Il protestantesimo in Italia tra emigrazione e immigrazione

Cristiani d'Italia (2011)

Il protestantesimo in Italia tra emigrazione e immigrazione

Paolo Naso

L’emigrazione all’estero ha notevolmente influito sulla vita dell’evangelismo così come oggi l’immigrazione in Italia contribuisce a ridefinirne il profilo etnico e culturale: è la tesi di fondo che svilupperemo in questo saggio ricostruendo alcuni flussi migratori dall’Italia verso il Sudamerica, gli USA e, più recentemente, l’Europa. Rileveremo quindi come, a partire dagli anni Ottanta, il flusso s’inverta e inizi a crescere, invece, la presenza di evangelici immigrati in Italia. Alcune di queste emigrazioni ‘confessionali’, in particolare quella dei valdesi verso l’Uruguay e l’Argentina a metà dell’Ottocento, sono state ampiamente studiate e ci consentono di rimandare a una solida bibliografia1; meno aggiornata la storia della presenza evangelica italiana negli USA2; del tutto frammentaria la ricostruzione delle emigrazioni evangeliche nel secondo dopoguerra mentre è ovviamente tutta da scrivere quella sull’evangelismo immigrato in Italia negli ultimi anni.

Il caso di studio al quale dedicheremo più attenzione è quello della Chiesa valdese, la comunità riformata di più antica presenza in Italia e l’unica che possa vantare un significativo radicamento territoriale, storicamente consolidatosi in una particolare regione alpina del Piemonte: le cosiddette Valli valdesi comprendenti quelle attraversate dai fiumi Pellice, Chisone e Germanasca. Talvolta faremo tuttavia riferimento anche ad altre Chiese per le quali i processi migratori – nei due sensi – hanno avuto e mostrano ancor oggi una significativa rilevanza: metodisti, battisti, pentecostali.

Quanto allo sviluppo temporale, ci riferiremo a tre periodi fondamentali che, se hanno un senso ai fini della nostra ricerca, non sempre corrispondono ai cicli generalmente indicati per inquadrare cronologicamente il fenomeno migratorio3: la ‘grande emigrazione’ dell’Ottocento e del primo Novecento, che coinvolse in misura consistente anche le comunità valdesi del Piemonte; l’emigrazione degli anni Cinquanta e Sessanta che invece ebbe pesanti ricadute sull’intero evangelismo meridionale; gli anni dal 1973 a oggi ovvero il periodo nel quale anche l’Italia si è progressivamente configurata come paese d’immigrazione.

Tra il 1876 e il 1927 in Piemonte si registrano ben due milioni di espatri4: un dato importante che evidenzia una specifica ‘vocazione migratoria’ orientata prevalentemente verso i paesi di confine, e in primo luogo per comprensibili ragioni di prossimità geografica, verso la Francia. Per la popolazione valdese, che si esprimeva in un patois occitanico o in francese, si aggiungeva anche un fattore di attrazione determinato dalla comprensione della lingua. Un ulteriore elemento di interesse per il nostro tema specifico è che l’emigrazione fu più massiccia dalle aree di collina e montagna, dove le condizioni di vita materiale erano più difficili e dove si concentrava la popolazione valdese.

Tra povertà e profezia

L’emancipazione ottenuta da re Carlo Alberto nel 1848 tramite le Regie patenti di tolleranza aveva certamente contribuito al miglioramento delle condizioni di vita dei membri della comunità valdese. Tuttavia i fattori di spinta all’emigrazione – in primo luogo la povertà endemica di alcune aree e il netto peggioramento delle condizioni di vita determinato da una serie di carestie – restavano alti, al punto da indurre le istituzioni ecclesiastiche a considerare l’ipotesi di un’emigrazione coloniale.

In realtà le resistenze dei vertici della Chiesa furono consistenti; pur concordando sull’analisi delle difficilissime condizioni di vita denunciate da alcuni dirigenti delle Unioni cristiane valdesi5, le istituzioni ecclesiastiche temevano che la partenza avrebbe finito per svuotare le parrocchie delle Valli e che i gruppi di emigranti si sarebbero disgregati appena fossero arrivati a destinazione. L’ipotizzata partenza verso l’America latina o altre destinazioni che pure venivano considerate, inoltre, faceva temere lo scontro con una popolazione pregiudizialmente ostile a degli emigranti protestanti6.

Alle preoccupazioni istituzionali della Tavola valdese – l’organismo esecutivo del Sinodo che costituisce l’organo di governo della Chiesa valdese – furono opposte considerazioni economiche ma anche di natura biblico-profetica: spiccò a riguardo la voce di un maestro – al tempo carica molto autorevole in generale ma soprattutto tra i valdesi –, Jean Pierre Baridon, che anni dopo in una sua memoria ricostruì il suo intervento all’assemblea pubblica del 1856, nel quale aveva sostenuto che «oggi è evidente che Dio vuole che la chiesa valdese si diffonda nel mondo»7.

