Impresa bancaria

Diritto on line (2020)

Concetta Brescia Morra

Abstract

Le banche sono imprese che esercitano un’attività definita dalla legge: la raccolta del risparmio tra il pubblico per l’esercizio del credito. L’attività bancaria tipica può essere esercitata solo dalle banche, imprese autorizzate da autorità pubbliche e sottoposte a vigilanza. Le ragioni della riserva di attività sono legate alle esternalità negative che la crisi di una banca può comportare non solo sui risparmiatori, ma sull’intera collettività. Malgrado la pervasività dei controlli pubblici, in Italia negli anni Ottanta del Novecento, l’attività bancaria è stata dichiarata dalla legge e dalla Corte di Cassazione attività d’impresa. La crisi finanziaria globale 2007-2009 ha indotto i regolatori in tutti i paesi a rendere i controlli pubblici più intrusivi nelle scelte imprenditoriali e nella gestione delle crisi. Ciò nonostante, possiamo affermare che i penetranti limiti all’esercizio dell’attività e ai diritti di azionisti e creditori derivanti dal sistema dei controlli pubblici, in particolare per la gestione delle crisi bancarie, non inficiano la natura imprenditoriale delle banche.

L’attività bancaria e la nozione giuridica di banca

La banca, come noi oggi la concepiamo, un’impresa che raccoglie risparmio dal pubblico ed eroga credito, si è affermata in epoca relativamente recente, dalla metà circa del XIX secolo.

Fin dall’antichità, peraltro, erano diffuse, fra i babilonesi, nell’antica Grecia e a Roma, operazioni bancarie, come l’accettazione di depositi di denaro, ossia di monete aventi un valore intrinseco – come quelle in oro, argento e rame – che erano utilizzate per i pagamenti di merci, al posto del più rudimentale baratto. Dal XII secolo alcuni grandi mercanti si specializzarono in operazioni finanziarie e assunsero un ruolo centrale i servizi di pagamento e di credito, intesi come differimento dei pagamenti nello spazio e nel tempo.

Alla fine dell’Ottocento il banchiere era il soggetto che poneva in essere «operazioni bancarie». Solo con la legge bancaria del 1936 (R.d.l. 12.3.1936, n. 375, modificato con R.d.l. 17.7.1937, n. 1400, poi convertito con modifiche con la l. 7.3.1938, n. 141 e l. 7.4.1938, n. 636) l’ordinamento definisce la nozione di «attività bancaria». Ciò che conta non è più la natura finanziaria delle singole operazioni poste in essere, ma la complessiva attività svolta. Secondo questa disposizione, indipendentemente dalle formule contrattuali utilizzate, l’attività bancaria consiste in una serie di operazioni con cui l’impresa raccoglie risparmio dal pubblico, ossia da una massa indistinta di soggetti, e in altre operazioni con cui impiega queste risorse per erogare prestiti. L’esercizio congiunto delle due attività realizza una funzione di intermediazione creditizia, ossia consente il trasferimento di risorse finanziarie da soggetti che hanno un surplus di risparmio – tipicamente le persone fisiche – a coloro che sono in deficit di risorse: le imprese per l’esercizio dell’attività economica, lo Stato o altre entità pubbliche per lo svolgimento delle loro funzioni e le stesse persone fisiche che ne hanno bisogno per l’acquisto di beni durevoli, come la casa, o di beni di consumo.

La legge bancaria del 1936 definisce la fattispecie giuridica di banca, cui applicare una disciplina speciale in funzione dell’attività esercitata. Dall’emanazione della legge bancaria del 1936 l’attività bancaria è riservata a soggetti autorizzati da autorità pubbliche. Il legislatore del tempo aveva osservato le gravi conseguenze sull’economia prodotte dal fallimento di importanti istituti bancari travolti dalla crisi degli anni Trenta del Novecento, che aveva avuto origine negli Stati Uniti.

Alle banche trova applicazione anche la disciplina comune. Il codice civile del 1942, all’art. 2195 sancisce che i soggetti che esercitano l’attività bancaria sono tenuti a iscriversi al registro delle imprese, come accade per chi esercita altre attività economiche, come quelle di produzione di beni e servizi o d’intermediazione nella circolazione dei beni.

Con il tempo sono cambiate le fonti normative, ma non l’approccio del legislatore che collega strettamente la nozione di banca a quella di attività bancaria. Il vigente testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1.9.1993, n. 385, di seguito t.u.b.) afferma all’art. 10, co. 1, che «la raccolta di risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito» costituiscono attività bancaria e prosegue al comma 2 stabilendo che «l’esercizio dell’attività bancaria è riservato alle banche». Anche il diritto dell’Unione adotta lo stesso approccio, pur utilizzando la denominazione di «ente creditizio», invece di quella di banca. Secondo le direttive è «ente creditizio un’impresa la cui attività consiste nel raccogliere depositi o altri fondi rimborsabili dal pubblico e nel concedere crediti per proprio conto».

