IL ROMANZO DELLA GLOBALIZZAZIONE

XXI Secolo (2009)

Il romanzo della globalizzazione

Stefano Calabrese

Dal romanzo postmoderno al global novel

A lungo, nel corso del Novecento, il romanzo ha rischiato di soccombere sotto il peso delle proprie ambizioni: ambizioni conoscitive, beninteso, non estetiche. Se con James Joyce, Marcel Proust e Virginia Woolf il modernismo aveva imposto al narrare il compito di deautomatizzare il modo in cui percepiamo la realtà e di dubitare sistematicamente del grado di veridicità del linguaggio standard, la decostruzione dell’intreccio, inaugurata già da Jorge Luis Borges nei tardi anni Trenta, cooperò in egual misura a rendere sempre più assolutistiche le ambizioni del romanzo. Per quasi mezzo secolo, narrare sarebbe restato un problema per i romanzieri e un sicuro onere per i lettori, costretti a un lavoro interpretativo assai maggiore di quello che la letteratura romanzesca aveva richiesto nella modernità ai suoi affascinati adepti. Improvvisamente, la grande tradizione narrativa dell’Ottocento diede l’impressione di essersi eclissata per sempre – quella tradizione secondo la quale un intreccio romanzesco rappresentava l’accurata simulazione di un destino possibile.

Se si pensa alla migliore produzione romanzesca degli anni Settanta – a La vie, mode d’emploi (1978; trad. it. La vita, istruzioni per l’uso, 1984) di Georges Perec o Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) di Italo Calvino –, non è difficile constatare il declino tardonovecentesco dell’intreccio, la scomparsa di quello che Giacomo Debenedetti definiva il personaggio-uomo, la puntuale estromissione dal testo della lingua veicolare, la centralità ormai assunta dal destinatario (il lettore) nel meccanismo di produzione del testo stesso a detrimento del destinatore (l’autore), il predominio della metanarrazione sull’intreccio, cioè del discorso che parla del farsi di un romanzo in luogo del romanzo stesso.

Quella lunga stagione novecentesca, riassumibile sul terreno della letteratura con l’etichetta di postmodernismo e testimoniata da romanzi d’insuperabile – benché algida – intelligenza, portò a una brusca contrazione delle quote di mercato del romanzo: mentre si celebrava l’apoteosi del lettore-modello come autore di secondo grado, il lettore reale cominciava a scomparire o a rivolgersi ad altre modalità narrative, in particolare cinematografiche e televisive. Il nome della rosa (1980) di Umberto Eco chiude, da un lato, la grande stagione del postmodernismo e, dall’altro, con il suo rimarchevole successo, apre un periodo di crescita degli utili del romanzo sul mercato mondiale della lettura. È da quel momento che nasce il romanzo nella sua attuale configurazione, benché negli ultimi anni si siano avuti ulteriori, fervidi mutamenti che verranno descritti nelle prossime pagine: è possibile intanto battezzare global novel (romanzo della globalizzazione) la nuova morfologia assunta dal narrare a partire dagli anni Ottanta del 20° sec. sul modello di un testo anticipatore e straordinario come Cien años de soledad (1967; trad. it. Cent’anni di solitudine, 1968) di Gabriel García Márquez.

Il punto di svolta è stato determinato da fattori diversi, accentuatisi in questi primi anni del 21° sec., a cominciare dalla rivoluzione informatica e dalla costituzione di reti comunicative mondiali dove la simultaneità tra emittente e ricevente ha reso obsoleto il concetto stesso di distanza geografica e ha abbattuto drasticamente i tempi di trasmissione dei testi. Entro il perimetro di questa ecumene di nuova generazione hanno cominciato a formarsi aree culturali necessariamente più ampie di quelle sperimentate dagli Stati nazionali, con una netta disgiunzione dei processi attraverso cui l’io acquisisce un’identità da quelli attraverso cui un territorio produce meccanismi identitari e permanenze culturali – in una parola, un folklore. Il colossale flusso transnazionale tuttora in corso, la deterritorializzazione di intere popolazioni da un continente all’altro hanno per così dire obbligato il romanzo a farsi carico della descrizione di questi nuovi luoghi multietnici e, insieme, a creare un modello che renda immuni contro i pericoli di destabilizzazione delle strutture identitarie grazie a narrazioni meno legate a tradizioni letterarie nazionali, a sceneggiature esistenziali più flessibili e riutilizzabili, a intrecci in cui ad agire non è il ‘personaggio’, sovrano assoluto del romanzo dell’Ottocento con le sue singolarità irriducibili, la sua memoria individuale e i suoi desideri più riposti, ma intere équipes di personaggi correlati tra loro – come già avveniva nel capolavoro di Màrquez, storia non di un singolo individuo ma di un’intera genealogia familiare.

È da questa inedita miscela di stili di vita, tradizioni culturali e sostrati etnici che è derivato il recente assestamento del romanzo – al quale spetta da sempre il compito, è bene ricordare, di rinegoziare la memoria sociale –, a cominciare dalla semplice anagrafe dei narratori di maggiore successo: alla prima generazione di scrittori transnazionali e cosmopoliti, quella di Vladimir V. Nabokov (scrittore russo emigrato negli Stati Uniti prima di prendere definitivamente dimora in Svizzera) o di Joseph Conrad (polacco emigrato in Russia per poi scegliere di abitare stabilmente in quel non luogo per antonomasia che è un mercantile), e alla seconda, nutrita schiera di nomadi della scrittura – basti pensare a Julio Cortázar, un argentino nato a Bruxelles e vissuto a Parigi; a Mario Vargas Llosa, un peruviano che ha insegnato successivamente nelle università inglesi, tedesche e americane; a Carlos Fuentes, un messicano vissuto prima in Europa, poi in Africa e infine in Asia – ha fatto seguito una schiera interminabile di narratori i quali, per essere transnazionali e assegnarsi un ‘sé’ multilocale, non hanno neppure più bisogno di entrare nella fantasmagoria dei flussi migratori.

Non si tratta nemmeno più – come per Salman Rushdie, scrittore indiano di lingua inglese che ha studiato a Oxford, ha vissuto a lungo a Londra e infine è approdato a New York – di teorizzare la necessità di allontanarsi dai luoghi della propria infanzia, poiché in una cultura globalizzata la nostra autentica dimora è ovunque e in ogni luogo, fuorché dove abbiamo incominciato, come ha affermato lo stesso Rushdie; né costituisce ormai un segno di novità l’idea che si possa annettere alla forma-romanzo qualcosa solo allorché la si osservi con lo sguardo straniato dell’esule – come ha scritto Isabel Allende nel suo racconto autobiografico Mi país inventado (2003; trad. it. Il mio paese inventato, 2003). In fondo, per riprendere la dicotomia del saggista Zygmunt Bauman, queste dichiarazioni sono ancora in linea con il passaggio antropologico dalla figura del pellegrino, l’individuo che nella modernità viaggiava sapendo sempre di avere una patria cui fare ritorno, alla figura del turista, colui che si tiene a distanza da tutto e da tutti, che non esperisce eventi perché non ha uno scopo da perseguire ma si perde in una serie illimitata di episodi frammentari, conclusi in sé stessi, vissuti in una sorta di gaia, liquida istantaneità.

Oggi, le cose hanno proceduto in una direzione ancor più avanzata. Non più semplicemente scrittori che si allontanano dai luoghi d’origine, ma narratori del dispatrio incessante, romanzieri translingui, che scelgono cioè consapevolmente di scrivere in una lingua diversa da quella del Paese in cui sono nati: per es., il sudafricano John M. Coetzee (nato a Città del Capo nel 1940), che non per caso ha dedicato la sua tesi di dottorato a Samuel Beckett, uno scrittore che da un certo momento in avanti produsse testi in una lingua di adozione, il francese. Un’intera generazione di romanzieri globalizzati sembra oggi voler sfuggire ossessivamente a qualsivoglia prigione territoriale o localistica; nemici giurati del relativismo linguistico – ossia dell’ipotesi che il linguaggio condizioni il punto di vista attraverso cui leggiamo la realtà –, spesso scrivono in una lingua acquisita tardivamente per controllare meglio il senso di ciò che esprimono ed evitare ogni inutile nostalgia: il translinguismo letterario, il fenomeno in base al quale gli scrittori producono testi in lingue diverse o almeno in una lingua differente da quella materna, sta infatti emergendo come una delle più recenti novità della sfera letteraria (Kellman 2000; trad. it. 2007, pp. 9-12). Quali sono le ragioni di mutamenti così vistosi?

Un inedito connubio: romanzo e linguaggio veicolare

Se si guarda al campo letterario, potremmo affermare che il Novecento è stato in ampia misura il secolo che ha sottoposto a una critica radicale il grado di veridicità e trasparenza del linguaggio quotidiano, quel set di parole, figure retoriche stereotipate, cliché e arcature sintattiche brevi, spesso corrive, caratteristiche del codice orale, cui ricorriamo ogni giorno per comunicare con i nostri interlocutori. Dopo secoli di filologia, cioè di amore per la parola, gli scrittori modernisti e postmodernisti si erano per la prima volta attenuti a una sorta di misologia, di rancore nei confronti della lingua standard, accusata dai filosofi di tradire il mandato delle nostre autentiche volizioni e dai linguisti di espropriare l’autenticità dell’individuo attraverso codici di riuso, espressioni mendaci, lessemi opachi. Per non dire di Sigmund Freud, per il quale nei motti di spirito, nel lapsus, nelle metafore prendeva corpo una lotta all’ultimo sangue tra l’inconscio e gli organi di governo diurno dell’io, una lotta da cui scaturiva una formazione di compromesso, cioè una bugia in grado solo di spostare, condensare o inquinare la verità da esprimere. Ebbene, il romanzo è stato il più grande apparato di registrazione di questo clima di sospetto nei confronti del linguaggio quotidiano, se soltanto si pensa a Jorge Luis Borges, John Barth, Samuel Bellow, Günter Grass e, in Italia, a Carlo Emilio Gadda: l’espressionismo linguistico, il ricorso a lingue assolute e depurate come in Beckett, o del tutto inventate secondo il memorabile e fallimentare esempio del joyciano Finnegans wake (1939, un testo innovativo che, tuttavia, nessuno, neppure nel mondo anglosassone, è riuscito a leggere bensì a ‘decifrare’, e che non si è potuto tradurre in alcuna lingua straniera salvo che per alcuni brevi frammenti), hanno fatto del romanzo uno dei luoghi più elitari dell’ambito estetico contemporaneo.