La novità consisteva esattamente nel carattere ‘comunitario’ di questo progetto migratorio: se in passato la partenza era stata una scelta individuale sostenuta da qualche pastore ma non dalle istituzioni della Chiesa8, in questo caso nasceva da una riflessione e da una strategia elaborate all’interno di alcuni settori delle comunità.

La componente ‘immobilista’ della Chiesa fu così sconfitta e al primo sparuto gruppo di coloni valdesi stabilitosi in Uruguay nel febbraio del 1857 ne seguì presto un altro che arrivò in America latina nel settembre dello stesso anno. Questa volta la spedizione ebbe anche una ‘benedizione’ da parte della Chiesa: alla partenza, infatti, il moderatore aveva consegnato loro una lettera di presentazione in francese indirizzata «A Monsieur le pasteur évangélique à Montevideo (s’il y en-a-un)»9.

Al loro arrivo, gli emigranti valdesi non trovarono un pastore riformato ma il reverendo F.H. Snow Pendleton, il cappellano anglicano dell’ufficio diplomatico inglese a Montevideo, che, conoscendo la storia dei valdesi nei secoli delle persecuzioni, fu pronto ad accoglierli e a indirizzarli verso la città di Florida, nell’Uruguay meridionale, un centinaio di chilometri a nord di Montevideo.

Presto giunse la notizia che la Societad agricola de Rosario orientale intendeva colonizzare un’area del dipartimento di Colonia: il contratto fu perfezionato nel luglio del 1858 e di lì a poco, dal nome del fiume che lambiva il territorio, nacque la Colonia del Rosario, quella che dopo qualche anno divenne Colonia Valdense, poco più di cento chilometri a nord-ovest di Montevideo.

Man mano che la colonia si consolidava, le istituzioni della Chiesa valdese presero atto di questa realtà: la condizione fisica e morale della ‘colonia’ sarà oggetto dei rapporti annuali della Tavola valdese al Sinodo. Già nel 1859 il Sinodo si dichiarò «toccato dalla difficile situazione dei nostri fratelli stabilitisi nel Rosario occidentale» e, prendendo atto della loro richiesta di avere un pastore e un maestro di scuola «raccomanda questo obiettivo alla viva sollecitudine della Tavola»10. A quel punto le polemiche e le divisioni sulla partenza dei coloni apparivano in secondo piano rispetto all’esigenza di garantire loro il fraterno sostegno della Chiesa d’Oltreoceano. «In questa prima fase – annota Giorgio Tourn – la realtà sudamericana è dunque vista come un’appendice della comunità valdese piemontese, un suo prolungamento oltre Oceano»11, al punto che dal 1879 verrà sì ufficialmente riconosciuta come ‘chiesa’ ma classificata e definita «XVII parrocchia delle Valli»12.

Sotto il profilo economico e sociale la vita della comunità valdese emigrata, per quanto in gran parte ricollocata a Colonia, non fu facile: l’arrivo di pastori dalle Valli valdesi non sembrò in grado di risolvere una serie di contenziosi locali e talvolta interni alla comunità stessa. Già nel 1874 il pastore Michelin Salomon abbandonò l’incarico per trasferirsi di lì a poco a New York e la comunità, nonostante si appellasse alla Tavola, dovette organizzarsi con le proprie esclusive risorse.

La svolta avvenne nel 1877 con l’arrivo di un giovane pastore, Daniele Armand-Ugon. Dai suoi carteggi con il Comitato di evangelizzazione, l’organismo che su mandato del Sinodo promuoveva la presenza valdese all’esterno dell’area storica delle Valli valdesi, emerge una leadership forte, autorevole e lungimirante, ben riassunta in una nota lapidaria del 1882: «Quando giunsi a Colonia Valdense non c’erano né locali, né scuole, né chiese; grazie a Dio, attualmente abbiamo tutto quello che è necessario»13. Nel giro di pochi anni la colonia poté inaugurare due templi e costruire le prime scuole. Il binomio ‘lavagna e campanile’, del resto, costituiva un tratto tipico della tradizione valdese perfettamente espresso dalla rete di piccole scuole di montagna aperte nelle Valli valdesi nella prima metà dell’Ottocento anche grazie all’impegno filantropico del generale inglese Charles Beckwith.

