Il Rinascimento. Botanica e zoologia

Storia della Scienza (2001)

Il Rinascimento. Botanica e zoologia

Jean Céard

Botanica e zoologia

Le scienze della Natura tra utilitarismo, curiosità e senso religioso

Il sapere botanico e zoologico del Rinascimento può essere visto e studiato come una tappa del costituirsi delle scienze della botanica e della zoologia; così è per tutti coloro che tracciandone la storia valutano in quale misura il Rinascimento abbia tenuto presenti le lezioni dell'Antichità; se abbia superato le carenze della scienza medievale e se, infine, abbia preparato adeguatamente la strada dei successori, in particolare nel campo della morfologia, dell'anatomia, della fisiologia e della tassonomia. Ma le conoscenze botaniche e zoologiche possono anche essere considerate ambiti in cui si elabora e si esprime la cultura del Rinascimento; da questo punto di vista, esse costituiscono soggetti di studio particolari che richiedono di essere esaminati per le loro implicazioni, per i loro metodi e per i loro scopi. Una storia 'culturale' della botanica e della zoologia può anche interrogarsi sulla legittimità dei termini 'botanica' e 'zoologia'. Questi termini che, pur non essendo frequenti non sono ignoti nel Rinascimento, non designano tanto scienze alla cui elaborazione gli studiosi intendono contribuire, quanto una conoscenza delle piante e degli animali che deve stabilire la sua legittimità, interrogarsi sulla sua costituzione nonché determinare i mezzi della sua trasmissione.

È stato spesso notato che i naturalisti rinascimentali avevano, perlopiù, una formazione medica, cui si deve il loro interesse per le piante e gli animali. Si è anche osservato che le scienze naturali, praticate da laici, vennero a trovarsi "liberate da ogni preoccupazione religiosa" (Callot 1951, p. 12). Queste due affermazioni sono in parte contestabili. Per i medici, le scienze naturali sono un sapere ausiliario; utili alla conoscenza della "materia medica", esse tentano invano di sottrarsi a questa subordinazione. Per alcuni naturalisti rinascimentali il problema non si pone poiché l'impiego medico dei semplici (medicamenta simplicia) è sufficiente ad autorizzare queste scienze, in particolare la botanica. Quando Pier Andrea Mattioli commenta Dioscuride "principe dei Semplicisti", gli basta annotare "quanto è necessario ai medici che vogliono acquistare la reputazione di sapienti, conoscere tutti e ciascuno dei semplici che appartengono all'arte medica". Altri riconoscono che è la medicina che li ha condotti alle scienze naturali; nell'Epistola al lettore del suo Pinax theatri botanici (1623), Caspar Bauhin dichiara che, colpito dalla raccomandazione di Galeno, che gli era caduta sotto gli occhi quarantacinque anni prima, da quel momento in poi si è dedicato ad botanica, quae auxilia medica subministrant. Nella maggior parte delle università, presso le Facoltà di medicina, sono istituite cattedre di "materia medica" dove, concedendo grande spazio alla botanica, si studiano le proprietà officinali dei semplici (tale disciplina è definita lectura simplicium, ovvero 'lettura dei semplici'). Si studiano gli autori antichi, soprattutto Dioscuride, ma si praticano anche osservazioni dirette delle piante. Da ciò deriva l'allestimento di orti botanici a capo dei quali le università collocano un professore. Questi mantiene e sviluppa l'orto e, con l'aiuto di 'dimostratori', lo utilizza come ausilio dell'insegnamento. Luca Ghini, che fu maestro di Aldrovandi e di Cesalpino, fu chiamato nel 1544 da Cosimo I presso lo Studio di Pisa dove restò fino al 1554. Qui inaugurò la 'lettura dei semplici' e un orto botanico "utile alli scolari". A Ghini si deve anche l'orto botanico di Firenze, aperto nel 1545; ed è ancora lui a realizzare la prima collezione di piante secche per fini scientifici. Iniziativa che sarà sovente imitata, innanzi tutto dai suoi allievi. Nel 1546 il suo assistente Luigi Anguillara assume la direzione dell'orto botanico di Padova. Nel 1567 Aldrovandi fonda e dirige quello di Bologna ove avrà come successore Cesalpino. Orti botanici sono creati anche a Leida (1577) e a Heidelberg (1583). In Francia, nel 1594, Pierre Richer de Bellaval fonda per ordine del re quello di Montpellier ove sono istituite anche una cattedra di botanica e anatomia (1593) e una cattedra di chirurgia e farmacia (1597). Nel 1626, per ordine di Luigi XIII, è creato a Parigi l'orto botanico che è all'origine del Museo Nazionale di Storia Naturale.

Per la zoologia la situazione è diversa, le conoscenze che riguardano gli animali oltrepassano di gran lunga l'ambito dei loro usi medici, seppure siano orientate secondo finalità utilitariste, rintracciabili sia nelle opere di quei naturalisti che hanno, per così dire, un posto nella storia della scienza, sia in quelle di chi è stato omesso con un certo disprezzo. I testi di Adam Lonitzer o Lonicer (Naturalis historiae opus novum, 1551) e di Guillaume Rondelet (L'histoire entière des poissons, 1558, l'edizione latina è del 1554-1555) illustrano questa considerazione. Lonitzer, sovente maltrattato dagli storici, segue tuttavia, a prima vista, i principî di Aristotele e accingendosi allo studio del regno animale annuncia che lo ha diviso in tre parti nelle quali esamina successivamente i terrestria, i volatilia e gli aquatilia; in seguito osserva che prima di studiare ciascun animale in particolare ha trattato alcuni aspetti generali, comuni a tutti. Ciò sembra corrispondere alla distinzione aristotelica delle parti omeomere (i tessuti organici) e delle parti anomeomere (gli organi, come l'occhio, la mano, ecc.). Per Lonitzer le "parti comuni" sono il latte, il grasso, il fiele, gli escrementi, il miele, la cera, e altre materie di questo tipo; pertanto, esse sono definite dal punto di vista della dietetica, dell'alimentazione e della medicina. È per questo che Lonitzer consacra al latte una lunga spiegazione in cui tratta ampiamente del formaggio e del burro, mentre dedica all'urina solamente qualche osservazione: come sarebbe disgustoso sorbire urine animali e come un gentiluomo, anche se gravemente malato, non accetterebbe di bere che l'urina di un bambino.

L'intento utilitarista è presente anche in Guillaume Rondelet. Considerato uno dei più colti ittiologhi della sua epoca, è tuttavia rimproverato per la sua tassonomia incoerente che "si fonda nel suo insieme sull'habitat" (Delaunay 1962, p. 243). Il suo criterio di classificazione in effetti è questo, tuttavia, occorre evidenziare per quale ragione Rondelet lo segua; l'ittiologia ha come punto di vista la medicina e, in tale prospettiva, non basta conoscere solamente ciò che egli definisce "la forma dei pesci". Lo studioso si domanda "in che modo il medico che conoscerà solamente la forma dei pesci e non la loro natura e le loro virtù, prescriverà una maniera di vivere buona e conveniente a sani e malati? Allo stesso modo colui che non sa assolutamente di cosa vivono i pesci e in quali acque, non conoscerà mai la loro natura e le loro virtù" (L'histoire entière des poissons, I, p. 2).