Oggi sta accadendo il contrario. La multimedialità, il diffondersi di forme di trasmissione audiovisiva, la retorica semplificata della scrittura digitale, l’obbligo di trovare un medium flessibile allorché interlocutori di diversa provenienza etnoculturale entrano in contatto, il primato assunto dal linguaggio del telegiornalismo nel costituire il motore dell’innovazione linguistica sono fenomeni congiunti e simultanei che hanno suggerito al romanzo di riadottare la lingua standard a strumento di narrazione. Parimenti, il minore rilievo assunto dal linguaggio del ‘discorso’ romanzesco ha segnato una valorizzazione senza precedenti della ‘storia’ romanzesca: le parole, sembrano oggi dirci gli scrittori, sono solo il veicolo di una stringa aneddotica cui si dà il nome di intreccio. Più masse ingenti di popolazione si acculturano, più trionfa il linguaggio della divulgazione, ciò che in retorica si definiva accomodatio, il riadattamento della forma al contenuto cui ricorrevano già i gesuiti del 17° sec. quando si rapportavano alle culture non europee; peraltro, va detto che è il sistema mondiale delle culture a tendere, se non al monolinguismo, a una drastica riduzione del numero delle lingue effettivamente parlate, dove a deperire con rapidità sono soprattutto i dialetti: oggi si è arrivati a un numero di poco inferiore alle 7000 lingue, con una diminuzione dal secondo dopoguerra valutabile intorno al 20%.

È stato Nick Hornby (n. 1957), uno dei romanzieri inglesi attualmente più apprezzati, a esprimere con la consueta, ribellistica brutalità l’orientamento veicolare del linguaggio narrativo oggi prevalentemente registrabile in tutti i Paesi occidentali: «Non nutro un particolare interesse per il linguaggio. Meglio, nutro interesse per quello che del linguaggio può servirmi, e ogni giorno trascorro ore cercando di far sì che la mia prosa sia la più semplice possibile. Ma non ambisco a creare una prosa che attiri attenzione su di sé più che sul mondo che descrive, né certamente ho la pazienza di leggerla […] Se si desidera che la lettura sopravviva come attività di svago, e alcune statistiche dimostrano come la cosa non sia affatto scontata, allora dobbiamo fare pubblicità alle gioie che ci regala, più che ai suoi (dubbi) benefici» (Hornby 2006; trad. it. 2006, pp. 11-12). L’adozione del linguaggio quotidiano ha non solo riavvicinato il romanzo al mondo del lettore, ma ha comportato un riassestamento delle strategie retoriche più funzionali al global novel. Semplificando, potremmo affermare che, in conseguenza dello spostamento massiccio delle narrazioni sui format mediali di tipo audiovisivo (si pensi ai serial televisivi), si è elevato il tasso di figuralità retorica dei testi narrativi, ma non tanto a favore della metafora – che opera per sostituzioni analogiche e presuppone spesso una distanza, ardua da colmare cognitivamente, tra figurante e figurato –, bensì con un incremento delle figure accrescitive quali l’iperbole (che aumenta o diminuisce le dimensioni di ciò di cui si parla, per orientare l’immaginazione dei destinatari verso un’unica, irrevocabile direzione semantica) e, soprattutto, l’ipotiposi (che aumenta l’indice di visibilità di qualcosa per renderla meglio percepibile, a detrimento degli elementi più concettuali, come nella pubblicità delle caramelle Polo: «Il buco con la menta intorno»). Strumenti essenziali dell’immaginazione – la facoltà di rielaborare in modo creativo le immagini memorizzate e, al tempo stesso, di trasformare in immagine qualcosa di astrattamente concettuale –, iperboli e ipotiposi sono le animatrici stabili del discorso romanzesco attuale, come dimostra il caso fortunato di Io non ho paura (2001) di Niccolò Ammaniti (n. 1966).

Il romanzo è la storia del rapimento di un bambino durante l’estate del 1978 in una zona imprecisata dell’Italia meridionale, narrata in prima persona da un coetaneo del rapito che fatica a comprendere cosa stia avvenendo. Come quasi sempre nei romanzi occidentali degli ultimi anni, abbiamo dunque un narratore omodiegetico (cioè che rappresenta uno degli attori della storia narrata) il cui punto di vista oscilla tra il piano della storia (il narratore rivede quello che esperì nel 1978, e le percezioni messe in racconto sono quelle di un bambino) e il piano del discorso (il narratore è ormai trentenne, e racconta la storia in una data prossima a quella di pubblicazione del romanzo). Ecco, per es., come il narratore descrive il volto del rapitore: «Sergio Materia era magro. Con la testa pelata. Sopra le orecchie gli crescevano dei capelli giallastri e radi che teneva raccolti in una coda. Aveva il naso lungo, gli occhi infossati e la barba […] Le sopracciglia lunghe e biondicce sembravano ciuffi di peli incollati sulla fronte. Il collo era grinzoso, a chiazze, come se glielo avessero sbiancato con la candeggina» (p. 88). Il volto ritratto sembra qui smarrire le caratteristiche della sua oggettiva naturalezza – potremmo dire, il segreto della sua genesi –, benché il linguaggio e la partitura retorica siano semplificati al massimo: lessemi iperveicolari, sintassi accentuatamente paratattica. Il narratore omodiegetico descrive il personaggio con lo sguardo di un bambino (il testo di Ammaniti risulta dichiaratamente esemplato su Pin, il giovane protagonista del calviniano Il sentiero dei nidi di ragno) sino al punto da derealizzare l’oggetto del discorso e mostrarlo nella sua iperrealtà: l’ipotiposi «sembravano ciuffi di peli incollati sulla fronte» o un adynaton (forma di ragionamento incrementale simile all’ipotiposi, che ricorre all’impossibile per spiegare il reale) quale «come se glielo avessero sbiancato con la candeggina» ci riportano all’habitus cognitivo di un bambino che manipola i rapporti scalari della realtà in modo da riuscire a comprenderla meglio.

Ma si tratta soltanto di questo? Sappiamo che il romanzo di Ammaniti, cioè di un narratore nato in una civiltà fondamentalmente audiovisiva, deriva dalla rielaborazione di uno script realizzato intorno al 1999 per una fiction televisiva la cui produzione non è poi stata portata a termine, e le strategie retoriche messe in opera risentono in modo diretto di questa originaria consanguineità con il codice visivo. Controprova testuale di ciò: la totale assenza dal testo di Ammaniti di figure di sostituzione quali la metafora, in linea, d’altronde, con il più generale declino della strategia metaforica nei romanzi attuali. Perché?

Si tenga conto che negli ultimi anni la comunità scientifica ha aperto nuove prospettive in grado di convincerci che le metafore non sono affatto un mero strumento dell’immaginazione letteraria: in particolare, gli studi del sociolinguista George Lakoff hanno chiarito non soltanto che l’essenza della metafora consiste nel farci comprendere qualcosa nei termini di un’altra – rivestendo dunque un rilievo non sottovalutabile all’interno dei rapporti tra pensiero e linguaggio – ma soprattutto che aree assai estese della nostra esperienza vengono comprese sin dall’inizio su base metaforica. Detto in altri termini: la metafora non sarebbe qualcosa di derivato ma di originario, al pari della letteralità, come nel caso delle cosiddette metafore di orientamento (o metafore spaziali), che erogano modelli di comprensione del mondo in termini di relazioni topologiche del tipo su-giù, dentro-fuori, davanti-dietro. Questi orientamenti metaforici riguardano aree concettuali primarie della nostra cultura e non sono arbitrarie o convenzionali, bensì nascono sempre dalla nostra esperienza fisica, al punto che ci è quasi impossibile pensare alcuni concetti privandoli del loro intrinseco, coerente, unitario tasso di figuralità spaziale: per intenderci, contento è su, triste è giù; salute è su, malattia è giù; più è su, meno è giù; una condizione sociale elevata è su, bassa è giù. Ora, è esattamente questo patrimonio quotidiano di esperienze e di senso comune che ha iniziato a mutare grazie alla vertiginosa, crescente circolazione delle informazioni indotta soprattutto dall’uso di Internet, e a subirne i primi contraccolpi sono state proprio le nazioni – aggregati macrosociali che, a partire dalla modernità, si erano costituiti sulla base di un thesaurus condiviso di pratiche quotidiane, tradizioni, linguaggi. Il romanzo ha dunque rigettato le metafore (in particolare, le metafore di orientamento valoriale) per evitare il pericolo di misinterpretazioni, e ciò ha costituito un’ulteriore causa del livellamento veicolare del linguaggio: questo almeno è ciò che teorizza Jacques, il protagonista del romanzo di Javier Marías intitolato Tu rostro mañana, 1, Fiebre y lanza (2002; trad. it. Il tuo volto domani, 1, Febbre e lancia, 2003), abituato a indagare le parole servendosene per leggere il futuro, e convinto che «è incredibile come rapidamente le parole, pronunciate o scritte, lievi o gravi, tutte, insignificanti o con significato, si smarriscano e diventino lontane e rimangano indietro. Per questo dobbiamo ripetere, eternamente e spropositatamente dobbiamo ripetere: fin dal primo vocabolo, fin dal primo balbettio umano e anche fin dal primo dito indice che indicò senza parlare. Una e un’altra e un’altra volta, e inutilmente una volta di più» (pp. 202-03).

