Illuminismo

Dizionario di Storia (2010)

Illuminismo


Termine coniato per calco del tedesco Aufklärung («rischiaramento») e invalso nel lessico storiografico a partire dal tardo Ottocento, quale denominazione del grande e composito movimento culturale che si sviluppò, lungo il corso del XVIII secolo, all’insegna del rifiuto del principio di autorità, della critica della tradizione e della libera ricerca intellettuale in ogni sfera dello scibile. La classica (e icastica) definizione kantiana dell’I. come «uscita dell’uomo dallo stato di minorità» ne coglie pienamente la radicale carica emancipatrice, connettendola alla valorizzazione dell’uso autonomo della ragione: «Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo» (1784). Gli intellettuali che nel Settecento operarono ispirati da tale divisa si sentivano partecipi di una stagione culturale dallo straordinario rilievo storico, i cui progressivi traguardi erano rivendicati con fierezza e celebrati attraverso la metafora (d’origine biblica, ma integralmente secolarizzata) della luce che scaccia le tenebre: non più la luce della rivelazione, ma quella della filosofia; non più le tenebre del peccato, ma quelle dell’ignoranza. Philosophie prese a denominarsi, nel suo epicentro francese, la cultura delle Lumières. Philosophes, per antonomasia, si appellarono i suoi esponenti. Ciò non significa che essi condividessero una determinata dottrina filosofica: molteplici, differenti e non di rado confliggenti furono le posizioni teoriche e le indicazioni normative maturate nel dibattito illuministico. La comunione ideale riguardava invece la maniera di concepire e praticare l’attività intellettuale; il modo di intendere la funzione sociale del filosofo. Tale non era, agli occhi degli illuministi, l’uomo di cultura ripiegato nell’universo speculativo della sua dottrina. La riflessione filosofica doveva restare ancorata alla realtà empirica e progredire per logica induttiva senza nulla concedere allo «spirito di sistema» che aveva sedotto il razionalismo secentesco, trascinandolo – deduzione dopo deduzione – nei cieli della metafisica. La polemica contro le vane e sterili contemplazioni di una filosofia «che s’aggira nel nulla e non mette capo a nulla» (Condillac, 1775) ritorna insistentemente nelle pagine degli illuministi, che negano alla ragione umana la pretesa di bastare a se stessa nel viaggio della conoscenza, richiamandola a osservare i dati dell’esperienza. Non si tratta solo di un abito epistemico: tale postura antimetafisica è parte integrante del fondamentale orientamento pragmatico che caratterizza lo stile di pensiero illuministico. Entro quest’ottica, il valore della riflessione teorica, dell’indagine scientifica, dell’elaborazione ideale era misurato col metro dell’utilità pratica, cioè del beneficio recato alla società. La bussola della filo-sofia doveva essere la fil-antropia: il desiderio di contribuire alla felicità degli uomini, additando gli ostacoli che ne impedivano il perseguimento e progettando gli strumenti del loro superamento. Si integravano così alla vocazione pragmatica dell’I. altri due suoi elementi connotativi: il carattere essenzialmente laico e la dirompente attitudine critica. L’uomo e il mondo erano gli oggetti del sapere che importava coltivare; umani e mondani erano i valori e gli obiettivi che importava realizzare. L’I. accelerò e incrementò il processo di laicizzazione della cultura avviatosi con l’Umanesimo, il Rinascimento e la Rivoluzione scientifica. L’egemonia teologica sulla riflessione morale e politica si sgretolò definitivamente. Accantonati – come estranei al dominio della ragione – i problemi religiosi della salvezza ultraterrena e della giustizia divina, i philosophes si occuparono – come se Dio non ci fosse – della giustizia tra gli uomini e della felicità su questa terra. Pertanto, ogni aspetto della realtà sociale fu messo in discussione. La critica dell’autorità e della tradizione investì tutte le istituzioni, le gerarchie, le prassi, le