Impresa pubblica

Diritto on line (2014)

Alberto Massera

Abstract

L’analisi verte sulla complessa e variegata esperienza dello “Stato imprenditore” in Italia, non senza riferimenti alla dimensione comparativa, e sulle prospettive di operatività per l’impresa pubblica nello spazio giuridico europeo.

Premessa

Le tematiche che vengono ricondotte alla nozione dell’impresa pubblica possono essere illustrate secondo almeno tre impostazioni diverse. Come analisi degli strumenti organizzativi attraverso i quali in Italia i pubblici poteri si sono fatti essi stessi imprenditori (Giannini, M.S., Le imprese pubbliche in Italia, in Riv. soc.,1958, 227 ss.). Come esposizione dei principi e dei regimi giuridici secondo i quali si organizzano e funzionano le imprese pubbliche, in un contesto giuridico-istituzionale formato dall’integrazione dell’ordinamento nazionale con l’ordinamento sovranazionale europeo (Lacava, C., L’impresa pubblica, in Tratt. Cassese, Diritto amministrativo speciale, t. IV, II ed., Milano, 2003, 3901 ss.). Come descrizione di una complessa parabola storica che ha percorso le varie aree del mondo occidentale con diversi gradi di intensità lungo l’intera epoca moderna e che ha condotto da ultimo l’impresa pubblica nel volgere di pochi decenni fino al punto di apogeo per poi scivolare nel declino della sua esperienza (Toninelli, P.A., a cura di, The Rise and the Fall of State-Owned Enterprise in the Western World, Cambridge, 2000). L’illustrazione che segue cercherà di tenere insieme le distinte prospettive, come si ritiene necessario per una più compiuta comprensione del fenomeno in oggetto.

Occorre altresì precisare preliminarmente, con riguardo ai due elementi del sintagma “impresa pubblica”, che per il nome si fa riferimento, come iniziale presupposto espositivo, all’art. 2082 c.c. (è impresa «un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi»), mentre per l’aggettivo postnominale si fa riferimento, allo stesso scopo, all’art. 2 della dir. 06/111/CE (è pubblica «ogni impresa nei confronti della quale i poteri pubblici possano esercitare, direttamente o indirettamente, un'influenza dominante»). Le due definizioni, peraltro, dovranno essere oggetto nel prosieguo di osservazioni e specificazioni.

Vicende nazionali dell’impresa pubblica

Le vicende dell’impresa pubblica, osservate nel contesto del caso italiano, possono essere analizzate in relazione a una scansione temporale articolata su cinque periodi.

Il primo periodo si può ritenere sostanzialmente concluso alle soglie della prima guerra mondiale. In esso le attività di impresa sono soprattutto gestite direttamente dagli enti territoriali (Stato e Comuni) mediante organi propri, caratterizzati da margini diversi di autonomia (è, dunque, il periodo della prevalenza delle cd. “imprese-organo”).

Il secondo è il periodo che, fino agli anni cinquanta del secolo passato, vede, per il profilo qui considerato, la prevalenza dell’ “ente pubblico economico”. In esso la presenza dei pubblici poteri nei rapporti economici è realizzata soprattutto mediante l’azione di enti pubblici aventi personalità giuridica propria, e quindi soggettività distinta dallo Stato (e dagli altri enti territoriali), ed operanti peraltro secondo modalità diverse tra di loro oppure miste, che solo per una parte sono propriamente riconducibili alla gestione diretta di imprese (le cd. “imprese-ente pubblico”).

Nel terzo periodo, protratto fino agli inizi degli anni novanta, la prevalenza si sposta verso l’impresa in forma privata con partecipazione pubblica. Se, infatti, nei primi due casi lo strumento organizzativo utilizzato è pur sempre ascrivibile all’area del diritto pubblico (seppure con rilevanti inserimenti di disciplina privatistica, soprattutto per l’ente pubblico gestore di impresa), per questo caso lo strumento organizzativo utilizzato è quello ordinario della società per azioni regolata dal codice civile, sebbene con dominanza del soggetto o dei soggetti pubblici titolari delle quote di maggioranza o di controllo del capitale sociale (le cd. “imprese-società pubblica”).

Questa prima periodizzazione proposta deve in realtà essere considerata come una trama intessuta congiuntamente di tratti di ordine diacronico e di tratti di ordine sincronico. Sempre assumendo a parametro di riferimento la storia istituzionale italiana, infatti, la sommatoria dei periodi finora esaminati è in grado di coprire un arco di tempo ultra-secolare, vale a dire quello che va dal momento della costituzione dello Stato unitario (1861) alla soppressione del Ministero delle partecipazioni statali (1993). Per altro verso, in ciascuno dei periodi come sopra ricostruiti va registrata la compresenza, accanto al modello organizzativo di impresa pubblica rilevato come “prevalente”, degli “altri” due modelli; compresenza sia pure caratterizzata da diverso grado di intensità, rispettivamente crescente o declinante, in relazione al singolo periodo considerato, con effetto dunque di almeno parziale sovrapposizione delle vicende inerenti ai distinti modelli.

