Il Rinascimento. Scienza e religione

Storia della Scienza (2001)

Il Rinascimento. Scienza e religione

John Monfasani

Scienza e religione

Il rapporto tra religione e scienza è stato condizionato, nel Rinascimento, almeno da tre fattori. Il primo è la pervasiva influenza del cristianesimo in ogni ambito della cultura. Ciò significa non soltanto che gli assunti e le questioni religiose incidevano sulla scienza a un livello che oggi sarebbe impensabile, ma anche che l'ortodossia religiosa era socialmente imposta. La Riforma introdusse una molteplicità di 'ortodossie' cristiane, senza però attenuare la pressione politica in difesa della correttezza religiosa. Si verificò, anzi, il contrario: non solo gli eretici furono perseguitati in tutta l'Europa (la definizione di eresia variava a seconda dei contesti geografici e politici), ma furono perfezionate le tecniche del controllo religioso, dalle spie della moralità nella Ginevra calvinista agli indici dei libri proibiti, prodotti in gran parte dalla Chiesa cattolica, ma presenti, in minor misura, anche nei paesi protestanti.

Il secondo fattore è da individuare nello schiacciante predominio dell'aristotelismo nella scienza. La rivoluzione scientifica rovesciò questo predominio, ma ‒ come vedremo in seguito ‒ non è corretto supporre che le ortodossie religiose imperanti fossero così solidali con la vecchia ortodossia scientifica al punto tale da perseguitare quest'ultima in nome della religione.

Terzo fattore fu il recupero su larga scala di testi classici prima sconosciuti o ignorati. Che Copernico abbia riconosciuto l'ispirazione ricevuta dagli antichi pitagorici e da Platone è fatto ben noto, e certamente l'assimilazione di nuove opere della scienza e della matematica greche contribuì alla rivoluzione scientifica; tuttavia i testi che forse esercitarono il maggiore e più duraturo influsso sui rapporti tra scienza e religione non furono i testi religiosi e scientifici, bensì quelli filosofici, e particolarmente gli Schizzi pirroniani e l'Adversus mathemathicos di Sesto Empirico, contenenti gli argomenti dello scettico Pirrone di Elide e dei suoi seguaci.

Per ironia della sorte, lo scetticismo nei confronti della religione e l'incrollabile fiducia nella scienza, due atteggiamenti tipici della cultura occidentale erudita a partire dall'Illuminismo, ebbero inizio durante il Rinascimento da una polemica nata con l'intento di provocare esattamente l'effetto opposto. Quando Giovan Francesco Pico della Mirandola (1469-1533) pubblicò nel 1520 l'Examen vanitatis doctrinae gentium et veritatis christianae disciplinae, il suo principale bersaglio polemico, al quale dedicò due libri del trattato, era l'aristotelismo, l'ortodossia scientifica imperante e predominante all'epoca. Per distruggere ogni fiducia nella conoscenza umana e persuadere i suoi lettori a una religione fideistica, Pico utilizzò a favore del cristianesimo gli argomenti degli antichi scettici pirroniani così come li aveva redatti Sesto Empirico. Dopo Pico, sostenitori dello scetticismo pirroniano degni di nota si ritrovano, nel decennio 1560-1570, tra gli esponenti francesi della Controriforma. Questi definirono lo scetticismo una splendida "macchina da guerra" per disorientare gli ugonotti, considerati come i "nuovi dogmatici", e dimostrare loro che il calvinismo altro non era che un esercizio di soggettivismo arbitrario. Nel 1580, la pubblicazione dei Saggi di Michel de Montaigne (1533-1592), che godettero di un'immensa fortuna, segna uno spostamento del dibattito. Nel saggio più lungo, l'Apologia di Raimondo Sabunde, Montaigne concludeva che non siamo in grado di conoscere nulla.

Montaigne contribuì più di ogni altro alla crescente popolarità della corrente scettica in Francia, mettendo in dubbio non soltanto le pretese delle contrapposte fazioni religiose del momento, ma anche la validità stessa della scienza e della filosofia. Con il Discours de la méthode del 1637, René Descartes (1596-1650) ritenne di aver inferto un colpo mortale allo scetticismo e di aver collocato la scienza su nuove e solide basi epistemologiche e metafisiche. Quale che sia stata la validità di questa opinione, la religione certo non si avvantaggiò delle soluzioni di Descartes. Nel lasso di tempo che conduce a Baruch Spinoza (1632-1677), il pendolo scettico completa la sua oscillazione verso la posizione opposta a quella di partenza. Nello stesso momento in cui sottoponeva la religione all'acido corrosivo dello scetticismo, Spinoza cercò di riproporre in filosofia quei metodi e quei presupposti della nuova scienza che considerò ben fondati. Benché non si possa certo definire Spinoza il filosofo più popolare dell'Illuminismo, e benché David Hume (1711-1776) abbia poi sfidato il concetto di causalità, fondamentale nella scienza, l'Illuminismo fece sua, perlopiù, l'applicazione spinoziana dello scetticismo, a vantaggio della scienza e a detrimento della religione.