La raccolta del risparmio

L’art. 11 del t.u.b. descrive lo schema essenziale della raccolta del risparmio riservata alle banche: l’acquisizione di fondi con obbligo di rimborso, sia sotto forma di deposito, sia sotto altre forme.

L’obbligo di restituzione è l’elemento caratterizzante la raccolta bancaria, che la distingue da altre forme di raccolta del risparmio, non riservate alle banche, come quella effettuata dalle società per azioni mediante l’emissione di azioni collocate nei mercati finanziari.

Il contratto tipico con cui le banche raccolgono risparmio è il deposito bancario. Con esso la banca acquisisce la proprietà di una somma di denaro, ossia la disponibilità di potere di acquisto di beni e servizi. Il contratto può essere a termine, ossia il cliente non può pretendere la restituzione della somma depositata al valore nominale prima di una determinata scadenza, oppure essere «a vista», per cui il cliente può richiedere in qualsiasi momento la restituzione delle somme cedute alla banca. Il deposito non ha una funzione prevalente di custodia, come sembra indicare il suo nome; nel deposito tipico, secondo il codice civile, è il depositante che paga un corrispettivo per il servizio di custodia svolto dal depositario. Nel caso del deposito bancario, invece, è la banca che, di norma, paga un corrispettivo al depositante, calcolato sulla base un tasso di interesse, perché fruisce di una somma di denaro per un determinato periodo di tempo. La banca, in ogni caso, ha un debito nei confronti dei risparmiatori. Non si tratta peraltro neppure di un credito del cliente alla banca, perché nel caso di deposito «a vista», manca il termine prima del quale la somma prestata non può essere richiesta, elemento essenziale in qualsiasi operazione creditizia.

Il deposito bancario è un contratto tipico disciplinato dall’art. 1834 c.c. Esso ha una ragione economica solo se collocato all’interno dell’attività bancaria in cui, tanto la raccolta del risparmio, quanto l’esercizio del credito sono svolte in serie nei confronti di una massa di soggetti. Le banche consentono ai risparmiatori di effettuare, attraverso il deposito, un investimento sicuro e liquido, per poter soddisfare le esigenze di consumo che possono emergere in un momento futuro. D’altro canto, le banche, facendo affidamento sui comportamenti normali dei risparmiatori, tengono ferma solo una parte delle somme raccolte per far fronte alle richieste di rimborso in situazioni ordinarie (c.d. riserva frazionaria) e impiegano le restanti somme in prestiti. La differenza fra i tassi corrisposti ai clienti sui depositi e quelli derivanti dalla concessione del credito rappresenta il margine d’interesse, il profitto tipico dell’imprenditore bancario.

Il tratto caratteristico del deposito bancario, ossia la possibilità del risparmiatore di chiedere la restituzione del denaro ceduto alla banca in qualsiasi momento dalla stipula del contratto comporta che i debiti delle banche sono, sin dal Medioevo, utilizzati come moneta nelle transazioni economiche. Le banche consentono ai depositanti di utilizzare il denaro depositato presso di loro attraverso strumenti di pagamento accettati nelle transazioni economiche; si ricorda fra tutti, dall’Ottocento, l’assegno bancario. L’utilizzo delle somme depositate mediante strumenti di pagamento diversi dalla moneta legale è sancito espressamente nel contratto di “conto corrente bancario” con cui la banca e il cliente convengono di regolare i loro rapporti di dare e avere reciproci mediante annotazioni in un conto, invece che mediante pagamenti in moneta legale; il saldo del conto corrente è sempre disponibile. Come precisato dallo stesso codice civile, se il contratto di deposito è regolato in conto corrente, il correntista può sempre disporre delle somme risultanti a suo credito (art. 1852 c.c.) e può farlo utilizzando strumenti di pagamento come assegni, carte di credito o carte di debito.

Le banche utilizzano anche altri contratti per la raccolta del risparmio, soprattutto l’emissione di obbligazioni societarie, che consentono di disporre di risorse più stabili per finanziare impieghi a medio e lungo termine. Il deposito continua, peraltro, a occupare un posto preminente tra le forme di raccolta del risparmio.

L’esercizio del credito

L’attività di erogazione del credito, a differenza di quanto avviene per la raccolta del risparmio, non è oggetto di una norma dell’ordinamento bancario che ne definisca i caratteri generali.