D’altro canto, la consanguineità tra il verbale e l’iconico mediata dall’attuale civiltà dell’audiovisivo ha probabilmente favorito il riadattamento cinematografico (2003) del romanzo di Ammaniti da parte di Gabriele Salvatores. Siamo così giunti a un ulteriore elemento caratterizzante della forma-romanzo odierna – la ‘rimediazione’ –, cui si congiunge un mutamento del pubblico, come appare evidente dal fatto che oggi appaiono sempre più spesso testi cosiddetti crossover, ossia rivolti a pubblici molto diversi (adulti e bambini, colti e scarsamente alfabetizzati, uomini e donne). Non solo scrittori affermati presso un pubblico internazionale si cimentano sistematicamente in sottogeneri quali la letteratura per l’infanzia (per es., David Grossman con Giraffe bedtime (2000; trad. it. Buonanotte giraffa, 2001); Isabel Allende con La ciudad de las bestias (2002; trad. it. La città delle bestie, 2002); Tahar Ben Jelloun con La belle au bois dormant (2000; trad. it. La bella addormentata. Una fiaba d’autore per parlare di razzismo ai nostri figli, 2003), ma cominciano ad apparire cicli romanzeschi volutamente transgenerazionali. Con il suo accentuato, sagace sincretismo morfologico (temi tratti dalla fiaba popolare, sit-com, cartoni animati disneyani, film d’avventura, spy stories), dal 1998 i sette romanzi che costituiscono il ciclo narrativo di Harry Potter sono la dimostrazione della confluenza di due ambiti letterari tradizionalmente asintotici – la letteratura for adults only e la letteratura per l’infanzia – a supporto di un mercato editoriale che, dopo aver raggiunto negli anni Ottanta l’apice della differenziazione, ha ormai iniziato a procedere verso un’indistinta, originaria pangea narrativa – come all’origine della cultura, quando era il mito a passare di bocca in bocca e a demarcare le soglie rituali dell’esistenza.

Recenti statistiche circa la ricezione statunitense dei romanzi di Joanne K. Rowling (n. 1965) mostrano come solo il 57% dei lettori abbia un’età inferiore ai quindici anni. Il romanzo crossover, translocale e pangenerazionale, usufruibile ovunque, rimediato da tutti i media e rivolto a ogni classe d’età è dunque fortemente radicato nel mercato mondiale, anche perché la diffusione del realismo magico in molte letterature nazionali ha ulteriormente accorciato le distanze tematiche e valoriali tra i comparti letterari più alti e quelli più popolari – distanze che soltanto vent’anni fa contraddistinguevano la produzione narrativa. Ha davvero ragione Stephen King (n. 1947), il maestro dell’horror, ad affermare come la vera novità del ciclo romanzesco di Harry Potter sia l’incessante pendolarismo del magico nel quotidiano e del quotidiano nel magico, tanto più che l’azione di crossover riguarda altresì la tipologia dei personaggi (i malvagi si rivelano buoni, come il professor Piton, mentre i buoni finiscono a volte per delinquere) e la confezione editoriale: si è passati dalle circa duecento pagine del primo romanzo, una durata canonica nella letteratura per l’infanzia, alle circa novecento pagine del quinto romanzo, Harry Potter and the order of the phoenix (2003; trad. it. Harry Potter e l’ordine della fenice, 2003), estensione assai più appropriata alla letteratura per adulti (Colbert 2001; trad. it. 2001, pp. 84 e sgg.). È questa massa narrativa globale, gelatinosa e integrata a essere attualmente attraversata da un fenomeno noto come rimediazione.

‘Rimediare’: il circolo virtuoso dei media

Con il concetto di rimediazione (remediation) da un decennio ci si riferisce alla necessaria interpenetrazione dei media in un contesto storico dove la digitalizzazione ha imposto la sostanziale convergenza di tutti i mezzi di trasmissione, di tutti i format comunicativi e dei codici semiotici entro un sistema interconnesso, interattivo e integrato, al punto che il contenuto dei media digitali sono tutti gli altri media, sia là dove si alimentano le strategie dell’‘immediatezza’ (si pensi alle dirette televisive, alle chat-line intercontinentali, ai reality show), sia là dove a essere applicata è la strategia opposta dell’‘ipermediazione’ (le schermate di Internet sfogliate come le pagine di un libro, i filmati di YouTube incorniciati dal trompe-l’æil di uno schermo televisivo). Sta di fatto che a contraddistinguere la produzione estetica è oggi la facilità con cui un testo si reincarna in un medium diverso da quello originario – romanzi che divengono film o videogame, film che danno luogo a testi narrativi (è il caso di The last world:Jurassic Park II, del 1997), romanzi che danno luogo a fiction televisive le quali a propria volta subiscono riadattamenti a seconda delle nazioni in cui tali format vengono trasmessi (è il caso di Sex & the City, in programmazione dal 1998, o di Cuéntame, un format spagnolo trasmesso in Italia con il titolo Raccontami a partire dal 2006), narrazioni che vengono pensate appositamente per il web e alimentate interattivamente dai lettori (noto il caso di Kioko, un’adolescente generata in Giappone dai laboratori informatici della Hori-Production), romanzi seriali che alternano la loro pubblicazione cartacea alla rimediazione filmica e al merchandising che ne consegue (si pensi alla serie di Harry Potter).

Afferma Jay David Bolter, il teorico della remediation: «La nostra cultura concepisce ogni medium o costellazione mediale come qualcosa che risponde a, ridispone, compete e riforma altri media. In primo luogo, potremmo pensare a una sorta di progressione storica, di media più nuovi che rimediano quelli precedenti, e in particolare, di media digitali che rimediano i loro predecessori», ma anche l’opposto, perché «la televisione può e deve rimodellare se stessa per poter ricordare la struttura del web, mentre il cinema incorpora e cerca di contenere la grafica computerizzata all’interno della propria struttura lineare» (Bolter, Grusin 1999; trad. it. 2002, p. 82). Né va dimenticato che il recentissimo affermarsi degli individual media (il cellulare, per es., consente di attivare contatti personalizzati con le redazioni giornalistiche, ottenere in tempo reale mappature del luogo in cui ci si trova, ricevere e-mail, scaricare musica e vedere film) ha ulteriormente incrementato il volume di narratività in circolazione, e che tale incremento è inversamente proporzionale a quel regime di necessità che aveva contraddistinto la fruizione estetica nel corso del 20° secolo. Leggere, così come un tempo vedere una pellicola in una sala cinematografica, non è più un’operazione solitaria, continua e irreggimentata dalla forza disciplinante del ‘super-io’ sociale (quello che predisponeva un canone letterario e ne imponeva la conoscenza nel caso si volesse far parte della classe dirigente), ma un intrattenimento come gli altri, estraneo a qualsivoglia imperativo pedagogico. È la ‘fruizione nella distrazione’ di cui ha parlato Umberto Eco, che comporta un minore grado di coinvolgimento empatico del lettore nel testo o dello spettatore nelle sequenze filmiche: per riprendere una distinzione ormai canonica nei Visual Studies anglosassoni, un testo narrativo (verbale o iconico) richiede oggi che gli sia rivolta un’occhiata superficiale, glance, e non uno sguardo puntiforme, gaze (Staiger 2000, pp. 14 e sgg.).

Di fatto, gli scrittori più giovani tendono a concepire i loro romanzi entro questo sistema integrato, in cui le permutazioni morfologiche e i processi traduttivi sono all’ordine del giorno, spesso con effetti di alleggerimento e semplificazione. Gli aspetti da considerare sono due: il primo riguarda i testi narrativi, il secondo i contesti storico-sociali in cui quei testi appaiono. Riguardo a questi ultimi, va ricordato che attualmente l’industria editoriale persegue insieme un’integrazione orizzontale (attraverso l’acquisto di altri marchi editoriali), verticale (allo scopo di controllare l’intero processo produttivo, dalla stampa alla distribuzione e alla promozione), ma soprattutto transmediale, in quanto le nuove multinazionali dell’editoria sono interessate a produrre al tempo stesso libri, programmi televisivi, CD, videogame, narrazioni filmiche: un modello di multinazionale è oggi la Scribner – editrice transmediale che dal 1997 ha, tra l’altro, acquisito i diritti delle opere di Stephen King, imprimendo un’ulteriore accelerazione al riadattamento filmico-televisivo dei suoi romanzi. Sono dunque le maggiori holding transmediali a indurre oggi fenomeni di tipo aggregativo nella sfera estetica.