Nella riflessione religiosa erano certamente presenti implicazioni scientifiche originali; secondo alcuni studiosi, le categorie e i dibattiti religiosi hanno contribuito alla formulazione delle assunzioni e dei paradigmi fondamentali della rivoluzione scientifica del XVII secolo. Nel Rinascimento, l'esempio più rilevante di questo contributo è il De docta ignorantia di Niccolò Cusano (1400/1401-1464). Tedesco di nascita e parzialmente italiano per educazione e carriera, Cusano fu teologo e riformatore e morì cardinale. In un poscritto del 1440 egli c'informa di aver avuto l'ispirazione per la sua opera nel 1437, mentre si trovava su di una nave, di ritorno da Costantinopoli, al seguito della delegazione greca, che si recava al Concilio di Ferrara. Niccolò Cusano terminò il De docta ignorantia con una discussione sull'Incarnazione, la Risurrezione, il Giudizio Finale e la Chiesa, ma vi pervenne a partire dalla sua intuizione di Dio come 'massimo assoluto', in cui tutti gli opposti coincidono e rispetto al quale nient'altro è propriamente perfetto, né in alcun modo assoluto. Di qui deduce, nei capitoli 11 e 12 del secondo libro, che la Terra si muove e non può essere immobile né al centro dell'Universo e che l'Universo non può avere una circonferenza esterna fissa, poiché non vi è alcun punto di riferimento assoluto nel Cosmo. La Terra appare essere stazionaria, argomenta, soltanto perché presupponiamo erroneamente di essere al centro, senza cogliere la relatività dei punti d'osservazione (egli non enuncia una teoria della relatività nello spazio infinito; usa invece l'esempio della barca in navigazione, il cui movimento è percepibile solo in relazione a un punto di riferimento esterno). Ma se niente di ciò che è stato creato è perfetto, allora il quinto elemento aristotelico, supposto tale, non esiste e i corpi celesti sono composti della stessa materia della Terra. Inoltre, i corpi celesti ospitano probabilmente esseri viventi, sebbene nessuno di questi possa essere più nobile degli esseri umani. Le asserzioni di Cusano, basate più su deduzioni speculative che non sull'astronomia, non sembrano aver attratto l'attenzione scientifica fino a quando non apparve, nel 1543, il De revolutionibus orbium coelestium di Copernico; a dibattito avanzato, persino Descartes citerà Cusano come autorità ecclesiastica a sostegno della tesi dell'infinità del mondo.

In breve, per quanto le speculazioni di Cusano siano state audaci e precoci, esse non costituirono una grave sfida all'aristotelismo imperante. È perciò a questa ortodossia scientifica che rivolgeremo ora la nostra attenzione.

La difficile pace con l'aristotelismo

La storia della relazione tra scienza e religione nel Rinascimento s'inscrive nell'arco di due date: 1210 e 1633. Il processo di Galilei del 1633 costituì infatti il climax di una storia che ebbe inizio non nel Rinascimento, ma nel Medioevo. La crescente diffusione e affermazione della logica aristotelica nel XII sec. funzionò da catalizzatore per l'emergere di Parigi, all'inizio del XIII sec., come principale università dell'Europa del Nord. Allo stesso tempo, le traduzioni ‒ prima dall'arabo e poi direttamente dal greco ‒ degli altri scritti di Aristotele (la Metafisica e l'Etica Nicomachea, innanzi tutto, ma anche i Libri naturales e precisamente la Fisica, il De anima, il De generatione et corruptione, il De caelo, i Parva naturalia, i Meteorologica, i Problemata e gli scritti zoologici) s'affiancarono ai testi logici per dominare ovunque, nella seconda metà del XIII sec., il curriculum 'delle arti' delle università medievali. Se si ammette che la logica sia stata non soltanto il linguaggio della scienza nel Medioevo, ma in qualche modo il paradigma della scienza stessa, allora il curriculum 'delle arti' delle università medievali è stato un curriculum fondamentalmente scientifico. Poiché soltanto pochi studenti accedevano alla Facoltà superiore di teologia (anziché concludere l'educazione universitaria con un diploma nella Facoltà delle arti, o continuare nelle altre due Facoltà superiori, di legge o di medicina), e poiché nella Facoltà di medicina l'educazione scientifica proseguiva, discenti e docenti di 'scienza' svolsero nelle università medievali un ruolo di primo piano sotto il profilo sia professionale sia numerico. Ciò è tanto più vero per l'Italia, dove, a iniziare da Bologna, le università si divisero esclusivamente nelle due Facoltà di legge e di arti/medicina, e dove non esistevano facoltà di teologia del tipo nordico. Solamente a partire dalla seconda metà del XIV sec. sarà possibile in Italia ottenere una laurea in teologia e neppure allora sarà possibile completare un programma di studi teologici senza prendere lezioni al di fuori dell'università, presso gli studia degli ordini religiosi.

La strada che condusse la scienza aristotelica a esercitare una simile egemonia fu però tutt'altro che agevole. Nel 1210 il Sinodo provinciale di Sens vietò che a Parigi si leggessero i libri di Aristotele sulla filosofia naturale; nel 1215, negli statuti con cui regolarizzò il curriculum delle Facoltà delle arti e di teologia a Parigi, il legato pontificio Roberto di Courçon proibì la lettura della Metafisica e dei Libri naturales; ancora, nel 1228 Gregorio IX ingiunse esplicitamente alla Facoltà di teologia di non permettere che le nuove cognizioni scientifiche ne influenzassero il lavoro.

Senza dubbio la cristianità dovette affrontare la scienza pagana già nell'Antichità; fu solamente nel Medioevo, tuttavia, che la Chiesa latina arrivò a detenere ampi mezzi di coercizione sull'insegnamento e sulla pratica della scienza. Laddove la logica poteva soltanto sfidare il modo tradizionale di fare teologia, la scienza di Aristotele, congiunta alla sua metafisica, attentava invece all'essenza stessa della teologia cristiana, offriva cioè una seducente visione globale del mondo, che appariva in contrasto con la dottrina cristiana sia nella sua ispirazione di fondo sia su alcune questioni particolari, come la creazione del mondo e l'immortalità dell'anima.