convenzioni e i modelli di comportamento ritenuti sprovvisti di giustificazione razionale. Il vecchio e rispettato monito che suggeriva di parlare parum de Deo nihil de rege fu rigettato recisamente: dapprima la religione e poi l'assetto del potere statale furono sottoposti al vaglio critico della ragione. Deistica nel suo orientamento maggioritario, atea e materialistica nelle sue componenti più radicali, la cultura dei Lumi demistificò i sistemi positivi di credenza e gli apparati mitologici della religione, indagandone la genesi storica; attaccò con veemenza le istituzioni ecclesiastiche, contestandone i privilegi e il potere; imputò alla Chiesa la responsabilità dolosa dell’ignoranza popolare che frenava il progresso civile, favorendo il perdurare dell’iniquità sociale. Sul versante politico, il movimento illuminista – benché ideologicamente multanime – si contraddistinse per un comune profilo accentuatamente riformatore, le cui istanze di cambiamento furono intercettate solo in parte dagli esperimenti politici del dispotismo illuminato (➔ ); che infatti, dopo aver suscitato entusiastiche speranze, produsse cocenti delusioni. Una nuova visione della politica alimentava la riflessione illuministica. Una visione fondata sul paradigma del moderno giusnaturalismo contrattualista, la cui antropologia egualitaria rappresentava l’uomo come soggetto titolare di diritti naturali. Dal riconoscimento del carattere intangibile della vita, della libertà e della proprietà degli individui discendeva una concezione dello Stato antitetica rispetto a quella accreditata dalla tradizione: sulla deontologia dell’obbedienza, che prescriveva i doveri dei sudditi nei confronti del sovrano, si imponeva la teorizzazione del dovere del sovrano di rispettare e proteggere i diritti del soggetto. Conseguentemente, l’idea della potestas legibus soluta era respinta e, di contro, si stagliava la consapevolezza che per tutelare gli individui era necessario regolare, limitare e controllare l’esercizio del potere. È in questa prospettiva che si inscrivono le teorie della sovranità della legge, della divisione dei poteri e della rappresentanza politica, attraverso cui si profila il modello di Stato che orienta le proposte riformatrici e l’impegno progettuale degli intellettuali dei Lumi, anche nel loro dialogo con i monarchi assoluti. L’I. ebbe dimensioni europee e riverberi extracontinentali. Benché le sue radici affondino nella cultura scientifica, filosofica e politica dell’Inghilterra del Seicento, il suo centro principale fu la Francia: per tutto il XVIII secolo l’orizzonte cosmopolitico della «Repubblica delle lettere» fu percorso e colorato dai raggi vividi delle Lumières. Il legame con la cultura inglese fu particolarmente intenso nei primi e maggiori esponenti dell’I. francese: Voltaire e Montesquieu. Costretto a rifugiarsi in Inghilterra per sfuggire al carcere, Voltaire sfruttò il forzato esilio (1726-29) per stringere rapporti con scienziati, scrittori e uomini politici di tendenza liberale. Tornato in patria, si impegnò in un’opera di divulgazione delle idee di Locke e di Newton, all’interno di una complessiva proposta di rinnovamento culturale e politico che guardava all’Inghilterra come modello di società. Nei lunghi decenni della sua indefessa militanza civile – conclusasi solo con la morte nel 1778 – egli combatté il dogmatismo e il fanatismo religioso, esaltando il valore della tolleranza; contestò ogni forma di potere arbitrario, in nome della libertà; indicò prospettive riformatrici nell’organizzazione della convivenza sociale, avvertendo che la marcia del progresso dipende dalle gambe degli uomini. In De l’esprit des lois (1748) di Montesquieu – che ai suoi esordi letterari aveva graffiato la coscienza della società francese ritraendola nelle dissacranti pagine delle Lettres persanes (1721) – il modello inglese trasfigurava in una teoria costituzionale destinata a influenzare la cultura e le scelte politiche delle generazioni successive. Le