I contratti di credito sono negozi con cui la banca concede a un terzo la disponibilità di una somma di denaro per un tempo prestabilito e il terzo s’impegna a restituire la somma alla scadenza. Elemento caratteristico della fattispecie creditizia è il tempo; concedere “credito” implica la concessione di tempo al debitore per l’adempimento dell’obbligo di restituzione della disponibilità di denaro. Gli interessi, che costituiscono il corrispettivo dell’operazione creditizia, sono il prezzo del godimento della disponibilità monetaria per il tempo prestabilito.

Il contratto maggiormente utilizzato dalle banche in Italia non è il mutuo, ossia il contratto di credito tipizzato dal codice civile. Nella prassi operativa lo strumento più diffuso per il finanziamento delle imprese è l’«apertura di credito», una delle figure contrattuali disciplinate dal codice civile (art. 1842) sotto il capo XVII del titolo III del libro IV, Dei contratti bancari. Nell’apertura di credito la banca s’impegna a tenere a disposizione del cliente una somma di denaro in cambio di un corrispettivo rappresentato da una commissione e non da un tasso d’interesse, perché nella prima fase dell’operazione la banca non si priva della disponibilità del denaro. Il cliente può, in qualsiasi momento, chiedere l’intero importo di denaro pattuito, o solo una parte di esso; dal momento in cui preleva le somme si instaura un vero e proprio rapporto creditizio, sul quale vengono calcolati gli interessi. L’accreditato può utilizzare in più volte il credito e può con successivi versamenti ripristinare la disponibilità. Anche questo negozio, al pari del deposito, può essere regolato in conto corrente.

Altri contratti di credito bancari disciplinati dal codice civile sono lo sconto e l’anticipazione bancaria, oggi desueti nella prassi commerciale.

Le attività delle banche e i modelli di banca

Le banche possono esercitare, oltre all’attività bancaria tradizionale, anche altre attività finanziarie. In particolare possono esercitare i servizi d’investimento, ossia possono operare nei mercati mobiliari comprando e vendendo titoli per conto proprio o di terzi o prestando altri servizi, come la gestione di patrimoni individuali, la sottoscrizione e il collocamento di titoli per conto di imprese, e la consulenza finanziaria.

Le banche che concentrano la loro attività nell’intermediazione tradizionale sono convenzionalmente definite «banche specializzate» o «commerciali», mentre quelle che esercitano congiuntamente all’attività di raccolta di depositi e di erogazione di prestiti quella nel settore dei servizi di investimento sono definite «banche universali». Nell’ambito delle banche universali è possibile individuare un particolare tipo di banca che assume un rapporto intenso e di lunga durata con le imprese finanziate, arrivando ad acquisire partecipazioni di rilievo stabili nelle stesse. È il modello della «banca mista» tedesca, in cui amministratori delle banche siedono anche nei consigli di amministrazione delle imprese controllate.

In Italia, paese tradizionalmente banco-centrico, dalla legge del 1936 sono stati vigenti un principio di specializzazione temporale fra gli intermediari e un principio di separatezza fra banca e industria; quest’ultimo ha impedito alle banche di acquisire il controllo d’imprese industriali. Questi vincoli non hanno consentito lo sviluppo della banca «mista» in Italia, anche se oggi la separazione fra banca e industria è stata cancellata dall’ordinamento. Diversamente, fin dall’Ottocento in Italia le banche hanno operato anche nel settore dell’intermediazione mobiliare.

Le banche, secondo l’attuale ordinamento italiano possono svolgere, oltre all’attività bancaria, «ogni altra attività finanziaria» (art. 10, co. 3, t.u.b.) che non sia riservata dalla legge espressamente ad altri intermediari; attualmente, la sola attività finanziaria esclusa è la gestione di organismi di investimento collettivo del risparmio, riservata alle «società di gestione del risparmio».

Le attività diverse da quelle bancarie e finanziarie non possono essere esercitate direttamente, se non si tratti di «attività strumentali» o «attività connesse» (art. 10, co. 3, t.u.b). Le attività strumentali che le banche possono esercitare sono quelle che, pur avendo natura industriale se considerate in via autonoma, sono parte del normale processo produttivo delle banche. Si tratta di attività che sono ausiliarie al processo produttivo, come la gestione del sistema informatico della banca, o la gestione di immobili funzionali all’esercizio dell’attività principale. Queste attività potrebbero essere affidate dalla banca a un soggetto esterno, ma possono essere realizzate anche da uffici o strutture interne, purché siano destinate al processo produttivo principale e non a produrre beni o servizi per il mercato. Le «attività connesse» sono quelle che pur non avendo un legame funzionale con l’esercizio dell’attività principale consentono all’imprenditore bancario di sfruttare le opportunità economiche offerte dall’organizzazione produttiva approntata per l’esercizio dell’attività bancaria. Due esempi di attività connesse, tradizionalmente svolte dalle banche, sono la locazione di cassette di sicurezza e il deposito di titoli in amministrazione. Oggi la banca offre anche altri servizi accessori, come la vendita di biglietti di partite di calcio o di spettacoli, così utilizzando in maniera intensa la propria struttura produttiva, in particolare la rete di filiali presenti sul territorio. Queste attività, per essere considerate connesse, devono avere un rilievo marginale e accessorio rispetto all’attività principale svolta dalla banca.