Integrazione e scudo identitario

Sull’onda di una discreta crescita economica, la colonia del Rosario riuscì anche a espandersi oltre il confine con l’Argentina. Secondo una tipica dinamica migratoria, i diversi gruppi si costituivano attorno a piccoli ‘nuclei’ di individui o di famiglie che negli anni avevano preparato il terreno per un insediamento più ampio. Di fronte a questo allargamento del campo pastorale, era necessario nuovo personale per garantire una cura adeguata alle esigenze di una diaspora che si andava estendendo su due Stati. Le richieste in tal senso furono accolte solamente nel 1882, con l’arrivo di ministri di culto dall’Italia che indubbiamente contribuirono a mantenere un saldo legame tra gli ‘immigrati’ valdesi e la loro Chiesa d’origine. Sarebbe sbagliato, tuttavia, pensare ai valdesi latinoamericani come a un’enclave piemontese autoreferenziale e impermeabile all’incontro con la cultura e la società latinoamericana: il rapido passaggio dal francese o dal patois delle Valli valdesi allo spagnolo come lingua veicolare e quindi l’adozione di costumi locali14 indicano esplicitamente un’intenzione ‘integrazionista’ nel nuovo contesto sociale e culturale. La stessa inaugurazione nel 1888 di un liceo aperto anche a studenti non valdesi e almeno all’inizio gestito in collaborazione con la Chiesa metodista di Colonia, costituì uno strumento utile a rafforzare i contatti sia con la comunità civile che con le istituzioni locali. Un opuscolo pubblicato in occasione dell’Esposizione di Milano del 1906 ci offre una fotografia abbastanza precisa della comunità valdese rioplatense di quegli anni: «Colonia Valdense conta 235 famiglie con oltre 1285 individui, Cosmopolita 115 con 752, Tarariras 139 con 905; in quell’anno le scuole diurne a Colonia Valdense erano sei con 180 alunni e il Liceo era frequentato da 47 studenti. La provenienza degli immigrati è varia ma è ancora forte il nucleo originario di Bobbio e Villar Pellice, e in grande maggioranza si tratta naturalmente di agricoltori proprietari»15.

Si colloca nel quadro di questo progressivo radicamento nella società latinoamericana il complesso rapporto giuridico tra le comunità valdesi della colonia e la loro Chiesa d’origine, il cui baricentro restava saldamente posizionato nelle Valli.

Solo nel 1905 le chiese dell’America latina acquisteranno una relativa autonomia amministrativa, costituendosi come VI ‘distretto’ della Chiesa valdese. La grande guerra, l’autarchia e la politica antimigratoria del fascismo, il secondo conflitto mondiale determinarono un progressivo allentamento delle relazioni tra il valdismo europeo e quello sudamericano. Come ben rileva Giorgio Tourn «a differenza dell’opera evangelistica in Italia, le colonie americane sono espansione della comunità valdese per motivi puramente economici, ma la loro presenza è letta in un’ottica particolare che trae ispirazione dell’identità valdese tradizionale», ricordando poi come una certa storiografia valdese visse quella «dispersione dell’“Israele delle Alpi”» come un’occasione per «diffondere nei due emisferi la conoscenza del suo Evangelo»16.

A partire da questa ricostruzione, potremmo definire il particolare modello di relazione tra la colonia valdese che si insedia in Uruguay a metà Ottocento e la società circostante di ‘integrazione protetta’ da un robusto scudo identitario. Nonostante alti e bassi, gli elementi costitutivi di questo ‘scudo identitario’ hanno consentito alla piccola comunità valdese rioplatense, che negli anni ha raggiunto il picco di 15.000 membri, di integrarsi senza perdersi. Il prezzo, di cui essa sembra essere pienamente cosciente e del quale discute con vivace passione al proprio interno, è il recinto che lo scudo identitario fatalmente ha costruito intorno a essa. Un recinto che se in passato ha evitato la disgregazione della comunità oggi sembra renderne problematica la crescita nel contesto dell’America latina di oggi.

Valdesi tra i mormoni

Negli stessi anni in cui si discuteva dell’emigrazione in Sudamerica, alcuni missionari della Chiesa dei santi degli ultimi giorni avviavano una missione proselitistica nell’unico territorio italiano nel quale poterono essere accolti senza un’immediata, violenta opposizione: le Valli valdesi.

Uno degli strumenti di penetrazione dell’azione del gruppo fu la pubblicazione in francese dell’opuscolo La voce di Giacobbe, un pamphlet che, descrivendo le persecuzioni subite dai mormoni a causa della loro fede, toccava corde particolarmente sensibili per la popolazione valdese. Due anni dopo fu anche pubblicato in italiano il Libro di Mormon e di lì a poco si registrarono le prime adesioni alla nuova comunità che nel 1853 contava alcune decine di membri. L’anno successivo iniziarono le prime migrazioni verso lo Utah17. Come rilevano le registrazioni di questi arrivi presso l’ufficio dei mormoni che accoglieva i convertiti dall’Europa «solo tre delle famiglie [valdesi] furono in grado di pagare per intero il loro passaggio»18. Complessivamente si trattò di qualche decina di convertiti, un fenomeno che comprensibilmente preoccupava vivamente i vertici della Chiesa valdese, convinti che l’adesione alla nuova fede non fosse altro che la maschera dietro la quale si nascondeva il bisogno di uno sponsor garante del biglietto per gli Stati Uniti. Quanto al gruppo valdese, esso si inserì appieno nella nuova colonia e nella nuova comunità di fede accettandone anche le pratiche più controverse: Paul Cardon, ad esempio, adottò la poligamia allora ammessa19.