Del resto, alcune opere di zoologia del Rinascimento rispondono visibilmente a fini pratici, che si tratti dell'importanza della letteratura ippiatrica, dei trattati di caccia, degli studi sul baco da seta, delle ricerche sulle vipere per la loro importanza nella preparazione della teriaca, delle controversie sul liocorno (il cui corno aveva un uso terapeutico) o ancora del Traicté des animauls aians aisles, che Jean Bauhin pubblica nel 1593, in seguito all'apparizione di grandi farfalle nella zona di Montbéliard. Lo stesso Pierre Belon, che si emancipa considerevolmente da queste considerazioni utilitaristiche, le lascia talvolta prendere il sopravvento. Ispirandosi certamente ad Aristotele, nella sua opera La nature et diversité des poissons (1555) distingue "i pesci che hanno il sangue" e "i pesci che non hanno sangue". Ciò non impedisce che alla fine del Libro II, egli riunisca la lepre di mare, il polmone di mare, l'ippocampo, la verga di mare, ecc. sotto il titolo eloquente: "Sui pesci di mare inutili che i Latini hanno chiamato deiectamenta marina", titolo glossato così nella prefazione del secondo libro: "Alla fine metteremo alcune bestie di nessun valore, che i Latini hanno chiamato deiectamenta marina, e dei quali il nostro corpo non fa alcun uso".

Se i naturalisti non si limitano a queste considerazioni utilitaristiche, è perché attribuiscono alle loro ricerche una portata religiosa che è segno di un nuovo atteggiamento. Pierre Belon riabilitò esplicitamente la conoscenza sensibile come atto di riconoscimento del Creatore. Egli distingueva due modi di filosofare; quello di Democrito, il quale si tolse la vista per filosofare meglio, che però non gli sembrava il migliore poiché "quand'anche i ciechi possano filosofare e contemplare le cose pensandole nella loro mente, ci sono tuttavia delle cose in natura che bisogna necessariamente aver visto, per averne scienza". È meglio dunque "essere esperto in questo dovere, su cui si può fondare il giudizio certo e sicuro di tutte le cose, cioè di ciò che esiste o non esiste, ed essere arbitro della natura", e ciò perché niente è superiore alla "contemplazione delle alte opere dell'Eterno che ha creato tutte le cose" e "il dovere principale dell'uomo è di lodare le sue opere e, con grande ammirazione, considerare l'eccellenza delle sue opere e non smettere di magnificare le cose che comprende oltrepassare la capacità del suo intelletto" (Histoire de la nature des oyseaux, pp. 2-3). Charles Estienne, editore del De aquatilibus di Belon (1553), nell'introduzione fa ricorso allo stesso linguaggio: "essere filosofo cos'altro è se non contemplare le realizzazioni (artificia) della natura, che qui e là, sulla terra e sul mare, sono fatte per il nostro uso, al fine di trovarvi non solo utilità e piacere, ma anche l'occasione di percepire in esse l'industria infinitamente ammirabile del supremo autore e creatore del mondo?".

A Belon non sfugge la portata teologica di una simile riflessione poiché cita Paolo: "dalla creazione del mondo in poi, le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute" (ibidem, p. 11); questo versetto della Lettera ai Romani (1, 20) è il testo su cui si fondano le teologie naturali.

Questa valorizzazione della conoscenza sensibile disinteressata non è priva di audacia. L'Umanesimo stesso non invita volentieri a tale atteggiamento; avido di saggezza, volto all'uomo e alla sua affermazione, esso non ama disperdersi nella considerazione della diversità delle cose. Tutti gli umanisti disapproveranno Gargantua che domanda a suo figlio di applicarsi alla conoscenza di "tutti gli uccelli dell'aria, tutti gli alberi, arbusti e frutici delle foreste, tutte le erbe della terra" (Rabelais, Pantagruel, cap. 8). Numerosi, non v'è dubbio, sono coloro che faranno propri gli scherni di colui che è ritenuto come il padre dell'Umanesimo, indirizzandoli contro il nuovo tipo di studioso che si andava costituendo:

Eccolo ‒ scrive Petrarca nel De suiipsius et multorum ignorantia ‒ chi adesso sa molte cose sugli animali, gli uccelli e i pesci; sa quanti peli ha il leone sulla testa, quante piume ha il falco sulla coda e con quante spire il serpente di mare avvolge il naufrago […]; sa che il cucciolo dell'orso viene al mondo completamente informe, che il mulo non mette al mondo dei piccoli se non raramente, la vipera solamente una volta e poi dà vita a piccoli malformati, che la talpa è cieca, l'ape è sorda, il coccodrillo è l'unico fra tutti gli animali a poter muovere la mascella superiore!

Tuttavia Konrad von Gesner, autore di una voluminosa Historiae animalium di quattromila pagine (4 volumi, 1551-1558), che nell'epistola dedicatoria del primo volume non trascura di citare il versetto paolino menzionato sopra, aggiunge: "non c'è nessun animale in cui non si veda qualcosa di peculiare, rimarchevole, raro, e anche, se si può dire, qualcosa di divino (aliquid divinitatis)". Bisogna essere uno spirito meschino, egli nota, per non guardare che all'utilità e al profitto. I più piccoli fra gli animali, anche i più vili, sono particolarmente ammirevoli poiché oltre ad avere "i movimenti comuni dell'anima e del corpo non meno che il bue o l'elefante", essi "realizzano opere di un'intelligenza superiore a quella di qualunque grande animale"; basta osservare le api. Gesner cita la prefazione di Teodoro di Gaza alla sua traduzione dell'Historia animalium di Aristotele: "Non ascoltiamo quelli che dicono che ci sono molte cose in Aristotele sulla mosca, sull'ape, sul verme, molto poco su Dio. Tratta abbondantemente di Dio colui che, attraverso l'esposizione attenta e sottile delle cose create, confessa il Creatore stesso. Non si deve omettere né la mosca, né il verme; anche in essi risalta la meravigliosa industria della natura. Come per ogni artista, anche per la natura il talento deve essere contemplato piuttosto nelle più piccole delle sue opere" (f. Aa 4v).

L'idea non sarà perduta e il Libro II della Biblia naturae (pubblicata postuma nel 1737-1738) di Swammerdam sarà aperto da una celebrazione del dito di Dio, autore di queste meraviglie, di questi miracula miraculis accumulata, rivelati dall'anatomia del pidocchio, studiata ormai al microscopio.

