IMPIEGO

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1992)

IMPIEGO

Dante Cosi

(XVIII, p. 921; App. I, p. 722; III, I, p. 848; App. IV, II, p. 162)

Impiego pubblico. - L'ordinamento del pubblico i. ha subito radicali riforme in conseguenza degli effetti della l. 11 luglio 1980 n. 312, che ha introdotto le "qualifiche funzionali" e i "livelli retributivo-funzionali"; nonché della l. quadro sul pubblico i. 29 marzo 1983 n. 93, che ha generalizzato la "contrattazione collettiva" come fonte regolatrice del trattamento retributivo e dei carichi di lavoro per il personale civile dello stato, delle autonomie regionali e locali e degli enti pubblici non economici.

Il principio del pubblico concorso per l'accesso ai pubblici i. − principio statuito come regola generale dall'art. 97, ultimo comma della Costituzione, e realizzabile attraverso procedure oggettive per la valutazione del merito − viene, successivamente a tali leggi, limitato nella sua applicazione ai soli dipendenti pubblici da inquadrare in livelli retributivo-funzionali per i quali sia richiesto un titolo di studio superiore a quello della scuola d'obbligo (art. 16 della l. 28 febbraio 1987 n. 57, parzialmente modificato dall'art. 4 della l. 20 maggio 1988). Per i livelli retributivo-funzionali inferiori il reclutamento è affidato agli uffici periferici del ministero del Lavoro, che, sulla base dei criteri delle comuni liste di collocamento, formano le graduatorie e selezionano gli aspiranti ai posti offerti dalle singole amministrazioni mediante bandi di offerta di lavoro. Peraltro, un'altra forma diversificata di reclutamento − i corsi-concorsi di preparazione realizzati dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione − era già stata istituita dall'art. 7, comma 7, della l. 312 del 1980, per i funzionari della settima e dell'ottava qualifica funzionale del personale statale.

Con la l. 312 del 1980 scompare, soprattutto, l'assetto che faceva perno sulle ''carriere'', intese come successioni di qualifiche ordinate gerarchicamente per gradi e lungo le quali si doveva sviluppare, per selezione o per anzianità, l'avanzamento, a un tempo giuridico ed economico, dei singoli dipendenti. A ciascuna carriera (quattro: direttiva, di concetto, esecutiva, ausiliaria) corrispondevano, in tale sistema verticale, mansioni legislativamente disciplinate e, sia pur genericamente, definite in correlazione a distinti livelli di istruzione richiesti per l'ammissione in ruolo. Il sopravvenuto modello della ''qualifica funzionale'' fissa, viceversa, un certo numero di suddivisioni orizzontali − i ''livelli retributivo-funzionali''− inizialmente in numero di otto, esclusa la dirigenza, ciascuno corrispondente a una fascia di retribuzione; e a essi fa corrispondere altrettante qualifiche raggruppanti molteplici ''profili professionali'', pariordinati, ma a contenuto mansionale specifico e differenziato. Si realizza, quindi, un nuovo inquadramento dei pubblici dipendenti civili, non più conforme, per ciascuno, al livello di istruzione posseduto, all'anzianità di servizio maturata e alle selezioni superate (sistema della carriera gerarchica), bensì alle mansioni concretamente espletate nell'organizzazione.

L'attuazione, con la normativa contrattuale collettiva, del nuovo assetto − che non consente più a singoli impiegati, quando continuino a prestare le stesse mansioni, avanzamenti di posizione giuridica, per merito o per anzianità − provoca, tuttavia, ripetutamente, progressioni e ''scivoli'' in qualifiche superiori di interi scaglioni del personale; vuoi con la riclassificazione di determinati profili professionali, vuoi con la dilatazione della gamma dei livelli, sino e oltre il numero di dieci. Le qualifiche funzionali assumono, ben presto, il valore di una sommaria e appiattita scala retributiva del personale, meno dettagliata e progressiva di una parametrazione per coefficienti.

