c. che prevede che copia della richiesta del tentativo di conciliazione debba essere consegnata o spedita con raccomandata con ricevuta di ritorno a cura della stessa parte istante alla controparte. Come per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, è sufficiente la spedizione della richiesta di conciliazione alla controparte. Se il datore di lavoro intende accettare la procedura di conciliazione, deposita presso la commissione di conciliazione, entro venti giorni dal ricevimento della copia della richiesta, una memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale. In tale evenienza si consolida l’efficacia dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento non più condizionata all’esito della procedura di conciliazione che può anche svilupparsi nella procedura arbitrale di cui all’art. 412 c.p.c. Ove ciò non avvenga, la richiesta si intende rifiutata dal datore di lavoro e ciascuna delle parti è libera di adire l’autorità giudiziaria. In tal caso per il lavoratore scatta l’ulteriore termine di 60 giorni entro il quale deve depositare il ricorso al giudice, termine decorrente dal momento in cui il lavoratore è a conoscenza del rifiuto della procedura conciliativa che il datore di lavoro può comunicargli. Il lavoratore può, in alternativa alla richiesta del tentativo di conciliazione, comunicare al datore di lavoro la richiesta di avvalersi della procedura arbitrale di cui all’art. 412 quater c.p.c. In tal caso il lavoratore deve notificare al datore di lavoro il ricorso previsto dal terzo comma di tale disposizione. Il datore di lavoro ha trenta giorni di tempo per accettare la procedura nominando il proprio arbitro. Se fa ciò, si attiva la procedura arbitrale secondo il modulo regolamentato dall’art. 412 quater e l’efficacia dell’impugnativa di licenziamento è consolidata. Se rifiuta l’arbitrato, lasciando decorrere il termine suddetto senza nominare il proprio arbitro comunicandolo al lavoratore, oppure se non è raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il lavoratore è risospinto verso la via giudiziale e, nel termine di 60 giorni (dalla conoscenza del rifiuto o del mancato accordo), deve depositare il ricorso al giudice.

2.5 Applicabilità del nuovo regime dell’impugnativa stragiudiziale

La nuova articolata disciplina di impugnativa e decadenze, introdotta dall’art. 32, co. 1, si salda con le prescrizioni degli ulteriori commi – 2, 3 e 4 – che, in disparte il comma 1 bis aggiunto successivamente, recano la previsione dell’estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 6 novellato. Innanzi tutto le disposizioni di cui all’art. 6 novellato si applicano anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento. Quindi l’ambito di applicazione dell’istituto risulta ampliato: l’onere di impugnare il licenziamento sussiste con riferimento a qualunque tipo di licenziamento, sia esso nullo o annullabile, salva l’ipotesi del licenziamento inefficace, per mancata comunicazione per iscritto dei motivi richiesti dal lavoratore, ovvero perché intimato oralmente mancando la comunicazione della forma scritta da cui, per espressa previsione del primo comma dell’art. 6, decorre il termine di 60 giorni. Ciò peraltro è in linea con la giurisprudenza13 che, con specifico riferimento al licenziamento intimato senza la forma scritta, ha affermato, sul presupposto che tale recesso sia inidoneo a produrre effetti giuridici, che il lavoratore licenziato non ha l’onere di impugnarlo nel termine fissato dall’art. 6 l. n. 604/1966. Inoltre l’eccezione al principio della generale applicabilità della normativa in esame si estende, oltre che al licenziamento non comunicato per iscritto, anche a quella in cui non siano stati comunicati per iscritto i motivi, sebbene richiesti dal lavoratore interessato a norma dell’art. 2 l. n. 604/1966. In tal caso, pertanto, essendo il licenziamento inefficace (tamquam non esset), il lavoratore può agire per far valere tale inefficacia senza l’onere della previa impugnativa stragiudiziale del licenziamento stesso. Inoltre, la generale applicabilità del termine di decadenza di sessanta giorni a tutte le ipotesi di licenziamento invalido comporta che l’onere di impugnazione, ai sensi della norma in esame, riguardi anche le ipotesi di nullità del licenziamento disciplinare per violazione del principio d’immediatezza della contestazione o per omessa pubblicità del codice disciplinare. Anche nel caso di licenziamento della lavoratrice madre ovvero per causa di matrimonio, qualora il datore di lavoro intimi licenziamento per giusta causa, la lavoratrice che intenda contestare la legittimità del licenziamento ha l’onere di effettuare la contestazione nei modi e nei tempi previsti dall’art. 6 entro il termine di decadenza di sessanta giorni, anche ove assuma che sia stata violata nei suoi confronti la normativa che tutela la maternità14. Con riferimento ai licenziamenti collettivi la giurisprudenza15 riteneva che, alla stregua della disciplina vigente prima dell’entrata in vigore della l. 23.7.1991, n. 223, l’onere di proporre impugnativa nel termine di decadenza previsto dalla norma in esame non sussistesse per il lavoratore destinatario di un licenziamento intimato come collettivo. Successivamente, però, l’art. 5, co. 3, l. n. 223/1991 ha previsto che il recesso possa essere impugnato entro sessanta giorni dal ricevimento della comunicazione con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento delle organizzazioni sindacali. Tale specifica disciplina, ancorché analoga a quella dell’art. 6 l. n. 604/1966, non è stata toccata dalla l. n. 183/2010 e quindi deve ritenersi che il nuovo art. 6 non si applichi ai licenziamenti collettivi. Neppure sembra esso applicabile al licenziamento del dirigente. La giurisprudenza16 ha ritenuto che l’azione giudiziaria con cui il dirigente reclama l’accertamento della mancanza di giustificazione del licenziamento e la conseguente condanna del datore di lavoro alla corresponsione dell’indennità supplementare possa essere esercitata entro il normale termine di prescrizione del diritto controverso e non soggiaccia al termine di decadenza previsto dall’art. 6, atteso che tale norma, di stretta interpretazione, è inapplicabile ai dirigenti, come stabilito dall’art. 10 della stessa legge.