Celebrare Dio nelle più piccole fra le sue opere è certamente accordare alle scienze della Natura un'utilità che è, però, il contrario dell'utilitarismo. È quello che Belon chiama curiosità, è una sorta di disponibilità alla magnificenza dell'opera di Dio: "Altro è cercare le cose per curiosità particolare, senza profitto, altro per l'utilità giornaliera" (Les remonstrances sur le default de labour et culture des plantes, p. 13a). Questa stessa disponibilità rafforza la convinzione che tutto è stato fatto per l'uomo, non solamente nel senso che tutte le cose sono al suo servizio, ma anche nel senso più profondo che ogni cosa ha come funzione l'esercizio e l'affinamento della sua comprensione dell'armonia universale. Nel Rinascimento continuano a essere inventariate le medicine che l'uomo ha conosciuto grazie agli animali e gli esempi morali forniti dalla considerazione del mondo animale, e si continua a provare la dignità dell'uomo attraverso la sua superiorità sugli animali. Ma al tempo stesso si è appreso dalla lettura di Plinio e soprattutto di Plutarco che forse gli animali non sono del tutto privi di ragione e di linguaggio, e laddove alcuni trovano motivi per mettere in dubbio la superiorità dell'uomo, altri (molto più numerosi) scoprono ragioni ulteriori per lodare colui che, al vertice della gerarchia degli esseri, risalta ancora di più al di sopra di essi per la sua capacità di conoscerli e, per così dire, di riassumerli in sé.

Questi temi, che generalmente i naturalisti si limitano a segnalare senza attardarsi a svilupparli, orientano la loro ricerca. Così Belon s'interessa ai canti molto diversi degli uccelli e suggerisce che essi formino un concerto "attraverso il quale ‒ egli nota en passant in una considerevole riflessione ‒ l'uomo curioso di conoscere l'armonia tanto dei corpi celesti quanto dei viventi, non deve averne stima minore, udendoli avere diversi toni nei loro fischi, che dell'accordo dei corpi celesti, e del loro concorso con le sostanze terrestri" (Histoire de la nature des oyseaux, p. 49). La curiosità qui definisce un vero compito; propria dell'essere più degno fra le creature, essa consiste nel manifestare l'unità del Creato in un atto di conoscenza. Da parte sua, Cardano, consacra una lunga esposizione del suo De subtilitate (1550) a contestare che il cammello sia fatto "per l'uomo" nel senso che piegherebbe anteriormente le zampe posteriori e avrebbe una carnosità al ginocchio per poter essere comodamente utilizzato dall'uomo come bestia da soma "poiché ‒ egli scrive ‒ la natura avrebbe dovuto essere troppo sollecita se, per trasportare il peso per così breve tempo, avesse posto così tante cose in questo animale, visto che l'uomo avrebbe potuto ugualmente ovviare alla scomodità dell'altezza per mezzo della sua prudenza, con sgabelli, scale e in molti altri modi. Dunque le forme degli animali sono anche la causa della loro comodità" (De subtilitate, p. 390). Se, per Cardano, si può comunque dire che "tutti gli animali sono fatti per l'uomo", è "in questo senso che l'uomo prevale su tutti e li conosce tutti". Anche le opere dei naturalisti del Rinascimento recano le tracce dei dibattiti teologici e filosofici contemporanei e vi partecipano alla loro maniera. Una filosofia della Natura guida le loro ricerche. Se ne possono facilmente enunciare i grandi temi, appoggiandosi ancora su Cardano, di cui il De subtilitate e il De rerum varietate (1557), in particolare, esplicitano molto chiaramente questa filosofia, altrove sovente implicita. La varietà delle cose non è meno grande rispetto all'unità dell'insieme, che giustamente è chiamato Universo. La legge universale dell'analogia mantiene l'unità nella diversità; così, per quanto riguarda le piante "tutte le parti di queste corrispondono alle parti degli animali, [...] la parte bassa del tronco al ventre, le foglie al pelo, la scorza al cuoio e alla pelle, il legno alle ossa, le vene alle vene, i nervi ai nervi, l'utero ad alcune viscere che non possono vivere senza utero. Le uova corrispondono ai fiori, il seme al seme, le estremità ai rami e alle fronde" (De subtilitate, p. 296). Questa sorta di analogia funzionale, d'ispirazione aristotelica (De partibus animalium, IV, 10), può anche duplicarsi in un'analogia strutturale, come mostra in Belon (Histoire de la nature des oyseaux) la celebre comparazione fra lo scheletro dell'uomo e quello di un uccello. Dimenticando i precedenti di Aristotele e di Galeno, vi si è voluto vedere il primo tentativo di anatomia comparata; è dire troppo. Così come è anacronistico evocare il principio, che formulerà Geoffroy Saint-Hilaire, di unità di composizione. Queste considerazioni non impediscono che, malgrado diversi errori anatomici, Pierre Belon cerchi qui di riconoscere all'opera l'analogia che regola le produzioni della Natura, e questo in piena consapevolezza poiché, commentando tale comparazione, usa molte volte il termine proportion, l'equivalente francese di analogia. La medesima parola è impiegata da Volcher Coïter (Humani corporis partium tabulae, 1573), che segnala, raffigurando uno scheletro di scimmia, l'analogia fra le ossa umane e quelle della scimmia.

È secondo questa legge di analogia che gli esseri si diversificano in quanto la Natura, preoccupata dell'unità, passa a poco a poco da un'estremità all'altra e congiunge, come dice Gerolamo Cardano, "le cose molto distinte attraverso altre cose intermedie". Questa stessa idea è esposta largamente da Jean Bodin (Universae naturae theatrum, 1596) il quale, per esempio, si attarda sugli zoofiti, o plantanimaux. Quanto a Cardano, questi aggiunge anche che le creature più distanti nella catena degli esseri si trovano come ravvicinate per la loro partecipazione a una comune qualità; così come gli uomini sono chiamati a resuscitare, si dice che le mosche "tornino in vita".

Per quanto diversificato, il mondo non è infinito; destinato a essere conosciuto dall'uomo, è creato a sua misura. Approvando pienamente Plinio (Naturalis historia, XXXII, 11) che lo ha detto prima di lui, Belon dichiara: "l'uomo giudizioso che ha praticato buone cose si propone una sospensione della certezza circa la conoscenza delle cose naturali. Poiché se qualcuno sostenesse l'esistenza di duemila specie di uccelli, farebbe come chi dice che ci sono molteplici mondi e che c'è un Sole e una Luna in ogni mondo, che è una cosa assolutamente incredibile"; secondo Belon, non ci sono "più di cinquecento specie di pesci, più di trecento tipi di animali a quattro zampe, e più di quaranta differenti tipi di serpenti, e più di trecento cose da mangiare provenienti dalle erbe o dagli alberi" (Histoire de la nature des oyseaux, p. 66). La conoscenza degli animali e delle piante del nuovo mondo non fa realmente vacillare questa certezza. Jean de Léry, pur convinto dell'innata differenza del nuovo mondo, evoca, come già aveva detto Plinio (Naturalis historia, IX, 2) "la comune opinione che nel mare ci sono tutte le specie di animali che si vedono sulla terra" (Histoire d'un voyage fait en la terre du Brésil autrement dite Amérique, cap. 12).