Così, da un lato, la costituzione nel 1863 (poi riformata nel 1917) della Cassa depositi e prestiti ha segnato l’inizio della stagione delle imprese-organo, destinata a svilupparsi nel primo quarto e in particolare nel primo decennio del ventesimo secolo sia in ambito statale (Azienda autonoma delle Ferrovie, delle Poste, poi dei Telefoni e dei Monopoli di Stato) che in ambito locale (le aziende speciali di Comuni e Province), e in grado di arricchirsi di ulteriori unità nei periodi successivi (Anas, Aima, Anav, anche se per alcune di queste era dubbio il carattere effettivamente di impresa), ma che in seguito ha vissuto il momento del tramonto a partire dagli anni Ottanta con la trasformazione delle sue figure esponenziali (a cominciare da quelle costituite agli inizi del secolo) in imprese-ente pubblico prima e in imprese-società pubblica successivamente (fatte salve eventuali vicende di privatizzazione “singolare”). Da un altro lato, la costituzione dell’Istituto nazionale delle assicurazioni nel 1912 ha caratterizzato l’avvio dell’esplosione del modello organizzativo dell’impresa-ente pubblico (anche se già conosciuto nel periodo precedente per la presenza di alcuni Istituti di credito di diritto pubblico), destinato a grande incremento per i quattro decenni a seguire e in grado di arricchirsi anche nel periodo successivo a questo di ulteriori figure a disciplina singolare o di categoria di notevole rilevanza (Ente nazionale per l’energia elettrica, Aziende sanitarie locali ed anche l’Agenzia per il demanio), ma che nel contempo ha finito per essere coinvolto nei processi di privatizzazione “fredda” o “calda” (vale a dire realizzati con la trasformazione in società per azioni partecipata dall’ente territoriale – come il Poligrafico dello Stato ( o con la cessione, ove necessario previa trasformazione nella forma societaria, dei pacchetti azionari a soggetti privati), già cominciati dagli anni ottanta. Da un altro lato ancora, infine, l’impresa-società pubblica, già conosciuta nell’ultimo scorcio dell’Ottocento con la costituzione della Banca d’Italia e poi episodicamente messa in campo nel corso dei primi tre decenni del Novecento, aveva già superato negli anni trenta la fase di incubazione del suo futuro sviluppo in forza della trasformazione dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale da ente (temporaneo) con finalità di salvataggio di imprese private dissestate in ente (permanente) con finalità di gestione delle partecipazioni pubbliche in imprese operanti nei settori manifatturiero e dei servizi pubblici (e quindi a sua volta connotabile in questa sua funzione di holding pubblica come ente pubblico economico). Conseguentemente, gli anni del secondo dopoguerra sono quelli nei quali si è realizzata l’impressionante ascesa nell’economia e nelle istituzioni di questa forma di impresa pubblica, tale da portarla per un verso a dare vita, con la creazione nel 1956 di un apposito Ministero e negli stessi anni dell’Ente nazionale idrocarburi e degli altri enti pubblici di gestione di partecipazioni statali, ad un originale “sistema” a disegno piramidale di gruppi di imprese in comando pubblico, per altro verso ad occupare, al punto del suo apogeo e tenuto conto del concorso delle altre pur declinanti forme organizzative di impresa pubblica, circa il 27 per cento del valore aggiunto del sistema economico nazionale con un personale superiore a 1.200.000 unità, confermando in questo modo l’idea che esse siano insieme «strumento e oggetto della politica economica» (Cassese, S., L’impresa pubblica come strumento e oggetto della politica economica, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1985, 722 ss.).

L’evoluzione tracciata per i tre periodi finora presi in considerazione trova per il vero larga corrispondenza nei cambiamenti intervenuti a livello di Costituzione materiale prima e di Costituzione formale poi. Innanzitutto, infatti, la concezione della necessaria in quanto “naturale” separazione tra fini pubblici e attività economiche, che aveva condotto, in conformità ai dettami dell’ideologia classica dello “Stato guardiano notturno” di humboldtiana memoria (Von Humboldt, G., Saggio sui limiti dell’attività dello Stato, 1792, in Id., Scritti giuridici e politici, Soveria Mannelli, 2004, 41 ss. in ), a una sostanziale riserva a favore dei soggetti privati delle attività d’impresa, aveva già subito un almeno parziale superamento ad opera del pensiero liberale contemporaneo; quest’ultimo, infatti, pur formatosi su quella tradizione, era ben consapevole della complessità dei problemi economici e istituzionali posti dall’unificazione e della necessità attuale di uno Stato che agisse come “coscienza direttiva” della nazione anche nel campo oggi ascrivibile all’area dei servizi di interesse economico generale (v. Spaventa, S., Lo Stato e le ferrovie. Scritti e discorsi sulle ferrovie come pubblico servizio (marzo-giugno 1876), a cura di S. Marotta, Napoli, 1997, 295 ss.). Risultato soccombente nella difficile congiuntura dell’ultima parte del secolo diciannovesimo, quel vigoroso stimolo intellettuale non andrà perso, ma avrà occasione di concorrere alla produzione di esiti concreti sul piano delle realizzazioni dell’intervento “diretto” dei poteri pubblici nell’economia; ciò quando, appunto agli inizi del nuovo secolo, nell’ambito del passaggio dall’organizzazione dello Stato “monoclasse” a quella dello Stato “pluriclasse” e nel “nuovo” clima instauratosi con i governi presieduti da Giovanni Giolitti, con esso di fatto convergerà verso le decisioni politiche di “nazionalizzazione” delle ferrovie e le altre orientate, come si è visto, all’ “industrializzazione” dello Stato mediante la costituzione di aziende autonome operanti nei servizi pubblici in condizioni di monopolio legale (specie per attività con i caratteri del monopolio economico), la spinta propulsiva generata dalla recente formazione come forza politica parlamentarizzata del movimento socialista. Quest’ultimo, dal canto suo, protagonista di quella lotta per la gestione pubblica diretta dei servizi locali che sfocerà, come già ricordato, nella legge del 1903, appunto rivendicata come espressione dell’impegno per il “socialismo municipale” (Montemartini, G., Municipalizzazione dei pubblici servigi, Milano, 1902, specie 389 ss.).