Ciò nonostante, in una lettera del 1231 papa Gregorio sfumò la sua opposizione, rinnovando la proibizione del 1210 contro i Libri naturales di Aristotele ma aggiungendo la clausola "finché non siano stati esaminati ed emendati da ogni sospetto di errore". Già verso la fine della terza decade del Duecento, queste opere sembrano essere entrate nel curriculum parigino, e nel corso degli anni 1250-1260 furono pienamente integrate nei nuovi statuti delle università. La fisica aristotelica divenne l'ortodossia universitaria per tutto il resto del Medioevo. Non è qui necessario richiamare il grande sforzo compiuto da Alberto Magno (1193 ca.-1280) e Tommaso d'Aquino (1225/1226-1274) per porre la filosofia e la scienza aristoteliche al pieno servizio della verità cristiana; malgrado ciò, continuò a serpeggiare un notevole sospetto riguardo alla pericolosa influenza di Aristotele sulla teologia. Nel 1272 la Facoltà delle arti di Parigi pubblicò un decreto contro quei membri che avessero osato "decidere o anche solo discettare di questioni puramente teologiche", e nel marzo 1277 Stefano Tempier, vescovo di Parigi, condannò come contrarie alla fede cristiana duecentodiciannove proposizioni, delle quali circa quarantotto erano di carattere scientifico. Di lì a poco, nello stesso mese, Roberto Kilwardby, arcivescovo di Oxford, avallò la condanna.

Si è discusso e si continua a discutere dell'influenza che la condanna parigina del 1277 esercitò sullo sviluppo della scienza medievale, se cioè Stefano Tempier condannando ogni tentativo di circoscrivere il potere divino (potentia absoluta) all'interno dei confini della scienza aristotelica (per esempio, sostenendo che il vuoto sia impossibile e che i corpi celesti siano mossi da anime interne) abbia finito con l'imprimere un nuovo corso alla scienza. Certamente si possono trovare allusioni alla condanna parigina negli scritti di pensatori importanti quali Giovanni Buridano (1290 ca.-1358 ca.) e Nicola Oresme (1320 ca.-1382), ma a Parigi e a Oxford si era posto l'accento sulla potentia Dei absoluta già nel tardo XIII sec., e anche senza la condanna del 1277 il processo avrebbe sicuramente avuto seguito nei secc. XIV e XV, come di fatto avvenne.

Mentre la scienza aristotelica era tollerata, se non esplicitamente incoraggiata, dalle autorità ecclesiastiche, intorno alla metà del XIV sec. quegli aristotelici ‒ gli averroisti latini ‒ che più apertamente avevano rifiutato di conformare la propria filosofia ai dettami dei teologi furono allontanati dall'Europa settentrionale. Quando Giovanni Buridano, il celebre magister della Facoltà delle arti di Parigi, parlò del vuoto nelle sue Quaestiones sulla Fisica di Aristotele, ribadì il suo diritto a trattare argomenti che fisica e teologia avevano in comune, ma fu anche abbastanza accorto da ammettere che avrebbe detto "più o meno ciò che pare si debba dire secondo la teologia". L'altrettanto celebre studioso parigino Nicola Oresme fu, a differenza di Buridano, dottore in teologia. Nel suo Le livre du ciel et du monde avanzò l'ipotesi della rotazione terrestre diurna come spiegazione dei fenomeni più semplice ed efficace del far ruotare quotidianamente l'intero Cosmo intorno alla Terra. Per quanto riguarda le contrastanti indicazioni bibliche, spiegò Giosuè 10, 12-14 (il testo in cui Giosuè ordina al Sole di fermare il suo corso nel cielo) supponendo che le Scritture, che qui avrebbero adottato una forma popolare di espressione, non fossero da prendersi alla lettera. Cionondimeno, alla fine Oresme rigettò la sua ipotesi del moto della Terra in quanto non dimostrabile, e riaffermò il significato letterale del passo di Giosuè.

In Italia l'aristotelismo si sviluppò lungo linee differenti, principalmente perché l'averroismo laico in fuga dal Nord trovò rifugio nelle università italiane. Non gravata dalla presenza di una Facoltà di teologia cui dover giustificare le sue posizioni, la prima scuola di scolastici italiani, quella del magister della Facoltà di medicina Taddeo Alderotti (1215/1223-1295) e dei suoi studenti dell'Università di Bologna, contestò l'immortalità dell'anima individuale come dottrina filosofica, pur riconoscendone la verità secondo la fede cristiana. Nel tardo XVI sec. l'averroismo rimase invero la forza dominante nell'aristotelismo italiano (Nardi 1958; Schmitt 1979). Il più grande degli aristotelici italiani, Pietro Pomponazzi (1462-1525), non fu averroista nella maturità, ma anch'egli, parlando come filosofo naturale seguace di Aristotele, contestò l'immortalità dell'anima, la possibilità dei miracoli, il potere d'intercessione delle preghiere, e l'esistenza del caso o del libero arbitrio nell'Universo.