Così, mentre i palinsesti televisivi occidentali stanno per la prima volta facendo implodere la tradizionale distinzione tra programmi d’intrattenimento, d’informazione e di finzione attraverso l’allestimento di generi misti (infotainment, docufiction ecc.), il romanzo importa nei propri territori il linguaggio delle immagini dando luogo ad autentici iconotesti, in modo non dissimile dal modello anticipatore di Le petit prince (1943; trad. it. Il piccolo principe, 1949) di Antoine de Saint-Exupéry: per una mera campionatura, si pensi al recente successo dei graphic novels di Jiro Taniguchi, in sostanza dei fumetti a forte trazione narrativa; a Lanzarote: au milieu du monde (2000; trad. it. 2002) di Michel Houellebecq, un breve romanzo in forma di taccuino di viaggio con un’appendice di circa ottanta fotografie, in cui ad apparire non è il narratore del testo ma l’autore stesso, fatto che produce un effetto di drastico trasferimento dal finzionale al reale e ritorno (in retorica, questo transfert si chiama metalessi, altra caratteristica dominante del global novel: Genette 2004, pp. 60-67); ai testi finzionali che la Rowling ha pubblicato parallelamente alla serie di Harry Potter, immaginando che fossero i manuali adottati nella scuola di magia di Hogwarts con le note e i disegni autografi appostivi da Harry Potter nel corso delle sue letture: Quidditch through the ages (2001; trad. it. Il Quidditch attraverso i secoli, 2002) e Fantastic beasts and where to find them (2001; trad. it. Gli animali fantastici: dove trovarli, 2002); soprattutto, ad Austerlitz (2001; trad. it. 2002) di Winfried Georg Sebald, uno straordinario tessuto di parole e reperti iconici (fotografie, ricevute fiscali, biglietti d’ingresso ai musei) giustificato finzionalmente dal fatto che il protagonista del romanzo è docente di storia dell’architettura a Londra.

La presenza di veri e propri reperti iconici nei romanzi del nuovo secolo, unitamente all’acquisizione di una retorica della figuralità esplicita e accrescitiva imperniata sull’ipotiposi, non sono tuttavia gli unici segni lasciati dalla pervasiva, immanente presenza della rimediazione. Sin dall’inizio, narratori nati entro un sistema di broadcasting cine-televisivo maturo e capillare hanno cominciato a pensare i propri testi secondo criteri transmediali, e tra questi possiamo citare: l’equilibrio tra elementi tematici nuovi ed elementi tematici seriali, cioè caratteristici di un ambito comunicativo già codificato (per es., il noir, o l’horror, o lo splatter); la contemporanea attivazione di una memoria esoforica (che riguarda l’extratesto, la realtà quotidiana) e di una memoria endoforica (che riguarda la cultura intertestuale del lettore, attraverso citazioni esplicite di narrazioni consimili o della stessa narrazione codificata da un altro medium); il ricorso a focalizzazioni interne multiple, cioè a punti di vista che fanno capo ai personaggi della storia narrata, i quali di volta in volta, spesso capitolo per capitolo, filtrano gli avvenimenti con effetti di derealizzazione sul narrato, poiché ciascun personaggio opta per letture differenti; la presenza sistematica di analessi o flashback tesi a rafforzare la coesione del testo (tornare indietro, arretrare nella storia significa anche riassumerla a tutto beneficio del lettore) e di prolessi o flashforward per aumentare, grazie all’annuncio parziale o volutamente vago di qualcosa che accadrà, la suspense del lettore; l’adozione di personaggi il cui profilo identitario sia costruito differenzialmente rispetto a quello dei personaggi che operano insieme a lui, con lui o contro di lui, dotati di un basso carico valoriale in quanto ciò che interessa non è quello che accade ma il modo in cui il personaggio lo apprende o lo percepisce (Mondi seriali, 2008, passim).

Tutto questo è essenzialmente transmediale, e racconta la generale confluenza delle modalità attraverso cui il linguaggio verbale dei romanzieri e il linguaggio iconico di coloro che elaborano concepts cine-televisivi mettono in sequenza micro-azioni, personaggi e accadimenti. L’opera dello scozzese Irvine Welsh – noto soprattutto per il romanzo Trainspotting (1993; trad. it. 1996) incentrato sul mondo della tossicodipendenza e puntualmente ‘rimediato’ in versione cinematografica (1996, per la regia di Danny Boyle) – esemplifica con successo il nuovo format transmediale cui si sta avviando il global novel. In Porno (2002; trad. it. 2003), un sequel di Trainspotting, i narratori sono i sei personaggi, che alternano la propria voce capitolo per capitolo per raccontare come un gruppo di giovani costituito da tossici, ex carcerati, studenti desiderosi di ottenere denaro extra budget, affaristi senza scrupoli decidano di sfruttare il mercato della pornografia girando un film a luci rosse di cui essi stessi sono attori, sceneggiatori, produttori e distributori, in una sorta di utopistica reviviscenza dell’economia primitiva entro un contesto di avanzata globalizzazione. L’interesse di questo romanzo – dedicato come si vede alla rimediazione di un testo verbale scritto da due studenti in una modalità filmica, ma con una suggestiva, metalettica coincidenza tra discorso e storia, finzione e realtà, atto di enunciazione ed enunciato, poiché in un film hard chi recita la sessualità al tempo stesso la vive realmente – sta nella morfologia dell’enunciazione narrativa, assai simile a quella dei reality show televisivi. I sei narratori sembrano usare piani-sequenza interminabili nel raccontare in modo cursorio quello che accade loro in diretta, lasciando completamente indistinta la differenza tra discorso diretto (citato) e discorso indiretto (citante) là dove si limitano a registrare tracce sonore sporche e frammentarie, talvolta incomprensibili al lettore, con una sintassi volutamente incoesa, interrotta e iperparatattica, che ricorda l’inquadratura mossa di chi insegue l’evento in diretta televisiva con una camera a mano.

Eccone un suggestivo frammento, in cui il discorso romanzesco di un personaggio coincide in tempo reale con la storia di cui il discorso si fa carico: «Sick Boy sniffa di bestia, la proboscide di quel micio qui cola peggio della mia, capito? È come un’alluvione, socio, da quanto corre, serpentandogli giù sul labbro di sopra. Ogni tot tira fuori un kleenex ma nisba, la nasupla del soggetto è sempre torrente. E che fanno i torrenti? Chiacchierano, capo, chiacchierano alla grande, capito? Roba che a me non mi fa niente, cioè di solito, ma adesso mi dà fastidio perché Ali sta ascoltando tutte le sue cagate. Si beve ogni parola, capito? È stata una sua idea andare al Pont Sunshine a vederlo, cioè, mica mia, faccio per dire. Magari sono stato scemo a passare di qui l’altroieri, e magari sono stato un po’ asciutto con il gattone, qui, ma avevo i nervi a brandelli totale, e lui è stato qua abbastanza anni da poter fare vedere un po’ di compassione per un vecchio compare, come no?» (p. 122). Contrariamente al flusso di coscienza modernista, soprattutto nella versione adottata da James Joyce nell’Ulysses (1922), qui il narratore non dice ciò che pensa dentro di sé prescindendo da un interlocutore; anzi, il testo di Welsh attiva una generale implosione tra il dire, il pensare, il vedere e il ricordare, rendendo compresenti destinatore e destinatario («Chiacchierano, capo, chiacchierano alla grande […]»), narratore e attore («ma adesso mi dà fastidio perché Ali sta ascoltando tutte le sue cagate»), passato remoto, passato prossimo e presente («sono stato scemo a passare di qui l’altroieri», «e lui è stato qua abbastanza anni»). Sempre on-line, irretito nel grande web transmediale e desideroso di vivere nella gaia simultaneità di tutto con tutto (tempi, spazi, individui, intrecci), il romanziere è oggi propenso a rendere più permeabili e liquidi i confini che dividono il suo testo dalle reincarnazioni mediali cui è soggetto.

Di qui una serie di suggestive metalessi, ossia di passaggi dalla finzione alla realtà e di nuovo alla finzione, cui non sono estranei anche narratori non più giovani, come, in Italia, Andrea Camilleri (n. 1925), autore di un serial novel di grande successo internazionale, che ha come elemento di continuità e riconoscibilità il commissario Montalbano. Da un certo momento in poi la stesura dei suoi romanzi ha incrociato fervidamente quella della loro rimediazione televisiva e il testo verbale ha registrato questa doppia vita transmediale del commissario Montalbano, rafforzandone il branding – il discorso di marca – con effetti metalettici come in La pazienza del ragno (2004), dove il protagonista incontra una certa Tina Lo Faro che lo riconosce come avatar di Luca Zingaretti, l’attore che impersona televisivamente Montalbano: «‘Il commissario Mont…’. ‘…talbano è’ fece Tina con un sorriso che le spaccava la facci da una grecchia all’altra. ‘Maria che bello! Non ci speravo di conoscerla! Che bello! Tutta sudata sono per l’emozione! Che felicità!’ Montalbano parse addivintato un pupo senza fili, non arrinisciva a cataminarsi […]. Tina si stava squagliando come un panetto di burro esposto al sole d’estati. Appresso restò davanti a lui estatica, muta, la facci russa come un’anguria matura, le mani congiunte a preghiera, l’occhi sparluccicanti […]. ‘Appena m’è comparso davanti in carne e ossa a momenti svenivo. Come sta? Si è rimesso? Che bello! Io la vedo sempre quando appare in televisione, sa? Io leggo molti romanzi gialli, ma lei, commissario, è molto meglio di Maigret, di Poirot, di […]’» (p. 44).