La legge quadro sul pubblico i., così, recepisce e amplifica lo statico sistema delle qualifiche funzionali, senza, peraltro, enunciare nuovi principi sostanziali che innovino la struttura del rapporto d'i. pubblico, quale è sancita nel testo unico 10 gennaio 1957 n. 3 (statuto degli impiegati civili dello stato). Soli obiettivi della legge quadro sono, in buona sostanza: il riparto delle materie tra fonte legislativa (e, subordinatamente, regolamentare) e fonte di negoziazione collettiva; l'uniformazione delle procedure e dei tempi della contrattazione con i sindacati; la definizione delle materie rimesse agli accordi di comparto e di quelle riservate agli accordi intercompartimentali. Quanto alla ripartizione della disciplina del pubblico i. fra fonte unilaterale (legge e regolamenti) e fonte negoziale (accordi collettivi), con la l. 93 del 1983 permangono nella riserva di legge: l'organizzazione e le dotazioni organiche degli uffici, la responsabilità e la disciplina dei dipendenti, i requisiti per l'assunzione, i criteri per la determinazione di qualifiche e profili professionali. Diventano, invece, di competenza della negoziazione sindacale: il trattamento retributivo di attività, i criteri di organizzazione del lavoro e di disciplina dei carichi di lavoro e delle misure volte ad assicurare l'efficienza degli uffici.

Non mancano materie a competenza ripartita tra legge e accordo collettivo (mobilità del personale, formazione professionale, articolazione dell'orario di lavoro, ecc.); e, soprattutto, resta vaga la differenza tra i principi fondamentali di organizzazione degli uffici, serbati alla fonte unilaterale pubblica (come del resto impone l'art. 97 della Costituzione: "i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge"), e i criteri di ''organizzazione del lavoro'', affidati dalla legge quadro alla contrattazione con i sindacati.

Per quanto riguarda la natura degli atti di approvazione ed esecuzione degli accordi sindacali disciplinati dalla l. 93 del 1983, la giurisprudenza costituzionale, ribadendo l'orientamento precedentemente enunciato (sentenza 21 del 1980) circa gli accordi del parastato previsti dalla l. 70 del 1975, ha affermato che non hanno natura di atto avente forza di legge (sentenza 255 del 1988); ma che, tuttavia, vincolano la potestà regolamentare degli enti pubblici e la stessa autonomia costituzionalmente garantita degli enti locali territoriali, cui peraltro residua un "certo margine di discrezionalità nell'attuazione della disciplina per accordi" (sentenza 255 del 1988). Quanto, invece, al vincolo derivante dagli accordi collettivi nazionali nei confronti delle regioni, la Corte costituzionale ha stabilito (sentenza 219 del 1984) che la loro esecuzione, con legge regionale, non è un atto di formale ricezione dei contenuti sostanziali, ma postula l'adattamento delle clausole negoziali alle esigenze proprie dell'organizzazione amministrativa regionale e la verifica delle compatibilità finanziarie delle nuove spese rispetto al bilancio regionale. La giurisprudenza costituzionale motiva, peraltro, l'efficacia della contrattazione collettiva stipulata tramite delegazioni pubbliche e sindacali, nei confronti degli organi politici delle regioni e delle autonomie locali e degli organi di amministrazione degli enti, con il fine di ricondurre a omogeneità i trattamenti del personale; principio, questo, che è assunto dalla legge quadro con valore di "norma fondamentale" (sentenza 407 del 1989) per essere perseguito attraverso l'esclusiva definizione negoziale delle equipollenze mansionali e delle correlazioni tra comparti e sub-comparti, nonché attraverso la fissazione convenzionale dei tetti massimi e dei meccanismi collaterali di incentivazione.