Nondimeno, se la forma organizzativa dell’azienda con ordinamento autonomo o speciale, in ragione del suo solido aggancio all’ente politico di riferimento (lo Stato attraverso singoli Ministeri, i Comuni o le Province), poteva essere valutata, almeno all’origine, come «un’ingegnosa invenzione che salvava i principi permettendone la disapplicazione» (Giannini, M.S., Le imprese pubbliche, cit., 246), in realtà l’impronta pubblicistica su tali organismi restava nettissima, evidenziata come era dall’affidamento della presidenza dell’azienda allo stesso Ministro titolare del dicastero di pertinenza (o al soggetto nominato con decisione politica dal Consiglio comunale o provinciale) e dal risolversi la proclamata “autonomia” dell’ordinamento in una più realistica somma di deroghe singolari rispetto all’ordinamento dell’apparato di riferimento. Con l’effetto finale, per un verso, di inquadrare l’operatività delle aziende in un regime giuridico consistente in buona sostanza solamente in una sorta di affievolimento, graduato di caso in caso, dell’“ordinario” vincolo gerarchico nei confronti della struttura politico-amministrativa “principale” (Cassese, S.-Massera, A., Le imprese pubbliche in Italia, in AA.VV., L’impresa pubblica, Milano, 1977, 95 ss.); per altro verso, di configurare le aziende con gli elementi organizzativi dell’impresa, ma in un modo che ne « è totalmente modificato l’elemento rischio, in quanto le responsabilità patrimoniali hanno, per legge, copertura da parte dell’ente pubblico dirigente, ed il rischio si trasforma in responsabilità amministrativa e politica degli amministratori dell’impresa e di quelli dell’ente dirigente» (Giannini, M.S., Diritto pubblico dell’economia, III ed., Bologna,1989, 144)

Queste sono le ragioni principali che spiegano perché l’utilizzo dello strumento organizzativo dell’azienda autonoma (specie nell’ambito dell’amministrazione statale), da una certa epoca in poi, abbia assunto modalità recessive. Quando d’altro canto, ancora a guerra non terminata, apparve chiaro a qualcuno che «l’economia non è più un affare privato, ma è un affare della collettività» , e che «l’economia nuova non sarà una economia di Stato, ma una economia privata sottoposta al giudizio dei pubblici poteri» , che «avrà bisogno della collaborazione dello Stato» (Rathenau, W., L’economia nuova, 1917, Torino, 1976, 3 e 62), si può ritenere che in realtà fossero stati intavolati, unitamente agli arricchimenti che seguiranno con la prospettazione keynesiana della fine del laissez-faire, gli elementi di cornice anche per gli sviluppi successivi dell’impresa pubblica in Italia. Con il passaggio ad una Costituzione materiale corrispondente a un’idea di forma di Stato caratterizzata dall’integrazione della società nello Stato realizzato con l’ordinamento giuridico fascista, invero, il modello dell’ente pubblico – sia come soggetto regolatore (l’Ente nazionale risi, ad es.) che come soggetto gestore d’impresa che, ancora, come soggetto con funzioni miste (gli enti fieristici, ad es.) – è risultato, nell’intero ventennio, particolarmente attrezzato per incontrare e dirigere gli interessi presenti nei diversi settori dell’economia. Esso è sembrato altresì in grado, laddove le funzioni istituzionali assegnate fossero unicamente quelle più squisitamente imprenditoriali, di operare a parità di condizioni con le imprese private (come del resto era già stato affermato esplicitamente in Parlamento dal Ministro dell’industria Francesco Saverio Nitti nel presentare il disegno di legge governativo per l’istituzione dell’I.N.A.) grazie all’assoggettamento a una disciplina di diritto privato (in un primo momento nei rapporti di lavoro, con una normativa del 1938 che, eliminando il divieto allora in vigore, consentì l’iscrizione alle associazioni sindacali dei dipendenti di enti pubblici «i quali operino nel campo della produzione e svolgano un’attività economica in regime di libera concorrenza»; poi soprattutto con l’art. 2093 del codice civile del 1942, che stabilì l’applicazione proprio agli enti pubblici inquadrati nelle associazioni professionali delle disposizioni relative al Capo sull’impresa in generale, fatta salva ex art. 2221 c.c. l’esclusione dalle procedure d’insolvenza, nonché con l’art. 2201 c.c., che stabilì anche per gli enti pubblici aventi per oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale, cioè appunto di gestione di impresa, l’obbligo di iscrizione al registro delle imprese).

Il modello dell’impresa-ente pubblico, dunque, era sembrato che presentasse evidenti ragioni di convenienza organizzativa per il perseguimento delle finalità pubbliche, perché consentiva l’adozione della struttura più adatta per il compito da espletare (Ottaviano, V., Sulla sottoposizione dell’impresa pubblica alla medesima regolamentazione di quella privata, in Id. Scritti giuridici, II, Milano, 1992, 91 ss.). Inoltre, assecondava la convinzione del decisore politico che una presenza pubblica in settori vitali dell’economia nazionale (come il creditizio e l’assicurativo) non solo con modalità esterne, e quindi in larga misura formali, fosse necessaria al fine di evitare abusi, senza che, trattandosi di settori non configurabili come servizi pubblici a godimento collettivo, occorresse riservarne l’esercizio monopolistico agli organismi pubblici; per converso, che fosse adeguato allo scopo l’ inserimento di tutti gli operatori pubblici e privati, anche sulla base di un parziale riparto di attività, nell’ambito di sistemi giuridici complessi, quali gli ordinamenti sezionali, che consentivano la sottoposizione delle imprese stesse ai poteri di normazione interna e di indirizzo di organi politici o comunque di soggetti pubblici (Cassese, S.-Massera, A., Le imprese pubbliche in Italia, cit., 102 ss.). Nondimeno, proprio inquadramenti funzionali di questo tipo ebbero alla lunga l’effetto di affievolire il connotato effettivamente imprenditoriale di numerose gestioni, incentivandone l’orientamento ad agire piuttosto come strumenti di singole scelte di politica economica delle autorità di governo, a sua volta favorito dai poteri di nomina, di direttiva e di controllo che le leggi garantivano a queste ultime; fattore questo che si venne a congiungere con un altro elemento strutturale, in particolare per tutti quegli enti che avevano diretta origine dall’iniziativa pubblica, vale a dire di avere un capitale d’impianto completamente assegnato dal legislatore nella forma del fondo di dotazione, e quindi di poter venire a trovarsi nella necessità di ricorrere alla richiesta di incrementi di tale fondo laddove la concreta attuazione delle decisioni politiche non potesse compiutamente corrispondere ai criteri di economicità. E con l’ulteriore conseguenza, con riguardo a questo ordine di profili, della reiterazione dei tentativi della Corte dei conti di rivendicare la propria giurisdizione per i giudizi di responsabilità nei confronti degli amministratori degli enti al di là dei confini tracciati dalla Corte di Cassazione e attinenti, in specie, ai soli «atti che esorbitino dall’esercizio dell'attività imprenditoriale propria degli enti medesimi e configurino espressione di poteri autoritativi di autorganizzazione, ovvero di funzioni pubbliche svolte in sostituzione di amministrazioni dello Stato o di enti pubblici non economici» (Cass., S.U., 2.3.1982, n. 1282).