Per quanto non priva di fondamento, l’idea che i ben organizzati missionari mormoni abbiano fatto leva sul bisogno materiale dei valdesi per convertirli alla loro fede appare riduttiva. È chiaro che la conoscenza della Bibbia e la solida etica del lavoro dei mormoni costituivano tratti di raccordo con la tradizione valdese: questi elementi, insieme al bisogno materiale e al rispetto con cui i valdesi vennero accolti nello Utah, ne favorirono l’inserimento nella nuova comunità di fede. Il fenomeno dei ‘valdesi mormoni’, insomma, non fu soltanto il frutto di una spinta all’emigrazione ma anche dell’intima adesione a una nuova esperienza religiosa.

Valdesi nel melting pot USA

Le prime presenze organizzate di valdesi ‘confessanti’ negli USA si devono all’arrivo del pastore Michelin Salomon. Le controversie interne alla comunità rioplatense, la difficile situazione politica e sociale dell’Uruguay e probabilmente un’antica predilezione per gli Stati Uniti lo spinsero a tentare una nuova strada. Raggiunto a New York da otto famiglie delle colonie valdesi in Uruguay, nel 1875 si diresse verso Saint Louis (Missouri). Un viaggio avventuroso e tragico, funestato dalla morte di uno dei figli di Michelin Salomon – ora Solomon, in omaggio alla pronuncia inglese. Il gruppo fece base a Verona (Missouri) mentre esplorava il territorio alla ricerca di buoni terreni da acquistare in vista dell’insediamento definitivo. Alla fine i coloni valdesi optarono per un appezzamento a Plymouth Junction, poi Monett. Nel 1876, quindi in tempi estremamente rapidi, la comunità valdese fu riconosciuta come Chiesa locale dal Presbiterio di Ozark, una delle unità territoriali in cui era organizzata la grande e influente Chiesa presbiteriana negli USA. La logica ‘politica’ di questa affiliazione era indicativa di una strategia d’integrazione assai diversa da quella sperimentata nel Rio de la Plata: nel giro di due anni i valdesi ‘statunitensi’ del Missouri scelsero di diventare presbiteriani, ovvero di inserirsi organicamente nell’ambito di una delle grandi Chiese mainstream del protestantesimo nordamericano.

Sin dall’inizio di questo secondo progetto migratorio possiamo rilevare un modello significativamente diverso di rapporto con la Chiesa d’origine: se la colonia latino-americana aveva costruito con essa una relazione ‘filiale’, quella statunitense punterà piuttosto all’autonomia, sia pure bilanciata da solidi legami di fraternità e dal partenariato tra la Chiesa valdese italiana e quella presbiteriana degli USA. Alla morte di Solomon i valdesi di Plymouth Junction si rivolsero alla ‘loro’ Chiesa presbiteriana per avviare la ricerca di un candidato, che alla fine fu individuato in J.F. Jacroux, un francese che aveva lavorato in Canada.

Negli anni altre famiglie emigrarono dalle Valli alla volta degli USA. Del resto, se nelle Valli permanevano gli storici fattori di espulsione, la piccola colonia di Plymouth Junction aumentava la sua capacità d’attrazione: nel 1887, infatti, quell’oscuro punto geografico del Missouri divenne la sede della St. Louis and San Francisco Railroad. In pochi anni la semplice junction si trasformò in una vera cittadina che si dette il nome di Monett, dal nome di un alto funzionario della New York Central Railroad. Non era facile trovare dei pastori bi o trilingue che potessero comunicare agevolmente con coloro che continuavano ad arrivare dall’Italia: la comunità, pur mantenendo la sua organica adesione alla Chiesa presbiteriana, fu quindi costretta a lanciare un appello alla Chiesa italiana, che nel 1892 le mandò il pastore Carlo Alberto Buffa. Non fu un innesto particolarmente felice, e nel giro di due anni il pastore giunto dalle Valli «disgustato dalla perversità di alcuni membri della sua parrocchia e dagli scarsi successi del suo lavoro»20, pronunciò il suo sermone d’addio. Dopo una serie di pastorati di breve durata, la comunità finì per essere curata da pastori presbiteriani americani che contribuirono al pieno inserimento nella comunità all’interno di una denomination americana. Del resto, all’inizio del Novecento la colonia sembrava aver perso i tratti identitari delle origini e, come si rilevava all’interno del consiglio che amministrava la chiesa, «la maggior parte dei nostri membri parla correntemente inglese e i nostri giovani non capiscono più il francese»21.

