Illuministi Italiani: Riformatori Lombardi, Piemontesi, Toscani - Introduzione

I Classici Ricciardi: Introduzioni (1998)

Illuministi Italiani: Riformatori Lombardi, Piemontesi, Toscani - Introduzione

Franco Venturi

Riforma: questo il proposito che accomunò i piccoli ed attivi nuclei illuministi che in ogni centro d'Italia cominciarono a far sentire la loro voce quando in Europa volgeva ormai al termine e finalmente si chiuse la guerra dei Sette anni. Nel 1763 era finito l'ultimo grande conflitto dell'antico regime (e nella strategia delle sue battaglie, nei suoi riflessi coloniali ed imperiali, così come nelle passioni che aveva acceso, era sembrato talvolta presagire i prossimi conflitti delle rivoluzioni americana e francese). Tornata la pace tra le potenze che dominavano la politica dell'Europa e perciò anche quella degli stati italiani, assistiamo, nel giro di pochi anni, alla fioritura illuminista nella nostra penisola. La settima decade del secolo porta lo slancio, l'entusiasmo, magari l'aspra e primaverile immaturità dello spirito di riforma, che ovunque trova un progetto da avanzare, un piano da proporre, una legge nuova da volere.

Nel giugno del 1764, ecco il primo numero del «Caffè». Quasi contemporaneo nasce ilcapolavoro: Dei delitti e delle pene. Milano si afferma come il centro propulsore, il modello di questa volontà di riforma che intorno ai Verri e al Beccaria si va rapidamente allargando e approfondendo. Paolo Frisi, Alfonso Longo, Giambattista Biffi, Giuseppe Corani, sono tra gli scrittori e riformatori più caratteristici che allora si formano o s'impongono all'attenzione.

Nello stesso anno 1764 era apparsa a Venezia la prima opera di Pilati: L'esistenza della legge naturale, la quale non aveva certo l'importanza degli scritti che si erano contemporaneamente andati elaborando nella milanese «Accademia dei pugni», ma che pur costituiva la prima tappa d'una attività che porterà ben presto Pilati a pubblicare, nel 1767, quell'opera che meglio d'ogni altra esprime, nel suo titolo stesso, il programma di questa età: Di una riforma d'Italia, ossia dei mezzi di riformare i più cattivi costumi e le più perniciose leggi d'Italia.

A Venezia, nello stesso periodo, si moltiplicano non soltanto gli echi dei movimenti milanesi ma le voci più diverse che vogliono riforme, anche se spesso attenuate e modeste. È del 1766 un piccolo opuscolo che suscita numerose discussioni e che non e se non uno tra i numerosi «piani ecclesiastici», per non parlare che di quelli soltanto, che le stamperie venete diffondono ovunque: Del celibato ovvero riforma del clero romano. Trattato teologico-politico. Lo stesso anno vien pubblicato un Ragionamento intorno a' beni temporali posseduti dalle chiese, dagli ecclesiastici. Poco tempo dopo appare un Piano ecclesiastico per un regolamento da tentare nelle circostanze de' tempi presenti, con l'aggiunta d'un discorso sopra l'autorità della Chiesa, ed un opuscolo che s'intitola Del moderato e convenevol numero de' chierici. Lo spirito anticuriale, giurisdizionalista, che ha le sue radici in Paolo Sarpi, è di nuovo in fermento a Venezia e già si mescola con le idee illuministiche che vengono dalla Francia e dalla Lombardia. Il «Corrier letterario», che comincia ad uscire il 13 dicembre 1766, ripubblica l'un dopo l'altro quasi tutti gli articoli del «Caffè». E non si tratta che d'un esempio soltanto.

A Torino, tra il 1765 e il 1766 si sviluppa la febbrile attività di Francesco Dalmazzo Vasco che commenta le verriane Meditazioni sulla felicità, vuole continuare Beccaria con il suo opuscolo Delle leggi civili reali e, contemporaneamente, rischia il carcere per mettere in pratica, nella Corsica ribelle, quel suo progetto costituzionale che rousseauianamente intitola Suite du Contrat social. Suo fratello Tommaso (al secolo Giambattista) insegna a Cagliari in quegli stessi anni, in una università che riapre i suoi battenti con un programma che vuole essere d'illuminata e paterna riforma, la quale troppo lenta e misurata appare agli occhi dell'impaziente domenicano. Passato in Lombardia vi scriverà nel 1769 uno dei più arditi piani di riforma agraria tra i numerosi che videro la luce in quel periodo, La felicità pubblica considerata nei coltivatori di terre proprie e poi un fondamentale trattato Della moneta, saggio politico. I fratelli Vasco dimostravano così di essere gli elementi più vivaci di questo fermento piemontese. Con passo più calmo, ma non senza una loro dignitosa logica, si affermano contemporaneamente altri, di cui Carlo Denina è lo scrittore più noto. Le sue Rivoluzioni d'Italia cominciano ad uscire nel 1768 e circa in quel tempo nasce sotto la sua penna quello scritto Dell'impiego delle persone che contiene il suo programma, moderato ma non privo d'interesse, di rinnovamento della società.