Ciò non significa che in Italia le autorità ecclesiastiche concessero agli scienziati una libertà incondizionata. Nel 1327, a Firenze, l'Inquisizione mise al rogo il noto astrologo Cecco d'Ascoli; se l'astrologia formava parte integrante del curriculum medico italiano, nel formulare l'oroscopo di Gesù Cristo il determinismo astrale di Cecco aveva oltrepassato il confine tra l'astrologia medica e la teologia eterodossa. Dieci anni prima, a Padova, l'Inquisizione aveva riesumato e bruciato il cadavere dell'illustre filosofo naturale Pietro d'Abano (1250 ca.-1315), presumibilmente per aver egli posto in dubbio i miracoli, ivi compresa la risurrezione di Lazzaro, spiegandoli come fenomeni naturali. Nel 1396, il celebre aristotelico Biagio Pelacani da Parma (1354 ca.-1416), professore all'Università di Pavia, fu convocato davanti al vescovo della città per aver impartito insegnamenti "contrari alla fede cattolica e alla Santa Chiesa"; per evitare di perdere la cattedra, fu costretto a pentirsi dei suoi errori. Se il vescovo di Pavia non era sicuramente interessato alla critica di Biagio contro Tommaso Bradwardine e la Scuola del Merton College sulla dinamica del moto locale, altrettanto certamente non gradiva che Biagio sostenesse, come philosophus naturalis, che le leggi fisiche richiedono di accettare che la grande congiunzione astrale stabilisca gli oroscopi dei profeti e delle loro religioni. Alla fine del secolo seguente, e precisamente nel 1489, il vescovo di Padova Pietro Barozzi e l'inquisitore della stessa città emanarono concordemente un editto in cui si minacciava di scomunica chiunque avesse pubblicamente disputato sulla dottrina averroista dell'unità dell'intelletto. Il decreto sortì l'effetto voluto: nel 1492, l'eminente aristotelico dell'Università di Padova Nicoletto Vernia si sentì così preso di mira da pubblicare una palinodia in cui ripudiava quella stessa visione averroista dell'anima che aveva insegnato per ben trentatré anni. L'interesse ecclesiastico toccò l'apice nel 1513, con la Bolla Apostolici regiminis emanata da Leone X nel V Concilio lateranense. Il papa ordinò ai professori di filosofia di fare ogni sforzo per difendere la verità cristiana nelle discussioni concernenti "la mortalità e l'unità dell'anima e l'eternità del mondo e altre simili cose". Quando, tre anni dopo, Pietro Pomponazzi negò l'immortalità dell'anima nel suo trattato De immortalitate animae, si attirò una tale quantità di critiche che non osò pubblicare gli altrettanto audaci trattati sul determinismo (De fato) e sui miracoli (De incantationibus). Ancor prima della Riforma, le autorità della Chiesa italiana erano diventate sempre più intolleranti nei confronti non soltanto del determinismo astrologico, ma anche dell'aristotelismo laico, in particolare in relazione alla sua concezione dell'anima. In questa evoluzione, ebbe probabilmente grande rilevanza la crescente influenza della filosofia platonica di Marsilio Ficino (1433-1499) a Firenze. Il platonismo fiorentino consisteva in una filosofia nuova e rivale, che sosteneva esplicitamente di essere più in armonia con la verità cristiana e che, in una sorta di campagna propagandistica, attaccò l'aristotelismo italiano sulla questione dell'immortalità dell'anima.

Un esempio di questa crescente vigilanza fu il caso di Girolamo Borri (1512-1592), che insegnò philosophia naturalis all'Università di Pisa quando Galilei vi studiava, autore di trattati sul moto (De motu, che Galilei aveva nella sua biblioteca), sul metodo aristotelico (De peripathetica docendi atque addiscendi methodo) nonché di un dialogo in italiano su inondazioni e maree. Avendo già avuto vari diverbi con l'Inquisizione per sospetto protestantesimo, fu imprigionato a Roma nel 1582 per aver negato l'immortalità dell'anima. Si guadagnò la libertà nel 1583, solamente dopo aver pubblicamente ricusato le sue opinioni.

Un altro caso, ancor più importante, fu quello di Cesare Cremonini (1550-1631), l'eminente aristotelico collega e amico di Galilei all'Università di Padova, che rifiutò di guardare nel nuovo cannocchiale di Galilei. Sembra che precedentemente, nel 1599, avesse avuto problemi con l'Inquisizione. Poi, nel 1604, sia lui sia Galilei furono denunciati all'Inquisitore di Padova, Cremonini per aver negato l'immortalità dell'anima, Galilei per immoralità e una supposta adesione al determinismo astrologico. Le accuse contro Galilei furono ritirate, quelle contro Cremonini passarono a Roma, dove non ebbero seguito grazie alla protezione della Repubblica di Venezia. Cremonini fu denunciato di nuovo nel 1608, ed è menzionato ancora una volta nel 1611, in una breve nota del Sant'Uffizio di Roma concernente Galilei, che aveva nel frattempo pubblicato le scoperte fatte con il cannocchiale nel Sidereus nuncius del 1610. Gli eventi culminarono nel 1613, quando Cremonini pubblicò la sua Disputatio de caelo in reazione al Sidereus nuncius galileiano. Galilei non aveva di che rammaricarsi, dato che Cremonini non lo attaccava direttamente, ma si limitava a riaffermare l'ortodossia aristotelica. L'Inquisizione, comunque, censurò quaranta passaggi dell'opera, in particolare, quelli concernenti l'eternità del mondo, l'anima come forma materiale del corpo e la provvidenza divina. L'Apologia del 1616 non soddisfece il Sant'Uffizio di Roma e Cremonini fu costretto ad abbandonare l'idea di pubblicare il suo ultimo e più rilevante scritto su Aristotele, il De caeli efficentia. Cremonini continuò ad avere problemi con il Sant'Uffizio fino al 1626, quando fu accusato di non credere nei miracoli. Le autorità religiose non vollero accettare oltre la sua principale difesa, che era quella tradizionale degli aristotelici laici, e cioè che egli si limitava semplicemente a commentare Aristotele ed era remunerato per questo, non per insegnare verità teologiche. Solo la protezione accordatagli dalla Repubblica di Venezia come a uno dei suoi più illustri docenti lo salvò da più gravi ripercussioni per aver ostinatamente difeso l'indipendenza della scienza aristotelica. A conti fatti, Cremonini aveva buone ragioni per constatare che Galilei avesse sbagliato a lasciare la sicurezza della "libertà patavina" per tornare a vivere a Firenze.