Con la legge quadro, perciò, l'intera dinamica delle posizioni professionali e retributive del settore pubblico è condotta a una sorta di centralizzazione convenzionale, cui è sostanzialmente affidato il compito di procedere alla distribuzione del ''monte'' degli aumenti salariali consentiti dal governo per il periodo (triennale) di vigenza degli accordi, in relazione alle compatibilità globali della finanza pubblica e della finanza di comparto. È noto, infatti, che, per le dimensioni raggiunte dall'organizzazione pubblica nel suo complesso, le erogazioni pubbliche a cadenza mensile connesse al rapporto di i. pubblico (nonché le pensioni degli ex impiegati pubblici) influenzano sensibilmente non solo il bilancio dello stato e quelli del cosiddetto "settore pubblico allargato", ma anche i grandi aggregati della stessa economia nazionale. Sotto questo riguardo, il sistema della legge quadro dà prevalenza, nella ponderazione degli interessi pubblici in gioco, agli interessi finanziari di copertura della spesa e alla funzione redistributiva delle risorse, esercitata d'intesa con le centrali sindacali, rispetto agli interessi funzionali specifici delle varie branche di intervento dei pubblici poteri; e, in ultima istanza, rispetto alle stesse esigenze dei cittadini amministrati e degli utenti.

Il carattere di risorsa assolutamente vincolata che, in tal modo, assumono i pubblici dipendenti rispetto all'apparato cui sono assegnati e ai compiti ivi richiesti, fa sì che gli amministratori di una funzione o di un servizio pubblico abbiano, ormai, la disponibilità, nei confronti del proprio personale, solo di alcuni dei possibili strumenti di gestione e di combinazione razionale con le altre risorse materiali e tecnologiche utilizzabili per il conseguimento di risultati.

La crisi di tale sistema del pubblico i. − costruito e sviluppato negli anni Ottanta attorno alla gabbia uniformatrice e assai poco incentivante dei livelli retributivo-funzionali, attorno alla contrattazione collettiva centralizzata e articolata in comparti (otto, fissati con d.P.R. 5 marzo 1986 n. 68: ministeri; enti pubblici non economici nazionali; regioni ed enti locali; servizio sanitario nazionale; istituzioni ed enti di ricerca e sperimentazione; scuola; università; aziende e amministrazioni statali a ordinamento autonomo) e attorno ai vincoli di compatibilità finanziaria commisurata soltanto alle grandezze economiche globali − è, agli inizi degli anni Novanta, pienamente manifesta. Come pure evidenti sono i fenomeni della ''fuga'' dalla legge quadro sul pubblico i. di vari enti e categorie del personale, per effetto di apposite leggi speciali, ovvero dell'introduzione, in taluni apparati, di parziali deroghe o varianti al sistema dei livelli retributivofunzionali, in nome del miglioramento della funzionalità settoriale e dell'incentivazione individuale. D'altronde sin dall'inizio erano esclusi dal sistema dei livelli retributivo-funzionali e della disciplina della legge quadro, i dirigenti dello stato e degli enti pubblici, i professori universitari, gli ufficiali superiori delle forze armate e i magistrati, nonché i dipendenti degli organi costituzionali e di alcuni particolari enti pubblici non economici e le autorità nazionali.

Le soluzioni di riforma, adottate dal governo con il disegno di legge delega per la razionalizzazione e la revisione della disciplina del pubblico i. e approvate dal Senato nell'autunno 1992, sono dirette nel senso della cosiddetta ''privatizzazione''. Intendono, infatti: applicare gradualmente a tutti i dipendenti che non esercitano funzioni pubbliche la disciplina civilistica del rapporto di lavoro subordinato (con la conseguente rimozione delle garanzie occupazionali proprie dei ''posti'' di lavoro pubblico); regolare il rapporto stesso mediante contrattazione collettiva (''contrattualizzazione piena''); eliminare la tutela giurisdizionale esclusiva del giudice amministrativo; mantenere il solo potere pubblico di controllo finanziario sulla spesa incrementale complessiva.

L'avviata privatizzazione dei rapporti di i. pubblico si muove parallelamente alla vicenda della ''depubblicizzazione'' di quegli importanti servizi pubblici di rete che, già direttamente gestiti dallo stato in forma di ente pubblico o di azienda autonoma (Ferrovie dello stato, Monopoli di stato, Azienda di stato dei servizi telefonici), sono stati, di recente, trasformati in società per azioni, con il D.L. 386 del 1991 e il D.L. 333 del 1992.