istituzioni d’oltremanica, per Montesquieu, garantivano la libertà dei cittadini poiché impedivano gli abusi del potere attraverso un sistema di pesi e contrappesi, composto in modo che il potere arrestasse il potere. Un simile equilibro era impossibile dove il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario erano concentrati nella stessa autorità. Recuperando e sviluppando tesi di Locke e di Bolingbroke, Montesquieu affermava pertanto la necessità di separare le diverse funzioni potestative dello Stato, attribuendole a organi distinti, per mettere al riparo i diritti degli individui dalla minaccia del dispotismo. Alla metà del XVIII secolo, l’I. francese era ormai un fiume in piena, il cui impeto spaventava i poteri forti dell’Ancien régime. Emblematici appaiono i tentativi di fermare la grande impresa editoriale e culturale dell’Encyclopédie (1751-66), che sotto la direzione di Diderot e d’Alembert si avvaleva della collaborazione di quasi duecento intellettuali, tra cui spiccavano i nomi più rappresentativi delle Lumières. Dagli ambienti ecclesiastici, cortigiani, istituzionali si levò a più riprese la denuncia delle idee circolanti nei volumi dell’opera, il cui carattere eterodosso era percepito come un’insidia per l’ordine religioso e politico. Effettivamente, sotto un prudenziale velo intessuto di testi anodini e conformisti, traspariva l’insistita polemica contro la Chiesa cattolica e l’avversione all’assolutismo monarchico, eroso nei suoi contrafforti ideologici da un discorso politico che poneva il consenso dei governati a principio di legittimazione del potere e propugnava – per voce di d’Holbach – l’introduzione di istituzioni rappresentative a fianco dell’autorità regia. Approdi ben più eversivi ebbe la riflessione politica di Rousseau, che ruppe il sodalizio intellettuale con gli encyclopédistes nella seconda metà degli anni Cinquanta. La sua teoria del Contrat social (1762), muovendo dai postulati dell’uguaglianza e della libertà degli uomini nello stato di natura, giungeva a concepire un paradigma di società politica radicalmente democratico, che investiva direttamente il popolo del potere sovrano di fare le leggi. L’uguaglianza nella cittadinanza e la libertà come autonomia erano i cardini di un repubblicanesimo che si nutriva di esempi antichi e si apriva a prospettive palingenetiche, riflettendo, nelle sue istanze di giustizia sociale e di rigenerazione morale, orientamenti diffusi nella cultura illuministica. Anche per i non democratici Helvétius e Mably l’ideale della repubblica innervata dalla virtù civile e fondata sull’equa ripartizione della proprietà era il parametro per giudicare (severamente) la società contemporanea. La critica dell’esistente e la denuncia delle sue inveterate iniquità prendeva invece la forma dell’utopia comunistica nel Code de la nature (1755) di Morelly. In direzione ideologicamente opposta – sebbene a sua volta confliggente con lo status quo – si mosse un’altra componente del movimento illuminista: quella degli économistes, teorici della fisiocrazia. Secondo la loro visione, non dall’abolizione della proprietà privata o dalla sua frammentazione perequativa sarebbe derivato il progresso sociale, bensì dalla piena ed esclusiva disponibilità dei proprietari sui beni oggetto del loro dominio patrimoniale. Finivano così sotto accusa i vincoli feudali, i sistemi annonari e le politiche mercantilistiche d’antico regime, in un programma riformatore, consentaneo agli interessi della borghesia, centrato sulla libera proprietà terriera, la libera iniziativa economica e il libero scambio. La nuova economia politica trovò diffuse applicazioni pratiche nell’Europa tardo-settecentesca e ricevette un decisivo sviluppo teorico ad opera di Smith, con la pubblicazione di An enquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776). Filosofo della morale – oltre che economista – egli fu uno dei massimi protagonisti dell’effervescente stagione culturale dell’I. scozzese, che alle grandi opere