2.6 Estensione dell’impugnativa stragiudiziale ad altri atti datoriali

Il terzo ed il quarto comma dell’art. 32 prevedono un’estensione dell’applicabilità delle disposizioni del novellato art. 6 l. n. 604/1966 ad una serie ulteriore di fattispecie17. Innanzi tutto esse si applicano ai licenziamenti intervenuti in ragione dell’operatività del termine apposto al contratto di lavoro, termine di cui è, dal lavoratore, assunta l’illegittimità e più specificamente la nullità (per questa problematica v. Giubboni, Rapporti a termine e rimedi, 1.1.1). Inoltre il novellato art. 6 trova applicazione anche ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro. Sono ipotesi in cui l’estinzione del rapporto è strettamente connessa alla fattispecie contrattuale, come nel caso di un rapporto formalmente di lavoro autonomo. Il lavoratore può contestare tale qualificazione allegando il carattere subordinato del rapporto e, quindi, assumendo essere intervenuto un ordinario licenziamento, denunciarne l’illegittimità. Anche in tale evenienza opera il novellato art. 6 con riferimento all’ipotesi in cui al lavoratore sia stata comunicata la cessazione del rapporto, con conseguente necessità della previa impugnativa del recesso datoriale e dell’onere della successiva tempestiva iniziativa di cui al secondo comma dell’art. 6. Analogamente – con riferimento ai rapporti di parasubordinazione – deve essere previamente impugnato il recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto, di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c. Perplessità suscita in particolare l’estensione dell’applicabilità della nuova disciplina anche al trasferimento ai sensi dell’art. 2103 c.c., perché riguarda un atto datoriale posto in essere (non già al momento della cessazione del rapporto di lavoro, ma) nel corso del rapporto stesso che, soprattutto ove non soggettato a tutela reale, vede il lavoratore versare in una situazione di debolezza. Si prevede che anche nel caso di contestazione della legittimità del trasferimento il lavoratore sia onerato della previa impugnazione stragiudiziale con termine, a pena di decadenza, decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento. La necessità che l’atto di trasferimento sia sorretto da giustificate ragioni non implica anche l’esigenza di una contestuale motivazione, ma – ha ritenuto la giurisprudenza18 – l’onere della indicazione delle ragioni del trasferimento sorge a carico del datore di lavoro – pena l’inefficacia sopravvenuta del provvedimento – soltanto ove il lavoratore ne faccia richiesta, trovando applicazione analogica l’art. 2 l. n. 604/1966, che prevede l’insorgenza di un analogo onere nel caso in cui il lavoratore licenziato chieda al datore di lavoro di comunicare i motivi del licenziamento. Il mancato esercizio di tale facoltà di interpello da parte del lavoratore non determina alcuna acquiescenza al trasferimento e neppure opera il condizionamento dell’art. 6. Occorre che il datore di lavoro comunque comunichi i motivi del trasferimento perché scatti l’onere di tempestiva impugnazione del trasferimento, ex art. 6. La nuova normativa in esame si applica anche al caso della cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’art. 2112 c.c. con termine decorrente dalla data del trasferimento. La giurisprudenza – che ammette la possibilità della cessione del contratto di lavoro19 – comunque distingue20. Il trasferimento d’azienda, con conseguente successione del cessionario al cedente nel contratto di lavoro, si differenzia dalla cessione del contratto ex art. 1406 c.c., che attiene alla vicenda circolatoria del solo contratto, necessitando solo quest’ultimo, per la sua efficacia, del consenso del lavoratore ceduto. L’art. 32, co. 4, l. n. 183/2010 si riferisce quindi non tanto all’ipotesi della cessio ne del contratto di lavoro in senso proprio, fuori dal contesto di una fattispecie di trasferimento d’azienda, quanto proprio a quest’ultimo. L’applicabilità dell’art. 6 comporta l’onere della previa impugnativa stragiudiziale perché il lavoratore possa contestare la legittimità della cessione del contratto; in tal caso il termine di 60 giorni decorre dalla data del trasferimento, se e quando sia conosciuto dal lavoratore. Quindi il lavoratore, che intenda contestare i presupposti della cessione del contratto, deve previamente impugnare quest’ultima nel termine di cui al primo comma dell’art. 6 e far seguire, nel termine di cui al secondo comma, l’iniziativa giudiziaria con il deposito del ricorso o la richiesta di attivazione della procedura di conciliazione ed arbitrato. Lo stesso quarto comma dell’art. 32 prescrive altresì che le disposizioni del novellato art. 6 si applichino in ogni altro caso in cui si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto, compresa l’ipotesi della somministrazione irregolare, prevista dall’art. 27 d.lgs. 10.9.2003, n. 276; disposizione questa che prevede che nel caso della somministrazione irregolare il lavoratore possa chiedere, mediante ricorso giudiziale, notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione. C’è da considerare in proposito che in caso di interposizione nelle prestazioni di lavoro, secondo la giurisprudenza21 pronunciatasi in riferimento alla previgente disciplina, l’interponente, effettivo utilizzatore delle prestazioni lavorative, si sostituisce all’interposto nel rapporto di lavoro, con la conseguenza che l’eventuale licenziamento intimato da quest’ultimo è inesistente giuridicamente e non impedisce al lavoratore di far valere in ogni tempo, salva la prescrizione estintiva, il rapporto costituitosi ex lege con l’interponente, senza che trovi applicazione la norma di cui all’art. 6 l. n. 604/1966 quanto all’impugnazione del licenziamento. L’art. 32, co. 4, in sostanza si contrappone a questa giurisprudenza richiedendo anche in tal caso la previa impugnativa stragiudiziale del licenziamento.

2.7 L’impugnativa del lodo arbitrale irrituale nell’art. 31 l. n. 183/2010

Passando ora ad esaminare le questioni che pone l’impugnativa del lodo arbitrale, va premesso che con l’art. 31 l. n. 183/2010 la fattispecie unitaria dell’«arbitrato irrituale» si frammenta ora in plurime fattispecie di arbitrato o procedure arbitrali, che rendono più difficoltosa l’opera di ricostruzione sistematica. Abbiamo infatti:

a) l’arbitrato innanzi alle commissioni di conciliazione ex art. 412 c.p.c.; b) l’arbitrato quale la contrattazione collettiva è facoltizzata a prevedere e disciplinare ex art. 412 ter; c) l’arbitrato innanzi ad un collegio di conciliazione e arbitrato irrituale costituito ad hoc ex art. 412 quater; d) l’arbitrato innanzi alle camere arbitrali presso gli organi di certificazione ex art. 31, co. 12, l. n. 183/2010; e) l’arbitrato previsto, ante litem, da clausole compromissorie ex art. 31, co. 10.