L’esperimento di Valdese (North Carolina)

L’emigrazione valdese oltreoceano più organizzata e numericamente più consistente avvenne nel 1893 e si diresse nella Burke County del North Carolina. La storia che portò a questa destinazione non è del tutto chiarita: per quel che è possibile ricostruire con certezza, è tuttavia emblematica delle relazioni intrattenute dalla Chiesa valdese, ormai non più ghettizzata nelle Valli ma impegnata nella missione in Italia. Al tempo stesso la vicenda rimanda al rapporto tra buona parte della leadership valdese e la massoneria22.

All’origine della colonizzazione valdese in North Carolina sembra esserci l’interesse di un uomo d’affari della Pennsylvania, Marvin F. Scaife, ben inserito nei circoli massonici nordamericani. Costui sarebbe rimasto affascinato dalla lunga e travagliata storia della piccola comunità riformata italiana, conosciuta grazie alla frequentazione di una donna americana sposata a un italiano di fede valdese e autrice di una storia dei valdesi pubblicata in inglese23. Nella progettazione di questa particolare emigrazione valdese affiora anche una connessione massonica che legò alcuni dei protagonisti, italiani e americani, affratellati al Grande Oriente.

In questo caso i vertici della Chiesa, evidentemente memori della inefficacia delle obiezioni avanzate oltre quarant’anni prima quando erano partiti i primi emigranti per la colonia del Rosario, preferirono trainare il progetto piuttosto che seguirlo a rimorchio: da un’affollata assemblea nel tempio di San Germano Chisone, alla quale partecipò tra gli altri il presidente del Comitato di evangelizzazione Matteo Prochet, emerse un convinto via libera al progetto che, questa volta, godeva del sostegno della Chiesa24.

Tra gli argomenti addotti a favore dell’emigrazione, in quell’occasione fu anche citato il fatto che gli emigranti valdesi avrebbero potuto stabilirsi in un «paese tranquillo, civilizzato e protestante». A conferma dell’attivo impegno delle istituzioni ecclesiastiche a sostegno dell’impresa, il pastore Carlo Alberto Tron fu incaricato di organizzare la spedizione. Non mancarono tuttavia voci dissonanti come quella di chi ammoniva che le buone terre dell’America ormai erano state tutte lottizzate e che gli aspiranti emigranti valdesi avrebbero fatto meglio a indirizzarsi verso l’Eritrea25.

Prima di procedere all’acquisto definitivo delle terre essi inviarono una delegazione in North Carolina perché verificasse la qualità dell’acquisto e la sostenibilità del progetto: così nel marzo del 1893, partirono alla volta degli USA due aspiranti coloni, i quali conclusero che «se non [era] Canaan, almeno la coltivazione del tabacco, del grano, del granturco, e soprattutto della vite avrebbe avuto successo»26; parere accolto con scettismo pregiudiziale dal settimanale «Témoin», che, interprete delle preoccupazioni di alcuni settori della Chiesa, nello stesso numero in cui pubblicava il parere dei due delegati, invitava tutti a soppesare con attenzione gli svantaggi e i rischi connessi al progetto.

Al rientro in Italia uno di loro confermò la bontà del progetto, mentre il secondo confessò il suo scetticismo sull’operazione e annunciò che, almeno per il momento, non sarebbe partito27. Per chi aveva già venduto animali e terre per partire fu una vera doccia fredda che metteva l’intero progetto in una luce assai diversa da come si immaginava. In ogni caso alcune famiglie erano già partite, altre erano pronte a farlo e altre ancora si dichiaravano disposte a raggiungere la colonia di emigranti in breve tempo.

L’arrivo degli emigranti valdesi italiani fu accolto positivamente. Alla stampa e all’opinione pubblica locale non sfuggì che questi emigranti italiani avevano caratteristiche particolari: «A tutti i piccoli valdesi si insegna a leggere e a scrivere molto presto» scriveva il «Morganton Herald» del 1° giugno 1893 e pochi giorni dopo il «Charlotte Observer» osservava che «è un punto cardinale che ogni bambino della comunità sia istruito a memorizzare un libro della Bibbia, così che se il Libro sacro fosse drammaticamente distrutto, essi potrebbero riscriverlo parola per parola»28.

Con ogni evidenza l’etica calvinista della comunità di immigrati valdesi coincideva pienamente con quella della maggioranza: perfino il documento con cui la comunità adottò il regolamento che istituiva la cooperativa che all’inizio gestì proprietà terriere e mezzi di produzione aveva la forma retorica di un covenant tipico della tradizione puritana29, non troppo diverso da quello che i ‘padri pellegrini’ del Seicento pronunciavano sulle loro navi prima di sbarcare nel Nuovo Mondo:

«Dal momento che noi siamo cristiani e apparteniamo alla famiglia valdese, benedetti e miracolosamente preservati da Dio Onnipotente, e che noi con la nostra condotta ci sforzeremo di essere testimoni della Verità attraverso le nostre parole e tutta la nostra vita. Noi cercheremo di fare una buona impressione, a tutti i nostri vicini e ai cittadini di questo stato che ci hanno ricevuto a braccia aperte e che si aspettano così tanto da noi, e che considerano la nostra chiesa come qualcosa di miracoloso. Noi promettiamo di sottometterci alle decisioni dei direttori, e specialmente del pastore, che è il presidente del nostro comitato, accettandone i consigli e, se necessario, le sue reprimende e le sue censure»30.