La riserva di attività e la specialità delle banche

L’attività bancaria è riservata alle banche, soggetti iscritti in un albo tenuto dalle autorità creditizie (art. 13 t.u.b.). Sono iscritti nell’albo i soggetti autorizzati all’esercizio dell’attività bancaria dalle autorità creditizie, ai sensi dell’art. 14 t.u.b. L’ordinamento bancario è una disciplina «a soggetto»: si applica alle banche ed è banca, secondo l’ordinamento attuale, l’impresa autorizzata all’esercizio dell’attività bancaria (art. 1, co. 1, lett. b, t.u.b.). L’esercizio abusivo dell’attività bancaria è un reato che l’ordinamento condanna con una pena particolarmente severa (art. 131 t.u.b.).

Le attività di raccolta del risparmio e di erogazione del credito, se non esercitate in maniera congiunta, possono essere svolte da soggetti diversi dalle banche. La raccolta del risparmio che non sia connessa all’esercizio del credito può essere effettuata, entro certi limiti, anche da imprese e società industriali. L’attività di erogazione di finanziamenti, esercitata con risorse proprie – ossia senza ricorrere al pubblico risparmio – può essere svolta da altri intermediari finanziari.

In passato, l’ordinamento prevedeva una riserva molto ampia anche per la sola raccolta del risparmio tra il pubblico. Il combinato disposto delle norme speciali bancarie e del codice civile limitava in maniera significativa la possibilità delle società per azioni di raccogliere risparmio mediante l’emissione di strumenti di debito, anche nella forma delle obbligazioni societarie. Le ragioni dell’ampiezza della riserva erano attribuibili alla tardiva introduzione nel nostro ordinamento, rispetto a quanto avvenuto nei paesi anglosassoni, di regole di protezione dei risparmiatori che investono nei mercati finanziari. In altri termini, le norme che hanno imposto un’ampia riserva di attività di raccolta in favore delle sole banche hanno rappresentato per lungo tempo un succedaneo di regole stringenti di trasparenza e corretto funzionamento dei mercati finanziari. In molti altri ordinamenti la sola attività di raccolta riservata alle banche è quella realizzata nella forma del deposito bancario. Anche in Italia, l’incremento delle tutele offerte agli investitori, che sono state oggetto di riordino in un testo unico della finanza del 1998 (d.lgs. 24.2.1998, n. 58, di seguito t.u.f.), ha spostato la linea di confine fra raccolta del risparmio riservata alle banche e quella consentita ai soggetti diversi dalle banche, ampliando le possibilità di raccolta offerte a questi ultimi.

L’attuale art. 11 t.u.b., pur riservando alle banche qualsiasi forma di raccolta che preveda un obbligo di rimborso, stabilisce numerose deroghe; ad esempio, non esistono limiti per le società quotate per l’emissione di obbligazioni societarie.

Diversamente, la norma non consente deroghe alla riserva di attività delle banche in caso di «raccolta a vista e ogni forma di raccolta collegata all’emissione o alla gestione di mezzi pagamento a spendibilità generalizzata» (art. 11, co. 5, t.u.b.). Come già ricordato, la raccolta «a vista» è rappresentata dall’acquisizione di disponibilità finanziarie da parte della banca mediante contratti, come quello del deposito bancario, che prevedono l’obbligo di restituzione del denaro al depositante in qualsiasi momento senza preavviso o con un preavviso molto breve. Inoltre, i depositi «a vista» sono di norma regolati mediante un rapporto di conto corrente bancario, caratterizzato dal fatto che il saldo del conto è sempre disponibile; il cliente può prelevare le somme depositate mediante strumenti di pagamento, offerti dall’intermediario, generalmente accettati con funzione solutoria in tutte le transazioni economiche. Oggi il legislatore riconosce la possibilità a soggetti diversi dalle banche di acquisire somme di denaro dal pubblico e consente l’uso delle somme, a chi ha costituito la provvista, con strumenti di pagamento diversi dalla moneta legale. Il primo esempio, che risale molto indietro nel tempo, sono le Poste, nell’ambito del servizio di «Bancoposta». Un secondo esempio, affermatosi più di recente, sono gli istituti di moneta elettronica (di seguito Imel) e gli istituti di pagamento. Le banche, peraltro, possono emettere strumenti di pagamento a spendibilità generalizzata a valere su una disponibilità che non è precostituita dall’utilizzatore mediante un deposito di moneta.

