GUIDI, Ildebrandino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 61 (2004)

GUIDI, Ildebrandino (Ildebrando, Bandino)

Marco Bicchierai

Minore dei quattro figli maschi del conte Guido, detto Guido Pace, conte di Romena e di Maria di Uberto Pallavicini, nacque, presumibilmente fra 1257 e 1265, forse dopo tre femmine, risultando l'ultimo figlio della coppia, come sembrerebbe indicare anche l'uso del diminutivo. Quasi certamente fu il padre a destinarlo da giovane a una carriera ecclesiastica che potesse consentirgli onori senza rischiare di compromettere troppo il patrimonio; è possibile quindi che per il G., a una iniziale e tradizionale educazione fra armi e cavalli, se ne fosse aggiunta una sui libri lontano dai castelli paterni.

Sicuramente egli risulta assente e non coinvolto nelle prime azioni dei fratelli Aghinolfo, Alessandro e Guido dopo la morte del padre intorno al 1280. Non lo toccò nemmeno l'accusa di falsificazione dei fiorini rivolta contro i fratelli dopo l'arresto a Firenze e l'esecuzione - divenuta celebre grazie al racconto fattone da Dante (Inferno, XXX, vv. 73-78) - di maestro Adamo, l'artigiano esecutore delle monete. In questo periodo egli era già entrato a far parte dei canonici della cattedrale di Arezzo e forse per un periodo tenne anche il titolo di pievano di Bibbiena.

In ogni caso dovette in qualche modo coinvolgerlo il mutamento di schieramento politico che i fratelli compirono intorno al 1283, passando dalla fede ghibellina alla parte guelfa e a Firenze; non è improbabile, infatti, che esso incidesse nel far sì che il capitolo lo indicasse per la carica episcopale di Arezzo, dopo la morte a Campaldino nel giugno 1289 del vescovo Guglielmino degli Ubertini. Nel settembre dello stesso anno, da Rieti, papa Niccolò IV lo nominava formalmente alla cattedra ed egli sembrò distinguersi subito per un atteggiamento di mediazione e neutralità tra le fazioni, promuovendo a Firenze accordi della città con esponenti di famiglie ghibelline che volevano passare alla parte guelfa.

Anche ad Arezzo, in un momento particolarmente difficile per la città che era stata con il vescovo Guglielmino un baluardo del ghibellinismo, il G. cercò di mediare e pacificare. Pare però che nello stesso 1290 si fosse mostrato anche disposto a coprire un intervento di Firenze su Arezzo. Fallito tale progetto, si adoperò a favorire il rientro dei fuorusciti e a cercare un accordo con i Tarlati, la famiglia al vertice della fazione ghibellina, per concludere una pace generale. Non è chiaro se la sua azione dette frutti; in ogni caso, fra fine 1290 e inizio 1291, il pontefice decise di affidare al G. l'incarico di sistemare la situazione in Romagna e ciò sembrerebbe da intendersi piuttosto come frutto di apprezzamento che come necessità di allontanarlo da Arezzo. Inizialmente al G. furono dati solo i poteri politici con il titolo di "conte" della Romagna. Il primo obiettivo era liberare il precedente legato papale, Stefano Colonna, prigioniero a Ravenna dei fratelli Ostasio e Lamberto da Polenta.

Il G., spalleggiato dai fratelli Aghinolfo e Alessandro, da tre ambasciatori fiorentini e da alti esponenti laici ed ecclesiastici, in effetti riuscì quasi subito a ottenere tale liberazione. Stabilitosi a Forlì, puntò quindi a rafforzare la supremazia politica della Chiesa sui centri romagnoli: nel marzo 1291 convocò nella città un Parlamento generale per esporre gli ordinamenti predisposti; fra essi l'imposizione di una taglia annua di 20.000 fiorini da suddividersi fra le città romagnole per il reclutamento e il mantenimento di un esercito pontificio, l'obbligo del consenso del Papato per ogni tassa che le città volessero imporre e la nomina da parte della Chiesa, o almeno in accordo con essa, dei rettori delle varie città. Il Parlamento rifiutò di sottomettersi e si appellò direttamente al papa, il quale però sostenne l'azione del suo inviato e il 16 giugno lo fece suo vicario anche in spiritualibus.

Il G., con i fratelli, ingaggiò allora un braccio di ferro, destinato a durare a lungo, con i centri romagnoli. Nel luglio Cesena rifiutò il podestà da lui scelto e cedette solo dopo aver subito la minaccia d'interdetto; intanto però egli aveva dovuto spostarsi a Forlì. Quindi tentò di pacificare le fazioni di Imola, riuscendovi solo nell'agosto e dopo essere stato costretto a rifugiarsi per un periodo a Forlimpopoli; muovendo, poi, verso Faenza gli fu impedito l'ingresso in città sotto le pressioni di Maghinardo Pagani. Nel gennaio 1292, raccolte varie forze filoguelfe, attaccò Cesena che si era ribellata, quindi fece occupare il castello di Bertinoro. Nel febbraio, a Forlì, tentò di ottenere dalla città uomini o il denaro pattuito per poter continuare la lotta contro i ribelli, ma intanto Maghinardo Pagani con gli uomini di Ravenna, Cervia e Faenza assalì la città. Nello scontro i ribelli riuscirono a impadronirsi di Forlì e a prendere prigioniero anche il conte di Romena Aghinolfo, fratello del G., con il figlio Uberto, mentre le milizie guelfe furono costrette a riparare a Cesena, Castrocaro e Bertinoro. Il G. chiese allora da Cesena aiuti a Bologna e a Firenze, ma nel luglio, prima che potesse ottenerli, la città venne assediata da Maghinardo. In suo soccorso, e per tentare una mediazione, giunse a Cesena Malatesta da Rimini al quale il G., rifugiandosi nel castello di Dovadola appartenente ai parenti filoguelfi, lasciò la città. Senza aver potuto avere aiuti dalle città guelfe e in posizione di stallo, egli si risolse a un accordo con Maghinardo che fu siglato il 26 maggio a Forlì. Era sostanzialmente una resa.