Se la Chiesa cattolica non abbandonò mai i sospetti nei confronti di un aristotelismo generalmente ben addomesticato, ancor meno ridusse la vigilanza nei confronti di chi propugnava una filosofia e una scienza nuove e inconsuete. Gerolamo Cardano (1501-1576) fu un antiaristotelico molto prolifico. Arrestato come eretico nel 1570 dall'Inquisizione di Bologna, con accuse che comprendevano l'averroismo e la compilazione dell'oroscopo di Cristo, si sforzò di discolparsi a Roma prima della morte. Ciononostante, nel 1559 l'Inquisizione spagnola proibì un ampio numero dei suoi scritti. L'Indice romano ne seguì l'esempio nel 1590.

Bernardino Telesio (1509-1588) fu il primo grande naturalista antiaristotelico del Rinascimento. Egli esitò a lungo prima di pubblicare a Napoli, nel 1565, la sua opera principale, il De rerum natura iuxta propria principia. Nonostante Telesio iniziasse con un'esplicita sottomissione alle Scritture e alla Chiesa, a causa della visione materialistica il libro e alcuni opuscoli furono inseriti nell'Indice dei libri proibiti a iniziare dall'edizione di Clemente VIII nel 1596, otto anni dopo la morte di Telesio (Reusch, I, p. 536; II, p. 542).

Giordano Bruno (1548-1600), il celebre profeta cinquecentesco dell'Universo infinito, costituisce un caso ben più clamoroso. Morì vittima dell'Inquisizione, a Roma, bruciato sul rogo a Campo de' Fiori. Nel sommario del processo intentatogli dall'Inquisizione (Mercati 1942), uno dei capi d'accusa riguarda la sua asserzione circa l'esistenza di una pluralità di mondi; fu anche accusato di credere nella loro eternità. Parlando a propria difesa, sostenne il moto terrestre contro il senso letterale delle Scritture. Tuttavia, la mole schiacciante delle accuse contro Bruno concerneva questioni teologiche tradizionali, ritenute centrali per la fede cattolica, come la Trinità, la transustanziazione, la verginità di Maria, il culto dei santi. È difficile credere che l'Inquisizione avrebbe trattato Bruno così duramente se l'avesse ritenuto ortodosso su questi punti; con ogni probabilità, e tuttavia su questo punto la storiografia resta comunque divisa, egli fu giustiziato non per le sue idee scientifiche, bensì per le sue convinzioni religiose.

Quando nel XV sec. il platonismo emerse come alternativa all'aristotelismo, il suo maggior oppositore, Giorgio di Trebisonda, denunciò la sua pericolosità per il cristianesimo; certo, il contemporaneo platonico bizantino Giorgio Gemisto Pletone sembra essere stato un neopagano e le dottrine magiche e astrologiche di Marsilio Ficino, il fondatore del platonismo rinascimentale, mal si conciliano con il cristianesimo. Peraltro, fu non prima della seconda metà del Cinquecento che l'Inquisizione ritenne opportuno intervenire. Il platonico Francesco Patrizi (1529-1597) aveva attaccato l'aristotelismo in vari scritti e nel 1591 aveva pubblicato a Ferrara il suo principale testo scientifico, la Nova de universis philosophia, più un trattato sulla fisica che non sulla filosofia platonica. Tuttavia, dopo che nel 1592 papa Clemente VIII (1592-1605) chiamò Patrizi a tenere la nuova cattedra di filosofia platonica a Roma, la Congregazione dell'Indice insistette per fargli modificare alcuni passaggi dell'opera. Patrizi rispose con un'Apologia, poi con alcune Declarationes, e finalmente con una Emendatio. Alla fine, la Congregazione condannò il libro e Patrizi non poté pubblicarne una nuova edizione. Per soddisfare la censura, egli aveva tuttavia preparato un elenco di correzioni per la nuova edizione (Kristeller 1970); mentre la maggior parte delle accuse aveva a che fare con la filosofia e la teologia, egli elenca varie proposizioni fisiche, in una delle quali si sostiene che la Terra non è rotonda, ossia non è esattamente sferica, per via delle montagne e delle valli che ne movimentano il profilo. Era un approccio elementare alla fisica, e resta difficile capire perché dovesse contrariare un censore religioso. D'altra parte, Patrizi cercò anche di difendere le proposizioni sull'infinità dello spazio e sulla rotazione della Terra sul suo asse, che si trovano entrambe nei Libri IV e XVII della parte terza (intitolata Pancosmia) della sua Nova philosophia. Nonostante che Patrizi non avesse nulla di nuovo da aggiungere a queste proposizioni sotto il profilo scientifico, il fatto che il censore volesse espungerle dimostra che questi argomenti destavano i sospetti del Sant'Uffizio almeno cinque anni prima dell'esecuzione di Giordano Bruno e ventun'anni prima dell'ammonimento ufficiale a Galilei.