In altri termini, le banche sono gli unici intermediari che possono raccogliere somme di denaro con negozi che consentono al cliente di utilizzarle mediante strumenti di pagamento a spendibilità generalizzata e, nello stesso tempo, esercitare in maniera professionale un’attività di concessione di credito.

L’attività riservata alle banche nei termini descritti è soggetta a controlli pubblici a tutela di interessi generali per più di una ragione.

In primo luogo, l’esercizio congiunto di raccolta del risparmio ed erogazione di credito rende soggetta la banca a crisi di «panico». Nella gestione ordinaria una banca conserva risorse liquide sufficienti per far fronte alle richieste di rimborso da parte dei depositanti. La notizia di difficoltà dell’intermediario nell’adempiere regolarmente le proprie obbligazioni può causare un’ondata di panico fra i depositanti. La corsa al ritiro dei depositi può realizzare l’evento temuto, ossia il fallimento della banca, non in grado di rimborsare contemporaneamente tutti i risparmiatori.

In secondo luogo, le banche hanno una pluralità di rapporti reciproci derivanti da prestiti interbancari e dal circuito dei servizi di pagamento. Le interconnessioni rendono facile la trasmissione di situazioni di crisi da un intermediario agli altri. La crisi di una banca può generare una sfiducia generalizzata che si ripercuote sugli altri intermediari, ossia può dare luogo a crisi sistemiche. Le banche, inoltre, sono uno degli attori fondamentali dei sistemi di pagamento. Una crisi di carattere sistemico che riguarda il sistema bancario a livello globale, oppure che coinvolga un’intera nazione o area geografica, ha un impatto rilevante sul sistema di pagamenti.

Infine, le banche, in funzione del carattere monetario delle loro passività e dell’attività di prestito effettuata, sono in grado di aumentare la moneta in circolazione. Le banche consentono ai depositanti di utilizzare l’importo nominale del deposito, ma una parte di quel contante depositato sarà utilizzato per fare prestiti che daranno luogo ad altri depositi, così aumentando la massa monetaria che i depositanti possono usare per pagamenti. Le ragioni della specialità delle banche sono, quindi, anche riconducibili all’elemento fiduciario connesso al concetto di «moneta» e alla rilevanza per finalità pubbliche, in primo luogo per la politica monetaria, dei soggetti che creano moneta.

L’attività bancaria ha carattere d’impresa

Alla fine dell’Ottocento l’attività bancaria era considerata un’attività d’impresa, al pari di ogni altra attività commerciale. Secondo l’art. 177 del codice di commercio, le società che avevano a oggetto il credito avevano solo obblighi di trasparenza dei conti più onerosi di quelli delle società che svolgevano altre attività.

Un cambiamento radicale d’impostazione si registrava con la legge bancaria del 1936. Quest’ultima stabiliva un sistema di controlli pubblici ampio e penetrante sulle banche, chiarendo all’art. 1 che la raccolta del risparmio fra il pubblico e l’esercizio del credito costituiscono «funzioni di interesse pubblico». Negli anni successivi, nonostante il codice civile del 1942 continuasse ad annoverare l’attività bancaria fra quelle d’impresa (art. 2195 c.c.), vi fu incertezza sulla natura della stessa. Le banche, alla luce della definizione della legge bancaria, sono state considerate imprese-funzione in cui la gestione imprenditoriale era piegata al perseguimento di finalità pubbliche.

Il sistema dei controlli era ricostruito dalla dottrina pubblicistica come un «ordinamento sezionale del credito». In questo contesto, parte della dottrina commercialistica ha dubitato che gli azionisti di una società bancaria potessero essere considerati titolari di «diritti soggettivi»; secondo questa tesi a fronte dei controlli pubblici sulla banca, gli azionisti potevano vantare solo un «interesse legittimo».