storico-filosofiche di Hume, Ferguson e Robertson dovette la sua vasta risonanza internazionale. Centri vivaci dell’articolato e poliedrico dibattito illuministico furono anche l’area germanica e la Penisola Italiana. L’Aufklärung, esaltato da Kant alla fine del secolo, ebbe un precocissimo esordio in ambito giuridico con Thomasius e raggiunse la sua più alta e compiuta espressione con Lessing, le cui opere contribuirono alla nascita di una letteratura nazionale tedesca. Maggiormente influenzato dai modelli francesi fu il circolo illuminista lombardo dell’Accademia dei Pugni, che sotto la guida di Verri si lanciò nel brillante esperimento pubblicistico del Caffè (1764-66). Da questo dinamico ambiente culturale scaturì uno dei testi più rappresentativi del movimento illuminista europeo: Dei delitti e delle pene (1764) di Beccaria; che non solo avviò un grande e fecondo dibattito sul problema della giustizia penale, ma incise direttamente sulle riforme legislative dei decenni successivi. Nella pars destruens il discorso di Beccaria denunciava le storture e le atrocità di un sistema punitivo confessionale nelle proibizioni, feroce nelle punizioni, vessatorio nelle imputazioni e arbitrario nelle decisioni; nella pars construens sviluppava una teoria garantistica rivolta alla limitazione del potere statale, all’aumento della sicurezza individuale e all’espansione della libertà civile. Nell’Italia meridionale le tesi beccariane – sull’inutilità della pena di morte, contro la tortura, per la mitigazione del sistema penale – echeggiarono subito nelle pagine di Genovesi (ormai giunto al termine della suo fruttifero magistero civile) e stimolarono la riflessione giuspolitica di Filangieri e di Pagano, che negli anni Ottanta tentarono di promuovere la riforma del processo penale, incardinato ancora al paradigma inquisitorio di matrice romano-canonica. La circolazione internazionale delle idee illuministiche sfruttò una molteplicità di veicoli comunicativi. Giocarono un ruolo importante le istituzioni culturali e i nuovi luoghi della socialità borghese. Si moltiplicarono le accademie, le società scientifiche, le logge massoniche, i salotti intellettuali, i caffè, che mettevano a contatto uomini, esperienze, saperi diversi, favorendo le opportunità di dialogo e di lettura. Il mercato librario si espanse considerevolmente beneficiando dei progressi della scolarizzazione e dell’alfabetismo. Crebbe in particolare la produzione e il commercio di opere di divulgazione che facilitavano l’accesso ai più diversi campi della conoscenza. La stampa periodica, con la sua agilità e la sua fruibilità, si impose – a partire dall’Inghilterra dello Spectator e della Review – quale principale strumento di informazione e formazione. Una miriade di gazzette politiche e giornali letterari proliferò in tutta Europa. Negli anni Ottanta il numero dei fogli periodici pubblicati in Germania superò il migliaio: erano solo poche decine all’inizio del secolo. Attraverso tutti questi canali andò formandosi una nuova dimensione della vita sociale: l’opinione pubblica, la cui crescente consistenza cominciò ad assumere un peso politico di fronte ai governi. Il movimento dei Lumi si inserì in questo processo di sviluppo della società civile, promuovendolo e indirizzandolo. I suoi esponenti, dibattendo pubblicamente di questioni inerenti alla vita pubblica, si rivolgevano direttamente all’opinione pubblica, con un’intenzione formativa e pedagogica. Impegnati a costruire una coscienza collettiva avvertita e affrancata dalla tutela dei poteri tradizionali, gli illuministi incarnarono il prototipo del moderno intellettuale, che spende nella vita activa la propria capacità riflessiva. L’impatto sociale della presenza nella sfera pubblica di questi nuovi intellettuali variò sensibilmente da paese a paese. In Francia, la diffusione del pensiero critico delle Lumières preparò il terreno culturale su cui attecchì l’albero della Rivoluzione.

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