Le fattispecie di cui sub a), c) e d) sono di fonte legale, così superandosi la prescrizione dell’art. 412 ter c.p.c. che consentiva l’arbitrato irrituale solo se previsto dai contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro. La fattispecie sub b) ha invece la sua fonte nella contrattazione collettiva, al pari di quella sub e) che però prevede, in via suppletiva e di sussidiarietà, una regolamentazione con decreto ministeriale. Comune a queste varie fattispecie è la natura irrituale dell’arbitrato. Un altro elemento unificante, che connota tutte queste fattispecie di arbitrato irrituale e che è centrale per l’apprezzamento della portata dell’istituto, è la disciplina dell’impugnativa del lodo22. L’art. 5 l. n. 533/1973 che dettò la prima disciplina di carattere generale dell’arbitrato irrituale nelle controversie di lavoro conteneva due disposizioni sull’impugnativa del lodo. Il secondo comma prevedeva in generale che il lodo arbitrale non fosse valido ove vi fosse stata violazione di disposizioni inderogabili di legge ovvero di contratti o accordi collettivi. Quindi in linea di massima non era possibile un arbitrato irrituale di equità. Il terzo comma poi prevedeva l’applicazione dell’art. 2113, co. 2 e 3, c.c. e quindi l’impugnazione, che poteva essere contenuta in qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a renderne nota la volontà, doveva essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data del lodo, se questo era intervenuto dopo la cessazione medesima. Era la stessa impugnazione, di tipo risolutorio, di rinunzie e transazioni. Inoltre, stante la natura contrattuale del lodo di arbitrato irrituale, era sempre possibile l’impugnativa secondo le regole generali del contratto (quale l’annullabilità per vizi della volontà). Non rilevava però – analogamente alla fattispecie della transazione (ex art. 1969 c.c.) – l’eventuale errore di diritto commesso dagli arbitri perché, pur essendo esso rilevabile in generale per l’impugnativa del contratto ex art. 1429, co. 1, n. 4, c.c., certamente non poteva considerarsi riconoscibile dall’altro contraente ex art. 1428 c.c. In ogni caso poi le regole processuali – sulla competenza e sul doppio grado di giurisdizione di merito – non subivano deroghe. Successivamente, l’art. 39 d.lgs. 31.3.1998, n. 8, ha introdotto i nuovi artt. 412 ter e 412 quater sull’arbitrato irrituale; contemporaneamente, l’art. 43 ha abrogato il secondo ed il terzo comma dell’art. 5 l. n. 533/1973; il successivo d.lgs. 20.10.1998, n. 387, chiarì nella rubrica dell’art. 412 ter la natura irrituale dell’arbitrato e specificò il regime dell’impugnazione, in un unico grado, del lodo innanzi al tribunale e non già alla corte d’appello. Il fatto che l’art. 5 l. n. 533/1973 sia rimasto vigente limitatamente al primo comma ha fatto pensare a due fattispecie di arbitrati irrituali: quello degli artt. 412 ter e 412 quater c.p.c., scandito in una disciplina molto articolata e destinato a formare il titolo esecutivo, e quello del primo comma dell’art. 5, che rimaneva un arbitrato irrituale destinato ad acquisire solo l’irrevocabilità del negozio giuridico. La nuova disciplina dell’impugnativa del lodo di arbitrato irrituale era contenuta nell’art. 412 quater, primo comma, la quale però era meramente processuale perché individuava il giudice competente a decidere e soprattutto eliminava il doppio grado di giudizio, prevedendo che fosse il tribunale, quale giudice del lavoro, a decidere in un unico grado. C’era quindi una forte spinta nel senso della stabilità del lodo di arbitrato irrituale per incentivare questa strada alternativa di composizione della lite. Da una parte venivano meno l’impugnativa risolutoria ex art. 2113, co. 2, c.c. ed il parametro di validità del lodo stesso costituito dalla rispetto delle disposizioni inderogabili di legge o di contratti o accordi collettivi; l’impugnativa possibile era solo quella del contratto in generale (ad esempio per vizi della volontà). D’altra parte veniva meno la regola generale del doppio grado di giurisdizione. A questo rafforzamento della stabilità del lodo si accompagnava, nell’art. 412 quater, secondo comma, la previsione della sua idoneità a diventare titolo esecutivo, idoneità di cui prima il lodo era sprovvisto. La riforma processuale del 2006 (d.lgs. 2.2.2006, n. 40) ha modificato varie norme in materia di arbitrato e, per la prima volta, ha introdotto una norma a carattere generale sull’arbitrato irrituale dando riconoscimento formale all’istituto. L’art. 808 ter c.p.c. – rubricato appunto «arbitrato irrituale», esattamente come l’art. 5 l. n. 533/1973, riferito però quest’ultimo alla più ristretta area delle controversie di lavoro – prevede, al primo coma, la possibilità che le parti, con disposizione espressa per iscritto, possano stabilire che la controversia sia definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale, ossia con un lodo avente gli effetti di cui all’art. 1372 c.c., come oggi recitano sia l’art. 412 che l’art. 412 quater c.p.c. L’arbi t rato irrituale diventa una fattispecie tipica di portata generale e non più limitata alle controversie di lavoro. E quindi di portata generale è anche l’impugnativa prevista dal secondo comma dell’art. 808 ter, che prevedeva – e prevede tuttora – che il lodo contrattuale sia annullabile: se la convenzione dell’arbitrato è invalida, o gli arbitri hanno pronunciato su conclusioni che esorbitano dai suoi limiti e la relativa eccezione è stata sollevata nel procedimento arbitrale; se gli arbitri non sono stati nominati con le forme e nei modi stabiliti dalla convenzione arbitrale; se il lodo è stato pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro a norma dell’art. 812; se gli arbitri non si sono attenuti alle regole imposte dalle parti come condizione di validità del lodo; se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio. Poi l’art. 808 ter aggiunge che al lodo contrattuale non si applica l’art. 825, ossia la procedura di deposito del lodo che consente di conferire esecutività al lodo stesso. Questa disciplina di carattere generale dell’impugnativa del lodo di arbitrato irrituale si affianca a quella speciale del previgente art. 412 quater ed ha trovato applicazione nei limiti della compatibilità (è rimasto, ad esempio, il giudizio in un unico grado, a fronte dell’ordinario doppio grado di giurisdizione di merito non derogato dall’art. 808 ter; parimenti è rimasta l’idoneità del lodo a diventare titolo esecutivo).