Filologia e osservazione

Ci si attarda troppo spesso a recensire gli errori e le leggende veicolate dai testi del Rinascimento in materia di botanica e di zoologia, a incriminare un sapere ancora balbuziente o a pretendere che il peso dell'autorità sia tale che gli studiosi del Rinascimento spariscano davanti a essa, al punto che talvolta si sostiene che i migliori naturalisti dell'epoca sono quelli che, troppo ignoranti per poter raccogliere le lezioni degli Antichi, hanno potuto osservare da sé stessi. Ma nel Rinascimento, non più che in altri periodi, la scienza naturale non si costruì senza libri, così la riscoperta dei testi classici giocò un ruolo determinante. Dal 1476 è pubblicata a Venezia la traduzione di Teodoro di Gaza del De animalibus (Historia animalium, De partibus animalium, De generatione animalium) di Aristotele, il cui testo greco sarà pubblicato in questa città nel 1497. Le riedizioni sono numerose: il testo greco è ripubblicato a Firenze nel 1527, a Basilea nel 1531, 1539 e 1550, a Venezia nel 1551, a Francoforte nel 1584-1587, a Lione nel 1590, a Ginevra nel 1597 e 1605; la traduzione latina è ripubblicata a Venezia nel 1492, 1495 e 1498, a Lione nel 1505, a Parigi nel 1524, a Venezia nel 1526, a Parigi nel 1533 e 1542, a Venezia nel 1545, a Parigi nel 1548. Quanto alla Naturalis historia di Plinio, ugualmente importante per la botanica e per la zoologia, pubblicata a Venezia nel 1469 è riedita quattordici volte in incunabolo. A esse si aggiungono, per la zoologia, opere come l'Historia animalium di Eliano (1556; 1562) e gli Halieutica di Oppiano (1478; 1515; 1517; 1534; 1555). Quanto alla botanica, essa è illustrata in particolare dal De materia medica di Dioscuride, la cui traduzione latina è del 1478 e il cui testo greco sarà pubblicato a Venezia nel 1499, e dal De plantis di Teofrasto (traduzione di Teodoro di Gaza, 1483), a cui si aggiungono l'erbario dello Pseudo-Apuleio e il De herbis dello Pseudo-Dioscuride.

Queste opere non sono accettate acriticamente, basti ricordare, oltre alle celebri Castigationes plinianae, essenzialmente filologiche di Ermolao Barbaro (1492-1493), il De Plinii et plurium aliorum medicorum in medicina erroribus novum opus di Niccolò Leoniceno (1492); Belon dunque non è il solo a criticare Plinio: "ciò che ha di buono è preso da altri autori" (Histoire de la nature des oyseaux, p. 15). A ogni modo queste opere pongono numerosi problemi d'interpretazione, al punto che la scienza naturale del Rinascimento è costituita in gran parte da commenti alle opere degli Antichi. Dioscuride è commentato, sotto forme diverse, in Germania da Valerius Eberwein, detto Valerius Cordus (1549), e da Johan Hagenbut, detto Janus Cornarius (1557); in Spagna da Andrés de Laguna (1552); in Francia da Jean du Ruel o Ruellius (1516), da Sylvius (1548) e da Jacques Dalechamps (1558; 1587); in Italia da Marcello Vergilio (1518), da Antonio Musa Brasavola (1536), e soprattutto da Pier Andrea Mattioli che nel 1554 pubblica a Venezia un'edizione abbondantemente corretta della traduzione di Ruellius le cui numerose edizioni commentate sono a loro volta oggetto di molte traduzioni. La traduzione stessa delle opere antiche si scontra con lo spinoso problema dell'identificazione delle specie menzionate; è senza dubbio una delle ragioni della lentezza delle traduzioni della Naturalis historia di Plinio nelle lingue volgari in quanto se, dal 1479, sarà pubblicata la traduzione in italiano di Cristoforo Landino, bisogna aspettare il 1562 perché Antoine Du Pinet ne dia una traduzione integrale in francese; la traduzione parziale in tedesco di Heinrich von Eppendorf è pubblicata a Strasburgo nel 1543; quella in spagnolo di Geronimo de Huerta, ugualmente parziale, è pubblicata a Madrid solo nel 1599. Quanto alla traduzione di Landino, essa si limita sovente a italianizzare, senza tradurli propriamente, i nomi pliniani; bisogna aspettare quella di Antonio Brucioli, nel 1548, per trovare, in italiano, traccia dei lavori d'identificazione perseguiti dai naturalisti del Rinascimento, tanto che Ludovico Domenichi, nel 1561, come per inerzia, continua a tradurre rifacendosi a Landino.

L'esame dell'eredità antica conduce i naturalisti a constatare numerosi casi di sinonimia e di omonimia; infatti, uno stesso soggetto, vegetale o animale, è conosciuto sotto molteplici nomi, oppure lo stesso nome designa specie differenti. Così l'amarantus è descritto da Plinio (Naturalis historia, XXI, 8) come una pianta che ha una "spiga purpurea" e non propriamente come un fiore; ma Dioscuride sembra chiamare con questo nome una sempreviva. Anche Leonhart Fuchs, nell'opera Plantarum effigies (1542), distingue l'Amarantus purpureus, la pianta di cui parla Plinio, dall'Amarantus luteus, che corrisponde alla pianta che Dioscuride considera amarantus. Ciò che Plinio chiama acacia (Naturalis historia, XXIV, 12) non corrisponde in nulla all'albero che la botanica moderna designa con questo nome; l'identificazione di ciò che gli Antichi chiamano acacia si rende ancora più necessaria quando si pone la questione del rapporto fra la resina che se ne trae e ciò che gli speziali designavano con il nome di gomma arabica; commentando Dioscuride (Libro I, cap. 65), Mattioli si dedica a lungo a chiarire questo problema. La zoologia incontra difficoltà analoghe; Francesco Massari (In novum Plinii De naturali historia librum castigationes et annotationes, 1537) cerca, per esempio, di identificare i grandi pesci fluviali di cui parla Plinio, il silurus del Nilo o l'attilus del Po; fa riferimento ad Aristotele (di cui Teodoro di Gaza ha reso 'glanis' con 'silurus') per sostenere che il siluro non potrebbe essere lo sturio o storione; quanto all'attilus del Po, potrebbe essere il pesce che i rivieraschi chiamano attina o adena, indicazione di cui Antoine Du Pinet, traducendo Plinio, terrà conto; il grande pesce senza osso né lisca che si pesca nel Dniepr, secondo Massari dovrebbe essere l'antacaeus di cui parla Erodoto (identificazione accettata, anche questa, dal traduttore Du Pinet).