L’intrecciarsi del mondo finzionale inglobato nella storia romanzesca con quello inglobante della sfera mediatica ci parla ancora una volta dell’attuale convergenza di modalità espressive differenti quale tratto caratterizzante dell’estetica contemporanea, in grado di mutare persino il concetto di intertestualità – quel mix di voci, codici sociosemiotici e citazioni che per i postmodernisti aveva come scopo la limitazione dei poteri creativi dell’autore e dell’idea stessa di originalità. Da qualche anno, invece, si è iniziato a considerare l’intertestualità come uno dei modi – segnatamente il modo della relazione omomediale tra due o più testi verbali – attraverso cui si manifesta il più ampio fenomeno dell’intermedialità, vale a dire qualsiasi forma di attraversamento dei confini tradizionali che definiscono un medium rispetto agli altri; più in generale ancora, la relazione eteromediale tra sistemi semiotici differenti. In modo simile alle strumentazioni dell’alta tecnologia, che tendono ad aggregare degli operatori in precedenza separati (un computer serve oggi per scrivere, collegarsi a Internet, ascoltare musica, telefonare, guardare DVD ecc.), i sistemi semiotici sono passati dal regime separativo della modernità, quando essi scatenavano persino delle guerre estetiche per imporre il proprio primato (nel corso del Settecento, per es. con il Laokoon, 1766, di Gotthold E. Lessing, si continuò a dibattere circa il primato della pittura o della scultura sulla letteratura e viceversa), al regime perfusivo della contemporaneità globalizzata, in cui i segni verbali, visivi e musicali sembrano trovare una puntuale convergenza. Ne è una riprova il fatto che le innovazioni estetiche degli ultimi anni vanno nella direzione delle installazioni o delle performances, ossia di modalità espressive eteromediali e polisensoriali che uniscono musica, testo drammaturgico e linguaggio visivo.

Così, quello che è stato definito giustamente l’intermedial turn del 21° sec., ossia la svolta verso fenomeni d’illusionismo perfuso ed eteromediale come l’attuale ‘Second life’ – dove si mescolano grafica e scrittura, web design, fotografia e videoriprese – è inappellabilmente il terreno in cui proliferano sistemi semiotici centrifugati senza posa, e dove il Montalbano cartaceo può incontrare il suo clone televisivo, con un effetto retroattivo per cui il consolidarsi seriale del secondo ha agito come un selettore semiotico, esercitando un’azione di semplificazione dei tratti invarianti del commissario romanzesco: letteralmente, gli ha fornito un’esistenza più stabile e addirittura ne ha prodotto una delineazione somatico-attoriale più pronunciata (Marrone 2003, pp. 80 e sgg.).

Il realismo magico come commutatore conoscitivo

La condizione attuale di accelerazione delle comunicazioni, di crescente mobilità degli individui e di condivisione integrata delle informazioni ha trasformato l’individuo della modernità, questa monade che prendeva forma entro lo stampo identitario di una nazione, in un ‘sé’ gelatinoso e modulare il cui sguardo e la cui cultura si nutrono avidamente di scenari ‘turistici’ sempre nuovi. In questo senso il romanzo della globalizzazione equivale a una forma di sight-seeing mondiale perché a cambiare è stata la fase primaria o vegetale dell’‘io’, abituato a itinerare culturalmente – e a passare da un medium all’altro – sin dall’infanzia, l’età in cui costruiamo quel complesso edificio denominato senso comune. Di qui due conseguenze cruciali per la morfologia romanzesca attuale.

La prima risiede nel fatto che in un momento in cui si cercano nuove regole di convivenza per rendere compatibili profili etnoculturali e religiosi anche molto dissimili, il romanzo coadiuva questa ricerca adottando forme flessibili e meticce di narrazione. Al contrario del modernismo, che aveva imboccato la strada della sperimentazione formale per disconoscere la realtà quale essa appariva, il global novel giunge a un ritratto della realtà per aggregazioni progressive ed è contraddistinto da una volontà essenzialmente uniformatrice, che trova meno resistenza nei Paesi privi di una consolidata tradizione romanzesca – per es., in Sudamerica; spinti dalle grandi holding editoriali e sollecitati da un pubblico multietnico abituato a fruizioni transmediali di uno stesso testo, i romanzieri cercano di aggregare pubblici differenti nel comune scopo di una strategia di alfabetizzazione mondiale.

Il cosiddetto realismo magico si è generato dalle civiltà centro e sudamericane, e costituisce una modalità narrativa che affianca elementi del mondo reale a elementi del mondo iporeale (quello che non si vede è più autentico di quello che si vede, come sostiene oggi il romanziere brasiliano Paulo Coelho) e del mondo iperreale (la logica della ripetizione brevettata da García Márquez e dalla sua imitatrice Allende tende a sostenere che l’incremento di un elemento reale svela precisamente l’essenza di quella realtà). Se il realismo magico viene oggi considerato lo stile sostenibile della globalizzazione in ambito narrativo non è solo per una sua diffusa adozione anche nelle culture periferiche e nel cuore della vecchia Europa, ma in quanto svolge una funzione problem solving rispetto alla collisione di sistemi epistemologici, religiosi e culturali in origine ritenuti incompatibili.

La prima ondata di realismo magico è rimasta confinata nei circa venti Paesi di lingua spagnola e portoghese compresi tra Argentina e Messico, generandosi in virtù di analoghe storie di oppressione coloniale, di alvei linguistico-culturali consimili o identici, e di una – per così dire – penuria di realtà e verosimiglianza prodottasi grazie all’azione censoria dei conquistatori coloniali sui costumi originari: tutto era ‘meticcio’ e real-magico nei romanzi di Fuentes, García Márquez o Miguel Á. Asturias. La successiva ondata ha invece riguardato l’intera sfera letteraria occidentale, e Salman Rushdie è forse oggi il migliore rappresentante di questo realismo magico di seconda generazione. Nato a Bombay nel 1947, laureatosi a Oxford, entrato nel mondo degli allestimenti teatrali londinesi, passato a un’esistenza secretata a causa della fatwa – la condanna alla pena di morte comminatagli dalle autorità islamiche con l’accusa di blasfemia – e infine divenuto cittadino newyorkese, Rushdie si è ormai specializzato nella stesura di romanzi in cui gli elementi fantastici appaiono in un contesto urbano reale (come in Fury, 2001, trad. it. Furia, 2003, dove il protagonista è un costruttore di bambole magiche che inventa per la BBC una fortunata serie televisiva, di cui esse sono le protagoniste), o al contrario dove elementi plausibili e veridittivi (per i semiotici, è veridittivo un elemento che tende a consolidare l’impressione di realtà relativamente a ciò di cui si parla) contraddistinguono storie apertamente fiabesche, come Haroun and the sea of stories (1990; trad. it. Harun e il mar delle storie, 1991), una silloge di racconti fantasiosi e leggendari secondo il paradigma plurisecolare costituito dalle Mille e una notte. In Fury, è segnatamente il realismo magico a comportare l’eliminazione del dualismo soggetto/oggetto, ma con esso scompare anche il problema di assegnare l’elemento magico allo spazio di pertinenza del primo (il magico appartiene al punto di vista del soggetto) oppure del secondo (il magico è intrinseco alla realtà). E come potrebbe essere altrimenti, in una civiltà in cui l’imporsi della grande rete ha reso ininfluente la differenza tra il virtuale e l’attuale, tra il possedere qualcosa e il dominare la sua immagine digitalizzata?

La svolta ‘modale’ del global novel

La globalizzazione ha comportato per il romanzo una seconda conseguenza: deterritorializzato, a proprio agio unicamente in un mondo immateriale, avvolto in una nuvola di scintillanti pixel, il narratore ha pur sempre l’atavico compito di decidere che cosa narrare o, meglio, di prescegliere un codice modale attraverso cui cementare le pietre dell’intreccio narrativo. Possiamo registrare delle novità in questo senso? Molto in sintesi, va prima ricordato che qualsiasi intreccio si costituisce attraverso uno o più codici modali (Herman 2002, pp. 146 e sgg.). Ne esistono quattro. 1) Il codice del potere (modo aletico) seleziona elementi narrativi in base al fatto che siano possibili, impossibili o necessari, cooperando dunque in maniera decisiva a classificare un testo come inverosimile (è il caso della fiaba, della science-fiction, dei romanzi magico-realistici di tradizione latino-americana) o plausibile: il modo aletico ci dice quali scopi un personaggio può immaginare di perseguire e quale sia l’inventario di azioni cui egli possa dare luogo nel corso della narrazione. 2) Il codice del dovere (modo deontico) seleziona i temi narrativi sulla base del fatto che qualcosa sia lecito o proibito, che sia prescritto o proscritto, che costituisca una violazione di norme etiche o l’adempimento di un compito necessario. 3) Il codice del volere (modo assiologico) seleziona le componenti di una narrazione in base al fatto che qualcosa sia un valore o un disvalore, ma soprattutto che costituisca un desiderio o un’avversione: passioni e volizioni sono le protagoniste di questo codice. 4) Il codice del sapere (modo epistemico) classifica i temi di un racconto in termini di ignoranza o notorietà, di credenza o di incredulità, e, al contrario, orienta il modo di agire di un personaggio in virtù delle sue conoscenze o di conseguenza della mancanza di informazioni.

Qualsiasi racconto deriva dalla combinazione di queste quattro modalità, poiché a capienza piena un intreccio narrativo ci mostra un individuo che vuole qualcosa (modo assiologico) sulla base di informazioni che possiede o che gli difettano (modo epistemico), per agire infine nel lecito o nell’illecito (modo deontico) sulla base di ciò che ritiene possibile fare (modo aletico). Tutto qui. Ma ogni epoca storica ha sempre attivato una particolare selezione modale in funzione delle necessità antropologiche dei lettori: il romanzo moderno, per es., in particolare nella sua fase aurea di metà Ottocento, prediligeva uno scontro frontale tra il volere e il dovere, tra ciò che un personaggio avrebbe desiderato ottenere e ciò che invece il contesto storico-sociale gli avrebbe consentito di ottenere. Il tema dell’adulterio – divenuto strutturale per il romanzo moderno – ci racconta esattamente il funzionamento binario e oppositivo di intrecci nei quali al volere di un individuo si oppone il diktat iussivo della società. E oggi?