Gli USA non erano l’Uruguay e con ogni evidenza l’identità protestante degli immigrati valdesi costituì un prezioso acceleratore del processo di integrazione: in breve fu perfezionato l’acquisto delle terre la cui estensione dovette sorprendere i coloni: «È così vasta che ci sentiamo quasi persi» scrisse il Tron al moderatore della Tavola valdese.

«Stiamo iniziando la costruzione di una piccola città e presto avremo un ufficio postale e una stazione ferroviaria. C’è spazio per almeno 200 famiglie»31.

Il legame tra gli emigranti valdesi e la loro Chiesa d’origine fu mantenuto dal pastore Tron, che con i suoi rapporti e con i viaggi in Italia teneva aggiornata la Chiesa sui progressi della colonia. Tuttavia il melting pot americano di quegli anni mostrava una eccezionale capacità d’integrazione degli immigrati, ancor più celere quando essi mostravano una chiara predisposizione ad accettare modelli e filosofia di vita propri della società statunitense. Già il 16 agosto, e cioè a pochi mesi dall’insediamento della colonia, il governatore dello Stato del North Carolina volle visitare gli emigranti valdesi e di lì a poco regalò loro una bandiera dello Stato, che fu subito issata accanto a quella italiana e a quella americana: un’ulteriore dimostrazione del fatto, come annotò la stampa locale, che essi si stavano rapidamente legando al loro paese adottivo e stavano già ragionando della possibilità di ottenere la naturalizzazione32, che per qualcuno arrivò a meno d’un anno dal loro arrivo negli Stati Uniti.

L’integrazione sul piano civile procedeva di pari passo con quella ecclesiastica all’interno della Presbyterian Church, che fu pronta ad accogliere formalmente la nuova comunità giunta dall’Italia. Tuttavia i problemi non mancavano: l’esposizione debitoria della colonia era elevata, i primi raccolti non furono incoraggianti, qualcuno accusò l’impresa di essere troppo utopica e iniziò a serpeggiare l’idea che i terreni venduti da Marvin F. Scaife fossero tra i meno produttivi della regione. Voci preoccupate che giungevano ingigantite nelle Valli valdesi dove qualcuno arrivò ad accusare il pastore Tron di aver «venduto i suoi fratelli»33. Fu lui a coprire con fondi propri il deficit registrato dalla colonia, un atto di generosità senza il quale i coloni avrebbero rischiato di perdere ogni diritto sulle terre acquisite ma non ancora acquistate individualmente.

Nello stesso anno si stabilizzò anche la situazione ecclesiastica con l’adesione formale della comunità valdese al Concord Presbytery della Presbyterian Church in The United States. Negli anni successivi, il principale legame con la Chiesa d’origine fu costituito, oltre che dalle ovvie relazioni parentali, dall’invio di pastori dall’Italia, consuetudine proseguita sino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Più recentemente sono da segnalare l’apertura, nel 1955, del Museo valdese, rinnovato e ampliato nel 2006 e il trasferimento a Valdese dell’American Waldensian Society, l’organizzazione istituita a New York nel 1906 per promuovere il sostegno alla Chiesa valdese italiana e, in anni successivi, del Rio de la Plata.

Il modello dell’emigrazione valdese in North Carolina risponde a criteri di ‘comunitarismo integrazionista’, espressione vagamente ossimorica che però delinea un chiaro proposito: la dimensione e l’identità comunitaria del progetto costituì la risorsa economica e spirituale che avrebbe favorito il processo d’integrazione nella società di accoglienza. Come si è visto, sin dall’origine l’esperienza di Valdese fu orientata all’‘americanizzazione’ ma il processo di naturalizzazione fu rafforzato e accelerato dal fatto che la comunità, sostenuta da una leadership autorevole e credibile, mantenne la sua unità e la sua identità. La contrapposizione, talvolta semplicistica e ideologica, tra strategia ‘integrazionista’ da una parte e strategia ‘comunitaristica’ dall’altra incontra qui una netta smentita.