D’altro canto, già nella seconda parte della vigenza dell’ordinamento a governo fascista aveva ripreso slancio, accanto agli altri modelli imprenditoriali pubblici, il modello dell’impresa-società pubblica (che a livello statale era stato utilizzato, seppure in modo sporadico, soprattutto a partire dal dopoguerra). Ciò per due ragioni. In primo luogo, per una ragione di ordine congiunturale, legata al fatto che l’acquisizione di partecipazioni azionarie in imprese che rimanevano formalmente private, in quanto ancora sottoposte alle norme dell’allora vigente codice di commercio, appariva la modalità di intervento più adeguata per un’operazione di salvataggio che non si poneva inizialmente il fine dello stabile ingresso dello Stato in numerosi settori dell’economia nazionale una volta che fosse stato portato a termine il processo di risanamento. In secondo luogo, per una ragione di ordine sistemico, legata al fatto che l’azionariato pubblico sembrava potesse agevolmente conciliarsi con l’idea della collaborazione tra capitale pubblico e capitale privato, e più in particolare con il principio del carattere sussidiario e integrativo dell’iniziativa economica pubblica nei confronti di quella privata sancito dalla dichiarazione IX della Carta del lavoro del 1929, senza contrastare inoltre l’assetto del sistema corporativo proclamato in quegli anni conformemente agli indirizzi del governo fascista (Massera, A., Imprese a partecipazione statale, in Tranfaglia, N., a cura di, Il mondo contemporaneo. Vol. I, t. 3 , Firenze, 1977, 549 ss.). In realtà, l’Iri, trasformato nel 1937, come già detto, in ente istituzionalmente incaricato dei compiti di gestione per conto dello Stato delle partecipazioni nelle imprese acquisite nelle diverse fasi degli interventi di salvataggio in funzione degli indirizzi di pianificazione governativa, operò in combinazione con altri enti pubblici economici come componente essenziale di un sistema parallelo (rispetto al mai efficiente sistema corporativo) per la regolazione dell’economia. Tanto è vero che anche la nuova disciplina civilistica concorse alla “stabilizzazione” della figura: da un lato dedicando tre specifiche norme alle società per azioni con partecipazione dello Stato e degli enti pubblici (gli artt. 2458-2460 c.c.), relative ai poteri di nomina di amministratori e sindaci delle società partecipate (ma anche non partecipate, ove disposto da legge singolare: art. 2459 c.c.), dall’altro ribadendo, con la Relazione del Ministro Guardasigilli, al §998, che «la disciplina comune della società per azioni deve applicarsi anche alla società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici senza eccezioni, in quanto norme speciali non dispongano diversamente», perché «in questi casi è lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge della società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici».

In questo modo, consolidatosi nella veste della cd. formula Iri (articolata, secondo la definizione di uno dei presidenti del dopoguerra ( Petrilli, G., Lo Stato imprenditore, Rocca San Casciano, 1976 ( in struttura di gruppo di imprese polisettoriale integrato, a tre livelli: gruppo, holding di settore, unità operative; partecipazione privata di minoranza alle proprietà azionarie; finanziamento in massima parte sul mercato; economicità di gestione), l’azionariato di Stato era stato posto nelle migliori condizioni per superare brillantemente il non facile passaggio scandito dal mutamento della forma di Stato e della forma di Governo. Ché anzi la natura non corporativa e sostanzialmente a-fascista consentì a quel primo gruppo di imprese a partecipazione statale di rappresentare uno degli elementi di continuità nel nuovo contesto ordinamentale, nel quale dalle norme costituzionali risultava ora formalizzato il principio per cui «è compito basilare dei pubblici poteri la disciplina, normativa e amministrativa, della materia dell’economia» (Giannini, M.S., Diritto pubblico dell’economia, op. cit., 35), coerente con l’incontro dell’ispirazione proveniente dall’orientamento sociale del pensiero cattolico con quella di matrice socialista. In questo quadro l’impresa-società pubblica aveva avuto occasione di estendersi in altri settori industriali e dei servizi pubblici, dando vita ad altri gruppi di imprese e diversificando le proprie relazioni istituzionali al di là dell’apparato ministeriale di riferimento (il Ministero delle partecipazioni statali), ma nel contempo ponendo molti dei presupposti e delle condizioni per il successivo declino (Massera, A., Partecipazioni statali e servizi di interesse pubblico, Bologna, 1978).