Questi problemi d'identificazione, che sono innanzi tutto problemi di denominazione, vale a dire problemi filologici, sono all'origine di opere di carattere lessicologico, come il piccolo libro di Charles Estienne intitolato De Latinis et Graecis nominibus arborum, fruticum, herbarum, piscium et avium liber, ex Aristotele, Theophrasto, Dioscoride, Galeno, Nicandro, Athenaeo, Oppiano, Aeliano, Plinio, Hermolao Barbaro et Johanne Ruellio, cum Gallica eorum nominum appellatione (1544). La maggior parte dei naturalisti si preoccupa di far corrispondere i nomi che le diverse lingue attribuiscono allo stesso 'oggetto', animale o vegetale. Così Gesner pubblica un Catalogue des plantes en quatre langues (1542); Fuchs nell'opera Plantarum effigies enumera prima di ogni rappresentazione di una pianta i suoi nomi in greco, latino, italiano, francese e tedesco; Gesner, alla fine delle differenti parti della sua Historiae animalium, allestisce un indice dei nomi attribuiti agli animali in diverse lingue; avendo scelto l'ordine alfabetico, egli si giustifica sottolineando che la sua opera è innanzi tutto un onomasticon.

Ciò non significa che questi naturalisti non indaghino la realtà. Al contrario, essi non smettono di confrontare le informazioni consegnate ai testi e i dati di esperienza. Come è possibile trattare adeguatamente i vegetali osservati se si trascura ciò che ne hanno detto i diversi autori? La discussione che il viaggiatore e naturalista Belon conduce sulla colocasia, nel capitolo 28 del Libro II de Les observations de plusieurs singularitez et choses mémorables trouvées en Grèce, Asie, Judée, Egypte, Arabie et autres pays estranges (1555), è un buon esempio di questo confronto critico:

Poiché questa Colocasia è chiamata anche Loto o Fava d'Egitto, avendo visto che non ci era servito a niente ricercare diligentemente i suoi semi e che anche quelli del Cairo se ne sono scherniti, pretendendo che essa non ne ha affatto, abbiamo avuto occasione di informarci del perché gli autori antichi l'hanno chiamata Fava d'Egitto, ben sapendo che essa non produce nessuna fava. [...] e alla fine abbiamo trovato la fonte dell'errore. Erodoto, autore molto antico, ha parlato di due tipi di erbe provenienti dal Nilo, di cui una aveva la radice rotonda, che è la Colocasia; l'altra porta qualche cosa in testa, che somiglia a degli ossi di oliva. Gli autori venuti dopo di lui, seguendo le insegne l'uno dell'altro, ne dicono anche quello che vogliono. Poiché anche quando Teofrasto dice che la sua radice è spinosa, si riscontra che è altrimenti. Dioscoride ha usato quasi le stesse parole di Teofrasto, descrivendo la Fava d'Egitto. E Plinio, avendo tradotto da loro, dice cose simili. Per cui siamo dell'opinione che per Faba Ægyptia, intendiamo le vere fave da mangiare, nate in Egitto. Galeno nel libro degli alimenti, quando parla delle Fave d'Egitto, sembra aver inteso le fave comuni. E per chiarire ciò che dice Plinio, che gli Egiziani fanno diverse sorte di recipienti con le sue foglie, bisogna intendere che esse sono larghe, e per questo essi le sollevano e le piegano come un corno, in modo che possono porvi dell'acqua del Nilo e berla. (p. 222)

Nella zoologia, si fanno constatazioni simili. Se le discussioni sui pesci sono le più nutrite, è perché la loro osservazione è relativamente facile in quanto i pesci si trovano facilmente nei porti e sul banco dei pescivendoli e non è difficile trasportarli. Così Paolo Giovio pubblica a Roma, nel 1524, un libro sui pesci romani (De romanis piscibus libellus), opera che sarà ripubblicata nel 1527 nella stessa città, nel 1528 ad Anversa e nel 1531 a Basilea, prima di essere tradotta in italiano nel 1560. Quando Giovio descrive lo storione (sturio), cerca di confrontarlo con le nomenclature antiche e, malgrado la somiglianza dei nomi, rifiuta di assimilarlo al tursio di Plinio (Naturalis historia, IX, 9), il quale non può essere altro che la phocena di Aristotele (vale a dire il marsovino); ecco un caso di quasi omonimia che non deve ingannare. Lo si vede, filologia e osservazione si danno la mano, sia per interpretare i testi antichi sia per guidare le ricerche moderne. Del resto il libro di Giovio non tarda a essere ripubblicato, nel 1534, a Strasburgo, con gli Halieutica di Ovidio e i Libri IX e XXXII di Plinio. Allo stesso modo, il francese Pierre Gilles, editore di Eliano, che confronta quanto scrive con i passaggi di Aristotele, di Porfirio, di Ateneo, di Eliodoro e di Oppiano, si è informato de visu sui pesci del Mediterraneo, visitando le coste della Francia e della Spagna, esplorando la Provenza e percorrendo l'Italia; e alla fine della sua edizione (1533) fornisce una nomenclatura dei pesci del Mediterraneo nelle diverse lingue rivierasche.

I naturalisti rinascimentali, lungi dal limitarsi a una conoscenza puramente libresca, sono costantemente a caccia di informazioni dirette. Oltre ai resoconti di viaggio, che riportano descrizioni accurate dei vegetali e degli animali osservati, come dimostrano quelli di Belon o di Léry, i naturalisti si scambiano lettere che sono sovente accompagnate da piante, da semi, da osservazioni di anatomia. All'inizio del Pinax theatri botanici, Caspar Bauhin compone la lista di tutti coloro che, numerosi e residenti in luoghi diversi, gli hanno inviato campioni di piante o sementi. Gesner, in una delle sue lettere (Epistolarum medicinalium Conradi Gesneri libri III), richiede al medico inglese John Kay di procurargli del legno di tragelaphus e lo ringrazia di avergli inviato alcune "immagini di animali dipinti al naturale" (f. 135r) e una descrizione molto precisa del camaleonte; egli ha anche ricevuto ciò che Kay riteneva una foglia di platano, ma che, corregge Gesner, è una foglia di acero "chiamata dai Francesi plaine, nome che fa pensare al platano, ciò che induce alcuni all'errore" (f. 134v) altro caso di quasi omonimia ingannevole che anche Belon denuncia (Les observations, I, 1) facendo rappresentare un platano per mettere fine a questa confusione. I botanici conducono spedizioni di osservazione e raccolta di vegetali, come quelle che Francesco Calzolari organizza al Monte Baldo per Ulisse Aldrovandi, Luigi Anguillara e il medico Andrea Alpago, nel maggio del 1554. Sono costituiti erbari secchi, come quello del francese Jean Girault, che è conservato, o quelli di Aldrovandi, di Cesalpino e di Bartholomeo Maranta (descritto dallo stesso autore nell'opera Methodus cognoscendorum simplicium, 1559). Alcuni naturalisti s'impegnano a redigere repertori degli animali di una determinata regione, come Caspar Schwenckfeld, che cataloga la fauna del suo paese nella Slesia (Therio-tropheum Silesiae, 1603), o Nicolaus Marschalk, che fa l'inventario dei pesci del Baltico (Historia aquatilium, 1517-1520). Queste informazioni sono ricercate dagli altri naturalisti; una lettera di Georg Fabricius menziona una richiesta di Gesner, che cerca il libro di Marschalk, pubblicato in un luogo estraneo ai circuiti abituali dell'editoria. La stessa cosa avviene per la flora; Caspar Bauhin pubblica a Basilea nel 1622, in latino, un Catalogo delle piante che crescono spontaneamente nella regione di Basilea.