La scelta della Chiesa valdese di assecondare questa strategia, né ignorandola né pretendendo di gestirla centralisticamente, si rivelò accorta e realistica: l’inserimento della comunità emigrata nella struttura ecclesiastica di una grande denomination degli USA qual era la Presbyterian Church, costituì un ulteriore vettore d’integrazione e d’inclusione sociale. Ovviamente il prerequisito di questo modello era che la società di arrivo fosse aperta, orientata verso una strategia d’accoglienza e di governo dei flussi migratori giudicati come un potenziale fattore di crescita economica e sociale.

La diaspora metropolitana

Negli anni della grande migrazione, le istituzioni protestanti nordamericane erano generalmente pronte a promuovere l’accoglienza dei fratelli e delle sorelle che giungevano dall’Italia e, in qualche caso, sostenevano veri programmi evangelistici rivolti alla conversione degli emigrati cattolici. Nel 1899 i battisti istituirono la National Association of Italian-American Baptists, che già nel 1912 coordinava 59 missioni e raccoglieva 1.500 membri34. Nel 1907 l’associazione fondamentalista Italian Christian Churches of North America vantava 200 chiese locali e nel 1915 si contavano addirittura quattro giornali orientati alla missione nei confronti degli emigrati italiani. Negli stessi anni, l’annuario metodista riportava dati precisi sulla consistenza della comunità italiana legata alla denominazione: «53 chiese italiane, 52 pastori italiani, 2 pastori americani in servizio presso chiese italiane, 3.402 membri a pieno titolo, 1.839 anziani, 42 scuole domenicali, 4.927 ragazzi che le frequentano, un settimanale cristiano italiano, La fiaccola»35.

Anche i presbiteriani erano attivi tra gli immigrati italiani: ad esempio nel 1905 si costituì una comunità a Cleveland (Ohio), sotto la guida del pastore Pietro Monnet, originario delle Valli valdesi. Nel 1930 la chiesa, italiana ma organicamente inserita nelle strutture della Presbyterian Church, fu affidata alla cura pastorale di un italiano originario di Campobasso, Gennaro Gustavo D’Anchise, il primo italiano consacrato al pastorato nel presbiterio di New York36.

La storia dell’emigrazione valdese in alcune grandi città e, soprattutto, a New York, si colloca in questo quadro di evidente vitalità missionaria del protestantesimo americano nei confronti degli italiani. La prima caratteristica che distingue il flusso migratorio evangelico nella metropoli da quelli analizzati sin qui è il suo carattere individuale o familiare: vi giungono infatti, attratti dalla possibilità di un posto di lavoro, emigranti che avevano tentato la strada del North Carolina ma che non erano riusciti a stare al passo con gli oneri economici imposti da quella colonizzazione; altri erano semplicemente emigranti italiani desiderosi di stabilizzarsi a New York dove, per altro, operavano già dei pastori d’origine italiana che si erano legati ad altre Chiese evangeliche nazionali. L’impatto con la società americana doveva essere molto duro: nella memoria di alcuni emigranti valdesi negli USA, il centro di raccolta di Ellis Island, era la goulo daa loup, le fauci del lupo37.

Dal 1908 Alberto Clot era stato inviato ufficialmente in missione dalla Tavola come ‘rappresentante della Chiesa valdese’: benché il suo campo di missione fosse molto ampio e comprendesse anche il Canada, all’inizio del 1910 iniziò ad aggregare un gruppo a New York che, già il 16 marzo, si costituì come ‘Chiesa’. Si deve al Clot anche l’apertura di un ufficio per le migrazioni a New York, il consolidamento della American Waldensian Aid Society costituita nel 1906 e una guida per gli emigranti italiani negli Stati Uniti e nel Canada, stampata in oltre ventimila copie38.

Nel 1910 giunse in città un altro qualificato pastore valdese, Pietro Griglio, che in breve rilevò la cura della comunità. Troppo tempestivamente e senza considerare l’irriducibile distanza tra il presbiterianesimo valdese e l’episcopalismo di una chiesa della comunione anglicana, i vertici della Holy Communion chiesero al vivace gruppo di italiani di aderire alla loro denomination: il risultato fu il rapido avvicinamento della Waldensian Union sia alla Presbyterian Church, di origine scozzese, che alla Reformed Church, che invece vantava un’ascendenza olandese. I contatti con quest’ultima furono più rapidi e risolutivi, e il 19 marzo del 1916 il pastore Griglio e i suoi parrocchiani tennero il primo culto nella Knox Memorial Dutch Reformed Church.

Con il nuovo pastore, Bartholomew Tron, la comunità, attraversata da un rigurgito identitario e dalla preoccupazione di perdere ‘il bel nome valdese’, in breve tempo lasciò la Chiesa riformata per affiliarsi alla Presbyterian Church, che evidentemente avrebbe accettato che la comunità mantenesse il suo nome storico. Soprattutto, però, occorre sottolineare che il Tron era un ministro di culto consacrato dalla Presbyterian Church.