Nel Rinascimento, paladini delle nuove filosofie naturali come Cardano, Telesio, Bruno e Patrizi sperimentarono lo stesso atteggiamento sospettoso che la Chiesa ufficiale aveva espresso nei confronti dell'aristotelismo già durante il Medioevo, e che continuò durante tutto il Rinascimento.

La crisi copernicana: i protestanti

Com'è noto, Martin Lutero non nutriva molte simpatie per il copernicanesimo. Già dal giugno 1539, nei suoi Discorsi a tavola, basandosi su resoconti orali del sistema copernicano anziché su spiegazioni scritte (la Narratio prima di Rhaeticus apparve nel 1540; lo stesso De revolutionibus nel 1543), Lutero espresse una memorabile condanna di Copernico, accusato di aver ribaltato le Scritture contraddicendo la chiara affermazione biblica secondo la quale, a Gerico, Giosuè ordinò al Sole di fermarsi. Giovanni Calvino non fu meno pronto. In almeno uno dei sermoni francesi superstiti, egli infatti attaccò il copernicanesimo che riteneva essere ispirato dal demonio. Di fatto, la reazione dei protestanti fu più differenziata di quanto le dichiarazioni di Lutero e Calvino lascerebbero immaginare.

Filippo Melantone (1497-1560), dopo Lutero la personalità più autorevole dell'Università di Wittenberg, inizialmente osteggiò Copernico non meno del suo maestro. Tuttavia nelle ultime opere, successive alla morte di Lutero, egli sembra aver adottato una posizione più moderata nei confronti del copernicanesimo. Molti protestanti di più giovane età, legati all'Università di Wittenberg e soprattutto a Filippo Melantone, furono ancor più favorevolmente disposti. Rhaeticus (1514-1576) fu un convinto copernicano; la sua Narratio prima de libris revolutionum del 1540 fu, come indica il titolo, la prima esposizione delle idee di Copernico a essere pubblicata. Altri, sebbene avessero delle riserve, tollerarono il copernicanesimo; è il caso di Erasmus Reinhold (1511-1553), professore di matematica a Wittenberg e autore delle Tavole pruteniche del 1551 basate su Copernico, e Kaspar Peucer (1525-1602), genero di Melantone e suo successore come rettore dell'Università di Wittenberg. Andreas Osiander (1498-1552), che seguì la stampa dell'opera di Copernico, era anch'egli un teologo luterano. Vero è che Osiander si premurò di cautelare l'eliocentrismo dalla censura teologica inserendo nel De revolutionibus una lettera anonima, che induceva il lettore a credere ‒ erroneamente ‒ che Copernico considerasse la sua teoria una mera finzione matematica. Una generazione dopo, Johannes Praetorius (1537-1616), professore di matematica all'Università luterana di Altdorf dal 1576 alla morte, cercò d'inserire il copernicanesimo in un sistema fondamentalmente tolemaico. In modo meno conservatore, Michael Mästlin (1550-1631), maestro di Kepler all'Università di Tubinga, trovò che il modello copernicano offrisse l'unico modo possibile per spiegare la traiettoria della cometa del 1577, tuttavia, nel solco tracciato da Osiander, rifiutò di considerare il copernicanesimo qualcosa di diverso da uno strumento di calcolo. Nel XVII sec., nonostante eccezioni come quella rappresentata dall'inglese Thomas Digges, gli astronomi protestanti non abbracciarono il copernicanesimo.

Emblematico è l'atteggiamento di Tycho Brahe (1546-1601), che trascorse gran parte della carriera nella nativa Danimarca e morì nei pressi di Praga, al servizio dell'imperatore cattolico Rodolfo II. Brahe fu il più importante astronomo protestante prima di Kepler. Fece più di qualsiasi altro, se si esclude Galileo Galilei, per distruggere la base fattuale del Cosmo aristotelico-tolemaico. Tuttavia, rigettò in larga parte l'eliocentrismo copernicano, che considerava contrario all'insegnamento cristiano. Propose invece una soluzione di mezzo, uno schema in cui la Terra rimaneva immobile al centro dell'Universo mentre tutti gli altri pianeti orbitavano attorno al Sole che, a sua volta, girava intorno alla Terra come facevano le stelle. Tra i cattolici, i gesuiti in particolare favorirono il sistema ticonico, o una sua variante, dopo che la condanna del copernicanesimo nel 1616 aveva reso insostenibile l'eliocentrismo. Il principale gesuita ad aderire, almeno in parte, al sistema ticonico fu Giambattista Riccioli (1598-1671), che nell'Almagestum novum del 1651 propose un modello in cui Marte, Mercurio e Venere orbitavano intorno al Sole, mentre tutto il resto del firmamento ruotava intorno alla Terra immobile. Riccioli espose il sistema copernicano in modo talmente ampio e generoso da far supporre che, se non fosse stato per l'obbedienza alla Santa Sede, sarebbe stato un copernicano.