Tutto propende a farci credere che si stia andando sempre più verso un predominio assoluto del sapere a discapito degli altri codici narrativi: in termini filosofici, il global novel sta capovolgendo un’atavica gerarchia valoriale che riconosceva alla sola volontà il diritto all’autodeterminazione e all’agire degli individui, mentre la conoscenza aveva l’unico ruolo di controllo e guida dell’agire determinato dai desideri, dalle volizioni, dalle motivazioni degli individui. Gli intrecci romanzeschi degli ultimi anni – dai quali è pressoché scomparso il ‘tema’ per antonomasia delle narrazioni ottocentesche, l’adulterio – orientano invece i desideri verso il sapere: si desidera conoscere qualcosa, scoprire un dato mancante, costituire mappe cognitive per interpretare la realtà. Processi di accumulo, decodifica, ritrasmissione, ricodifica: sono questi gli accadimenti del romanzo di ultima generazione, sia nel caso di narratori per ragioni anagrafiche già sulla via del tramonto come Philip Roth, nato nel 1933 (il vecchio, nabokoviano protagonista di The dying animal, 2001, trad. it. L’animale morente, 2002, non focalizza tanto l’attenzione sul desiderio sessuale per una sua giovane studentessa, quanto vuole solo conoscere la natura dell’affezione che sollecita la studentessa a provare attrazione per lui), o Don DeLillo, nato nel 1936 (The body artist, 2001, trad. it. Body art, 2001, mette in scena una donna matura che riconosce nella voce di un enigmatico bambino la presenza del marito, da poco scomparso, e su questo riconoscimento rimodella la propria identità), sia soprattutto in narratori giovani e dal notevole e affermato talento, come per es. Jonathan Franzen, nato nel 1959.

In The corrections (2001; trad. it. Le correzioni, 2002) di Franzen è il sapere o, meglio, il voler sapere a liberare il potenziale aneddotico di un romanzo di famiglia che ammortizza qualsiasi altro elemento valoriale nella volontà da parte di una madre tirannica di raccogliere informazioni circa i tre figli. Un nucleo familiare di cinque membri, in un romanzo diviso in cinque macro-comparti; uno spazio narrativo che ha come centro propulsore St. Jude – cittadina sperduta del Midwest americano, contrassegnata dalla volontà parificatrice e isomorfa della piccola borghesia di provincia, per la quale bisogna conoscere ciò che gli altri sono per diventare ciò che gli altri sono –, contornato da non luoghi quali un ristorante postmoderno di Philadelphia o le sale d’aspetto degli aeroporti americani o i labirintici corridoi di una nave da crociera. Il programma narrativo che struttura il romanzo è amministrato dalla matriarca Enid, che trascorre l’intera vita a inibire le possibili divergenze da quel programma narrativo da parte del marito Alfred, depresso e malato di Parkinson, desideroso unicamente di conoscere quei desideri che Enid gli ha impedito anche solo di alimentare; il primogenito Gary, sposato a una donna simile a Enid, è corroso dall’ansia, sprofondato nei mondi possibili di cui non sarà mai attore, personaggio che non agisce ma che si ausculta per conoscersi; Chip, docente universitario fallito, coinvolto in operazioni di riciclaggio illegale è interessato solo a evitare che la madre venga a sapere tutte le deviazioni da cui dovrebbe essere ‘corretto’; infine Denise, celebre esperta di cucina fusion, amante del titolare del ristorante in cui lavora e poi della moglie del medesimo titolare, è soffocata dall’ansia di non conoscere la propria autentica identità, di sbagliare destino, di attivare solo un inutile zapping identitario: impresaria di successo, amante di un uomo di successo, figlia bisognosa di ‘correzioni’, omosessuale.

In questo straordinario romanzo – il cui autore si è spesso pronunciato a favore di un global novel che sia in grado di reinventare personaggi e intrecci per tornare a essere all’altezza del romanzo ottocentesco, con le sue funzioni di esonero dalla complessità del reale (Franzen 2002, pp. 60 e sgg.) – tutto sembra inibire le performances dei personaggi. Infatti accade ben poco, poiché l’ansia piccolo-borghese del sempre-uguale agisce da anabolizzante proprio sul codice epistemico: nessuno può e deve desiderare alcunché – pena l’intervento ‘correttivo’ della matriarca – ma limitarsi a focalizzare, attraverso un incessante, struggente rewind esistenziale, ciò che è stato e che potrà essere. Ecco il linguaggio neuroscientifico attraverso cui Gary vive l’assolutezza immacolata del sapere sul volere mentre, in luogo di agire, si impegna ad auscultarsi: «Mentre entrava nella camera oscura, valutò che il neurofattore 3 (cioè la serotonina: un fattore molto, molto importante) si trovava al livello più alto degli ultimi sette o addirittura trenta giorni, che i livelli dei fattori 2 e 7 erano altrettanto al di sopra delle aspettative, e che il fattore 1 si era riavuto dal crollo mattutino dovuto al bicchiere di Armagnac della sera prima. Aveva il passo scattante ed era piacevolmente consapevole di avere una statura superiore alla media e una bella abbronzatura di fine estate. Il risentimento verso sua moglie Caroline era moderato e controllabile. Si notava una riduzione dei principali indici di paranoia (cioè il persistente sospetto che Caroline e i suoi due figli più grandi si prendessero gioco di lui), e la sua convinzione periodicamente modificata che la vita fosse futile e breve era compatibile con la solidità complessiva della sua economia mentale» (The corrections, 2001; trad. it. 2002, p. 144).

Potremmo concludere, dando ragione al personaggio di Franzen, che il romanzo sta progressivamente diventando un infomondo funzionalmente orientato a masterizzare quantità sempre maggiori di informazioni. Un data-base in cui i desideri si orientano non al mondo della realtà materiale (corpi, merci, luoghi urbani) bensì a un sapere immateriale. L’elemento probatorio più vistoso a favore di questa ipotesi è la diffusione sempre maggiore, intergenerica e transmediale (cioè non ristretta a un singolo genere narrativo) di elementi morfologici caratteristici un tempo della detective story, della giallistica o del noir – innanzitutto la suspense. Com’è noto, la suspense è una tecnica morfologica e insieme uno strumento cognitivo, consistente nel differimento di un’informazione che viene anticipatamente fornita al lettore, ma in modo parziale e criptato: da un lato, la suspense è un focalizzatore percettivo perché obbliga il lettore a misurare il tempo, a percepirlo in sé e per sé in attesa che accada qualcosa; dall’altro, essa stimola l’attività inferenziale e previsionale del lettore, al punto che è lecito vedervi un’autentica passione del sapere. Smarrito nello spazio interstiziale tra anticipazione e incertezza, dotato degli strumenti che lo mettono in grado di prevedere ciò che accadrà ma non di prevenirlo, il destinatario dei testi demarcati dalla suspense è una macchina epistemica che gira a pieno regime. Nulla come la suspense è oggi presente nelle finzioni narrative (romanzi, film, fiction televisive), a indicare che il fabbisogno di tempo è cresciuto enormemente e, soprattutto, che il futuro sta vivendo una stagione di particolare successo a detrimento del passato: è necessario essere sempre un passo avanti rispetto al presente, bruciarlo con una strategia sistematica della premonizione inventando agende temporali incentrate sulla profezia (come si ricorderà, anche Stephen King ricorre spesso a personaggi precognitivi, come il bambino protagonista del celebre Shining, 1977).

Di qui il proliferare di testi epistemici rivolti a lettori che desiderano/devono sapere ciò che accade a personaggi il cui unico compito è sempre e solo quello di sapere qualcosa: celebre è l’esempio di Minority report (2000; trad. it. Rapporto di minoranza, 2002), un racconto di Philip K. Dick ambientato nel 2054 e ‘rimediato’ filmicamente da Steven Spielberg (2002), in cui un ispettore di polizia previene in anticipo gli omicidi perché dispone di cervelli brevettati da bioingegneri che sono in grado di leggere il futuro; ma ancor più noti i casi di American psycho (1991; trad. it. 1991) e Lunar park (2005; trad. it. 2007) di Bret Easton Ellis che, nato solo nel 1964, è già famosissimo: nel primo romanzo uno stimato yuppie di Manhattan si trasforma di notte in un temibile torturatore; nel secondo, in una elegante dimora del New England cominciano ad apparire serial killer e pupazzi animati. Ma basti pensare che alla suspense non ha rinunciato neppure il narratore europeo forse più raffinato e selenico degli ultimi anni: infatti il protagonista del serial novel di Javier Marías Tu rostro mañana (ne sono comparse tre ‘puntate’: 2002, 2004, 2007), Jacques, ha precisamente il dono di prevedere i comportamenti e le inclinazioni delle persone, di elaborare una rappresentazione anticipata di tutte le cose, le scene e i dialoghi cui partecipa, nella consapevolezza che ogni destino individuale consiste nel cercare di anticipare – conoscere, appunto – ciò che accadrà.

Anche il mercato letterario italiano costituisce un campione significativo: l’attuale successo di narratori assai diversi tra loro ma tutti suspense oriented – fra questi Giancarlo De Cataldo, Gianrico Carofiglio, Andrea Camilleri, Carlo Lucarelli – indica come il bisogno dei lettori sia quello di possedere mappe cognitive e revisionali allo scopo di apprendere a raccogliere, rielaborare e narrativizzare le informazioni necessarie alla navigazione nell’infomondo della globalizzazione. L’ecosistema della mente umana è dunque il set imprescindibile – il nuovo scenario – nel quale sono ambientati i romanzi attuali.