In Toscana la situazione economica, e soprattutto la carestia del 1763-1764, il cambiamento di regno in seguito alla morte di Francesco II e l'insediamento a Firenze di Leopoldo, nel 1765, la lunga, paziente preparazione amministrativa ed economica, tutto sembra concorrere a fissare attorno al 1766 l'inizio di quella serie di riforme doganali, daziarie, nelle manifatture e nei rapporti tra la città e la campagna, che con maggior armonia di dovunque altrove andrà poi sviluppandosi pe r tutto un ventennio. Non «Accademia dei pugni», non Sturm und Drang, sia pure milanesemente praticizzato e umanizzato, non impazienze e rivolte, accanto a volute moderazioni come a Torino, non arioso e contrastato riflesso dell'atmosfera intellettuale dell'epoca come a Venezia. In Toscana troppo armonico è il rapporto tra il dire e il fare perché la pagina scritta raccolga tutte le speranze e la volontà di riforma si tramuti in un libro, in un appello per commuovere e scuotere gli animi. Nulla in Toscana che possa stare sullo stesso piano di Dei delitti e delle pene, che pure, e la cosa non è senza significato, proprio là poteva essere pubblicato. Il sereno e acuto ragionamento dei toscani, ad esempio di Neri o di Gianni, resterà la testimonianza dell'illuminismo riformatore pervaso dalla coscienza e dalla convinzione di avere nelle mani gli strumenti atti ad agire e dominato dalla soddisfazione di vedere questi strumenti all'opera. Anche coloro che, allargando Io sguardo al di là del granducato leopoldino, affrontano problemi e sentono nascere in se stessi pensieri diversi, come ad esempio Giovanni Fabbroni, sembrano tuttavia conservare della tradizione toscana e della realtà settecentesca del loro paese quella forma particolare di armonia che possiamo chiamare un rinnovato e vigoroso realismo politico.

Lo spirito di riforma si configura così in modi diversi a seconda che esso si incarni in individui o gruppi lombardi, veneti, piemontesi o toscani. Non sarebbe difficile continuare a cogliere queste sfumature guardando a Parma, a Bologna, o finalmente a Genova, dove, ad esempio, per due anni è stato doge della re pubblica un amico dei Verri, di Beccaria, di Frisi, il traduttore del Discours che d'Alembert aveva premesso all'Encyclopédie, Agostino Lomellini, che resterà per anni il mediatore di idee, d'atteggiamenti illuministi provenienti da altri stati italiani o d'Oltralpe. II quadro della «riforma d'Italia», anche limitando lo sguardo per ora al settentrione e al centro, senza spingersi alle Due Sicilie, alla cultura meridionale, al grande Genovesi e ai suoi figli spirituali (alle cui opere sarà dedicato un altro tomo di questa collana), ci appare altrettanto vario e animato quanto lo sono le diversissime tradizioni e forze della complessa Italia settecentesca. I «riformatori » sono, numericamente, pochi, ma la forza che variamente Ii muove è un fermento, un lievito capace di dimostrare la sua efficacia nelle situazioni più di verse e più tradizionalisticamente cristallizzate.

Ma che cosa è dunque questo spirito di riforma? Non con delle formule pretendiamo di rispondere, ma precisamente con questa raccolta di testi, che vorrebbe essere uno specchio della coscienza riformatrice, dal momento del suo primo sbocciare ai posteriori periodi di realizzazione, di stasi o di reazione, fino al momento in cui la rivoluzione parigina del 1789 venne a modificare i dati stessi del problema in tutta Europa e perciò anche in Italia.

Per venticinque anni circa il giurisdizionalismo, il regalismo, il razionalismo, l'illuminismo, il giansenismo stesso, le forze cioè ereditate dalle generazioni precedenti, trovarono un punto di convergenza nella volontà di trasformare «i costumi» e «le leggi», per usare le parole di Pilati. Dietro di sé questa generazione aveva gli sforzi ed i risultati dei ministri illuminati, dei Cristiani, dei Neri, dei Tanucci, dei d'Ormea, dei Bogino. Alle sue spalle aveva l'opera dell'assolutismo. Di fronte a sé, al suo tramonto, la generazione del «Caffè» doveva trovare la rivoluzione. Tra questo e quella tentò d'inserire la riforma.

Si sentì appoggiata dall'Europa. Sapeva di far parte di quella «specie d'impero, cioè quello della letteratura, che incomincia a preparare la repubblica europea», come diceva nel suo Prospetto o sia esame filosofico dello stato attuale dell'Europa, Alexandre Deleyre, un philosophe francese che visse e operò anche da noi, a Parma. Da Beccaria in poi questa generazione sapeva che almeno una traduzione e forse un'aureola internazionale di reputazione e di gloria avrebbe coronato ogni libro, ogni articolo che sostenesse con qualche energia o originalità la politica dei lumi. Raramente questa sanzione europea mancò infatti alle pagine che qui si troveranno raccolte. Di volta in volta si trattò di un plauso di Voltaire, d'un riconoscimento del gruppo del barone d'Holbach, d 'una recensione del «Journal encyclopédique», d'una frase aggiunta nell'opera Dell'orgoglio nazionale di Zimmermann e, magari, persino d'un invito di Caterina II, d'un riconoscimento d'una accademia russa, o dell'ospitalità offerta da Federico II o da Stanislao Augusto. Quest'eco non mancò né a Frisi, né a Corani, né a Longa, né a Carli, né ai Vasco, né a Denina, Pilati, Fabbroni, ecc. Ed era un'eco spesso intelligente, chiara, capace di stimolare le energie e di raffinare i pensieri. Giunse rapida da Parigi, da Ferney e da più lontano non appena cominciarono ad apparire i fogli del «Caffè», quando si diffuse ro le prime copie di Dei delitti e delle pene, quando cioè lo spirito di riforma era ancora al suo primo ed iniziale slancio. Essa sembrò venire al momento giusto, non soltanto in Italia, ma anche sul quadrante del secolo in Europa. L'Enciclopedia stava per terminare, superata ormai la crisi del 1759. Il gran dizionario, dopo tante battaglie, pareva trasformarsi nell'atmosfera stessa intellettuale dell'epoca, accettata ormai e riconosciuta. «L'Europe raisonnable», come aveva scritto N.-A. Boulanger, non pareva più essere una utopia o una speranza, ma ormai una effettiva realtà. La «riforma» italiana poteva davvero apparire come una provincia dell'impero dei lumi.