2.8 L’impugnativa del lodo ex art. 808 ter c.p.c.

Questo è il quadro di riferimento in cui si inserisce ora la nuova disciplina dell’art. 31 l. n. 183/2010. Orbene, innanzi tutto c’è da considerare che non c’è più – come in precedenza nell’art. 412 quater – una disciplina unitaria dell’impugnativa del lodo in arbitrato irrituale; ciò è conseguenza della tecnica di frammentazione normativa che connota l’art. 31. Anche per gli effetti del lodo manca una disposizione unica, ma non di meno la disciplina è uniforme: quelle dell’art. 31 sono tutte fattispecie di arbitrato irrituale il cui lodo ha gli effetti (non della sentenza ex art. 824 bis c.p.c., ma) del contratto ex art. 1372 c.c. Per l’impugnativa del lodo è possibile la stessa reductio ad unum, perché la disciplina contenuta nell’art. 412, co. 3 e 4, quanto all’arbitrato innanzi alle commissioni di conciliazione, è ripetuta pedissequamente nell’art. 412 quater, co. 10, quanto all’arbitrato innanzi ad un collegio di conciliazione e all’arbitrato irrituale costituito ad hoc; ed è richiamata nell’art. 31, co. 12, quanto all’arbitrato innanzi alle camere arbitrali presso gli organi di certificazione; altresì, è richiamata quanto all’arbitrato previsto, ante litem, da clausole compromissorie ex art. 31, co. 10. Solo per l’arbitrato previsto dalla contrattazione collettiva ex art. 412 ter nulla è detto. Ma la ratio ispiratrice unitaria di questa disciplina induce a ritenere che l’impugnativa del lodo sia la stessa. In realtà, anche prima, dopo l’introduzione dell’art. 808 ter c.p.c., occorreva coordinare l’impugnativa del lodo arbitrale in generale con la disposizione specifica dettata per l’impugnazione del lodo arbitrale irrituale in materia di lavoro. Comunque, la norma del 2010 ha una portata utilmente chiarificatrice, mentre in precedenza era solo in via di interpretazione che poteva predicarsi l’applicazione congiunta di tale disposizione unitamente all’art. 412 quater. Si ha quindi che – come si è già rilevato – il lodo arbitrale irrituale è annullabile: se la convenzione dell’arbitrato è invalida, o gli arbitri hanno pronunciato su conclusioni che esorbitano dai suoi limiti e la relativa eccezione è stata sollevata nel procedimento arbitrale; se gli arbitri non sono stati nominati con le forme e nei modi stabiliti dalla convenzione arbitrale; se il lodo è stato pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro a norma dell’art. 812; se gli arbitri non si sono attenuti alle regole imposte dalle parti come condizione di validità del lodo; se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio. Delle prescrizioni dell’art. 808 ter quella più interessante è il previsto obbligo per gli arbitri di attenersi alle regole imposte dalle parti come condizione di validità del lodo; obbligo la cui violazione può essere dedotta dalle parti con l’impugnativa del lodo. Coordinando l’immutato art. 808 ter con gli artt. 412 e 412 quater, invece ora novellati, emerge la «novità» del regime dell’impugnazione del lodo di arbitrato irrituale. Infatti il secondo comma del novellato art. 412 prevede che, nel conferire il mandato per la risoluzione arbitrale della controversia, le parti devono indicare le norme – di legge, ma anche della contrattazione collettiva – da loro invocate a sostegno delle loro pretese e l’eventuale richiesta di decidere secondo equità, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari. Analoga prescrizione contiene il parimenti novellato art. 412 quater, co. 3. Quindi le parti devono operare una scelta dei parametri di valutazione per gli arbitri che possono essere costituiti da norme di diritto o dall’equità, quest’ultima integrata dai principi generali dell’ordinamento e dai principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari. Possiamo allora distinguere un arbitrato irrituale di legittimità (ossia secondo le norme di diritto) ed uno di equità (non pura, ma) integrata dai principi suddetti, anche di derivazione comunitaria. Nel primo caso la parte può impugnare il lodo arbitrale denunciando la violazione di legge o della normativa collettiva; nell’altro caso la parte può impugnare il lodo arbitrale denunciando la violazione dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari. Ciò rappresenta una novità perché prima, nel vigore degli art. 412 ter e 412 quater, quali introdotti dalla riforma del 1998, non c’era questa prescrizione di contenuto e quindi gli arbitri potevano decidere anche secondo equità, ma sempre nel rispetto della normativa collettiva che, nel prevedere l’arbitrato irrituale, poteva escludere che gli arbitri pronunciassero secondo equità. Con questa novità l’impugnativa del lodo arbitrale irrituale (che può dirsi) di legittimità si avvicina molto a quella del lodo arbitrale rituale ex art. 829 c.p.c., che, al quarto e quinto comma, prevede appunto che il lodo arbitrale rituale nelle controversie di lavoro sia sempre impugnabile per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, nonché per violazione delle norme di accordi e contratti collettivi. Non è invece possibile un lodo arbitrale rituale secondo equità. Insomma, attraverso la disciplina dell’impugnativa del lodo (art. 808 ter), integrata da quella del necessario contenuto del mandato delle parti ex art. 412, co. 2, o del «ricorso» ex art. 412 quater, co. 3, il lodo arbitrale si atteggia ora a strumento alternativo per la composizione della lite mediante jus dicere, ossia individuando chi ha ragione e chi ha torto, piuttosto che come strumento di risoluzione negoziale della lite mediante composizione degli interessi contrastanti delle parti. In tal modo il lodo arbitrale irrituale, allontanandosi dal modello della transazione, si avvicina a quello rituale ed in certo qual modo fa concorrenza a quest’ultimo. Però, rimane che formalmente l’attività degli arbitri irrituali si trasfonde alla fine in un atto di natura contrattuale, assimilabile alla transazione e nient’affatto alla sentenza. Ma mentre la transazione non è impugnabile per errore di diritto, il lodo arbitrale irrituale, pur di natura contrattuale, è impugnabile, ove di legittimità, per errore di diritto come la sentenza e come specificamente il lodo arbitrale rituale. Non di meno, gli arbitri irrituali, non esercitando una funzione latamente giurisdizionale, non possono, ad esempio, sollevare l’incidente di costituzionalità o porre la pregiudiziale interpretativa comunitaria.