Verso le neuronarrazioni

Cognitivisti e neuropsicologi hanno da poco iniziato a documentare sperimentalmente come la narratività – raccontare qualcosa o ascoltare il racconto di qualcosa – abbia un ruolo essenziale sia nella formazione dell’idea stessa di accadimento (un mutamento della realtà con una causa che produce un effetto), sia nella configurazione del senso comune, soprattutto del modo in cui concepiamo il destino individuale nel suo schema standard (nascita, evoluzione, morte). Quando e come apprendiamo ad ancorare un evento a un contesto storico-sociale che ne funga da elemento causale? Quali sono i fattori che ci consentono di classificare un accadimento, di distinguere ciò che io voglio che accada (azione) da ciò che mi accade (evento) o una condizione di stato da un’azione? Grazie a quali fattori culturali la nostra mente acquisisce la capacità di correlare fatti esterni a mutamenti identitari e viceversa, oppure a repertoriare la struttura identitaria stabile di un individuo immerso in un oceano polievenemenziale di accadimenti? Ebbene, come in questi anni stanno dimostrando le neuroscienze, la facoltà apparentemente naturale di leggere il modo di agire degli individui si ottiene solo grazie a una full immersion nella narratività perfusa del mondo quotidiano, dove racconti orali, romanzi, fiction cine-televisive, stringhe fumettistiche e resoconti di viaggio digitati da qualche blogger sul web svolgono una funzione cognitiva essenziale. È proprio quella la palestra entro la quale apprendiamo a organizzare in unità sequenziali complesse gli atomi frammentari della realtà: di qui la crescita della domanda sociale di narrazioni, e la conseguente indubbia vitalità del romanzo.

In particolare, ogni volta che viviamo in prima persona o assistiamo nel mondo transmediale a un accadimento risulta necessario codificarlo secondo i due parametri del frame (cornice) e dello script (sceneggiatura). I frames agiscono come terminali per l’integrazione dei dati che la vita quotidiana ci offre; si riferiscono a oggetti statici o relazioni, e cioè concernono le attese relative al modo in cui le aree esperienziali sono strutturate/classificate in una certa situazione: se, per es., noto una persona che urla in una strada cittadina, devo innanzitutto capire se ciò che esperisco va classificato come ‘individuo che chiede aiuto perché è stato derubato’, ‘individuo che richiama inurbanamente l’attenzione di un conoscente’, ‘individuo affetto da palesi squilibri psichici’. Gli scripts si riferiscono invece a processi dinamici, e cioè al modo in cui si producono attese relativamente all’ordine sequenziale in cui si verificano gli eventi; in questo caso è essenziale non la comprensione semantica dell’evento, ma l’identificazione della sua articolazione sintattica sulla base del nostro orizzonte d’attesa nelle situazioni quotidiane: in uno script come ‘andare al ristorante’ il mio orizzonte d’attesa si orienterà sulla sequenza ‘ingresso nel locale/ordinazione/consumo del pasto/pagamento al tavolo o alla cassa’, mentre in uno script cosiddetto strumentale la mia attenzione si orienterà alle micro-azioni necessarie a pervenire a uno scopo, come per es. ‘accendere una sigaretta’, ‘mettere in moto un’automobile’, ‘spalmare la marmellata su una fetta di pane’.

Secondo i neuroscienziati, è il ricorso congiunto al frame e allo script che ci consente di ottenere una valida rappresentazione mentale dello status in cui ci troviamo, colmando le lacune di informazione attraverso la memoria semantica (che custodisce il ricordo di frames già esperiti) per poi leggere sequenzialmente gli eventi che ci occorrono attraverso la memoria episodica (che custodisce il ricordo di scripts già esperiti). Grazie a una serie di studi sperimentali, oggi sappiamo che sono le narrazioni – romanzi innanzitutto, racconti orali, film e fiction televisive – a costituire la grande, preziosa palestra di addestramento cognitivo per il corretto configurarsi della memoria semantica e di quella episodica. Non solo. Poiché sono state registrate forti instabilità classificatorie indotte dall’attuale condizione mondiale di mobilità fisica delle popolazioni e dall’inevitabile intersecarsi di culture differenti (i bambini bianchi americani formulano, per es., narrazioni centripete, fondate su un nucleo tematico che dall’inizio procede verso la fine, e tendono a una forte coerenza tematico-temporale, mentre i bambini afro-americani formulano narrazioni centrifughe, associative e senza un nucleo tematico apparente, tendendo a capovolgere l’ordine sequenziale degli scripts), il romanzo ha oggi ricevuto dai lettori pieno mandato per cercare di stabilizzare un nuovo quadro classificatorio e cooperare affinché i lettori sappiano cosa attendersi dalle diverse collisioni interpersonali e comunicative cui sono quotidianamente sottoposti.

Difficile sopravvalutare gli effetti sulle narrazioni dell’attuale ethnoscape, che si ritrova nelle biografie degli scrittori maggiormente tradotti nel mondo: più che il riorganizzarsi di un sensorio pronto ad adattarsi a condizioni nuove e attento ad apprendere in tempo reale codici semiotici ignoti, la deterritorializzazione sollecita senza dubbio l’induzione del generale dal particolare e un’articolazione spazio-temporale dell’esperienza secondo modelli flessibili e cosmopoliti, dunque maggiormente vocati all’export: Timeline (1999; trad. it. 2000) di Michael Crichton ne è un’evidente, benché modesta, dimostrazione, con un continuo andirivieni tra gli avveniristici laboratori informatici del New Mexico di oggi e i villaggi del Périgord in epoca medievale.

Nondimeno, nessuno meglio di M. Houellebecq si è mostrato consapevole della necessità di un consolidamento dei nostri orizzonti d’attesa in un momento in cui si assiste, da un lato, alla detem-poralizzazione degli spazi sociali (quale storia riconoscere a non luoghi come le località del turismo in-ternazionale, i parchi tematici, gli enormi malls commerciali?), dall’altro, a una progressiva inibizione del passato (la tradizione, infatti, appare come un ostacolo nel cammino verso il futuro), a una trasformazione del presente in collezione di istanti irrelati e in una sistematica anticipazione del futuro in un tempo reale che è adesso, qui e ora. Originale sin dalla biografia (francese ma di lontane origini extraeuropee, di formazione scientifica e non umanistica, ricoverato a lungo per instabilità psichica, islamofobo e noto per le crude, genitalizzate descrizioni della sfera sessuale), questo narratore, nato nel 1958 e il cui tardivo esordio risale a soli dieci anni fa, mostra le nuove frontiere del romanzo. L’imperativo, per Houellebecq, è dimenticare la letteratura, gettare nell’oblio le consuete, accademiche distinzioni tra narrazione e descrizione, tempo e spazio, personaggio e contesto per inventarsi una nuova ecologia della mente. Tema prescelto: il postumano e il postsessuale. Spazi privilegiati: i non luoghi delle grandi holding del turismo internazionale. Tempo della narrazione: spesso un futuro più remoto ancora di quello tematizzato tra le due guerre mondiali, l’epoca d’oro della science fiction. Orientamento dei frames: puntualmente antitetico a quello del tradizionale senso comune. Disposizione sequenziale degli scripts: frammentaria, per aggregazioni tematiche irregolari.

Il suo esordio di narratore contiene anche un’esplicita dichiarazione di teoria del romanzo: «Il mio scopo non è di incantarvi con sottili notazioni psicologiche. Non ho l’intenzione di strapparvi applausi per la mia finezza e il mio spirito. Questo genere di cose le lascio agli scrittori che usano il proprio talento per descrivere i differenti stati d’animo, i tratti del carattere, ecc. Io con loro non c’entro niente […]. Per raggiungere lo scopo decisamente filosofico che mi propongo, invece, occorre sfrondare. Semplificare. Sterminare uno alla volta dettagli infiniti. Ad aiutarmi ci sarà il semplice gioco del movimento storico. Sotto i nostri occhi, il mondo si uniforma; i sistemi di telecomunicazione progrediscono; l’interno dei nostri appartamenti si arricchisce di nuovi congegni. Le relazioni umane divengono progressivamente impossibili, fatto che in proporzione riduce la quantità di aneddoti di cui si compone una vita. E a poco a poco appare il volto della morte, in tutto il suo splendore. Il terzo millennio si annuncia proprio bene» (Houellebecq 1994; trad. it. 20076, pp. 17-18).

Prendiamo La possibilité d’une île (2005; trad. it. La possibilità di un’isola, 2005, 20072), un romanzo che riprende il tema della clonazione – l’idea dell’isomorfismo, la riproduzione dell’identico, era stata immessa nei circuiti della narrativa mondiale da Philip K. Dick, il geniale autore di Do androids dream of electric sheeps? (1968, trad. it. Il cacciatore di androidi, 1971; da cui è stato tratto il film Blade runner, 1982, di Ridley Scott) – e adotta anch’esso la narrazione omodiegetica, come quasi sempre in Houellebecq e nei global novels: in questo caso, tuttavia, esistono venticinque versioni clonate del protagonista Daniel, che si alternano sistematicamente, con la conseguenza che la stringa temporale si allunga talmente tanto (Daniel25 vive alla fine del terzo millennio, e riattraversa i luoghi in cui ha vissuto il capostipite Daniel1) che il problema dei neoumani diviene quello di brevettare forme efficaci di downloading (trasferimento) per riversare la memoria biografica dei predecessori sui successori. Ora, lo strumento utilizzato è proprio il romanzo, poiché ciascun protagonista deve scrivere la propria autobiografia e trasmetterla a coloro che li seguiranno. In che modo? Qui Houellebecq formula di nuovo un palinsesto di teoria del romanzo: «Le tre leggi di Pierce avrebbero posto fine ai tentativi rischiosi di download-ing memoriale tramite un supporto informatico, a beneficio da una parte del trasferimento molecolare diretto, e dall’altra di ciò che conosciamo oggi sotto il nome di racconto di vita, inizialmente concepito come un semplice complemento, una soluzione di attesa, ma che in seguito ai lavori di Pierce avrebbe assunto un’importanza considerevole. Così, questa avanzata logica fondamentale avrebbe curiosamente riportato in auge una forma antica, in fondo abbastanza vicina a quella che si chiamava un tempo autobiografia. Riguardo al racconto di vita, non ci sono direttive precise. L’inizio può avere luogo in un qualunque punto della temporalità, come il primo sguardo può cadere su un qualunque punto dello spazio di un quadro; l’importante è che, a poco a poco, l’insieme ricompaia» (trad. it. 20072, p. 25).