L’impresa pubblica in ambiente europeo e l’impatto del diritto del mercato unico concorrenziale e dell’equilibrio delle finanze pubbliche

Si è in precedenza indicata la soppressione – per referendum abrogativo della relativa legge istitutiva – del Ministero delle partecipazioni statali come data simbolica per marcare la chiusura del terzo dei periodi nei quali si è inteso scandire la vicenda più complessiva dell’impresa pubblica nel sistema giuridico ed economico nazionale. Naturalmente le ragioni di questo accadimento sono di più lunga data e di molteplice ordine. Comunque, in sintesi, elemento decisivo per l’allontanamento dalle formule di gestione pubblica diretta di impresa consistette nell’insostenibilità del debito pubblico complessivo, tanto più grave a fronte delle esigenze di rifinanziamento degli enti di gestione gravati dagli oneri impropri di interventi non rispondenti a criteri di razionalità economica ma effettuati per un verso su indirizzo o solo su pressione delle autorità di governo o del ceto politico più ampiamente considerato, per altro verso a seguito di scelte di investimento compiute piuttosto secondo criteri di autoreferenzialità manageriale; in particolare per il cd. sistema delle partecipazioni statali l’effetto fu la diluizione se non l’evanescenza di ognuna delle componenti della “formula Iri”, che ne avevano favorito invece il successo; tutto ciò, per di più, in una fase in cui si approssimava l’incombenza del vincolo esterno dipendente dall’obbligo del rispetto per la finanza degli Stati nazionali dei cd. parametri di Maastricht. Nondimeno, non può essere pretermesso il ruolo giocato dall’impulso verso la privatizzazione dell’economia proveniente dalla forte ventata di liberalismo intriso di netti connotati di liberismo che, a partire dai sistemi anglo-americani, ha invaso l’intero mondo occidentale, provocando mutazioni degli assetti economico-istituzionali che sono andate oltre a quanto necessariamente implicato dalla più stringente applicazione dei principi e delle regole del diritto comunitario del mercato unico concorrenziale, seguita all’adozione dell’Atto Unico europeo nel 1986, ma in costanza del cd. principio di neutralità (o di indifferenza) circa il regime proprietario dell’impresa, e quindi circa la natura pubblica o privata del soggetto titolare, sancito dall’art. 222 del Trattato CE (ora art. 345 TFUE).

L’effetto che si è prodotto è stato in una certa misura un risultato di riduzione delle asimmetrie tra l’esperienza italiana e quelle degli altri Paesi dell’area mondiale così delimitata, e non solo in termini quantitativi. A parte il caso degli Stati Uniti, infatti, Paese per il quale quasi fin dalle sue origini è stato netto l’orientamento favorevole alle misure di regulation piuttosto che agli interventi di nationalisation (Breyer, S., Regulation and its Alternatives, Cambridge, Mass., 1982, specie 181 ss.), va rilevato che figure soggettive pubbliche di imprese-organo, imprese-ente e imprese-società sono state costantemente presenti un po’ dovunque, ma con diverso “peso” e con una scansione temporale differente rispetto alle vicende italiane (pur se elemento comune è stato quello dell’espansione con la prima guerra mondiale dell’intervento mediante imprese pubbliche a seguito della rottura dell’unità del mercato). Così, Gemischwirtschaftliche Unternehmungen in Germania hanno gestito servizi pubblici locali sin dagli ultimi decenni dell’800, mentre l’Ammiragliato inglese acquisiva nel 1919, per ragioni strategiche, una partecipazione di controllo nell’Anglo-Persian Oil Co. (poi divenuta la British Petroleum); così, public corporations hanno gestito le grandi nazionalizzazioni attuate dai governi laburisti nel secondo dopoguerra britannico, mentre régies industrielles et commerciales, établissements publics industriels et commerciaux, sociétés d’éeconomie mixte venivano a popolare il panorama imprenditoriale in Francia, fin dagli inizi del ‘900 ma specialmente nel periodo compreso tra il governo del “Fronte popolare” e la prima Presidenza Mitterand, assumendo sia a livello centrale che a livello locale un ruolo protagonistico (per una rassegna sulle vicende dell’impresa pubblica in questi Paesi si veda, da ultimo, Della Scala, M.G., Società per azioni e Stato imprenditore, Napoli, 2012, 91-150).

Nel tornante degli anni Novanta dello scorso secolo, dunque, si registra in Europa, come si è già osservato con inizio dall’UK e seppure con molte varianti, una diffusa “ritirata” dei pubblici poteri dalla diretta gestione di imprese. Del resto, che il più puntuale esercizio dei poteri di vigilanza da parte della Commissione (con la eventuale chiamata in causa della Corte di giustizia) sul rispetto delle regole sovranazionali poste a presidio delle libertà economiche e dell’assetto effettivamente concorrenziale del mercato avrebbe comportato l’eliminazione di privilegi prima garantiti per via normativa o anche solo fattuale e per converso l’applicazione di divieti o di criteri regolatori già vigenti, ma ora restrittivamente interpretati, era in larga misura inevitabile. Nel caso italiano, in particolare, ciò ha comportato per l’impresa pubblica (e soprattutto per le società a partecipazione statale, in quanto a quel momento dominanti, ma anche per le forme pubbliche di gestione, per le quali veniva tagliata in radice la ratio storica della loro esistenza), in primo luogo, la necessaria rinuncia ad aree riservate in regime di esclusiva totale o parziale nel settore dei servizi di interesse economico generale e delle attività di costruzione e gestione di infrastrutture a questi per molti aspetti equiparati (in conformità all’art. 90 TCE, ora art. 106 TFUE); inoltre, nel campo delle relazioni finanziarie, la necessaria sottoposizione dei finanziamenti da parte dello Stato e degli altri enti pubblici (compresi gli aumenti di capitale e i ripiani delle perdite) al regime degli aiuti di Stato (in conformità all’art. 92 TCE, ora art. 107 TFUE). È in questo contesto, invero, che si collocano, da un lato, le norme nazionali che hanno posto le condizioni per il più agevole compimento delle operazioni di dismissione delle partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici, accompagnando tale indirizzo legislativamente sancito con la previsione della creazione di organismi indipendenti per la regolazione delle tariffe e il controllo della qualità dei servizi di rilevante interesse pubblico (artt. 1-2, d.l. 31.5.1994, n. 332, conv. in l. 30.7.1994, n. 474), dall’altro lato, le norme che hanno eliminato le fattispecie di partecipazione pubblica maggioritaria necessitata ex lege, come nel trasporto aereo e nel trasporto marittimo (art. 2, co. 192, l. 23.12.1996, n. 662, ma anche, in precedenza, art. 19, l. 24.12.1993, n. 537, nel settore autostradale); nonché, sul versante dell’enforcement giudiziale del diritto del mercato unico concorrenziale, gli interventi che hanno sanzionato finanziamenti a imprese a partecipazione statale incompatibili con la ratio delle relative regole e con il criterio applicativo dell’investimento dell’imprenditore privato alle normali condizioni di mercato (C. giust., 21.3.1991, C-303/88, Repubblica italiana c. Commissione, per il caso Eni-Lanerossi, e 21.3.1991, C-305/89, Repubblica italiana c. Commissione, per il caso Alfa Romeo), rendendo, quindi, complessivamente assai difficoltoso l’utilizzo delle imprese pubbliche per finalità socio-economiche.