Eppure si trattava, almeno in parte, di una illusione. L'apparente trionfo dell'Enciclopedia non riusciva a trasformare l'antico regime. Le passioni suscitate dalla guerra dei Sette anni continuavano ad operare nel profondo, in Francia, in Inghilterra, così come in Germania. Una nuova ondata, e la più grossa, del pensiero illuminista si sarebbe ben presto sostituita all'apparente calma della ragione trionfante: dal Contrat social al Syst ème de la nature, il decennio che in Italia vedeva fiorire lo spirito di riforma vede va in Francia riporre da capo tutti i problemi fondamentali, dall'eguaglianza all'ateismo. Il movimento riformatore italiano veniva certo arricchito da queste nuove energie intellettuali che giungevano d'Oltralpe. Ma, insieme, le interne contraddizioni di questo nuovo movimento illuminista, la sua stessa energia, rendevano talvolta la situazione più difficile in Italia. Beccaria e Corani consideravano come un male l'esistenza stessa della proprietà privata. Pilati rifiutava ogni idea di chiesa che non fosse quella d'una associazione libera e democratica, Giambattista Vasco pensava ad una radicale legge agraria. Il problema dei poveri, dei mendicanti, angustiava profondamente le menti e gli animi. E così il rapporto con i monarchi assolutisti, con la Chiesa, si faceva più complicato. Il contatto stabilitosi con l'Europa dei lumi allargava insomma la visuale intellettuale e morale, ma talvolta rendeva più arduo il compito pratico ed immediato.

Naturalmente, quel che soprattutto decise la sorte della battaglia riformatrice fu la logica interna delle situazioni in cui si trovarono i diversi stati italiani. Nella Lombardia austriaca la convergenza delle iniziative che giungevano da Vienna e delle proposte e polemiche del gruppo dell'«Accademia dei pugni» confluisce in una esperienza particolarmente riuscita di dispotismo illuminato. Due forze che sanno di doversi incontrare, si cercano e convergono, sapendo mantenere una intelligente distinzione di linguaggio e di compiti. Quando l'incontro è avvenuto e consumato, rapida è la trasformazione degli uomini del «Caffè», che vediamo ben presto alti funzionari come Verri, Beccaria, Carli, professori come Beccaria ancora e Longo, censori potenti come lo stesso Longo, Frisi e Biffi. Come scriveva Pietro Verri a suo fratello Alessandro, il 10 aprile 1769, «gli individui della nostra Accademia dei Pugni hanno sofferto rivoluzioni tali che sei anni sono nessuno avrebbe potuto prevedere». Qualche anno più tardi il punto di partenza di questi uomini è quasi esclusivamente un bel ricordo. Pietro scrive ad Alessandro il I°gennaio 1777: «Una volta usciva un Zoroastro in questi tempi, me ne ricordo con piacere. Adesso siamo eccellenze». La storia di questi passaggi da «pamphletisti» e liberi scrittori ariformatori attivi, potenti, inseriti nella macchina amministrativa, è l'elemento fondamentale della storia di questa generazione lombarda. In questo processo il gruppo iniziale si fraziona, si divide (e Pietro Verri lo rimpiangerà, pensando a che cosa avrebbero potuto fare se fossero rimasti uniti, ma è vano rimpianto). Quel che rimane è l'impostazione comune, che permette loro di trovare una collaborazione attiva e fruttifera con il potere: il distacco cioè dalla «politica», sostituita da un'azione ideologica, amministrativa o morale sull'economia, sulla società, sui costumi e le leggi. Nulla di più concreto - per adoperare una volta questa abusata parola- che la «filantropia» di questi uomini. Essa è il programma che permette di agire sulle cose, di trasformarle, collaborando e non scontrandosi con l'assolutismo di Vienna.

Beccaria è il maggiore dci riformatori e dei filantropi proprio perché con maggiore profondità di sentimento e con maggiore coerenza d'ogni altro si getta in questa analisi sociale, scartando ogni elemento che possa riportare la ragion di stato là dove egli vuoi far regnare unici i valori dell'utilità e della sensibilità pietosa, angosciata, che sta sotto l'analisi stessa, la sorregge e la conduce avanti. Tanto è forte questa «spinta sociale» in Beccaria che essa tende a sboccare in una visione storico-sociologica, parallela e contemporanea alle grandi costruzioni dei pensatori scozzesi, da Ferguson a Millar, ad Adam Smith. Beccaria non ha soltanto scritto il capolavoro dell'illuminismo italiano, egli ha anche accennato alla possibilità di uno sviluppo dello spirito lombardo di riforma dove ritroviamo alcuni dei nodi dell'illuminismo europeo e dove scopriamo la linea maestra che porta a Cattaneo e a Manzoni. Abbiamo perciò abbondato nel riportare le pagine di Beccaria. Come accade ai grandi, le sue pagine sono necessarie per capire anche i minori.