Se queste ricerche mirano a raccogliere informazioni rare o anche inedite ciò non toglie che i naturalisti rinascimentali siano ugualmente attenti a ciò che è più comune, più ordinario. Belon invita a "cercare la verità delle cose sconosciute attraverso quelle che si conoscono" (Les observations, I, 1), principio metodologico che traspone, in maniera evidente, le parole di Paolo (Romani, I, 20) menzionate e citate dallo stesso Belon. Così egli non approverebbe il cosmografo André Thevet che rimprovera a "quelli che fanno libri sui pesci, e sulla loro natura" di perdere tempo a descrivere "un luccio, un salmone, una carpa, un'anguilla o un gambero, cose note ai fanciulli" (La cosmographie universelle, I, f. 137a); Belon, ritiene che non si possa dire: "dipingere e descrivere un uccello o un animale conosciuto da tutti è un'opera che non richiede erudizione" (Histoire de la nature des oyseaux, p. 3). Vi si apprenderà a educare lo sguardo, poiché non basta guardare per vedere, come nota molto bene Belon, il quale sottolinea che lo sguardo è sempre più o meno prevenuto e che la disponibilità al reale è una virtù difficile. Vi si imparerà anche che esiste una sorta di regolarità del reale; è ciò che mostra molto bene Guillaume Rondelet, che, trattando dei pesci, incontra il caso di un "mostro leonino" che vive nel mare, di cui alcuni uomini seri gli hanno assicurato la realtà. Egli accetta di riprodurre l'immagine che gliene hanno dato, ma la critica, poiché le zampe e le orecchie non gli sembrano conformi a quanto sa degli esseri marini, e gli sembra impossibile che un individuo di cui si dice che respiri attraverso i polmoni abbia le scaglie (L'histoire entière des poissons, I, XVI, 15). I naturalisti rinascimentali non sono disposti a raccogliere tutte le leggende, anche se Belon non ha timore di mettere nel numero degli "uccelli sconosciuti" quelli che si ritengono favolosi (Histoire de la nature des oyseaux, I, cap. 23); tuttavia, se lo fa, è soltanto per prudenza poiché la realtà potrebbe fornire un giorno l'occasione di incontrarli; per il momento, bisogna solamente sospendere il giudizio.

Questa preoccupazione per l'esattezza si estende all'illustrazione, che conosce presso i naturalisti del Rinascimento una notevole promozione. Allorché Hieronymus Bock (Tragus) aveva rifiutato di fare illustrare la prima edizione del De stirpibus (1536), prima di acconsentirvi per la riedizione del 1546, Leonhart Fuchs (De historia stirpium, 1542) sottolinea la superiorità dell'immagine sulla descrizione e la necessità di collegarle. Ma, come rileva Gesner, la rappresentazione precisa di un essere naturale richiede competenze. In botanica, per far vedere una pianta bisogna raffigurare sia i fiori sia i frutti, vale a dire riunire in una stessa immagine tappe distinte della crescita del vegetale. Allo stesso modo, in zoologia, molti dettagli appaiono solamente a un occhio esercitato. È ciò di cui è pienamente convinto Aldrovandi che concepisce un considerevole programma iconografico e ne persegue la realizzazione con altrettanta ostinazione e impazienza; in una lettera del 1564 a Gesner, lamenta che, dei 3600 campioni di piante di cui dispone, appena 300 sono già dipinti; ma sottolinea anche che un tale lavoro non può essere affidato a un pittore qualsiasi, e a un corrispondente che si dispiace di non aver potuto fare rappresentare un osso di balena trovato a Rimini risponde che un pittore di questa città non avrebbe senza dubbio saputo considerare "alcune cose particolari" senza essere guidato da un naturalista o senza essere abituato a questo lavoro. Belon, da parte sua, s'indigna "che si sia grandemente abusato dipingendo i pesci sulle carte, e che l'ignoranza degli uomini sia la causa per cui molti mostri marini siano stati falsamente ritratti in modo non giudizioso" (L'histoire naturelle des estranges poissons marins, f. 16v). Quanto a Jean Bauhin, critica Lonitzer che ha fatto rappresentare, basandosi sulle descrizioni di Nicandro, un basilisco e due draghi alati: "sono figure fatte a piacere. Trovo strano che lui e altri osino dipingere cose che non hanno visto né loro, né altri prima di loro" (Traicté des animauls aians aisles, pp. 15-16). Del resto si vedono menzionati con precisione i nomi dei pittori di cui alcuni naturalisti come Belon, Gesner e Aldrovandi hanno utilizzato i servigi; uscendo dall'anonimato, l'illustrazione scopre l'indiscussa importanza che ormai i naturalisti le riconoscono. Ippolito Salviani (Aquatilium animalium historia, 1557-1558) si occupa di farle fare un nuovo progresso ricorrendo all'incisione su rame.

Questo interesse per le raffigurazioni esatte risponde a una preoccupazione per il singolare che, di fatto, caratterizza le scienze naturali del Rinascimento. Gesner, che sceglie questa via, non lo fa senza spiegazioni e nell'Avviso al lettore del primo volume delle Historiae animalium, riconosce che invece di trattare degli animali uno a uno sarebbe più 'filosofico' procedere alla maniera di Aristotele, per locos communes, andando da ciò che è comune alla maggior parte degli animali per 'discendere' gradualmente a ciò che è proprio di alcuni generi e di alcune specie. Egli non ha comunque agito in questa maniera, anche a costo di restare troppo aderente alle realtà particolari. Belon, a sua volta, distingue sia l'ordine compositivo, che va "dal basso in alto" e in un corpo considera le cose naturali che lo compongono (elementi, temperamenti, umori, parti, facoltà, azioni, spiriti), sia l'ordine risolutivo, che va "dall'alto in basso" e che, volendo considerare per esempio gli uccelli, tralascerà ciò che in loro è comune con gli altri animali, per cominciare "da ciò che trova più particolare in ciascuno, come da una piuma, da un becco, da un'unghia, dalla testa, il collo, le ali, le cosce, le zampe, i piedi" (Histoire de la nature des oyseaux, I, 1, p. 6).