Fu soprattutto il luterano Johannes Kepler (1571-1630) a legittimare il copernicanesimo nei paesi protestanti. Per quanto molto preso dal misticismo matematico pitagorico e di dubbia ortodossia su alcuni punti del luteranesimo, Kepler fu un fermo credente nella Trinità cristiana, di cui ricercò quasi ossessivamente i riflessi nell'Universo. Così si esprime nell'introduzione alla sua opera principale, il Mysterium cosmographicum: "Che io abbia osato tanto si deve alla splendida armonia di quelle cose che sono in quiete, il Sole, le stelle fisse, e lo spazio intermedio, con Dio Padre, e il Figlio, e lo Spirito Santo" (Kozhamthadam 1994, p. 139). Come suggerisce il passo citato, Kepler considerava il Sole con una sorta di venerazione, in quanto simbolo di Dio Padre. Questa è un'importante ragione del suo rifiuto della cosmologia di Tycho. Per dirla con Dijksterhuis, "per [Kepler] il Sole era non soltanto la fonte di luce del mondo, ma anche la sua fonte di forza; secondo la sua concezione i moti dei pianeti non soltanto avevano luogo attorno al Sole e alla luce di esso, ma erano anche causati da esso" (Dijksterhuis 1961, p. 406). A difesa del copernicanesimo, Kepler negò che la Bibbia fosse un libro di astronomia, piuttosto, essa parlava dei fenomeni astronomici nel linguaggio comune dell'epoca, e non doveva essere presa alla lettera su tali argomenti. Il principio di Kepler sembra essere stato quello di rifiutare il significato letterale dei passi biblici laddove credeva che la verità scientifica richiedesse un'interpretazione non letterale. In sostanza, quindi, concordava con Galilei. La difficoltà semmai consiste nell'accordarsi su cosa sia la verità scientifica, dacché Kepler e Galilei sbagliavano nel credere di aver scientificamente 'dimostrato' il copernicanesimo.

La crisi copernicana: i cattolici

Fino al XVI sec., la principale preoccupazione della Chiesa per l'astronomia concerneva gli usi non ortodossi che ne poteva fare l'astrologia. Anche se il papa Paolo III (1534-1549) incaricò nel 1543 il famoso astrologo Luca Gaurico di individuare il momento più propizio per deporre la pietra angolare di San Pietro e sebbene, ancora nel 1628, Urbano VIII consultasse Tommaso Campanella per una previsione astrologica, la posizione ufficiale della Chiesa era molto chiara. L'Indice dei libri proibiti pubblicato da Paolo IV nel 1559 vietò nel complesso i testi di astrologia giudiziaria, a eccezione di quelli scritti per coadiuvare la navigazione, l'agricoltura e la medicina. A Bologna l'astrologia cessò di essere insegnata come materia nel 1572, ma le Bolle papali contro l'astrologia continuarono ad apparire: una nel 1585, a firma di Sisto V (Coeli et terrae) e un'altra, di Urbano VIII, nel 1631 (Inscrutabilis). Quando nel 1607 Giovanni Antonio Magini ‒ celebre professore di matematica a Bologna ‒ pubblicò un commentario sul trattamento astrologico che Galeno fece dei giorni 'critici', nonché un trattato sugli usi propriamente medici dell'astrologia, si guardò bene dal cercare l'approvazione del censore ecclesiastico.

Niccolò Copernico aveva esitato a lungo prima di pubblicare le sue idee, ma quando, nel 1543, apparvero i sei libri del De revolutionibus orbium coelestium i suoi correligionari sembravano pronti a dargli ascolto. Copernico stesso era un canonico della diocesi di Warmia. Tiedemann Giese, già canonico di Warmia e vescovo di Chemno al tempo della pubblicazione del De revolutionibus ‒ che aveva fortemente incoraggiato ‒ scrisse un trattato andato perduto, intitolato Hyperaspisticon, che riconciliava l'eliocentrismo copernicano con la Bibbia. Copernico richiamò l'attenzione sull'incoraggiamento di Giese nella lettera dedicatoria a Paolo III, e incluse tra i testi prefatori al De revolutionibus una lettera amichevole, datata 1536, del cardinale domenicano Nicholas Schönberg (1477-1537). Nella lettera egli descrive il sistema di Copernico e sollecita l'autore a inviare una copia del manoscritto a Roma. L'orientalista tedesco Johann Albrecht di Widmanstadt (1506-1577), che fu segretario di Clemente VII, in una nota a un manoscritto greco, riferisce: "papa Clemente VII mi diede questo codice nell'anno 1533 a Roma, nei giardini vaticani, alla presenza dei cardinali Franciscus Ursinus e Ioannes Salviatus, del vescovo Ioannes Petrus di Viterbo, e del fisico Mathaeus Curtius, dopo che gli spiegai l'opinione copernicana sul movimento della Terra" (Copernico, Inedita Coppernicana, ed. Curtze, p. 4).

Quindi, le alte sfere di Roma erano già informate della teoria copernicana e, apparentemente, ben disposte. A Clemente VII succedette Paolo III, e fu a lui che Copernico dedicò il De revolutionibus, sebbene non sia chiaro se Paolo III avesse preventivamente accettato la dedica.

C'era comunque opposizione a Roma. Sebbene Clemente VII e Paolo III non fossero di per sé ostili, nel 1542, quinto anno del pontificato di Paolo III, divenne Maestro del Sacro Palazzo e quindi teologo ufficiale del papa un futuro critico di Copernico, il domenicano Bartolomeo Spina (m. 1546). Secondo il domenicano Giammaria Tolosani (1470/1471-1549), suo amico e suo successore alla carica di Maestro del Sacro Palazzo, Spina aveva progettato di scrivere una censura di Copernico, ma prima la malattia e poi la morte glielo impedirono. Tolosani realizzò le intenzioni di Spina con un opuscolo del 1549, De coelo et elementis, in cui condannava Copernico "per aver contraddetto i principi delle Sacre Scritture" e per "errori intollerabili contro la divina Scrittura". Il trattato di Tolosani non fu stampato, sopravvivendo in un unico esemplare manoscritto, autografo, nel convento domenicano di San Marco a Firenze. Nel 1635 il teologo domenicano Tommaso Caccini lo lesse in pubblico durante un'udienza a Firenze. Venti anni prima, nel 1615, Caccini si era recato a Roma per denunciare il copernicanesimo di Galileo Galilei. Così, un preciso filo testuale connette Spina e Tolosani con Caccini, uno dei primi oppositori seicenteschi di Galilei.