2.9 Il rilievo dei «principi generali dell’ordinamento» e dei «principi regolatori della materia» nell’arbitrato di equità

Quanto poi in particolare ai princìpi generali dell’ordinamento e ai princìpi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari, che costituiscono parametro di validità del lodo di arbitrato irrituale pronunciato secondo equità, viene naturale un parallelo con le pronunce secondo equità del giudice di pace; parallelo che può sì tracciarsi, ma mostra quanto l’arbitrato irrituale abbia deviato dalla sua matrice originaria, che è contrattuale, e dalla sua funzione, che sarebbe quella di composizione dei contrapposti interessi delle parti piuttosto che quello di jus dicere. Il collegio arbitrale, nelle sue varie forme di cui si è detto, non è mai un giudice, ma il regime dell’impugnazione del lodo tradisce una spinta verso una vocazione di giustizia minore nelle controversie di lavoro, la giustizia secondo equità; ruolo questo che nelle controversie ordinarie è svolto dal giudice di pace (il quale – come è noto – non ha competenza per le controversie di lavoro). Il parallelismo tra lodo arbitrale irrituale di equità e pronuncia di equità del giudice di pace mostra un criterio di giustiziabilità del primo sovrapponibile in parte, ma non del tutto, a quello del secondo, nonché un più ampio ambito di applicazione del primo. Infatti le pronunce secondo equità del giudice di pace, nel rispetto dei criteri di valore e di materia ex art. 113, co. 2, c.p.c. – ossia rese in cause il cui valore non eccede millecento euro e che comunque non derivino da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all’art. 1342 c.c., in disparte l’esclusione in ogni caso delle controversie di lavoro – sono appellabili (e poi è possibile il ricorso per cassazione) per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia (ex art. 339, co. 3, c.p.c., come sostituito dall’art. 1 d.lgs. 2.2.2006, n. 40 ). Il lodo di arbitrato irrituale di equità – reso in riferimento a controversie di lavoro, ma senza analoghi limiti di valore della causa – è impugnabile (e poi è possibile il ricorso per cassazione) per violazione dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari (sicché la normativa comunitaria viene recepita come parametro di valutazione della validità del lodo, non già, come di consueto, perché direttamente applicabile, ma nei limiti in cui rifluisce in un principio generale). Ai principi regolatori della materia – comuni alle due fattispecie – si aggiungono i principi generali dell’ordinamento a fronte – per le sentenze del giudice di pace secondo equità – delle norme costituzionali. Analogamente la normativa comunitaria rileva nei limiti dei principi regolatori della materia quanto al lodo per arbitrato irrituale di equità, mentre per le sentenze del giudice di pace secondo equità sono le norme comunitarie tout court, in quanto direttamente applicabili, a costituire parametro di legittimità della pronuncia (per la normativa comunitaria non direttamente applicabile residua – dopo il recente arresto della giurisprudenza costituzionale sulla portata dei «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» ex art. 117, co. 1, Cost. – la possibilità di sollevare l’incidente di costituzionalità; ciò che invece non può fare l’arbitro irrituale). Il lodo di arbitrato irrituale (non di equità, ma) di legittimità, ossia secondo diritto – come la sentenza del giudice di pace secondo diritto – va anche al di là di questa impugnabilità perché è deducibile la violazione delle norme di legge, indicate dalle parti e sulle quali si fonda la pretesa oggetto della controversia.

I profili problematici

Tra gli aspetti più problematici della nuova normativa di cui si è detto c’è innanzi tutto quello della ricognizione dell’esatta portata della perdita di efficacia dell’impugnazione del licenziamento in ragione dell’intervenuta decadenza prevista dall’art. 32, co. 1, l. n. 183/2010. Un altro problema interpretativo che si pone è quello dell’entrata in vigore, e più in generale della vigenza, della nuova disciplina dettata dall’art. 32 l. n. 183/2010, dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento di altri atti datoriali. È essenzialmente il problema interpretativo dell’art. 2, co. 54, d.l. 29.12.2010, n. 225, conv. nella l. 26.2.2011, n. 10, che, come ricordato, ha già apportato una modifica introducendo il comma 1 bis nell’art. 32 l. n. 183/2010. Quanto poi all’impugnativa del lodo arbitrale, un aspetto certamente problematico è quello della demarcazione della linea di confine, rilevante proprio al fine dell’impugnativa, tra lodo di arbitrato irrituale e lodo di arbitrato rituale.