È alla luce di questi accadimenti, pertanto, che, con riguardo alle vicende dell’impresa pubblica in Italia, si può ritenere che l’inizio degli anni ’90 dello scorso secolo abbia segnato l’avvio di un quarto periodo, contrassegnato da una inversione degli indirizzi legislativi in tema di azionariato pubblico. In questa fase, infatti, se si restringe, sia con interventi normativi che con operazioni di dismissione, l’area della partecipazione statale in società per azioni (e comunque quelle rimanenti non sono più intermediate dagli enti pubblici di gestione), si incentiva invece la diffusione della partecipazione locale, sia maggioritaria che di minoranza (art. 22, l. 8.6.1990, n. 142; d.P.R. 16.9.1996, n. 533), non solo in società per azioni ma anche (previa novella del 1997) in società a responsabilità limitata, superando il risalente ostracismo opposto dalla giurisprudenza amministrativa nei confronti di ciò che era considerata una evasione o una “fuga” dai modelli e dalle regole pubblicistiche di gestione specie dei servizi pubblici locali. Del resto, era proprio questo il settore di attività di interesse economico che ancora poteva ritenersi sottratto alle regole del mercato concorrenziale, perché per la massima parte non risultava configurabile, in ragione delle dimensioni territoriali, un mercato rilevante (Merusi, F., La nuova disciplina dei servizi pubblici, in Aipda, Annuario 2001, Milano, 2002, 76). Ciò vale però anche a dare ragione del fatto che la maggiore intensità di interventi normativi nella seconda parte del periodo in esame si sia addensata nella regolazione dei servizi pubblici locali: prima con l’art. 113, d.lgs. 18.8.2000, n. 267, poi sostituito con l’art. 35, l. 28.12.2001, n. 448 (a sua volta modificato per questo punto nel 2003), con l’intento di modellare la competizione per la gestione nelle forme della concorrenza “per” il mercato in conformità alle regole e agli orientamenti espressi dalle istituzioni comunitarie in materia di affidamenti mediante gara, affidamenti diretti a società mista il cui socio privato sia stato scelto mediante gara e affidamenti diretti a società in house (cioè a società a totale partecipazione pubblica, che risponda alla duplice condizione di essere sottoposta da parte dell’ente o degli enti pubblici titolari del capitale sociale a un controllo analogo a quello esercitato sui servizi degli enti stessi e di realizzare la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano: C. giust., 18.11.1999, C-107/98, Teckal).

Vero è, peraltro, che, come risultava dai dati esposti in Corte dei Conti (Sez. Autonomie, Stato dei controlli della corte dei conti sugli organismi partecipati dagli enti locali, 2008), e riferiti al 2006, l’impiego di società partecipate dagli enti territoriali nei settore dei servizi pubblici locali copriva in effetti nemmeno il 30 per cento del totale delle società possedute dagli enti stessi (il dato sarà destinato a crescere negli ultimi anni, ma solo fino a poco più del 34 per cento, come si desume ancora dalla Corte dei conti, Relazione sul coordinamento della finanza pubblica, 2013), e comunque che oltre due terzi delle partecipate operanti in quel settore godevano di affidamenti diretti. Proprio l’osservazione di questo stato di cose ha favorito il fatto che anche l’impresa locale sia finita al centro di una critica incrociata che ne ha scolpito la figura di veicolo non virtuoso della rinascita del “socialismo municipale”, ovvero dell’estensione del “capitalismo municipale”. Conseguentemente, si è aperto nel 2006, con l’art. 13, d.l. 4.7.2006, n. 223, conv. in l. 4.8.2006, n. 248, un quinto periodo, l’ultimo, che ha visto come ulteriori tappe l’art. 3, co. 27 ss., l. 24.12.2007, n. 244, e l’art. 4, d.l. 6.7.2012, n. 95, conv. in l. 7.8.2012, n. 135, e che è venuto a scandire in modo apparentemente risolutivo l’esperienza in Italia dell’impresa pubblica; invero, se i destinatari dei divieti e delle limitazioni posti da queste norme sono tipizzati in modo variegato, fattore comune è il “segno” negativo della regolamentazione introdotta. Più nel dettaglio, la norma del 2006 riguarda le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all'attività di tali enti in funzione della loro attività nonché per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, alle quali è posto il divieto di operare per enti differenti dai titolari delle quote azionarie e in territori diversi anche mediante partecipazione ad altre società. La norma del 2007, invece, sposta il centro della disciplina direttamente sulle amministrazioni pubbliche (identificate attraverso uno dei consueti rinvii formulati a questo fine dal legislatore, vale a dire all’art. 1, co.2, d.lgs. 30.3.2001, n. 165), ponendo loro il divieto di costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, e di assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. La norma del 2012, infine, ritorna sulle società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni come individuate dalla norma precedente, che abbiano conseguito nell'anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore delle stesse superiore al 90 per cento dell'intero fatturato, per disporne, in alternativa, lo scioglimento o l’alienazione delle partecipazioni (anche se poi da ultimo la parziale abrogazione della norma in questione e la contestuale regolamentazione dettata dall’art. 1, l. 27.12.2013, n. 147, sembrano piuttosto riportare nuovamente a un metodo di maggiore responsabilizzazione dei soggetti pubblici azionisti).