Le possibilità di realizzazione più intense, tanto sul terreno dell'amministrazione, dell'economia, quanto su quello della pubblicistica, sono rappresentate dai Verri, dai loro carteggi e dalle loro opere. Un volume di questa collezione, curato da Mario Fu bini e da Ettore Bonora è consacrato loro - premessa indispensabile anche per la nostra silloge.

Gli elementi che sono riuniti nelle personalità di Beccaria o dei Verri si riflettono talvolta con singolare evidenza, staccati o sviluppati autonomamente, in alcuni dei minori collaboratori del «Caffè» che diedero il meglio di loro dopo la fine del celebre «folio periodico ». Amor di scienza in Paolo Frisi, abile e pieghevole intelligenza in Alfonso Longo, armonico sviluppo d'una «bell'anima» in Biffi, ribollimento avventuroso di nuove idee in Corani. È la «scuola di Beccaria», è un mondo in cui, come in certi quadri settecenteschi, anche le figurine hanno una loro straordinaria vitalità.

Con Carli siamo invece al limite dello spirito di riforma. Da una parte l'assolutismo illuminato, l'ideale della amministrazione perfetta, razionalmente congegnata, tende a diventare addirittura utopia: si leggano le pagine che Carli dedica all'impero degli Incas. D'altra parte l'egualitarismo utilitarista, tanto forte in Beccaria, si scontra penosamente, pesantemente, contro la realtà delle classi sociali e la realtà finisce per inaridire lo slancio ideale: alcune pagine dell'Uomo libero fanno sentire il peso degli ostacoli insormontabili. Cadi viene a Milano dal di fuori, non ha quella sensibilità che in Beccaria e in altri lombardi sembra legata intimamente a quei luoghi, a quelle case, a quelle famiglie che s'intrecciano e si mescolano nella Milano settecentesca. Carli è legato alla sua patria, alla sua piccola e lontana patria, così come alla grande, attraverso la riflessione storica e la passione erudita, non attraverso un sentimento più immediato. Egli è un tecnico importato per cooperare all'opera dell'assolutismo riformatore. Non ci stupiremo osservando come egli veda talvolta gli ostacoli, le cose, la realtà con occhi più realistici, ma anche meno appassionati. In compenso sarà lui a sviluppare il mito lontano d'una patria comune degli italiani. Malgrado tutta la sua feconda attività, egli resta soprattutto un testimone del limite del nostro illuminismo riformatore.

Qualcosa di simile accadde, con tutte le dovute distinzioni e differenze, ad Antonio de Giuliani, il quale ancor più del Carli entra a far parte di questa raccolta di scritti illuministi non soltanto per la sua eccezionale acutezza, ma perché dell'illuminismo riformatore indica dal di dentro alcuni dei termini, dei limiti, degli ostacoli contro cui esso viene a scontrarsi. E ben più che le pagine di Carli le sue sconsolate constatazioni rendono il suono d'una amara verità scoperta.

Limiti ed ostacoli che prendono aspetti e significati diversi nelle terre italiane che sono al di fuori dei domini austriaci. In Piemonte la morte di Carlo Emanuele III e l'avvento di Vittorio Amedeo III (1773) peggiora la situazione. Denina si trova di fronte alle forze più retrive, altrove eliminate o in via di rapida eliminazione, come l'inquisizione, la cecità della censura, l'atmosfera gretta e cortigiana. I due fratelli Vasco, di ritorno in Piemonte Giambattista dopo i fecondi anni trascorsi in Lombardia, sempre chiuso nella sua residenza coatta a Mondovì Francesco Dalmazzo, continuano ambedue a rimeditare i temi della loro prima gioventù, architettando piani di riforme monetarie, finanziarie, agricole l'uno, sognando l'altro governi federativi e liberi per il suo paese e per l'Europa. Giambattista diverrà il maggiore economista piemontese e il più lucido rappresentante d'un liberismo che già si preoccupa dello sviluppo manifatturiero e dei connessi problemi della mendicità e della disoccupazione. Francesco Dalmazzo riprenderà, invece, appena libero, i suoi piani d'una riforma integrale del codice civile e vedrà sempre più chiaramente profilarsi di fronte ai suoi occhi l'ideale d'una società dove la nobiltà piemontese sia trasformata in una classe dirigente priva d'ogni privilegio e prerogativa economici e giuridici. I due fratelli fondano insieme una rivista, la «Biblioteca oltremontana», che segnerà il limite estremo del movimento riformatore ed illuminista subalpino. Quando la rivoluzione francese batte alle porte, l'uno è costretto ad abbandonare il proprio paese per tornare, vecchio e deluso, in Lombardia, mentre l'altro, arrestato, accusato di volere una trasformazione integrale del potere politico in Piemonte, in Italia e in Francia, passerà di carcere in carcere per morire rinchiuso nel castello d'Ivrea. Riforma e ribellione si erano incrociate e mescolate nei loro atti e nei loro scritti in modo particolarmente originale e interessante.

