IMPERIALISMO

Enciclopedia Italiana (1933)

IMPERIALISMO

Felice BATTAGLIA
Roberto MICHELS

È una parola il cui sviluppo è in funzione della storia più recente. Se la s'intende, da un punto di vista di politica interna, in quanto potenziamento dell'idea di sovranità, significa la prassi d'un governo dispotico fondato sulla forza (imperator, monarca assoluto); se sotto l'aspetto di politica estera, volontà di estendere la dominazione su territorî e popoli sempre più grandi. In questo senso da Alessandro a Cesare, da Carlomagno a Federico II, da Carlo V a Napoleone I, la storia mostra il faticoso formarsi e disfarsi d'imperi, caratterizzati dal fatto che la tendenza al dominio universale che li genera è del tutto personale. Nell'un significato e nell'altro (governo dispotico, dominio universale) non coglie il fenomeno che con la parola oggi si designa, in quanto volontà d'una nazione che svolge una politica mondiale e vuole imporsi nel mondo come un tutto unitario e organico. Genericamente non è che un aspetto del nazionalismo (v.). Perciò non è da credere, come ritengono alcuni, che si sia cominciato a parlare d'imperialismo in relazione ai regni dei due Napoleoni, poiché esso acquista un senso proprio in relazione allo svolgersi dei varî nazionalismi nell'ultimo ventennio del secolo scorso, e implica una politica nazionale e non personale.

Il significato sopra accennato è ancora troppo generico e si illumina solo con l'esame della sua genesi storica. L'industrialismo dell'Ottocento permise all'Inghilterra uno sviluppo economico senza precedenti, caratterizzato dalla conquista mercantile di moltissimi paesi. Questa, dapprima incontrastata o quasi, fondata sul dogma del libero scambio, cominciò poi a trovare resistenza da parte degli stati preoccupati per la concorrenza, che si difesero con la protezione accordata ai prodotti nazionali. Nell'Inghilterra, colpita nei suoi più vitali interessi, cominciò ad agitarsi l'idea che il primato economico conquistato dovesse difendersi e precisamente che il liberismo economico finora professato e praticato andasse temperato. Dalla National Fair Trade League, costituita nel 1881 dagli agricoltori inglesi per ottenere una modificazione nella politica doganale, alla Imperial Federation League, fondata nel 1884, è una sola tendenza che opera, pur dirompendo in varî aspetti. Joseph Chamberlain (v.) fu l'anima del movimento che noi diremo imperialista, propriamente ai suoi tempi "unionista". Si chiedevano dazî sulle materie prime e sui manufatti importati da paesi stranieri, che praticassero una politica protezionistica ai danni dell'Inghilterra. Di contro si caldeggiavano diretti accordi tra il Regno Unito e le colonie per assicurarsi rispettivamente tariffe preferenziali. Infine nell'aspetto politico si fece valere l'idea di accentuare i legami tra la madre patria e le sue terre, non solo nel senso del libero scambio, o meglio d'una politica preferenziale tra le varie parti dell'Impero britannico, ma anche nel senso di assicurare a questo un'unità organica di difesa. Come si vede, nella sua prima forma storica, l'imperialismo non è che un momento della politica coloniale inglese svoltosi di riflesso alle difficoltà della sua politica di penetrazione economica mondiale. Quindi l'imperialismo si definisce in una significazione propriamente economica, in quanto connesso all'idea d'una politica di potenza e d'espansione economica nazionale. È questo il significato che oggi si può dire eminente. Gli altri non sono che suoi derivati, per quanto talvolta superino il primo e si manifestino in forme autonome.

Ciò appare soprattutto se si riguardi l'evoluzione che la politica coloniale ha assunto nel tempo di cui diciamo. Il Kolonialverein, per dare un es., fondato in Germania nel 1882, patrocinava inizialmente solo la fondazione di stazioni di commercio che assicurassero la conquista di mercati nuovi per dare sfogo alla sovraproduzione dell'industria tedesca, ma il governo ne trasse motivo per creare un impero coloniale vero e proprio. La Weltpolitk, che è la formula dell'imperialismo germanico (Weltimperium) nasceva dall'economia, ma si svolgeva su un piano autonomo.

L'originario significato economico dell'imperialismo contemporaneo, si manifesta altresi nella considerazione che di esso ha fatto il marxismo. L'imperialismo non è che un fenomeno capitalistico. Dallo stesso modo di produzione capitalistico scaturiscono gl'impulsi all'espansione imperiale, la concorrenza tra i capitali dei singoli stati, la lotta per la conquista di mercati nuovi per dar sfogo alla sovraproduzione. Se l'economia è il sostrato delle sovrastrutture politiche, l'imperialismo, la volontà di potenza delle nazioni non può non essere materiata d'economia, e precisamente d'economia capitalistica. Gl'interessi dell'imperialismo sono del capitale e non del proletariato. La crisi dell'imperialismo sarà la crisi del mondo capitalistico, l'avvento del proletariato. Concetti questi, che, se già appaiono nel Manifesto dei comunisti, alimentano tutta la prassi politica del marxismo.