Nell'ottobre, infatti, il papa toglieva al vescovo di Arezzo l'incarico per la Romagna e questi, sempre accompagnato dai fratelli, poteva tornare alla sua sede episcopale. Ad Arezzo la lotta fra fazioni aveva assunto gli aspetti della contrapposizione fra magnati e popolani: ai verdi, di tradizione guelfa, sostenitori di un governo di popolo, si contrapponevano i secchi, che raccoglievano le più grandi famiglie anche di tradizione ghibellina; i primi avevano trovato un capo in Uguccione Della Faggiuola, mentre i secondi erano guidati dalla ambiziosa e potente famiglia dei Tarlati. Il G., per analogia di status e per difendere l'autonomia politica del vescovo contro le istituzioni comunali di popolo, appoggiò i secchi, mettendosi in urto con Uguccione. Nonostante ciò i verdi riuscirono a prevalere e a cacciare dalla città i Tarlati e gli Ubertini che, imputando forse scarsa energia al vescovo, devastarono le sue terre casentinesi e quelle della famiglia. Nel 1297, anche dietro pressione fiorentina, si arrivò a una pace fra vescovo e grandi famiglie e fra queste e il Comune, che consentì loro il rientro in città.

Gli anni successivi furono comunque un alternarsi di lotte per il potere. Nel 1302 il G. fu costretto a scontrarsi con gli Ubertini; quindi con l'appoggio dei Tarlati si oppose a Uguccione che intendeva diventare podestà a vita di Arezzo e fece in modo che al suo posto venisse chiamato Federico da Montefeltro; l'anno successivo il tentativo fu ripetuto da Uguccione, con l'appoggio del papa Bonifacio VIII, e fu nuovamente fermato dal Guidi.

Nel frattempo Arezzo era divenuta anche il rifugio dei bianchi esuli da Firenze che nei conti Guidi di Romena, compreso quindi il G., avevano trovato anche un appoggio ai loro tentativi di rientrare in città e prendervi il potere. Proprio per questo fu ad Arezzo che pose la sua base fra 1306 e 1308 il cardinale Napoleone Orsini per i suoi tentativi, falliti, di riconciliare bianchi e neri fiorentini. I neri fiorentini, fra l'altro, per togliere la base di appoggio ai bianchi, sostennero Uguccione Della Faggiuola, che nel 1308 riuscì a rientrare ad Arezzo e a provocare nell'ottobre un moto di popolo contro il G. e contro i Tarlati che furono cacciati. Solo ai primi di novembre egli riuscì a riprendere il controllo della situazione e a mediare una pace fra Uguccione e i Tarlati, che rientrarono in città.

L'anno successivo il G. fu molto probabilmente il principale promotore della calorosa accoglienza che la città di Arezzo riservò agli ambasciatori dell'imperatore Enrico VII che preparava la sua venuta in Italia, ed egli stesso ricevette poi personalmente gli ambasciatori nel castello vescovile di Civitella prestando giuramento di fedeltà da parte della Chiesa aretina. L'imperatore, sia per mostrarsi riconoscente sia per garantirsi un appoggio sicuro, al rientro degli ambasciatori nominò il G. suo vicario in Arezzo. Così, quando nella primavera 1312 Enrico arrivò in Toscana, il G. andò personalmente a Pisa a presentargli fedeltà e appoggio e ricevette la conferma del titolo di vicario imperiale e dei beni della Chiesa aretina. Inoltre sostenne davanti all'imperatore che Cortona era soggetta all'alta signoria della diocesi aretina secondo privilegi imperiali più volte confermati. In questo modo prevenne abilmente l'iniziativa dei Cortonesi che, quando l'imperatore passò per la città, gli chiesero di considerare Cortona sottomessa solo a lui ma non alla Chiesa di Arezzo.

La conferma della signoria su Cortona giunse tuttavia quando il G., che non aveva seguito l'armata imperiale ed era rimasto a Pisa, era già morto.

Fonti e Bibl.: Annales Aretini, a cura di A. Bini - G. Grazzini, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XXIV, 1, pp. 11 s., 17; Petrus Cantinellus, Chronicon, a cura di F. Torraca, ibid., XXVIII, 2, pp. 63-65, 68-74; R. Davidsohn, Forschungen zur Geschichte von Florenz, IV, Berlin 1908, p. 495; Documenti per la storia della città di Arezzo, a cura di U. Pasqui, II, Firenze 1920, pp. 477, 489 s., 502, 504, 522; G. Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, I, Parma 1990, pp. 617 s.; R. Davidsohn, Storia di Firenze, Firenze 1956-68, ad ind.; A. Vasina, I Romagnoli fra autonomia cittadina e accentramento papale nell'età di Dante, Firenze 1964, pp. 213-217, 220-229, 232-236, 238-240, 242, 249, 395; S. Valenti Muscolino, Origine dei conti Guidi e il ramo da Romena, Policoro 1994, pp. 128-134; F. Ughelli - N. Coleti, Italia sacra, I, Venetiis 1717, coll. 423 s.; C. Eubel, Hierarchia catholica, I, Monasterii 1913, p. 104; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, s.v.Guidi di Romagna, tav. XII.

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