A Venezia le lotte interne dell'aristocrazia, che avevano coinciso, in un loro momento acuto, con l'inizio del generale movimento riformatore, non s'allargano in un dibattito politico che trascini insieme nuovi principii e uomini nuovi. Alla diffusione della cultura illuminista non fa riscontro un rinnovamento delle vecchie classi dirigenti, mentre manca un centro propulsore, una volontà di riforma che scenda dall'alto, elemento fondamentale della situazione lombarda come di quella toscana. A Roma l'avvento di Pio VI (1775) segna la crisi, l'inizio della fine di quella politica che, se non di riforme, era perlomeno stata, sotto Benedetto XIV e Clemente XIV, di dissoluzione, più o meno spontanea e profonda, delle concrezioni ereditate dalla controriforma. E l'influenza della iniziale reazione romana si farà presto sentire in tutta la penisola e, per contraccolpo, anche a Firenze e a Milano.

Perciò la sfiducia e talvolta la ribellione o l'esilio vengono sostituendosi all'entusiasmo in questo secondo periodo del moto riformatore. Se ne potrà sentire una prima eco in questa o quella pagina di Gorani, di Pilati o di Dalmazzo Vasco. Eppure i centri maggiori delle riforme economiche e amministrative, Vienna, Milano, Firenze, restano attivi e continuano ad imprimere il loro ritmo, magari accentuandolo e rendendolo più rapido, anche all'ultimo decennio che ancora restava al secolo prima di giungere alla rivoluzione. Giuseppe Il è il simbolo della sua decade (1780-1790). Tutti gli elementi contenuti nello spirito di riforma appaiono, negli anni del suo regno, in piena luce, magari esasperati e sempre più contrastati.

I problemi d'una riforma radicale, d'una volontà che scende dall'alto e che per agire ha bisogno d'una nuova classe intellettualmente preparata e capace d'iniziativa, continuano a rimanere al centro dell'attenzione degli scrittori così come dei sovrani. Maggiore è il risultato pratico, legislativo, che non quello di pensiero, speculativo o letterario, ma anche questo esiste e mantiene qualcosa dello spirito essenziale di tutto il venticinquennio. Eppure, man mano che il «vero dispotismo», teorizzato da Gorani, trova in Giuseppe II la propria incarnazione storica, le esitazioni, le riluttanze della classe colta si fanno tuttavia più evidenti e più profonde. La distinzione, sempre viva e sempre incerta, tra monarchia e dispotismo riappare e si approfondisce. La via d'uscita non e ormai che una sola: trovare le forme giuridiche che consentano e garantiscano alla nuova classe dirigente, formatasi in concordia discorde con l'assolutismo, di mantenere il proprio controllo e la propria influenza sul potere. È la via che porta al costituzionalismo, uno degli essenziali punti di sbocco del venticinquennio dei riformatori. Alcune delle pagine che si troveranno in seguito, di Dalmazzo Vasco come di Gianni, lo dimostrano. E naturalmente la figura del ministro toscano grandeggerà in questo contesto e vista in questa luce. Egli è davvero l'incarnazione dello «spirito di riforma» nel suo momento più maturo e fattivo.

«L'école de réformation», per chiamarla con le parole di Stendhal, s'affacciava così ad una nuova realtà. La rivoluzione verrà ben presto a mettere i riformatori alla prova. Ognuno reagirà a seconda del proprio temperamento e delle proprie esperienze passate. Carli si spingerà alla estrema reazione. De Giuliani ad essa si avvicinerà. Verri, Longo, Gorani parteciperanno ancora fiduciosi o entusiasti alla nuova realtà italiana ed europea. Pilati si chiuderà nel compito limitato, ma pieno di responsabilità, di difendere la propria piccola terra trentina. Dalmazzo Vasco cercherà persino in carcere di stringer rapporti con l'esercito francese ormai accampato sulle Alpi. Gianni sarà, anche in questa occasione, il più lucido ed il più sereno, tentando e riuscendo meglio d'altri a proseguire il compito d'illuminazione e di riforma in un clima ed in una atmosfera ormai mutata. E Giovanni Fabbroni sarà con lui su questa strada.

Ma il compito della generazione riformatrice, se non esaurito, era ormai profondamente mutato. Una tappa della nostra storia morale, intellettuale, politica era compiuta. L'orma degli uomini dei lumi restava netta e precisa. Ed è quest'orma che il lettore troverà, confidiamo, in questo libro.

BIBLIOGRAFIA

Come la storia della seconda metà del Settecento in Francia è stata spesso deformata da coloro che in questo periodo cercarono unicamente le origini della Rivoluzione francese, così, parallelamente, le ricerche sul XVIII secolo in Italia sono state, anche più spesso e più profondamente, sviate e deformate dagli storici che in questa età hanno cercato unicamente le origini del Risorgimento e che negli uomini di quel cinquantennio non hanno visto altro che dei precursori. E mentre gli uomini del Risorgimento stesso e delle generazioni ottocentesche erano stati ancora capaci di conservare una certa equanimità di fronte al secolo che li aveva preceduti (basta pensare a Carducci), la nascita e lo sviluppo dello spirito nazionalistico ha definitivamente chiuso gli occhi degli storici più recenti di fronte alla realtà dell'Italia settecentesca. Chi voglia vedere fin dove possono giungere simili posizioni non avrà che da aprire quella che resta pur tuttavia la più ampia e massiccia opera sul nostro secolo decimottavo e cioè: E. ROTA, Le origini del Risorgimento (1700-1800), Milano 19482, in 2 volumi, facente parte della Storia politica d'Italia dell'editore Vallardi.

La discussione e lo smantellamento della storiografia nazionalista sono venuti da punti diversi e distanti dell'orizzonte intellettuale italiano e straniero. La storia sociale, l'analisi delle idee e delle correnti di pensiero, l'approfondimento della vita letteraria, artistica, religiosa hanno insieme servito in discorde concordia a darci in questi ultimi decenni una visione nuova del nostro Settecento.