D’altro canto, a quel tempo le grandi banche in forma di società per azioni erano poche. Le principali erano la Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano e il Banco di Roma. Queste banche, con un peso rilevante nel mercato, erano state attratte nell’area pubblica, sotto la proprietà dell’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale), a causa della crisi finanziaria degli anni Trenta del Novecento e dichiarate «banche di interesse nazionale». Il sistema bancario italiano era composto in larga parte da istituti di diritto pubblico (come tali definiti dalla legge bancaria del 1936): il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, il Banco di Sardegna, la Banca Nazionale del Lavoro, l’Istituto Bancario San Paolo di Torino e il Monte dei Paschi di Siena, che in alcuni casi avevano origini molto lontane, precedenti l’Unità d’Italia. Esistevano poi numerose banche a carattere locale o regionale, le Casse di risparmio, nate a partire dagli anni Venti dell’Ottocento per incoraggiare il piccolo risparmio e diffondere uno spirito di parsimonia tra i meno abbienti; le Casse avevano la forma della fondazione. Nelle Casse di risparmio – disciplinate dal R.d. 25.4.1929, n. 967, detto testo unico delle leggi sulle Casse di risparmio e sui Monti di pietà di prima categoria – le finalità pubbliche di beneficenza e assistenza rappresentavano il fine ultimo, perseguito attraverso una gestione imprenditoriale dell’azienda bancaria.

La natura pubblica della gran parte degli intermediari allora esistenti, l’ampiezza dei poteri attribuiti alle autorità dalla legge bancaria che interferivano sulle più tipiche scelte imprenditoriali e la definizione di attività bancaria come «funzione di interesse pubblico» sono stati considerati fino agli inizi degli anni Ottanta del Novecento indizi cruciali per una ricostruzione in termini pubblicistici dell’attività bancaria da parte della Cassazione (Cass. pen., 19.11.1981). La suprema Corte, in sede penale, emise una sentenza che fece scalpore, applicando agli operatori bancari il regime dei reati propri della pubblica amministrazione. Gli amministratori di banche (nel caso di specie Casse di risparmio) che avevano concesso finanziamenti a imprese per le quali sussistevano dubbi sulla loro capacità di rimborsarli, e che poi erano fallite, furono condannati per peculato, al pari di quanto può accadere a un amministratore comunale che utilizza impropriamente i soldi pubblici.

Negli anni seguenti sono venuti meno alcuni indici sintomatici della natura pubblicistica dell’attività bancaria e altri fattori che avevano contribuito a questa qualificazione sono stati attenuati. Il più rilevante cambiamento si è registrato nelle forme della vigilanza pubblica: dalla seconda metà degli anni Ottanta sono state modificate in maniera radicale le regole sull’accesso al settore bancario, abbandonando i criteri autorizzativi discrezionali in favore della fissazione di condizioni generali e obiettive. I poteri autorizzativi delle autorità, fortemente intrusivi sulle singole scelte di gestione, sono fortemente diminuiti; sono state introdotte regole che impongono la creazione di presidi patrimoniali atti a proteggere l’attività bancaria dai rischi tipici. Questi ultimi tipi di controllo non pongono vincoli assoluti all’esercizio dell’attività, ma impongono alle banche che vogliono espandere l’attività, in particolare quella che presenta un maggior grado di rischio, di aumentare il capitale, ossia trovare investitori disposti a sottoscrivere le loro azioni.

L’ordinamento sancì in maniera espressa il cambiamento nella concezione della banca nel 1985, recependo la prima direttiva comunitaria di coordinamento in materia bancaria (dir. 77/780/CE). L’art. 1 d.P.R. 27.6.1985, n. 350 affermò la natura imprenditoriale dell’attività bancaria, a prescindere dalla circostanza che si trattasse di iniziativa di un soggetto pubblico o privato. Anche la Cassazione riconobbe che «sono venuti meno i principali indici rivelatori dell’immanenza dell’interesse pubblico nell’ordinario esercizio del credito e che, conseguentemente, la normale attività bancaria resta fuori dall’ambito dell’art. 358 n. 2, c.p.». L’attività bancaria, quindi, è stata ricondotta nella sfera privatistica anche per quanto riguarda la configurazione dei reati (Cass. pen., 23.5.1987).