A parte questa sottile e a lungo latente tensione dell'opposizione domenicana, non si può dire che nel Cinquecento i cattolici adottassero un atteggiamento apertamente ostile contro Copernico. Il caso della Spagna è a questo proposito interessante. Nel 1561, nel 1594 e ancora nel 1615 gli statuti dell'Università di Salamanca includevano Copernico tra gli autori da insegnare. Questa innovazione fu innanzi tutto dovuta ai professori di astrologia di Salamanca, Juan e Hernando de Aguilera. Dal 1578 al 1612 tennero la cattedra l'antiaristotelico Jéronimo Muñoz e i suoi discepoli Gabriel Serrano e Antonio Núñez Zamora. Muñoz esplicitamente ricusò le 'ipotesi' copernicane, ma su basi puramente scientifiche. Non abbiamo prove che il copernicanesimo fosse insegnato a Salamanca, ma la teoria copernicana era sicuramente tenuta in considerazione e apprezzata per ragioni tecniche. Intorno al 1589 il matematico Pedro Simón Abril, sebbene non accettasse il copernicanesimo, elogiò Copernico in un trattato non pubblicato sulla filosofia naturale. Vari autori spagnoli che si occupavano di cartografia e navigazione utilizzarono gli scritti di Copernico e uno di loro, Juan Cedillo Díaz, fece in effetti una traduzione parziale in castigliano dei primi tre libri del De revolutionibus, che incorporò nell'opera astronomica da lui composta tra il 1620 e il 1625.

A ogni modo, l'unico personaggio che aderì pubblicamente al copernicanesimo non fu nessuno di questi autori scientifici, bensì un teologo, l'agostiniano Diego de Zúñiga (1536-1600 ca.). Professore di Sacre Scritture all'Università di Osuna dal 1573 al 1580, nel 1584 Zúñiga pubblicò a Toledo i Commentari su Giobbe, che dedicò a Filippo II. Il lavoro suscitò abbastanza interesse da essere ripubblicato a Roma nel 1591, con una dedica dell'editore romano a papa Gregorio XIV. Commentando Giobbe, 9, 6 ("[Dio] scuote la terra dal suo luogo e le sue colonne tremano"), Zúñiga sostenne che il copernicanesimo si accordava meglio al brano e ai fenomeni empirici. Egli liquidò i passaggi biblici discordanti come mere espressioni del linguaggio comune. In una critica alla Nova de universis philosophia di Francesco Patrizi, redatta a Roma negli anni Novanta del Cinquecento, il censore osservò con disapprovazione che qualcuno aveva recentemente interpretato Giobbe, 9, 6 in senso copernicano. I commenti del censore non furono pubblicati e non abbiamo motivo di ritenere che Zúñiga li conoscesse. Tuttavia, sei anni dopo la seconda edizione del suo commentario a Giobbe, Zúñiga cambiò opinione; nella Filosofia del 1597 rigettò l'eliocentrismo in base a motivi scientifici e filosofici. Non si è probabilmente lontani dal vero supponendo che Zúñiga potesse aver concluso che l'adesione al copernicanesimo comportava la rinunzia alla filosofia scolastica, mossa che non era preparato a compiere. Forse si rese anche conto che da quando si era pronunciato a favore del copernicanesimo, era rimasto una figura isolata nel circolo teologico spagnolo.

Un importante motivo per cui Zúñiga rimase isolato fu che il Concilio di Trento, nella quarta sessione dell'aprile 1546, tentando di arginare le novità della Riforma proibì tutte quelle interpretazioni scritturali che andavano contro "l'unanime consenso dei Padri". Poiché nessuno dei Padri della Chiesa aveva suggerito una lettura eliocentrica di Giosuè, 10, 12-14, Ecclesiaste, 1, 4-6, Salmi, 93, 1, Salmi, 104, 5, II Re, 20, 11, Giobbe, 9, 6, o di altri passi biblici, Zúñiga aveva un terreno ben duro da dissodare. Nel 1615 il cardinal Roberto Bellarmino citò questa proibizione del Concilio tridentino in una risposta critica al teologo carmelitano Paolo Antonio Foscarini (1565/1580-1616), che nel gennaio di quello stesso anno aveva pubblicato, a Napoli, una Lettera pubblica a difesa della teoria eliocentrica contro l'interpretazione strettamente letterale delle Scritture.

La lettera di Foscarini, fino ad allora relativamente sconosciuto, rappresentò un evento del tutto imprevisto. Tuttavia, la reazione alla sua lettera fu repentina. Il 5 marzo 1616 la Congregazione dell'Indice pubblicò un decreto che condannava come falso e contrario alle Scritture l'insegnamento secondo cui la Terra si muoveva e il Sole era immobile. La Congregazione ordinò di sospendere l'uso del De revolutionibus di Copernico e del commentario a Giobbe di Zúñiga "fino a che non fossero stati corretti", ma la lettera di Foscarini fu "assolutamente proibita e condannata" (I documenti del processo di Galileo Galilei, ed. Pagano, pp. 102-103). Per la prima volta, la Chiesa di Roma si opponeva al copernicanesimo. La conclusione di questo percorso sarà il processo a Galileo Galilei nel 1633, di cui si parlerà diffusamente nella sezione dedicata alla Rivoluzione scientifica (v. V).

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