La storia sociale ha avuto, in questo campo, un pioniere ed un iniziatore in ANTONIO ANZILOTTI. Molti, anche se non tutti, i di lui articoli sono stati raccolti in Movimenti e contrasti per l'unità italiana, Bari 1930. Coltivata da Gino Luzzatto, Luigi Dal Pane ed altri, la storia economica e sociale ha avuto una ripresa ed un ampio sviluppo nel dopoguerra, sotto l'incitamento della pubblicazione degli scritti postumi di Antonio Gramsci e per opera di un notevole gruppo di ricercatori. Rimandiamo in proposito alle rassegne di M. MIRRI, Studi recenti di storia del Settecento italiano, in «Società» 1953, fasc. I-II, e di P. VILLANI, Studi recenti su strutture economiche e forze sociali del Settecento italiano, in «Movimento operaio », 1956, fase. V. Numerosi ed importanti pure gli studi di storia sociale condotti da un punto di vista diverso da quello marxista, come ad esempio gli scritti di G. Quazza, E. Piscitelli, R. Romano, l. Imberciadori, ecc. Una utile opera complessiva è quella di G. CANDELORO, Storia dell'Italia moderna, I, Le origini del Risorgimento (1700-1815), Milano 1956. Le due opere monografiche più rappresentative ed importanti sono quelle di M. BERENGO, La società veneta alla fine del '700, Firenze 1956, e G. QUAZZA, Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento, Modena 1957. Altri numerosi contributi verranno mano mano citati, quando i singoli autori di questa silloge saranno stati illustrati da queste ricerche di storia sociale.

La storia delle idee ha compiuto i passi decisivi sulla via d'una autentica comprensione del nostro secolo dei lumi. Benedetto Croce, malgrado i grossi ostacoli frapposti dalla tradizione filosofica idealistica, ha aperto la strada, Adolfo Omodeo ha segnato alcune tappe essenziali, PIERO GOBETTI, negli studi raccolti in Risorgimento senza eroi, Torino 1926, ha dato l'esempio di come si possa tentare di unire la conoscenza degli uomini vivi e reali alla storia delle idee che li animarono. WALTER MATURI, nell'articolo Risorgimento dell'Enciclopedia italiana (vol. XXIX) e in altri scritti, LUIGI SALVATORELLI, in numerose opere, ma soprattutto in Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Torino 19495, e D. CANTIMORI, Utopisti e riformatori italiani (1794-1847), Firenze 1943, hanno sviluppato l'unica impostazione che permetta di giungere ad una giusta visione dei rapporti intercorrenti tra Sette e Ottocento, tra l'Italia e l'Europa nel secolo decimottavo. Nel dopoguerra la discussione e la ricerca così impostate sono proseguite, non soltanto su questo o quel punto particolare e specifico, ma sull'insieme dei problemi che il Settecento italiano pone alla storia delle idee. Si può vedere in proposito: F. VENTURI, Rapporto al XXXII congresso del Risorgimento (Firenze, 9-12 settembre 1953). La circolazione delle idee, in «Rassegna storica del Risorgimento», anno XLI, fasc. Il-III, aprile-settembre 1954, pp. 203 sgg.; E. SESTAN, Il riformismo settecentesco in Italia. Orientamenti politici generali, in «Rassegna storica toscana», anno I, nn. 2-3, aprile-settembre 1955, pp. 18 sgg., nonché gli altri scritti di C. A. Jemolo, L. Dal Pane, F. Valsecchi, L. Salvatorelli, W. Maturi contenuti in questo medesimo numero della rivista; G. FALCO, Sulla coscienza civile del Settecento italiano. Discorso letto all'inaugurazione del CLXXlII anno dell' Accademia delle Scienze di Torino, Torino 1955, e G. GRARRIZZO, Cultura illuministica e mondo settecentesco, in «Itinerari» , fase. 22-23-24, dicembre 1956, numero speciale dedicato a Prospettive storiografiche in Italia. Omaggio a Gaetano Salvemini, pp. 514 sgg.

La storia della vita letteraria, artistica e religiosa è troppo ampia ed importante perché se ne ricordino qui, affrettatamente, i più recenti risultati, tanto più che il lettore avrà trovato e troverà numerose indicazioni negli altri volumi di questa collezione. Per la letteratura rimandiamo perciò alle opere, ricche di suggestioni anche per chi si occupa del pensiero civile settecentesco, di W. BINNI, Preromanticismo italiano, Napoli 1947, e M. FUBINI, Dal Muratori al Baretti. Studi sulla critica e sulla cultura del Settecento, Bari 19542 . Un tentativo di visione d'assieme è costituito dal volume collettivo intitolato La cultura illuministica in Italia, a cura di Mario Fubini, Torino 1957, dove si troveranno indicazioni bibliografiche anche per quel che riguarda il rapporto tra giansenismo e illuminismo (nello studio di Ettore Passerin, pp. 189 sgg.). Su questo problema, numerosi gli studi recenti ed importanti, che hanno ripreso e discusso le opere fondamentali di C. A. JEMOLO, Il giansenismo in Italia prima della rivoluzione, Bari 1928, e di E. CODIGNOLA, Illuministi, giansenisti e giacobini nell'Italia del Settecento, Firenze 1947. Si veda soprattutto E. DAMMIG, Il movimento giansenista a Roma nella seconda metà del secolo XVIII, Città del Vaticano 1945; E. PASSERIN, La politica dei giansenisti in Italia nell'ultimo Settecento, in «Quaderni di cultura e di storia sociale» , 1952, 1953 e 1954 e, per un inquadramento generale, E. PRÉCLIN e E. JARRY, Les luttes politiques et doctrinales aux XVIIe et XVIIIe siècles, Paris 1956, che costituisce il volume XIX della Histoire de l'église di A. FLICHE e V. MARTIN.