Questa attenzione al singolare dimostra che i naturalisti rinascimentali non avevano, per i problemi di classificazione, quell'interesse che si manifesterà nei secoli successivi. Gesner, profondamente filologo, si accontenta dell'ordine alfabetico. Quanto a Belon, se procede a una classificazione, sembra comunque che si preoccupi soprattutto di ordinare l'esposizione della sua ricerca. In questo segue d'altronde il suo ispiratore, l'inglese Edward Wotton, il cui De differentiis animalium libri decem (1552) riprende da Aristotele (Historia animalium, I, 5-6 e 111) le due grandi divisioni fondate sulla teoria degli umori, vale a dire animali provvisti di sangue e animali sprovvisti di sangue. All'interno di queste due grandi divisioni, Belon istituisce raggruppamenti che uniscono criteri morfologici, funzionali ed ecologici, anche se più spesso, per caratterizzare un insieme, cerca di attenersi all'aspetto morfologico; in questo modo il gruppo dei rapaci comporta due sottogruppi che distinguono i rapaci che hanno "l'unghia ricurva" da quelli che hanno "l'unghia dritta"; allo stesso modo, scrive ancora Belon, "la seconda differenza fra gli uccelli sarà presa da quelli che vivono nelle acque dolci e salate, nuotando sull'acqua, e conterrà tutti quelli che hanno il piede piatto", cosicché "la terza differenza fra gli uccelli sarà presa da quelli che circondano le rive dei laghi, paludi, stagni e fiumi, che non hanno il piede piatto e nuotano sull'acqua" (Histoire de la nature des oyseaux, I, 1, p. 7). Eppure, se a Belon accade di constatare una discordanza fra i criteri ecologico e morfologico, in questo caso, certo non senza esitazioni, sceglie di seguire il primo; in tale modo classifica il pipistrello fra i rapaci notturni nonostante sappia che ha le mammelle, che somiglia a un topo e che non ha né becco né piume; egli stabilisce: "È da molto tempo che si è messo in dubbio se il pipistrello deve essere messo nel rango degli uccelli o nel rango degli animali terrestri. Per cui, avendo trovato posto appropriato fra i nostri uccelli notturni, ci è sembrato giusto di non andare oltre senza farne un breve discorso; poiché vedendolo volare e avere ali, noi l'abbiamo ritenuto uccello" (ibidem, pp. 146-147).

Altrove Belon mette le tartarughe accanto alle lucertole e ai coccodrilli, come i Moderni i quali concordano nell'ordinare nella classe dei rettili gli ordini dei Sauri, degli Idrosauri e dei Cheloni; ma Belon non lo fa per le ragioni che guidano i Moderni poiché egli ammette che, se avesse obbedito solamente ai criteri morfologici, avrebbe collocato le tartarughe con le ostriche: "Benché la tartaruga sembri avere natura e specie di ostrica, o pesce coperto da conchiglia, tuttavia poiché essa è accostabile alla lucertola e al piccolo coccodrillo, e anche perché depone le uova ed è anfibia, il luogo ci è sembrato conveniente per parlarne" (La nature et diversité des poissons, p. 44). Così, quando bisogna scegliere, Belon stesso si attiene al criterio ecologico, vale a dire a quello che è più vicino all'esperienza comune e, perciò, facilita la memoria e il riconoscimento. Quanto a Rondelet, egli subordina espressamente il criterio morfologico al criterio ecologico ed etologico; scrive, per esempio: "al muggine, pesce assai sobrio, e giusto, che non mangia gli altri, la Natura ha dato una bocca piccola, senza denti; al luccio, grande, molto aperta, per il motivo che è ingordo, mangia gli altri e vive di rapina" (L'histoire entière des poissons, p. 11): non è la morfologia che spiega i costumi e l'habitat, ma l'inverso.

In botanica si fanno osservazioni simili. Quando si tratta solamente di commentare Dioscuride, è sufficiente attenersi all'ordine seguito dall'autore, anche se, nel dettaglio delle annotazioni, appaiono interessanti preoccupazioni tassonomiche. Leonhart Fuchs, si limita all'ordine alfabetico, come Jean Brohon (De stirpibus vel plantis ordine alphabetico digestis epitome, 1541), anche se, molto spesso, prevale la divisione di Teofrasto in piante erbacee, sottoarbusti, arbusti e alberi. Essa può anche essere ridotta a una divisione tripartita in alberi, arbusti e vegetali più piccoli (è quella che adotta Tragus), o anche bipartita in alberi e piante. Quanto alle suddivisioni, esse sono sovente ispirate a quelle di Teofrasto, come si vede nell'Epitome medices summam totius medicinae complectens di Otto Brunsfels (1552). Non sembra che un tipo di classificazione s'imponga sulle altre in quanto l'olandese Rembert Dodoens (De frugum historia, 1552) accetta criteri come la commestibilità, l'odore e le proprietà medicinali mentre Mathias de Lobel (Stirpium adversaria nova, 1571) si basa soprattutto sulla struttura della foglia. La classificazione diventa via via più complessa con l'aumentare del numero delle piante considerate; Fuchs ne studia circa 300 e Caspar Bauhin (Pinax theatri botanici) ne esamina 6000.

Andrea Cesalpino

È necessario soffermarsi sull'opera di Andrea Cesalpino (1519-1603) il cui De plantis (1593) ricorda espressamente i principî generali della scienza esposti nelle Quaestiones peripateticae (1571). La sua classificazione si fonda, molto chiaramente, sulla descrizione e sulla spiegazione omogenea dei fenomeni generali della vita delle piante, vale a dire su una fisiologia generale dei vegetali. Questa è ispirata agli stessi principî della sua psicologia animale, partendo dalla nozione aristotelica di anima vegetativa. Il mondo vivente possiede un'unità gerarchica di organizzazione, e i vegetali possono essere considerati come animali imperfetti poiché la struttura primaria e il funzionamento sono identici, ma gli apparati e le funzioni hanno una complessità minore. La fisiologia degli animali, meglio conosciuta, può dunque servire da modello alla fisiologia dei vegetali; e la pianta può essere considerata come un animale che ha la testa in basso, poiché la radice, organo della nutrizione, è una sorta di bocca. Questa concezione orienta in maniera così forte il pensiero di Cesalpino che egli propone di mantenere, per la pianta, le espressioni di pars superior e pars inferior correntemente applicate all'animale:

la radice, scrive, è superior, perché la sua origine è primordiale e perché essa è immersa nella terra, dato che molte piante, dopo aver perduto il loro stelo e i loro semi, vivono esclusivamente per mezzo della radice; per contro, lo stelo è inferior benché si eleva al di sopra della terra, poiché è a causa dello stelo che gli escrementi, quando ce ne sono, vengono espulsi. Noi possiamo dunque applicare alle differenti parti delle piante come a quelle degli animali le espressioni di pars superior e inferior. Ma, quando noi studiamo la maniera in cui si compiono le funzioni della nutrizione nella realtà, siamo obbligati a determinare secondo altri ragionamenti il posto occupato dalla parte superiore e dalla parte inferiore. Come i principî nutritivi salgono nel corpo degli animali, allo stesso modo essi salgono nel corpo dei vegetali. Di conseguenza diventa necessario collocare la radice nella parte inferiore della pianta, lo stelo nella parte superiore, poiché, negli animali, anche la rete venosa comincia nella parte inferiore del ventre, e la vena principale sale verso il cuore e verso la testa. (Callot 1951, p. 137)