Tuttavia si può dire che uno sforzo di superare la pura considerazione economica e di spiegare il fenomeno alla stregua di valori etici, creando per esso una dottrina politica, non sia mancato. In tale aspetto, imperialismo denota un atteggiamento del nazionalismo, un'idea nazionalista. Ci riferiamo soprattutto al nazionalismo italiano. Poiché il nazionalismo considera la nazione (la maggiore costruzione di grandi collettività che sia riposta nella specie, oltre la quale non si può andare) come potenza, ne viene affermata "la necessità della lotta internazionale, perché la nazione possa prendere il suo posto, economico e morale, nel mondo". L'imperialismo è la naturale conseguenza del nazionalismo; la guerra, la legge di crescenza dei popoli, in quanto tendono al massimo dello sviluppo. Dottrina che vuol affermare valori etici, se impero vuol dire coscienza imperialistica, educazione imperialistica, prima che prassi imperialistica o conquista in atto. Si vedano le pagine di E. Corradini (Dall'ombra della vita, Napoli 1908, ora in Il nazionalismo italiano, Milano 1914, p. 17 segg.) in cui l'imperialismo italiano ha trovato la sua prima vigorosa ed eloquente formulazione.

A una critica dell'imperialismo abbiamo accennato, la marxistica, ma questa svolge la sua critica, opposta e contraria, nella critica dell'economia come realtà del mondo morale e politico. Non sono mancate altre critiche, in generale sbagliate poiché nate dalla contaminazione di fenomeno e idea. Occorre premettere, per porre nel suo giusto posto la questione, che la trattazione ha rivelato come imperialismo non sia un concetto che qualifichi universalmente una esperienza assoluta di vita, epperò non ci si trovi dinnanzi a un valore pratico che dia legge alla storia, a un supremo principio etico, ma a un complesso di fenomeni che si possono spiegare nel modo più diverso. L'indagine si svolge quindi tutta su un piano storico e in esso attende suoi chiarimenti. Come erra chi condanna l'imperialismo in nome dell'ideologia pacifista, erra chi vuol fare dell'imperialismo un valore etico, legge delle nazioni, poiché, se la vita delle nazioni vuol qualificarsi in sede etica, incontra anch'essa le leggi e i limiti che definiscono l'attività pratica dei singoli e delle formazioni associative minori. In ogni caso si oppone la critica comune a ogni etica che voglia fondarsi sulla forza.

Il vero è che l'imperialismo è un fenomeno storico connesso a un momento della vita storica dei popoli, implica una volontà di potenza che scaturisce dalle tendenze d'espansione economica, forme particolari di politica coloniale e doganale, e via dicendo. Un insieme di fatti, di aspetti pratici che mal si elevano all'idea e attendono un pratico intendimento e non più. La dottrina cui esso ha dato luogo, se si può parlare di dottrina, non ha che un significato prammatico, programma di partiti, nella superiore dialettica dello stato, che li adatta ai suoi fini superiori, questi veramente etici. Ove il valore è lo stato, l'imperialismo è una sua bandiera di combattimento. La coscienza etica è quella statale, che sorge sulla naturalità di quella nazionale, sull'economicità dei programmi imperialistici.

Imperialismo economico.

La tesi di chi opina doversi l'imperialismo economico moderno esplicare sempre sopra paesi nuovi e scarsamente popolati, è inesatta; è esatta invece quella che l'impulso imperialista nasca oggi più facilmente nei paesi di forte sviluppo industriale, saturi o di beni prodotti o di capitali o di popolazione, e capaci d'imporre le loro leggi, con la forza, ad altri popoli più deboli e per lo più rozzi, benché talora più vecchi e più civili, ma di una civiltà meno vigorosa, meno tecnica e guerriera.

L'imperialismo implica sempre un dominio politico, se non proprio l'annessione giuridica di nuove terre, e non può chiamarsi imperialismo nel senso esatto del termine la mera espansione economica, anche se raggiunta con mezzi quasi violenti (dumping) oppure con trattati di commercio imposti al nemico dopo una guerra vittoriosa.