Se da questa visione generale dei problemi della storiografia del Settecento, politica come letteraria, economica come religiosa, vogliamo poi giungere alle singole persone e alle singole questioni del movimento riformatore, dovremo tornare a quelli che sono gli strumenti essenziali di ogni ricerca nel nostro Settecento, a quelli che sono i veri e propri ferri del mestiere di ogni studioso dell'illuminismo italiano.

Innanzi tutto le grandi opere biografiche e le storie letterarie di tutto il secolo. Ricorderemo soltanto: A. LOMBARDI, Storia della letteratura italiana nel secolo XVIII, Venezia 1832-1833, in 6 volumi; E. DE TIPALDO, Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo! XVIII e de' contemporanei, Venezia 1834-1845, in 10 volumi; S. TICOZZI, continuatore di GIAMBATTISTA CORNIANI, I secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, II, Milano I833; M. LANDAU, Geschichte der italienischen Literatur im achtzehnten Jahrhundert, Berlin 1899, soprattutto il cap. III, a pp. 101 sgg., intitolato Nationaliikonomie, Rechtsund Staatswissenschaft, e G. NATALI, Il Settecento, Milano 19503, che fa parte della Storia letteraria d'Italia dell'editore Vallardi.

Avvicinandoci poi sempre maggiormente a quello che è l'assunto specifico del volume che qui si presenta, ricorderemo innanzi tutto PIETRO CUSTODI, Scrittori classici italiani di economia politica, Parte moderna, Milano 1803-1805, in 41 volumi, opera ammirevole per ampiezza, quadro ineguagliato della vita sociale e politica dell'Italia settecentesca. Tanto importante è questa raccolta che sarebbe indispensabile sapere dettagliatamente come essa venne concepita e compilata. È quel che si può fare, raccogliendo i preziosi elementi sulla vita e l'attività dei nostri riformatori contenuti nelle carte di Pietro Custodi conservate alla Biblioteca Ambrosiana (Z 248-9) e alla Bibliothèque Nationale a Parigi (Mss. italiens 1545-1566). Di quest'ultimo fondo esiste un accurato inventario: L. AUVRAY, Inventaire de la Collection Custodi (autographes, pièces imprimées et autres documents biographiques) conservée à la Bibliothèque Nationale, in «Bulletin italien» tome III, n. 4, octobre-décembre 1903, pp. 308 sgg., tome IV, n. 2, avril-juin 1904, pp. 149 sgg., id., n. 3, juillet-septembre 1904, pp. 244 sgg., id., n. 4, octobre-décembre 1904, pp. 316 sgg., tome V, n. 1, janvier-mars 1905, pp. 73 sgg., id., n. 2, avril-juin 1905, pp. 146 sgg., id., n. 4, octobre-décembre 1905, pp. 349 sgg. La tradizione di Custodi fu messa a frutto e continuata da G. PECCHIO, Storia della economia pubblica in Italia, ossia epilogo critico degli economisti italiani, preceduto da una introduzione, Lugano 18322, opera sempre di grande interesse, e da F. FERRARA, Esame storico-critico di economisti e dottrine economiche del secolo XVIII e prima metà del XIX, Torino 1889-1891, in 4 volumi, come da L. COSSA, Introduzione allo studio dell'economia politica, Milano I8923, e Saggi di economia politica, Milano 1878, dove si leggeranno, a pp. 65 sgg.: Le prime cattedre di economia politica in Italia, e, a pp. 96 sgg.: Pietro V erri in Olanda. Numerosi ed importanti gli studi in questo campo pubblicati negli ultimi decenni dell'Ottocento, che tuttavia troppo lungo sarebbe qui elencare. Domina gli studi di storia del pensiero economico, nel nostro secolo, L. EINAUDI, per il quale rimandiamo ai suoi Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Roma 1953. Disgraziatamente è necessario constatare che l'impulso dato da Luigi Einaudi anche in questo campo degli studi sembra essersi arenato ed arrestato negli ultimi due decenni, in cui scarse sono state le ricerche originali in questo campo, anche se si può constatare ora una certa ripresa, testimoniata, ad esempio, dalle pagine che riguardano questi problemi di M. ROMANI, L'agricultura in Lombardia dal periodo delle riforme al 1859. Struttura, organizzazione sociale e tecnica, Milano 1957.