Attraverso un’affascinante narrazione parallela, nel labirinto di un tempo percorso liberamente dal prima al poi e viceversa, sempre in viaggio verso un’acronia che rammenta le opere utopistiche di Aldous Huxley, nel romanzo di Houellebecq Daniel1 si avvicina alla setta degli Elohimiti, che aspirano a recuperare l’equilibrio con la natura promuovendo una libera attività sessuale per giungere all’immortalità grazie alla clonazione. È qui che frames e scripts iniziano a divenire più flessibili. Irretito in un sistema narrativo a maglie allargate, disambientato nello spazio destoricizzato di non luoghi come le isole, i laboratori di biologia molecolare e i grandi centri convegnistici internazionali, il lettore deve apprendere, da un lato, a riclassificare, per es., come ‘amore’ e non ‘incontro sessuale occasionale’ la seguente scena riferita alla prima grande passione di Daniel per una donna destinata al suicidio e, dall’altro, a familiarizzare con uno script che dà al corpo un ruolo causale e all’amore un valore meramente consequenziale: «Ci fu di peggio, naturalmente, e l’ideale di bellezza plastica cui Isabelle non poteva più accedere l’avrebbe distrutta sotto i miei occhi. Dapprima ci furono i suoi seni, che non riusciva più a sopportare (ed è vero che cominciavano a cadere un po’), poi le sue natiche, secondo lo stesso processo […]. Quando la sessualità scompare, è il corpo dell’altro ad apparire nella sua presenza vagamente ostile. La scomparsa della tenerezza segue sempre da vicino quella dell’erotismo. Non esiste relazione purificata, unione superiore delle anime né qualunque altra cosa che possa somigliargli o evocarlo allusivamente. Quando l’amore fisico sparisce, sparisce tutto; un’irritazione cupa, senza profondità, viene a riempire la serie dei giorni. E sull’amore fisico non mi facevo illusioni. Giovinezza, bellezza, forza: i criteri dell’amore fisico sono esattamente gli stessi del nazismo. Riassumendo, ero in un bel casino» (pp. 62-63).

Ma una fase storica di instabilità classificatoria, in cui il senso e la concatenazione degli eventi stanno mutando a velocità insospettata, chiede altresì una riscrittura dello spazio narrativo: quando narriamo, il setting di un’azione orienta sempre e comunque il senso di quell’azione. Ora, la colossale diaspora tuttora in corso (la cosiddetta ethnoscape) rappresenta il fenomeno con cui le narrazioni degli ultimi anni hanno dovuto inevitabilmente confrontarsi: quella diaspora ha generato, da un lato, un ‘sé multilocale’ – cioè ‘comunità immaginate’ che fanno volentieri a meno di un luogo e anzi prosperano in tale assenza –, dall’altro, ‘luoghi multietnici’ e denazionalizzati, come quei ‘deserti del transito’ costituiti dalle località turistiche internazionali, le stazioni, gli aeroporti, gli ipermercati e le città del divertimento sul modello di Las Vegas, dove nessun ‘sé collettivo’ potrebbe attecchire. L’antropologo francese Marc Augé ha elegantemente mostrato come la funzione di containers dei vecchi Stati nazionali e il dislivello tra interno ed esterno che ne derivava siano stati intaccati in maniera irreversibile dall’incremento esponenziale di non luoghi senza relazioni abitative possibili e da masse di individui transnazionali: per questo ogni forma di protesta contro la globalizzazione è soltanto la normale reazione immunitaria di organismi deperiti, che si difendono da infezioni esterne.

Da molti punti di vista, anche in letteratura il problema si riduce alla produzione di difese ridisegnate su questo format globale. È evidente che al ‘vicinato’ della modernità (l’insieme delle pratiche sociali esistenti in un luogo) si è sostituito un concetto di ‘località’ meno definibile in termini scalari o spaziali che non come una struttura relazionale – secondo la nuova ‘legge’ formulata dal sociologo Roland Robertson, per cui l’universale si particolarizza e il particolare si universalizza. Oggi non esiste più coincidenza o isomorfismo tra queste due entità, ma va detto che per molte teorie sociali la località ha sempre avuto bisogno di manutenzioni simboliche accurate, di lavori di consolidamento riguardanti, per es., le zone di confine, le relazioni sociali, la disposizione degli abitati o i riti di passaggio, che non sarebbero se non forme di produzione di ‘soggetti locali’, attori sociali su cui grava la necessità di appartenere a una ‘comunità situata’.

Di qui il radicale mutamento della descrizione nei testi attuali e la sua sostanziale evanescenza. Nel romanzo moderno, dove la densità semiotica dello spazio urbano costituiva una difficoltà da ammortizzare e l’architettura fungeva da redistributore di narratività, la descrizione svolgeva mansioni cruciali per la modellizzazione dell’intreccio (funzione dilatoria) e delle sue macro-unità (funzione demarcativa), per l’interpretazione del testo (funzione indiziaria) e per l’attivazione di meccanismi illusionistici (funzione referenziale): gli aggregati satellitari costituiti dalle descrizioni erano insomma un lasciapassare per rallentare la lettura, formattare gli eventi, comprendere il modo di agire dei personaggi e per ‘reificare’ la narrazione sollecitando così forme di empatia tra il lettore e il mondo finzionale.

Al contrario, i romanzi attuali tendono a ridurre le funzioni della descrizione per il fatto stesso che, simultaneamente alla scomparsa dell’opposizione soggetto/oggetto, è declinato il paradigma binario in base al quale la narrazione veicolava il tempo e la descrizione lo spazio. Oggi – e in questo ha davvero avuto ragione Mieke Bal (2001) – descrivere significa focalizzare, ossia produrre una messa-in-forma della realtà che «crea dei mondi, e insieme disfa l’ovvietà di quella forma di costruzione del mondo che pensiamo di conoscere» (pp. 224-25). La retorica ecfrastica, cioè la tradizionale arte del descrivere, ha anch’essa subito una trasformazione radicale per almeno due ragioni. Se i testi naturalisti tendevano a nascondere le tracce della presenza del focalizzatore, sigillate dietro la supposta neutralità della percezione; se il modernismo ha eletto a modalità rappresentativa proprio la soggettivizzazione della descrizione, ridotta non per caso a dettagli sineddochici, liberatisi dalle maglie veridittive dell’effet de réel; se il postmodernismo ha decretato il trionfo del descrittivo sul narrativo adottando a sistema la commoratio, ossia l’indugio parafrastico, il ritocco progressivo, la danza lessicale entro un singolo campo semantico: se tutto ciò è vero, il romanzo della globalizzazione tende invece alla detractio (sottrazione), turning point di una letteratura che vuole ampliare i confini del visibile solo in quanto, trasferito ogni credito simbolico dall’attuale al virtuale, crede di poter immaginare l’esistente come se non fosse mai esistito. Lunar park di Ellis, per es., non solo è stato definito il romanzo della ‘generazione Mtv’ per la spettrale assenza di descrizioni (in senso letterale, descrizioni di luoghi che fungano da scenario all’azione di un individuo) e la fulminea alternanza dei ruoli del protagonista (lo scrittore stesso) e dei codici narrativi esemplati sui serial televisivi americani; Lunar park segna anche l’eclissi dello spazio come coadiuvante identitario dell’individuo – una delle risultanze maggiori della cultura ottocentesca. È sufficiente leggere l’inizio del capitolo 21 per accorgersi come i romanzi siano ormai assimilabili a sceneggiature: «La Porsche si infilò nel garage. Lo scrittore aveva smesso di ridere. Lo scrittore era una guida cieca che stava sparendo a poco a poco. Ormai ero solo. Tutto ciò che facevo aveva uno scopo solo per me. Le scale mi sembrarono più ripide mentre le salivo. Aprii la porta di Robby. Il computer era spento. (Era acceso quando ero stato interrotto). Lo riaccesi e rimasi davanti allo schermo per tre ore. Nell’istante in cui digitai la password per aprire il file MC, sullo schermo ricomparve il desktop» (trad. it. 2007, p. 237).

Come in Glamorama (1999; trad. it. 1999), sempre di Ellis, tutto era angosciosamente trasformato in un pulviscolo luminescente di pixel, in Lunar park la realtà diviene un deposito sincronico di scenari culturali in cui il mio passato è il futuro di altri luoghi, in cui ogni epoca è un ostaggio da liberare all’occasione e ogni luogo uno spazio da occupare in tempo reale. Se il sistema della cultura mondiale ha dunque favorito una generosa, incessante offerta di turismo culturale che detronizza l’esistente a favore del possibile, i romanzi attuali generano un profluvio di non luoghi evanescenti e delocalizzati, nei quali ogni lettore può liberamente prendere dimora.

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