3.1 La perdita di efficacia dell’impugnazione stragiudiziale

Il nuovo art. 6 l. n. 604/1966 prevede rispettivamente la decadenza dall’impugnazione del licenziamento ove questa non intervenga nel rispetto del previsto termine di 60 giorni (ribadendo in questa parte la norma del previgente art. 6) e la perdita di efficacia dell’impugnazione stessa in caso di mancato rispetto dei termini ulteriori per depositare il ricorso o per attivare le procedure di conciliazione ed arbitrato. Per effetto di questa decadenza sostanziale – che è interna al sistema della l. n. 604/1966 – non sono più esperibili i rimedi indennitari e reintegratori di cui alla stessa legge, nonché alla l. n. 300/1970 e alla l. n. 108/1990. C’è da chiedersi se la decadenza abbia un effetto più ampio, nel senso che non sia affatto più possibile per il lavoratore azionare una pretesa risarcitoria sulla base dell’ordinaria disciplina dell’inadempimento contrattuale con il limite del termine di prescrizione (cinque anni ex art. 2947 c.c.) e non già di decadenza; tematica questa che vede delle oscillazioni in giurisprudenza. Il legislatore del 2010 non ha inteso regolamentare questo profilo non di poco conto perché – se è consentita la metafora – si tratta di lasciare aperta una finestra dopo che si sia chiusa la porta. Quindi la situazione rimane invariata. Si è affermato da parte della giurisprudenza di legittimità23 che la mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato non comporta la liceità del recesso del datore di lavoro, bensì preclude al lavoratore soltanto la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento ai sensi dell’art. 18 l. n. 300/1970. Sicché, nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, qualora si sia verificata la decadenza dall’impugnazione, è concesso al lavoratore di esperire la normale azione risarcitoria in base ai principi generali della responsabilità contrattuale o extracontrattuale, facendo valere i relativi presupposti, diversi da quelli previsti dalla normativa sui licenziamenti e tali da configurare l’atto di recesso come idoneo a determinare un danno risarcibile. In senso contrario altra giurisprudenza24 ha ritenuto che al lavoratore che non abbia tempestivamente impugnato il licenziamento sia precluso l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del recesso e, conseguentemente, la tutela risarcitoria in base alle leggi speciali, né il giudice può conoscere dell’illegittimità del licenziamento per ricollegare al recesso illegittimo le conseguenze risarcitorie di diritto comune, in quanto l’ordinamento prevede, per la risoluzione del rapporto di lavoro, una disciplina speciale, con un termine breve di decadenza (sessanta giorni) al fine di dare certezza ai rapporti giuridici. Sul piano processuale c’è poi da considerare che a norma dell’art. 2969 c.c. la decadenza prevista dalla norma in esame non può essere rilevata d’ufficio, attenendo ad un diritto disponibile, ma necessita di un’eccezione (in senso stretto) che, nel rito del lavoro, deve essere proposta dal datore di lavoro convenuto in giudizio nella memoria di costituzione. La giurisprudenza25 in proposito ha affermato che l’eccezione, proposta dal datore di lavoro, di decadenza del lavoratore dalla facoltà di impugnare il licenziamento per il superamento del termine di sessanta giorni è soggetta alla disciplina contenuta nell’art. 416 c.p.c. e pertanto deve essere sollevata nella memoria di costituzione da depositarsi almeno dieci giorni prima dell’udienza di discussione; e quindi tale eccezione, se proposta nel prosieguo del giudizio e salva la facoltà del giudice (prevista dall’art. 420, co. 1, c.p.c.) di autorizzare la modifica delle difese delle parti, è inammissibile.

3.2 Entrata in vigore della nuova disciplina dell’impugnazione stragiudiziale e suo differimento

Innanzi tutto va ricordato che la l. n. 183/2010, pubblicata nella G.U. 9.11.2010, n. 262, s.o., è entrata in vigore il 24.11.2010. Dopo che la l. n. 183/2010 era già entrata in vigore, una disposizione della legge di conversione del cd. decreto «milleproroghe» (d.l. 29.12.2010, n. 225, conv. nella l. 26.2.2011, n. 10) – l’art. 2, co. 54, di quest’ultimo – ha introdotto il comma 1 bis nell’art. 32. Ed ha previsto: «in sede di prima applicazione, le disposizioni di cui all’articolo 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011». Si tratta di una norma enigmatica e di non agevole interpretazione, probabilmente formulata con una tecnica normativa imprecisa, quella di un legislatore pressato dai tempi stretti per convertire in legge il decreto-legge. L’interpretazione letterale esprimerebbe una norma che gira a vuoto. È differita al 31.12.2011 l’efficacia del (solo) primo comma dell’art. 6 l. n. 604/1966, come novellato dall’art. 32 l. n. 183/2010, non già del secondo comma. Il primo comma dell’art. 6 novellato – come già rilevato – non contiene in realtà alcuna novità, perché si limita a riscrivere in un solo comma (il primo) quella stessa regolamentazione che il vecchio art. 6 conteneva nei primi due commi. Quindi in questa parte la «nuova» e la «vecchia» disciplina coincidono. Ed allora prescrivere che la nuova formulazione del primo comma dell’art. 6 acquista efficacia a decorrere dal 31.12.2011 e quindi implicare che prima di tale data rimane la «vecchia» formulazione della norma, significherebbe aver dettato una disposizione inutile perché – si ripete – in questa parte il vecchio ed il nuovo coincidono. Ma, se il legislatore è intervenuto addirittura in sede di conversione di un atto normativo d’urgenza (all’epoca, c’è stata una vera e propria corsa alle impugnazioni del recesso per i rapporti di lavoro flessibili tra il 24.11.2010, data di entrata in vigore della l. n. 183/2010, e il 23.1.2011, data di scadenza del termine di 60 giorni per impugnare il licenziamento), occorre pur dare un senso a quella che è apparsa subito essere una misura tampone. Non può quindi accogliersi l’interpretazione strettamente letterale, che comporterebbe l’immediata applicazione del nuovo secondo comma dell’art. 6. svuotando di ogni portata effettiva l’intervento del legislatore del 2011. Occorre invece accedere ad un’interpretazione sistematica. Il fatto di «acquistare efficacia», riferito al fenomeno di novellazione normativa, esprime la regolamentazione della successione di leggi nel tempo e si riferisce alla vigenza della nuova norma. Ossia il fatto che il «nuovo» primo comma dell’art. 6 «acquista efficacia » a decorrere dal 31.12.2011, sta ad indicare che tale disposizione è vigente (non già dalla data di entrata in vigore della l. n. 183/2010, come le altre disposizioni della stessa, bensì) a decorrere dal 31.12.2011 e prima di tale data non è vigente nella formulazione novellata; in questo senso non è applicabile. La categoria della non applicabilità è ben nota alla giurisprudenza e alla dottrina che l’hanno elaborata a proposito dei rapporti tra ordinamento nazionale ed ordinamento comunitario: le disposizioni interne contrastanti con la normativa comunitaria sono «non applicabili». Mutatis mutandis, parimenti si può ritenere che non sia temporaneamente applicabile il primo comma dell’art. 6, per espressa previsione di legge e limitatamente al periodo tra l’entrata in vigore della legge di conversione del decreto «mille proroghe» e la data del 31.12.2011. In breve, il nuovo primo comma dell’art. 6 sarebbe «congelato » in questo periodo di tempo di circa un anno. Questo temporaneo congelamento del primo comma dell’art. 6 e quindi dell’onere della tempestiva impugnazione con atto negoziale del licenziamento riguarderebbe la fattispecie contemplata da questa stessa disposizione; ossia si tratterebbe degli ordinari licenziamenti intimati nel contesto di rapporti di lavoro subordinato e non già le sole impugnazioni del recesso per i rapporti di lavoro flessibili. Sicché, questo congelamento di per sé risulterebbe del tutto incomprensibile perché il nuovo primo comma dell’art. 6, ripetendo la disciplina posta dai precedenti primo e secondo comma della medesima disposizione, conferma una regola (quella dell’impugnativa negoziale del licenziamento) sperimentata nel tempo ed applicata da anni ormai senza «traumi». Non c’era ragione di prevedere una parentesi di circa un anno di sospensione dell’applicabilità di tale regola che è stata novellata dall’art. 32 cit. solo nel senso che è stata riscritta in termini più compatti (un solo comma invece di due), ma con un contenuto sostanziale identico. In realtà il legislatore voleva sospendere l’applicabilità non già del primo comma dell’art. 6 (non ce n’era motivo alcuno perché esso era meramente confermativo della disciplina previgente), ma del secondo comma, di quello che recava la «novità» della disciplina introdotta dall’art. 32, ossia l’onere del deposito del ricorso al giudice – o di attivazione delle procedure di conciliazione ed arbitrato – entro un breve termine a pena di inefficacia dell’impugnativa negoziale. In questo ci sarebbe effettivamente una sorta di aberratio del legislatore. Non di meno, per dare un senso a questa norma-tampone di mero differimento, si può ipotizzare un nesso tra primo e secondo comma dell’art. 6 novellato, perché congiuntamente – ossia in blocco – sostituiscono il primo e il secondo comma dell’art. 6, talché sarebbe illogico un temporaneo mix di disciplina costituito dal vecchio primo comma e dal nuovo secondo comma (mancherebbe, del resto, la disciplina della decorrenza del termine per impugnare il licenziamento). Questo inscindibile nesso è tale per cui dalla temporanea inapplicabilità del primo comma nella formulazione novellata discende la temporanea inapplicabilità anche del secondo comma. Infatti il secondo comma dell’art. 6 novellato prescrive sì l’onere del deposito del ricorso al giudice (o di attivazione delle procedure di conciliazione ed arbitrato) entro un breve termine a pena di inefficacia dell’impugnativa negoziale del licenziamento, ma in un contesto formalmente riformato in toto che abbraccia anche il primo comma dell’art. 6 novellato. Ed allora si ha che, se la vigenza del nuovo regime dell’impugnazione (primo comma) è differita, anche il termine per il deposito del ricorso (secondo comma) non può cominciare a decorrere e pertanto esso risulta parimenti «non applicabile». Sicché alla fine, seppur in modo tortuoso (tanto che la Camera ha sentito la necessità di approvare un ordine del giorno a «chiarimento» della disposizione appena inserita nell’art. 32 cit.), il legislatore ha realizzato ciò che si proponeva di fare: differire al 31.12.2011 la vigenza del novum introdotto nell’art. 6 dall’art. 32, ma lo ha fatto per il tramite indiretto del differimento della vigenza della mera riformulazione della vecchia – eppur identica – disciplina dell’impugnativa del licenziamento contenuta negli originari primi due commi dell’art. 6 (ed ora nel solo primo comma).