Secondo i capisaldi dell'imperialismo economico quali erano stati delineati da Marx e da Engels nel Manifesto comunista pubblicato nel gennaio 1848, la borghesia capitalistica, spinta dal bisogno di sbocchi per le proprie merci, percorre l'orbe terrestre in tutti i sensi e si fissa ovunque le convenga. Ma il vecchio mondo è diventato oramai troppo angusto e per superare la crisi di sovraproduzione, l'industria è necessariamente spinta alla ricerca affannosa di nuovi mercati di sbocco; ricerca che si svolge fra sempre maggiori difficoltà. Sull'osservazione di questo fenomeno Marx fonda, come è noto, la sua teoria detta catastrofica, la quale prevede l'annientamento dell'odierna società capitalistica e il subentrante trionfo della società socialistica. Questa previsione si dovrebbe storicamente verificare, secondo Marx, allorquando, trovato e sfruttato l'ultimo sbocco, l'ultima crisi industriale risultasse ormai non più superabile.

Quando l'imperialismo economico conduce alla guerra, esso si avvantaggia degli effetti immediati di questa. Giacché alimenta le industrie belliche e fa scemare la disoccupazione operaia, sebbene poi dia luogo, a guerra finita, a nuova sovraproduzione, a nuove crisi di disoccupazione. La richiesta dei mezzi che una tale politica implica per la sua precisa attuazione, e anche per il suo mantenimento a pace conclusa (perché, sotto il riguardo finanziario-statale, le colonie sono sempre passive, nel loro primo periodo), si ripercuote sempre sulla politica finanziaria, e massime sul livello delle imposte indirette, e viene quindi a gravare sui varî ordini di provento del lavoro, con tendenza fatalmente menomatrice. Né si può a priori negare che i forti guadagni che dalle imprese imperialistiche aventi esito felice si possono ricavare, concernano di regola maggiormente i saggi di profitto che non saggi d'altra provenienza e tendano quindi a differenziare vieppiù i redditi spettanti alle varie categorie sociali della nazione.

La forma più moderna dell'espansionismo è quella finanziaria la quale provvede all'esportazione del capitale disoccupato o mal occupato in patria, cioè procura al capitale una più elevata retribuzione. Essa nasce infatti dal bisogno del capitale di trovare nuovi e più proficui impieghi, massime sfruttando, nei paesi di più bassa civiltà le possibilità dell'impianto d'industrie estrattive e agricole e, nello stesso tempo, dell'impianto di nuovi mezzi di comunicazione e delle altre imprese d'utilità pubblica, resi a loro volta necessarî dai nuovi traffici che quel primo impiego di capitale ha determinato.

Per sfuggire alle strettoie della concorrenza europea, diminuendo i costi dei prodotti, si ricorre all'impiego di mano d'opera di colore. Inoltre l'esportazione imperialistica del capitale ha per effetto la diminuzione del capitale disponibile nella madre patria, e quindi la diminuzione della domanda sul mercato del lavoro nazionale. Il socialista Eisner è giunto fino a credere che si potesse caratterizzare l'imperialismo economico oltre-oceanico addirittura come un grandioso tentativo di serrata generale indetta dal capitale contro la classe operaia europea.

L'esportazione di capitali non richiede tuttavia soltanto del capitale variabile, ma anche del capitale costante. Epperò essa, presto o tardi, spesso in base a contratti di fornitura stipulati con gli enti esteri bisognosi di aiuti finanziarî sin dall'inizio, si trasforma parzialmente in esportazione di macchinario e di altri materiali prodotti in patria. In tal guisa l'esportazione di capitali non soltanto procura un profitto duplice al capitalismo esportatore, ma promuove anche un aumento della domanda sul mercato del lavoro nazionale.

È evidente, in realtà, che dall'imperialismo economico possono nascere, per le classi inferiori, vantaggi effettivi anche dal lato del consumo, qualora esso abbia per effetto l'incremento dell'importazione di materie di prima necessità, p. es., di cotone, di carne, di grano, il cui buon mercato faccia calare i prezzi locali aumentando correlativamente la capacità d'acquisto dei salarî e dei piccoli redditi.

Un caso speciale è costituito dalla scoperta d' oro, che nella storia dell'imperialismo economico è stata spesso l'obiettivo prediletto. Tale scoperta suol avere due effetti: il primo consiste in una grande prosperità sorta in seguito a una maggiore intensità ed estensione dell'industria; a esso tien dietro un secondo in cui il perfezionamento tecnico delle vie di comunicazione, nonché delle miniere stesse, e il buon mercato della mano d'opera indigena, fanno scemare il costo di produzione dell'oro, facendo così aumentare il prezzo delle merci nella madre-patria e gli stessi salarî.