La privatizzazione, così progettata, degli incaricati di pubblico servizio, risulta, nonostante tutto, meno significativa − per la sopravvivenza di un'efficiente ''burocrazia'' pubblica professionale − della già avvenuta frammentazione dell'ex carriera direttiva tra qualifiche funzionali apicali e qualifiche inserite nella carriera della ''dirigenza'', nonché della massiccia nomina governativa, a posti di dirigente generale, di ''esperti'', estranei all'amministrazione e fiduciari del ceto politico.

Sembra, peraltro, ipotizzabile che − per obiettive esigenze di funzionalità delle tradizionali funzioni dello stato e per la resistenza di taluni ''corpi'' burocratici − la progettata revisione non sia, alla fine, così radicale e generalizzata; e che, quindi, la regolamentazione dei dipendenti pubblici addetti a funzioni e servizi mantenuti a struttura pubblica possa restare, nel suo nucleo, sotto il regime del rapporto di i. pubblico; con un più definito quadro di riferimento delle posizioni giuridiche, delle progressioni e dei parametri di trattamento economico, e con il necessario adattamento tanto alle difformi realtà funzionali delle varie aree dell'amministrazione quanto, in esse, dei diversificati tipi di attribuzioni e di responsabilità degli impiegati.

Del resto, le stesse disposizioni costituzionali che si riferiscono ai "funzionari" delle pubbliche amministrazioni (art. 97, secondo comma, Costituzione), e ai "pubblici impiegati" (art. 98, primo comma, Costituzione) non sembrano consentire che il rapporto di i. pubblico sia, in futuro, limitato a magistrati, militari e appartenenti ai corpi di polizia e ai dirigenti pubblici. All'interno degli apparati pubblici preposti all'esercizio delle funzioni di amministrazione autoritativa e regolatrice o all'erogazione dei servizi fondamentali, quali l'istruzione e la sanità, non sembrano, infatti, concepibili carriere riferite solo ai dipendenti chiamati a manifestare all'esterno la volontà della pubblica amministrazione, o a supportare, con funzioni di staff, gli organi politici, ovvero solo carriere tecniche per attività corrispondenti alle libere professioni. Come in altri sistemi amministrativi di stati stranieri o di organismi internazionali dovrebbero, probabilmente, persistere, nell'interesse pubblico del buon andamento e dell'imparzialità dell'Amministrazione (artt. 97 e 98 Cost.), altre minori, ma egualmente indispensabili, figure burocratiche.

Bibl.: G. Paleologo, Profili di pubblico impiego. Principi generali, dirigenza statale, contrattazione collettiva, Milano 1980; A. Orsi Battaglini, Gli accordi sindacali nel pubblico impiego, ivi 1982; D. Cosi, Impiego pubblico, in Dizionario Amministrativo, a cura di G. Guarino, ivi 1983, pp. 927-1019; L. Giampaolino, Commento alla legge n.93 del 1983, ivi 1984; P. Colombo, L'ordinamento del pubblico impiego, Roma 1985; M. Rusciano, T. Treu, La legge quadro sul pubblico impiego, Padova 1985; L. Zoppoli, Contrattazione e delegificazione nel pubblico impiego, Napoli 1986; G. Cecora, I contratti del pubblico impiego. Comparti, inquadramento, organizzazione del lavoro, retribuzioni, Roma 1988; Il rapporto di pubblico impiego nella legislazione e nella giurisprudenza, a cura di R. Marone, 6 voll., Napoli 1988-91; S. Raimondi, Dirigenza, in Enciclopedia Giuridica Treccani, xi, Roma 1989; A. Mantero, Impiego pubblico, ibid., xvi, ivi 1989; C. D'Orta, Il pubblico impiego. Ordinamento, legge quadro, giurisprudenza e linee di riforma, ivi 1989; G. Cecora, Pubblico impiego, struttura e retribuzioni, Bologna 1990; Il pubblico impiego nella giurisprudenza, a cura di P. Falcone e A. Pozzi, Milano 1990; Pubblico impiego - Le ragioni di una riforma, a cura di S. Cassese, C. Dell'Aringa e M.T. Salvemini, Roma 1991; S. Terranova, Il rapporto di pubblico impiego, Milano 1991; P. Virga, Il pubblico impiego, ivi 19913.

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