Al riconoscimento della natura imprenditoriale delle banche ha contribuito la ristrutturazione degli enti pubblici creditizi, avviata nel 1990 con la c.d. legge Amato (l. 30.7.1990, n. 218 e d.lgs. 20.11.1990, n. 356), che ha condotto all’assunzione generalizzata della forma della società per azioni. La maggioranza delle ristrutturazioni è avvenuta attraverso il conferimento dell’azienda bancaria a una s.p.a., lasciando titolare del pacchetto di controllo un soggetto denominato dalla stessa legge «ente pubblico conferente» (c.d. fondazione bancaria). La fondazione avrebbe dovuto detenere la partecipazione bancaria a meri fini di reddito destinando i dividendi ricevuti dalla banca al perseguimento di finalità pubbliche, definite dal proprio statuto; in alcuni casi, la fondazione è rimasta l’unico socio, attraverso una procedura di costituzione per atto unilaterale della s.p.a. La riforma non ha comportato l’immediata privatizzazione. Le fondazioni bancarie sono rimaste per lungo tempo proprietarie dei pacchetti di maggioranza delle principali banche italiane. Per le fondazioni bancarie proprietarie dei pacchetti di azioni rivenienti dalla ristrutturazione delle banche pubbliche, soltanto il d.lgs. 17.5.1999, n. 153, di attuazione della l. 23.12.1998, n. 461, ha sancito l’obbligo di cedere, entro un determinato periodo di tempo, le partecipazioni di controllo in banche. In attuazione di questa legge è iniziato un lento processo, con fasi alterne, di dismissione da parte delle fondazioni delle partecipazioni di controllo nelle banche.

Le banche in forma di società per azioni, come il Credito Italiano e la Banca Commerciale Italiana, erano state già privatizzate attraverso la dismissione della partecipazione di controllo da parte dell’IRI negli anni 1993-1994.

Oggi il sistema bancario italiano è quasi completamente privato. Non si riscontrano partecipazioni di Stato ed enti pubblici nelle banche quotate. Anche le fondazioni bancarie, della cui natura pubblica o privata si è a lungo discusso (C. cost., 29.9.2003, nn. 300 e 301), non hanno più partecipazioni di controllo nelle banche italiane.

Di conseguenza, si potrebbe pensare che oggi non sia più dubitabile la natura imprenditoriale dell’attività bancaria. Nonostante ciò nel dibattito, non solo giornalistico, ma anche giuridico, il tema della natura dell’attività bancaria ritorna ciclicamente.

La recente crisi finanziaria globale, che ha comportato l’utilizzo di ingenti risorse pubbliche per il salvataggio delle banche, ha riacceso il dibattito sul punto, soprattutto a causa dell’introduzione in Europa, e in altri paesi, di regole speciali sulle crisi bancarie (dir. 2014/59/UE del 15.5.2014). Le nuove regole riconoscono che le banche svolgono funzioni che sono critiche per il buon funzionamento delle economie di mercato, come, in primo luogo, il finanziamento delle attività economiche: per questo motivo devono essere sottratte alle regole fallimentari ordinarie. Al fine di limitare l’utilizzo di risorse finanziarie pubbliche, le nuove procedure di gestione delle crisi bancarie, definite di «risoluzione», prevedono che il costo della crisi debba essere pagato in primo luogo da azionisti e creditori delle banche (c.d. bail-in). In particolare, è previsto che autorità pubbliche possono decidere di ridurre il valore di azioni e obbligazioni emesse da banche ovvero convertire le obbligazioni in azioni nell’ambito dell’attuazione di una procedura di risoluzione delle banche in dissesto. La possibilità che il valore delle azioni si riduca in attuazione di una decisione di un’autorità amministrativa comporta che la posizione giuridica degli azionisti di banche non sia del tutto assimilabile a quella degli azionisti di una società che esercita un’altra attività economica.

Il nuovo impianto della legislazione speciale delle banche in materia di supervisione pubblica e di gestione delle crisi presenta importanti differenze con il sistema normativo stabilito con la legge bancaria del 1936. Fino alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, il problema che lo Stato aveva a cuore, testimoniato anche dalle discussioni dell’Assemblea costituente per la redazione dell’art. 47 della Costituzione, era soprattutto quello di far sì che affluissero finanziamenti adeguati per lo sviluppo del paese, in particolare nei settori economici e nelle aree territoriali più bisognose. Si ipotizzava un «governo del credito» in cui l’attività bancaria dovesse essere indirizzata e controllata per favorire la crescita del nostro sistema economico. L’approccio era coerente con l’art. 41 della stessa Costituzione che, pur affermando la libertà di iniziativa economica, sancisce che la legge può determinare programmi e controlli opportuni affinché l’iniziativa economica, sia pubblica, sia privata, possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. La legge bancaria del 1936, con i forti poteri discrezionali attribuiti ad autorità pubbliche, consentiva di funzionalizzare l’iniziativa economica in campo creditizio.

Oggi, peraltro, l’esercizio dell’attività bancaria non è indirizzato dalla mano pubblica a fini sociali. Le società bancarie hanno come finalità il profitto, al pari di ogni altra impresa. La permanenza di limiti nelle scelte su come gestire l’impresa bancaria e di limiti agli interessi dei privati che investono in quest’attività d’impresa, possono essere letti come frutto del bilanciamento fra la protezione di interessi della collettività, come quello del risparmio (art. 47, co. 1, Cost.), e quello della libertà d’impresa (art. 41 Cost.) o quello del diritto di proprietà (art. 43 Cost.) che hanno tutti rilievo costituzionale.