Al di là delle criticità interpretative che ciascuna di queste norme evidenzia e degli interrogativi circa la reale estensione dell’effetto restrittivo pure perseguito, alcune considerazioni possono essere condotte sulla base della valutazione dell’assetto istituzionale complessivo prodotto da tali misure legislative e in particolare di alcuni profili anche di ordine generale ad esso inerenti.

In primo luogo, la norma del 2007 direttamente incidente sulle amministrazioni pubbliche è stata da qualcuno apprezzata, soprattutto sul versante della dottrina gius-commercialistica, come avente portata di una sorta di “rivoluzione copernicana”, poiché sarebbe venuta a rovesciare la concezione che riconosceva agli enti pubblici in quanto persone giuridiche capacità giuridica generale (Mazzoni, A., Limiti legali alle partecipazioni societarie di enti pubblici e obblighi correlati di dismissione: misure contingenti o scelta di sistema, in Ibba, C.-Malaguti, M.C.-Mazzoni, A., Le società pubbliche”, Torino, 2011, 70), trovando supporto in tale valutazione da un orientamento espresso dal Consiglio di Stato in sede di Adunanza plenaria (3.6.2011, n. 10); valutazione per contro nettamente contrastata da chi invece ha da ultimo inteso ricostruire la permanente legittimazione della presenza dell’iniziativa imprenditoriale pubblica accanto a quella privata in ragione di una rinnovata valutazione dell’art. 41, c. 3, Cost. (Valaguzza, S., Società miste a partecipazione comunale, Milano, 2012).

In secondo luogo, all’intrecciarsi e al diverso combinarsi dei molteplici motivi che, al di là delle specifiche formulazioni espresse, sono realmente sottesi agli interventi normativi – tutela della concorrenza, contenimento della spesa pubblica, ripristino della moralità (in senso lato) amministrativa – ha corrisposto una diffusa percezione circa l’erraticità complessiva delle norme menzionate, accresciuta del resto dalla valenza occasionale della compresenza nello stesso periodo di assai numerose disposizioni incidenti con portata di maggior dettaglio di volta in volta su singoli aspetti dell’organizzazione e del funzionamento delle società pubbliche. Quindi un effetto di caos normativo, al di là di discipline derogatorie tipicizzate, al quale da un lato non appaiono in grado di porre rimedio norme come quella contenuta nell’art. 4, co. 13, d.l. n. 95/2012, che pure ha una finalità di sistema («Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali»); e che dall’altro ha incentivato il riemergere di tesi orientate a discutere piuttosto sulla natura (di alcune almeno) delle società pubbliche, per configurarle come veri enti pubblici (Grüner, G., Enti pubblici a struttura di S.p.a, Torino, 2009; contra, Goisis, F., Contributo allo studio delle società in mano pubblica, Milano, 2004), cui in qualche misura fa eco quella dottrina (specie economica: Boitani, A., Considerazioni economiche in tema di proprietà pubblica e privata nelle utilities, in Munus, 2011, 515 ss.) orientata a caldeggiare, per casi di questa specie o altri per i quali il modello societario soffra comunque “innaturali” torsioni, il ritorno all’ente pubblico economico (mentre, almeno in ambito statale, l’impresa-organo è praticamente scomparsa, salvo il caso degli stabilimenti e degli arsenali militari ( artt. 45-51, d.lgs. 15.3.2010, n. 66 ( che peraltro operano principalmente per le stesse forze armate). Con il risultato ulteriore di attrarre nell’area degli interventi normativi sull’impresa pubblica profili ed elementi di criticità che non attengono propriamente a tale figura, ma alla questione dell’utilizzo da parte delle pubbliche amministrazioni di forme privatistiche (società, ma non solo, e quindi anche associazioni e fondazioni) per la cura di interessi non economicamente rilevanti, senza che, da questo punto di vista, la linea indicata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 326 del 1.8.2008 ( la distinzione tra società pubbliche impegnate in attività amministrativa e società pubbliche impegnate in attività d’impresa ( sia riuscita a costituire un argine sicuro nei confronti di deroghe e variazioni sul tema.

In terzo luogo, la collocazione dell’impresa pubblica nel mercato derivante dal suo necessario operare nello spazio giuridico europeo produce ulteriori effetti. Innanzitutto lo stesso diritto societario nazionale è stato chiamato a sottostare alla verifica di compatibilità con il diritto del mercato unico concorrenziale proprio nella sua pur assai ridotta parte che specificamente regola le società con partecipazione pubblica: è così che l’art. 2458 c.c. (pur nel testo della riforma del 2003) non ha superato il vaglio della Corte di giustizia (C. Giust., 6.12.2007, C-463/04, Federconsumatori) ed è stato quindi modificato, mentre l’art. 2459 c.c. è stato abrogato nel 2007 a seguito dell’apertura di una procedura di infrazione; né può stupire, quindi, che anche quella parte pubblicistica di normativa che negli anni Novanta era andata a integrare il diritto delle società pubbliche al momento dell’avvio delle privatizzazioni – le norme sulla cd. golden share, ovvero sui poteri speciali attribuiti al soggetto pubblico, introdotte con il d.l. n. 332/1994, art. 2 – abbia avuto vita assai travagliata, fino alla attuale regolamentazione come risultante dal d.l. 15.3.2012, conv. in l. 11.5.2012, n. 56. Ma soprattutto è vigente il principio che qualsiasi attività a rilevanza economica, per la quale pure vi sia inerenza di interesse pubblico, deve intendersi in linea di massima come contendibile, dovendo quell’interesse semmai essere salvaguardato con una regolazione adeguata e proporzionata di obblighi di prestazione o di gestione, sicché il limite di compatibilità attualmente definito per le norme ex art. 41, c. 3, Cost., è nel loro essere norme essenzialmente di tipo condizionale e come tali rivolte sia all’impresa pubblica che all’impresa privata (fermo restando che entrambe le specie di imprese devono rimanere sottoposte sia alle regole comuni che alle regole distintamente poste per specifici ambiti al fine di evitare distorsioni o turbative nel mercato aperto e concorrenziale, come l’art. 8, l. 10.10.1990, n. 287, o l’art. 3, co. 28, d.lgs. 12.6.2006, n. 163, recante il Codice dei contratti pubblici).