Bisognerà soprattutto ricorrere dunque agli studi dedicati alle singole regioni italiane del Settecento. E, per limitarci qui alle tre che sono particolarmente oggetto delle pagine che seguono, e cioè la Lombardia, il Piemonte e la Toscana, bisognerà constatare subito come la prima sia particolarmente fortunata per l'ampiezza ed importanza delle ricerche che le sono state dedicate. Intanto notevoli sono le opere vecchie e sempre utili di F. CUSANI, Storia di Milano dall'origine a' nostri giorni, III e IV, Milano 1864-1865, PIETRO VERRI, Storia di Milano continuata fino al 1792 da Pietro Custodi, preceduta da un discorso sulla vita e sulle opere di Pietro Verri per Giulio Carcano, Firenze 1890, in 2 volumi, e C. CATTANEO, Notizie naturali e civili su la Lombardia, che, pubblicate nel 1844, si ritrovano nel volume 68 di questa collezione: Opere di Giandomenico Romagnosi, Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari, a cura di E. Sestan, Milano 1957, pp. 703 sgg., così come C. CATTANEO, Saggi d'economia rurale, a cura di L. Einaudi, Torino 1939. A queste aggiungiamo, per non citare proprio soltanto che le essenziali: S. PUGLIESE, Condizioni economiche e finanziarie della Lombardia nella prima metà del secolo XVIII, Torino 1924; F. VALSECCHI, L'assolutismo illuminato in Austria e Lombardia, I, I domini ereditari, vol. II, La Lombardia, Bologna 1931 e 1934; C. MAGNI, Il tramonto del feudo lombardo, Milano 1937; E. WINTER, Der Josefinismus tmd seine Geschichte. Beitriige zur Geistesgeschichte Oesterreichs (1740-1848), Brunn-MunchenWien 1943; F. VALJAVEC, Der Josephinismus. Zur geistigen Entwicklung Oesterreichs im achtzehnten und neunzehnten Jahrhundert, Munchen 19452 , e F. MAAS, Der Josephinismus. Quellen zur seiner Geschichte in Oesterreich (1760-1790), Wien 1951  sgg., in 4 volumi.

Per il Piemonte, se ottimi sono i lavori di G. PRATO, La vita economica in Piemonte a mezzo il secolo diciottesimo, Torino 1908, e L'evoluzione agricola del secolo diciottesimo e le cause economiche dei moti del 1792 -97 in Piemonte, Torino 1909, importanti sempre ma fortemente invecchiati sono i libri fondamentali di storia politica e cioè D. CARUTTI, Storia del regno di Carlo Emanuele III, Torino 1859, in 2 volumi, e N . BIANCHI, Storia della monarchia piemontese dal 1773 al 1861, Torino 1877-1885, in 4 volumi, mentre inficiate da una prospettiva troppo meschinamente letteraria e da pregiudizi nazionalisti sono le opere di C. CALCATERRA: Il nostro imminente Risorgimento. Gli studi e la letteratura in Piemonte nel periodo della Sampaolina e della Filopatria, Torino 1935; I filopatridi. Scritti scelti con prefazione sulla «Filopatria», Torino I 941; Le adunanze della «Patria società letteraria», Torino 1943.

Quanto alla Toscana, fondamentale resta: A. ZOBI, Storia civile della Toscana dal 1737 al 1848, Firenze 1850-1852, in 6 volumi. Abbondante materiale in H. BOCHI, Ein Menschenalter Reformen der Toten Hand in Toskana, Berlin 1912; Finanzen und Finanzpolitik Toskanas im Zeitalter der Aufkliirung, Berlin 1915; N. Rooouco, Gli amici e i tempi di Scipiane de' Ricci, Firenze I92o; L. DAL PANE, La questione del commercio dei grani nel Settecento in Italia, I, Parte generale, Toscana, Milano 1932; I. lMBERCIADORI, Campagna toscana nel '700, dalla Reggenza alla Restaurazione (1737-1815), Firenze 1953. e M. MIRRI, Proprietari e contadini toscani nelle riforme leopoldine, in «Movimento operaio», 1955, fasc. II.

Tuttavia proprio la Toscana, malgrado numerose opere pregevoli che qui non è possibile elencare per ragioni di necessaria brevità, ma che il lettore ritroverà quando s'imbatterà nei diversi aspetti dell'epoca lorenese, proprio la Toscana può offrirei l'occasione di notare quale sia ancora l'ampiezza dell'opera da compiere per conoscere davvero l'età delle nostre riforme settecentesche. Insufficiente è la nostra conoscenza del movimento, dei rapporti cioè con l'illuminismo europeo in generale e con quello italiano in particolare, del ritmo con cui si sviluppa il moto riformatore, del peso specifico del liberismo economico rispetto agli altri elementi che pure sono in esso particolarmente importanti (diritto penale, costituzione, riforme amministrative ecc.). Insufficente, soprattutto, è la nostra conoscenza degli uomini. Basti pensare che non esiste un'opera su Francesco Maria Gianni, degno pur come egli evidentemente è di esser considerato una delle espressioni più alte del nostro Settecento. Né abbiamo un esame approfondito di un personaggio tanto caratteristico come Pompeo Neri. Non è davvero la mancanza di documenti che impedisca d'avvicinarci maggiormente a queste o ad altre figure del nostro XVIII secolo. Le carte di Gianni riempiono intere pareti dell'Archivio fiorentino e le lettere di Neri si incontrano spesso in questa o quella raccolta delle nostre biblioteche o dei nostri archivi. Né queste lacune ed assenze si notano unicamente in Toscana, ché anzi simili rilievi si potrebbero fare per numerosi altri uomini di altre terre italiane. Quel che è necessario è una sistematica ricerca nei carteggi del nostro Settecento, è una esplorazione metodica nelle carte che ci permettano di conoscere davvero, l'un dopo l'altro, gli uomini più rappresentativi dell'età delle riforme. I testi che il lettore troverà nelle pagine seguenti sono stati messi assieme anche nella speranza che possano suscitare una qualche settecentesca curiosità per gli uomini del passato, le loro passioni c le loro idee, curiosità senza la quale non esiste una autentica conoscenza di nessun movimento o problema.

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