L'analogia che descrive Cesalpino, come si vede, non ha solamente un valore euristico, essa è iscritta anche nella natura delle cose, come pensano pure i suoi contemporanei. Le conseguenze che ne trae lo mostrano in maniera evidente. Allo stesso modo in cui, nell'animale, il principio vitale (l'anima) risiede in una parte principale, il cuore, ci deve essere nel vegetale un posto in cui risiede l'anima. Questo può non essere né nella radice, né nello stelo, poiché si vedono radici senza stelo produrre germogli e steli tagliati produrre radici; bisogna dunque collocare l'anima vegetale nella giunzione di queste due parti, vale a dire nel colletto ‒ che Cesalpino chiama ovviamente 'cuore', luogo in cui si trova "una sostanza più tenera e più molle di quanto siano lo stelo e la radice e che non appartiene né all'uno né all'altra", la medula cordis, o midollo del cuore. L'interesse che i botanici hanno avuto a lungo per il colletto nasce proprio da queste riflessioni.

La riproduzione dei vegetali può essere spiegata nello stesso modo. Come, negli animali, il seme proviene dall'alimento più perfetto delle membra (il sangue) grazie al calore del cuore, così nelle piante, la sostanza del seme deve provenire dalla materia che produce calore, il midollo; la parte più pura e la più umida dà il midollo del seme; il resto, i baccelli che la proteggono. Quanto ai fiori, che sono paragonabili agli involucri fetali degli animali, essi hanno come funzione essenziale la protezione del frutto durante la sua formazione, allo stesso modo in cui le foglie proteggono il germoglio; divenuti inutili, con lo sviluppo del frutto, i fiori si seccano e cadono.

Ecco posti i fondamenti di una classificazione in cui i caratteri degli organi del frutto saranno il criterio principale. È corrente, lo si è visto, distinguere albero, arbusto, sottoarbusto ed erba. I primi due, osserva Cesalpino, si differenziano dagli altri per la loro natura legnosa. Si potranno dunque distinguere semplicemente alberi ed erbe. Per il resto, si considereranno i caratteri del frutto, secondo tre criteri: numero, situazione, configurazione degli organi. Innanzi tutto si terrà conto del rapporto fra i chicchi e il loro baccello, un solo chicco sotto un solo fiore, oppure un solo baccello per uno o due chicchi, oppure due chicchi sotto un fiore, ecc. Poi si esaminerà la posizione del chicco sul ricettacolo, a seconda che il cuore sia orientato verso l'interno o verso l'esterno, così come la posizione del fiore, che può essere sia alla sommità sia alla base del frutto. Nella sua classificazione, Cesalpino trascura sia i colori, gli odori e i sapori, sia le proprietà medicinali, che sono solamente accidentali.

La dottrina di Cesalpino lo conduce a porre varie domande, come quella dell'ascensione della linfa, spiegata attraverso la bibula natura delle fibre del vegetale. Ma essa lo conduce anche a ritenere che, poiché "le radici traggono alimento dalla terra, come da un ventre ove esse si impiantano", i succhi nutritivi sono elaborati nel suolo, passano nella pianta e si incorporano alla sua sostanza senza nuove trasformazioni. Nonostante ciò questa dottrina, solida e nuova, avrebbe avuto una grande influenza; Tournefort saluterà "il genio superiore" di Cesalpino, e Linneo riconoscerà il suo debito verso questo notevole "sistematizzatore".

Tuttavia, non sarebbe legittimo concludere questo esame delle scienze naturali del Rinascimento con l'opera di Cesalpino. A chi consulta, per esempio, l'opera di Gesner, appare che oltre a ciò che i Moderni intendono per zoologia, egli discutendo di animali considera ciò che gli uomini ne hanno detto, le virtù che sono state attribuite loro, i blasoni e gli emblemi ove essi figurano, le leggende e le favole alle quali sono associati; infatti, come trattare rettili e serpenti senza menzionare il serpente di bronzo di Mosè; tori e buoi senza ricordare il Minotauro e il ratto di Europa; pecore senza evocare il vello d'oro? Cancellare tutte queste considerazioni e occuparsi solamente di ciò che la scienza attualmente ritiene 'scientifico' significherebbe tradire il progetto dei naturalisti rinascimentali; una storia culturale della zoologia e della botanica del Rinascimento non può farne a meno, anche se si limita a segnalare questa pratica senza analizzarne propriamente il contenuto. Quando, nell'opera Monstrorum historia (1642), messa in forma "alta" dal suo allievo Bartolomeo Ambrosini, Aldrovandi, per esaminare meglio la mostruosità, comincia definendo la regola che costituisce la perfecta hominis constitutio, la sua trattazione occupa più di 300 pagine e include la diversità delle apparenze, dei modi di vita, dei climi, delle lingue, degli usi alimentari, dei costumi, compresi la presentazione dei libri, i riti di saluto, le pratiche alimentari, ecc. Un certo numero di illustrazioni vengono a rallegrare questa rapsodia di figure di un volumen antico: una pagoda cinese (si tratta qui di una statua colossale), un ritratto della regina della Florida, quelli di un uomo selvaggio, del re Quoniambec, di un re cannibale, ecc. Affrontando in questo stesso capitolo iniziale la questione delle metamorfosi dell'uomo, l'autore non manca di riportare estesamente le favole di Ovidio. Non diversamente si comporta altrove, quando tratta degli animali. Nel 1599, avendo inviato un esemplare dell'Ornithologia al papa Clemente VIII, Aldrovandi apprende da suo nipote che Sua Santità si è divertito a leggere l'Historia dell'Aquila, ma si è stupito di alcuni sviluppi: "Non sapeva a che servesse il narrare quello Re, quell'altro, et quell'havevano nome Aquila, et tanti et tanti, et anco quel tale et tali hanno per armi l'Aquila, et simili cose in altre historie". Il papa aveva senza dubbio coscienza della nascita di un nuovo spirito scientifico e del fatto che l'opera del vecchio Aldrovandi apparteneva ormai al passato.

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