Tutto ciò ha avuto anche l’effetto di portare ad una applicazione estensiva dei due distinti elementi che compongono il sintagma “impresa pubblica”, secondo le definizioni che di essi si sono riprodotte all’inizio. Da una parte, infatti, quella connotazione relazionale (di tipo proprietario o finanziario) che vale a contrassegnare l’ascrizione del soggetto considerato al regime dell’impresa pubblica è anche in larga misura quella che viene utilizzata per sottoporre alla regolazione pro-concorrenziale in materia di contrattualità pubblica entità delle quali la maggior parte è invece di natura sicuramente privata, come gli organismi di diritto pubblico, che pertanto occorre tenere distinti dalle imprese pubbliche proprio per essere destinati alla cura di interessi non economici o industriali (Goisis, F., Imprese pubbliche, in Diz. dir. pubbl. Cassese, IV, Milano, 2006, 2961 ss.). Dall’altra, la nozione di impresa è stata dalla giurisprudenza comunitaria intesa come quella comprendente ogni attività per la quale è in principio possibile la realizzazione di una transazione di mercato, secondo le regole di funzionamento di questo, indipendentemente dallo stato giuridico del soggetto che la esercita e dalle sue modalità di finanziamento (noto è il caso dell’attività del collocamento, deciso da C. giust., 23.4.1991, C-41/90, Höfner e Elser; per altri casi v. Cafagno M., Impresa pubblica, in Chiti, M.P.-Greco G., Trattato di diritto amministrativo europeo, Milano, 1205 ss.). Applicazioni estensive dei due elementi, invero, che sono convergenti nella finalità, conformemente alla logica funzionalista del diritto comunitario, di allargare al massimo l’area delle attività incluse nella disciplina del mercato unico concorrenziale.

È legittimo chiedersi, in definitiva, se la sommatoria di vincoli esterni – e quindi ineludibili – e di vincoli interni – e quindi solo relativamente cogenti, ma che hanno dimostrato nell’ultimo periodo considerato di essere in grado in larga misura di superare i cambiamenti di maggioranza politica e di formula di governo – lasci spazio per la previsione di un futuro “sostenibile” per la figura dell’impresa pubblica; domanda che del resto corrisponde al fondo alla percezione di un declino irreversibile della figura stessa. L’analisi dell’esperienza italiana, per il vero, starebbe a dimostrare che la modernizzazione nell’azione pubblica e l’innovazione nel sistema amministrativo del nostro Paese sono costantemente passate attraverso le diverse forme organizzative di impresa pubblica: vi è stata addirittura una fase in cui la parte più avanzata dell’imprenditoria pubblica è stata oggetto di studio anche come possibile modello da importare da una cospicua e significativa letteratura straniera (Coombes, D., State Enterprises, London, 1971; Holland, S., The State as Entrepreneur. The IRI State Shareholding Formula, London, 1972; Posner, M.V.-Woolf, S.J., L’impresa pubblica nell’esperienza italiana, Torino, 1967). Ma soprattutto sono i dati raccolti con riguardo all’oggi in studi di organizzazioni internazionali che valgono a dimostrare che l’impresa pubblica a livello statale è tuttora una realtà ben presente, significativa sotto il duplice profilo della ricchezza prodotta e della forza lavoro occupata, nei Paesi del mondo occidentale (Christiansen, H., The Size and Composition of the SOE Sector in OECD Countries, OECD Publishing, 2011); e vero è che almeno in uno, la Francia, si è ritenuto opportuno costituire nel 2002 una apposita Agence des participations de l’État (si veda A.P.E., L’Etat actionnaire, Rapport 2013). Né, infine, merita di essere trascurata quella recente prospettazione non convenzionale che lascia immaginare nuovi spazi di azione per l’impresa pubblica (o meglio, per la partnership pubblico-privato), qualora lo Stato intenda consapevolmente andare oltre i fallimenti del mercato per operare, compatibilmente con le regole dell’Europa economica e finanziaria, come stimolo all’innovazione laddove non sia presente solo un rischio ma una vera e propria situazione di incertezza à la Knight (Mazzuccato, M., The Entrepreneurial State, London, 2013).

Fonti normative

Artt. 2082, 2093, 2201, 2221, 2458-2460 (ora artt. 2448-2249) c.c.; l. 22.12.1956, n. 1589; artt. 90, 92 e 222 Tr. CE (ora artt. 106, 107 e 345 TFUE); art. 2, dir. 06/111/CE; artt. 1-2, d.l. 31.5.1994, n. 332, conv. in l. 30.7.1994, n. 474; art. 113, d.lgs. 18.8.2000, n. 267; art. 13, d.l. 4.7.2006, n. 223, conv. in l. 4.8.2006, n. 248; art. 3, c. 27 ss., l. 24.12.2007, n. 244; art. 4, d.l. 6.7.2012, n. 95, conv. in l. 7.8.2012, n. 135; art. 1, co. 550-569, l. 27.12.2013, n. 147.

Bibliografia essenziale

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