Per i popoli indigeni sottomessi all'imperialismo economico, l'introduzione della tecnica europea significa livellamento e perdita della propria civiltà, o comunque del proprio genere di vita. Molte razze non sanno adattarsi al nuovo lavoro loro imposto, e presto decadono, incominciano a languire, e muoiono (Pellirosse, Australiani, Maori). In altri casi, in cui l'imperialismo europeo incontra razze indigene più forti e più adattabili, esso riesce a educarle, sia pure attraverso gravi sacrifici, al lavoro moderno, e le irrobustisce al punto di farle quintuplicare di numero, come è stato il caso dei Cafri sotto il dominio inglese. Anche l'Egitto e parte delle Indie trassero innegabilmente dall'imperialismo economico straniero cospicui vantaggi.

L'imperialismo demografico sorge quando in un paese si verifica il fenomeno di sovrapopolazione (sproporzione tra il numero degli abitanti e i mezzî ottenibili di sussistenza, che spinge i soprannumerarî alla emigrazione). Allora lo stato procura di crearsi un impero coloniale proprio, suscettibile di assorbire l'eccesso di popolazione, affinché questa rimanga parte integrante della patria (colonia di diretto dominio). Così si forma una corrente favorevole alle conquiste militari, come quella che in Italîa veniva chiamata da G. Pascoli e da E. Corradini l'"ímperialismo della povera gente".

In Inghilterra l'imperialismo ha preso, almeno in parte, un altro significato e assunto altre forme. Sulla fine del secolo scorso e nei primi anni dell'attuale, Joseph Chamberlain, fautore di quell'unione sudafricana sotto il dominio britannico che doveva portare al conflitto col Transvaal scoppiato nel 1899 e alla completa sottomissione dei Boeri, preconizzava l'idea che, per mantenere intatto l'Impero Britannico, occorreva creare vincoli economici più forti e far sì che le colonie autonome (i dominions), riunite sotto la forma di una federazione imperiale, desistessero dall'applicazione rigida del loro protezionismo e accordassero alle merci della madre patria dei trattamenti di favore. A sua volta l'Inghilterra stessa doveva dichiararsi pronta a rinunciare al libero scambio e alle dottrine della scuola detta di Manchester, passando a tassare i prodotti stranieri suscettibili di far concorrenza alle materie prime coloniali. In questa fase, l'imperialismo si riduce alla "stipulazione di rapporti commerciali più precisi fra paesi già politicamente uniti, o facenti parte di uno stesso aggregato politico" (Loria). Tuttavia all'Inghilterra non fanno difetto neppure le altre forme d'espansionismo. Il suo capitale emigra in misura cospicua per costruire ferrovie nell'America latina, canali in Egitto, porti in Cina. Pare che i suoi investimenti di capitale all'estero crescano più rapidamente dell'accumulazione capitalistica interna. Dal 1865 al 1898 i profitti del capitale inglese rimasto in Inghilterra si sono raddoppiati, mentre quelli del capitale inglese investito all'estero si sono quasi decuplicati.

L'imperialismo gemanico (da distinguersi logicamente dal pangermanesimo che ha radici linguistiche ed etniche e il cui obiettivo è l'espansione territoriale in Europa) confina col colonialismo. L'agente suo preponderante è indubbiamente politico e di prestigio. All'inizio del suo apparire (1882) sembrava causato pure da una forte nota demografica; sta però il fatto che i primordî della politica imperialistica tedesca in Africa e in Oceania stranamente coincisero con la eliminazione della sovrapopolazione in patria, e quindi dell'emigrazione, dimodoché il motivo demografico venne a far difetto nello stesso momento storico in cui la tendenza imperialistica prese il sopravvento.

L'imperialismo russo si rivolse ai paesi asiatici adiacenti e formò una più grande Russia, le cui radici furono principalmente demografiche ed economiche (materia prima). Per la Russia sovietica l'imperialismo asiatico riveste carattere sommamente integratore, e di surrogato per la perdita delle zone industriali subita nel 1916-18 e la difficoltà di procurarsi certe materie prime col commercio estero (indi la coltivazione del cotone nel Turkestan).

L'imperialismo francese è, naturalmente, privo di motivi demografici (la Francia ha compiuto, tuttavia, nella storia coloniale, due grandi sforzi demografici, nel Canada e nell'Algeria), ma riceve i suoi stimoli, oltre che dal vecchio tradizionalismo politico e psicologico, dall'industria e dalla finanza, assai più ardimentose nelle imprese coloniali che non nelle imprese francesi stesse.

In America, dalla guerra cubana (1897) in poi, gli Stati Uniti stanno svolgendo, in urto palese col cosiddetto principio di Monroe, un'accorta politica imperialistica, servendosi in parte di mezzi apertamente violenti, in parte anche di una penetrazione pacifica, per cui, nell'interesse dei trusts di petrolio e altri, varî stati latini dell'America Centrale hanno dovuto entrare nell'ambito preciso degl'interessi americani, di cui sono così diventati vassalli.

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