In conclusione, i controlli amministrativi e le regole speciali di gestione delle crisi delle banche, legati alla rilevanza di interessi pubblici in materia, è compatibile con il riconoscimento della natura imprenditoriale dell’attività bancaria, perché l’esercizio dell’attività non è finalizzato al perseguimento di obiettivi pubblici.

Le società bancarie

L’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria può essere rilasciata solo alle banche costituite nella forma di società per azioni e di società cooperativa per azioni a responsabilità limitata (art. 14 t.u.b.). Le banche in forma cooperativa sono riconducibili a due modelli, banche popolari e banche di credito cooperativo (b.c.c.), che hanno una speciale disciplina nel t.u.b., anche sul piano societario.

La regolamentazione bancaria influenza gli assetti organizzativi societari per la realizzazione di finalità pubbliche. Le indicazioni di vigilanza, pur limitando l’autonomia statutaria, non incidono sugli elementi essenziali del tipo della società per azioni delineato dal codice civile. La s.p.a. bancaria è soggetta a regole speciali per quanto attiene al capitale minimo iniziale, ai soggetti che possono far parte degli organi sociali, ai soggetti che possono acquisire la qualità di azionisti, alla corporate governance e alla remunerazione dei manager.

Il capitale minimo iniziale è più elevato di quello previsto in generale per le s.p.a. dal codice civile. Tutti gli esponenti aziendali, fra cui in primo luogo i membri degli organi sociali, devono possedere requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza. L’acquisto di una quota significativa del capitale di una s.p.a. bancaria non è libero, ma soggetto ad autorizzazione volta a verificare la sussistenza in capo all’acquirente di requisiti di qualità, fra cui l’onorabilità e la solidità finanziaria. Le banche possono adottare tutti i modelli di amministrazione e controllo previsti dal codice civile per la s.p.a.: il tradizionale, il dualistico, il monistico. Le disposizioni di vigilanza, peraltro, limitano l’autonomia statutaria delle banche in materia di corporate governance rispetto a quanto consentito dal codice civile. Le norme bancarie in materia di organi societari prescrivono: la distinzione netta fra la funzione di supervisione strategica e quella di gestione che devono essere attribuite a organi diversi per favorire la dialettica interna; il rafforzamento dell’autonomia dell’organo preposto al controllo interno, in quanto referente dell’organo di vigilanza; l’aumento delle regole e dei presidi che consentano ai membri degli organi di svolgere i loro compiti in maniera efficace e sulla base di informazioni adeguate. Le remunerazioni dei manager bancari sono soggette a limiti, in particolare nella parte variabile, volti a evitare un eccessivo accrescimento dei rischi.

Le banche popolari, intermediari presenti nel nostro ordinamento dalla fine dell’Ottocento, sono banche in forma di cooperativa, caratterizzate dal «principio democratico» della gestione («una testa un voto»), dai limiti al possesso azionario, da un numero minimo di soci e da clausole di gradimento per l’ammissione a socio. Esse non rientrano fra le società cooperative a mutualità prevalente secondo le disposizioni del codice civile. Si tratta di banche da sempre escluse dall’ambito di applicazione delle leggi d’incentivazione della cooperazione. Il t.u.b., fin dall’origine, ha previsto alcune disposizioni speciali per le banche popolari, in particolare per quanto riguarda il valore minimo delle azioni e soci. Nel 2015 il legislatore ha limitato la possibilità di adottare il modello di banca popolare ai soli intermediari il cui attivo non superi il valore di 8 miliardi di euro.

Le b.c.c., eredi della tradizione delle casse rurali e artigiane, sono banche cooperative a mutualità prevalente e, pertanto, hanno sempre beneficiato delle leggi di favore nei confronti della cooperazione. Le b.c.c. operano, sulla base di precise disposizioni normative, prevalentemente nei confronti dei soci. Il t.u.b. prevede alcune regole organizzative speciali riguardanti il valore delle azioni, i soci, l’operatività (limitata territorialmente), gli utili, le trasformazioni e le fusioni. Una riforma legislativa del 2016 ha imposto limiti all’esercizio dell’attività bancaria in forma di b.c.c.; in particolare, il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività è condizionato all’adesione a un gruppo cooperativo disciplinato puntualmente dalla legge.

Fonti normative

Cost., artt. 41, 43, 47; cod. civ., artt. 1834, 1842, 1852, 2195; d.lgs. 1.9.1993, n. 385, artt. 1, 10, 11, 13, 14, 131.

Bibliografia essenziale

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