3.3 I licenziamenti intimati dopo il «collegato lavoro» che non beneficiano del differimento

Sempre sul piano dell’interpretazione sistematica, occorre considerare che il d.l. «milleproroghe» (d.l. 29.12.2010, n. 225, pubblicato in G.U. del 29.12.2010, n. 303 ed entrato in vigore in pari data) si fonda – come risulta dalle sue premesse – sulla «straordinaria necessità ed urgenza di provvedere alla proroga di termini previsti da disposizioni legislative». Se quindi una disposizione della legge di conversione – segnatamente all’art. 2, co. 54, del d.l. – ha aggiunto un ulteriore termine, ciò ha fatto perché il legislatore ordinario ha inteso ampliare l’area di operatività della proroga fin dal momento dell’intervento della normativa d’urgenza. Quindi l’art. 2, co. 54, ha una limitata efficacia retroattiva risalente al 29.12.2010 (data di entrata in vigore del decreto-legge). Occorre allora distinguere. Fino alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto «milleproroghe» (27.2.2011) – e quindi per tutti i licenziamenti intimati prima di quella data – è stato in vigore il nuovo art. 6: il licenziamento doveva essere impugnato con atto negoziale di impugnativa entro sessanta giorni dalla sua comunicazione (così come già disponevano il primi due commi del vecchio art. 6, applicabile fino al 24.11.2010, data di entrata in vigore della l. n. 183/2010, e come poi ha disposto il nuovo primo comma del medesimo art. 6). Se alla data del 27.2.2011 era scaduto il termine di sessanta giorni per impugnare il licenziamento senza che l’impugnativa fosse stata comunicata al datore di lavoro, il lavoratore era decaduto dall’impugnativa stessa e il co. 1 bis dell’art. 32, pur avendo la limitata efficacia retroattiva di cui si è detto, non valeva a rimetterlo in termini per un’impugnativa tardiva, essendo appunto già maturata la decadenza prima dell’entrata in vigore della legge di conversione. Se invece l’impugnativa del licenziamento era stata tempestivamente comunicata, scattava il termine del secondo comma dell’art. 6 novellato, ma solo per quei licenziamenti che ricadevano, ratione temporis, nell’area di applicabilità dell’art. 32 e in generale del «collegato lavoro», ossia i licenziamenti intimati dopo l’entrata in vigore di quest’ultimo (24.11.2011), per i quali il termine per impugnare scadeva non prima del 23.1.2011, e sempre che l’impugnativa di licenziamento fosse stata comunicata prima del 29.12.2010 (data di entrata in vigore del d.l. n. 225/2010, alla quale deve farsi risalire il «congelamento» del nuovo art. 6). Solo per questi licenziamenti ricadenti nel breve lasso di tempo di piena operatività del nuovo art. 6 prima del differimento della sua efficacia – e quindi del suo «congelamento» – ha trovato iniziale applicazione il novum introdotto dall’art. 32. Solo per questi licenziamenti il termine di cui al secondo comma del novellato art. 6 ha cominciato a decorrere ed astrattamente potrebbe anche essere decorso interamente prima dell’approvazione della legge di conversione con la conseguente definitiva perdita di efficacia dell’impugnativa del licenziamento (ad esempio: licenziamento intimato subito dopo l’entrata in vigore della l. n. 183/2010 ed impugnato immediatamente dal lavoratore, che poi sia rimasto inerte per oltre sessanta giorni prima dell’entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 225/2010). Ma in disparte questa residuale ipotesi (di già verificatasi perdita di efficacia dell’impugnativa del licenziamento) – e sempre che questa disciplina differenziata, conseguenza di una tecnica normativa imprecisa piuttosto che di una scelta pienamente consapevole, sia compatibile con il principio di eguaglianza (art. 3 , co. 1, Cost.) – si ha che con l’entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 225/2010 la «nuova» impugnativa di licenziamento, nella versione riscritta dall’art. 32, deve considerarsi – ora per allora – come destinata ad acquistare efficacia solo a partire dal 31.12.2011 e quindi solo da tale data può cominciare a decorrere il termine previsto dal nuovo secondo comma dell’art. 6 per il deposito del ricorso al giudice del lavoro oppure per l’attivazione delle procedure di conciliazione ed arbitrato. Fino a quella data invece opera solo – come in passato – il termine di decadenza previsto per l’impugnativa di licenziamento dagli originari primi due commi dell’art. 6, «prorogati» nella loro efficacia in ragione del differimento dell’efficacia del nuovo primo comma del medesimo art. 6.

Note

1 Gambacciani, Onere di impugnazione (anche giudiziale) del licenziamento, in Proia-Tiraboschi (a cura di), La riforma dei rapporti e delle controversie del lavoro, Milano, 2011, 183; Ianniruberto, Il nuovo regime della decadenza nell’impugnazione degli atti datoriali, in Cinelli- Ferraro (a cura di), Il contenzioso del lavoro: nella legge 4 novembre 2010, n. 183 (Collegato lavoro), Torino, 2011, 221; Pellacani, Il c.d. «collegato lavoro» e la disciplina dei licenziamenti: un quadro in chiaroscuro, in Riv. it. dir. lav., 2010, I, 215.

2 Il terzo comma dell’art. 6, divenuto ora secondo comma, è stato ritenuto dalla giurisprudenza (Cass., 15.5.1990, n. 4162, in Fallimento, 1990, 1192) essere ancora vigente, anche dopo l’introduzione delle disposizioni generali in materia di controversie di lavoro (l. 11.8.1973, n. 533).

3 Lamberti, L’estensione del regime delle decadenze (lavoro a termine) trasferimento d’azienda e rapporti interpositori, in Cinelli-Ferraro (a cura di), Il contenzioso del lavoro: nella legge 4 novembre 2010, n. 183 (Collegato lavoro), cit., 251.

4 Donzelli, La risoluzione arbitrale delle controversie di lavoro, in Cinelli-Ferraro (a cura di), Il contenzioso del lavoro: nella legge 4 novembre 2010, n. 183 (Collegato lavoro), cit., 109; Tosi, L’arbitrato nel «collegato lavoro» alla legge finanziaria 2010, in Lav. giur., 2010, 1171; Ferraro, La composizione stragiudiziale delle controversie nel «collegato lavoro», in Riv. dir. sicur. soc., 2010, 313.

5 Cfr. ex plurimis Cass., 1.12.2010, n. 24366, in Foro it., 2011, I, 1433, che ha affermato che, una volta che, a mezzo di atto stragiudiziale di impugnativa di licenziamento, sia stata evitata la decadenza prevista dall’art. 6 l. n. 604/966, la successiva azione giudiziale di annullamento del licenziamento illegittimo deve essere in ogni caso proposta nel termine quinquennale di prescrizione di cui all’art. 1442 c.c.

6 Cass., 27.2.2003, n. 3022.

7 Cass., 29.1.1987, n. 855, in Giur. it., 1988, I, 1, 1032.

8 C. cost., 13.5.1987, n. 161, in Foro it., 1988, I, 1374.

9 Cass., S.U., 14.4.2010, n. 8830, in Foro it., 2010, I, 3416.

10 Ex plurimis Cass., 26.6.2007, n. 14742.

11 Cass., 21.4.2004, n. 7625, in Giust. civ., 2005, I, 760.

12 Cass., 9.3.2009, n. 5643.

13 A partire da Cass., S.U., 18.10.1982, n. 5394, in Giust. civ., 1983, I, 869.

14 Cfr. Cass., 9.7.2004, n.12786.

15 Cass., 23.2.1996, n. 1415, nonché da Cass., 18.5.1995 n. 5485.

16 Cass., 10.4.1990, n. 3023.

17 Lamberti, L’estensione del regime delle decadenze (lavoro a termine) trasferimento d’azienda e rapporti interpositori, in Cinelli-Ferraro (a cura di), Il contenzioso del lavoro: nella legge 4 novembre 2010, n. 183 (Collegato lavoro), cit., 251.

18 Cass., 28.5.2009, n. 12516, in Not. giuris. lav., 2009, 485.

19 Cass., 5.11.2008, n. 26557.

20 Cass., 17.3.2009, n. 6452.

21 Cass., S.U., 21.3.1997, n. 2517, in Foro it., 1997, I, 3318; conf. Cass., 16.6.1998, n. 5995, ivi, 1998, I, 3582.

22 Boccagna, L’impugnazione del lodo arbitrale, in Cinelli-Ferraro (a cura di), Il contenzioso del lavoro: nella legge 4 novembre 2010, n. 183 (Collegato lavoro), cit., 148 ss.; Auletta, Le impugnazioni del lodo nel collegato lavoro, in www.judicium.it.

23 Cass., 10.1.2007, n. 245, in Riv. it. dir. lav., 2007, II, 954. Successivamente, in senso conforme, Cass., 10.3.2010, n. 5804; Cass. 19.3.2010, n. 6727.

24 Cass., 3.3.2010, n. 5107, in Lavoro giur., 2010, 1123; Cass., 4.5.2009, n. 10235, in Not. giuris. lav., 2009, 337.

25 Cass., 19.12.1985, n. 6514, in Riv. it. dir. lav., 1987, II, 215; conf. Cass., 27.2.1997, n. 1788..

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