La comunità valdese poté quindi raccogliersi nella prestigiosa First Presbyterian Church e nel 1925 venne formalmente accolta nel presbiterio della città di New York. Presto però la leadership di Tron fu contestata; a New York si costituirono così due Chiese valdesi: una, più piccola, guidata dallo stesso Tron; l’altra, riunita nei locali della Knox Memorial Church, sotto la cura del Griglio che avevamo già incontrato in città nel 1910. In realtà la prima comunità si avviò a una mesta dissoluzione mentre la seconda si ritrovò priva d’ogni affiliazione: il ‘pasticcio’ fatto in passato con la Reformed Church, che pure continuava a ospitare la comunità valdese ‘scissionista’, suggeriva prudenza. D’altra parte, il rapporto con la Presbyterian Church era reso problematico dal fatto che formalmente vi aderiva la comunità concorrente di Tron. Alla richiesta di adesione alla Chiesa valdese in un primo tempo la Tavola rispose evasivamente; solo dopo l’annuncio che senza un’affiliazione formale non si sarebbe più giustificato il contributo finanziario della comunità valdese di New York alla Chiesa italiana, il sinodo del 1932 decise di riconoscere nel proprio ordinamento la First Waldensian Church of New York come ‘chiesa autonoma’, esattamente come accadeva per le Chiese del Rio del la Plata.

Intanto la comunità cresceva e riassorbiva alcuni dei suoi membri che all’inizio erano rimasti nella chiesa del Tron e, confidando nel suo sviluppo, s’impegnò a raccogliere dei fondi per l’acquisto di una propria chiesa che venne effettivamente consacrata al culto nel 1951.

In realtà a quel punto le dinamiche dell’emigrazione e dell’integrazione nella società multiculturale americana erano significativamente cambiate rispetto agli anni Dieci e Venti. L’Italia, e in particolare le sue regioni nord-occidentali, si avviavano verso quel ‘miracolo economico’ che avrebbe avuto un rilevante impatto anche sulle Valli valdesi; quanto agli oriundi valdesi ormai giunti alla seconda o alla terza generazione trovavano più naturale inserirsi nelle locali Chiese evangeliche. Paradossalmente, quindi, la stabilizzazione della chiesa di New York in un locale ‘proprio’ segnò l’inizio di una parabola discendente che si concluse nel 1994 con la cessione dell’edificio a una comunità ebraica riformata39.

I metodisti italiani da Five Points a Harlem

Molto interessante e meritevole di approfondimenti è la storia della presenza metodista italiana a New York40. Le prime tracce risalgono al 1889, quando si registra la presenza di un predicatore riconosciuto dalla Conferenza metodista italiana, Vito Calabrese, attivo nella celebre quanto famigerata zona dei Five points, un crocevia affollato di immigrati europei e portoricani. Nel 1905 si costituì una piccola comunità di italiani provenienti in gran parte dal minuscolo villaggio abruzzese di Salle (Pescara). Sin dall’inizio la nuova Chiesa s’integrò perfettamente nella struttura della Chiesa metodista degli USA. Un’altra Chiesa metodista italiana, la All Nations, fu aperta nel 1904 nel Lower East Side di Manhattan: tra i suoi pastori più attivi sulla scena cittadina si ricorda Ottavio Schiavoni; un’altra, la Jefferson Park Italian Methodist Church, a Harlem, era stata fondata intorno al 1890 da Giuseppe Covelli, un sarto attivo nell’Esercito della salvezza, poi divenuto metodista, con il pieno sostegno della New York Missionary Society. Il primo pastore fu Filoteo Taglialatela, figlio di Pietro. Era questi un ex prete, poi arruolatosi con Giuseppe Garibaldi e convertitosi al protestantesimo: certamente una delle personalità di maggiore spicco del metodismo italiano41 tra Otto e Novecento. Tra i giovani cresciuti nella comunità, Leonardo Covello42, noto pedagogista e tra gli attivisti più autorevoli e conosciuti del Partito socialista americano: tra la sue realizzazioni l’apertura ad Harlem di una Casa del popolo, realizzata anche grazie al sostegno del sindaco della città, Fiorello La Guardia, di cui era amico e collaboratore. Interessante il fatto che a conclusione della sua carriera, Covello sia rientrato in Italia per collaborare con Danilo Dolci a Trappeto (Agrigento) per sostenere il suo impegno educativo contro la mafia.

Da questi pochi cenni sulla presenza di tanti italiani a New York nel primo Novecento emerge un interessante quadro: essi costituivano una comunità abbastanza significativa da acquistare visibilità nella metropoli, capace di proficue attività evangelistiche e quindi in grado di aprire almeno sei locali di culto nella città. Una comunità legata alla Conferenza metodista italiana eppure pronta a inserirsi nelle strutture della Chiesa americana; ancorata, infine, alla cultura della ‘sinistra risorgimentale’ tipica della leadership metodista di quegli anni, eppure pronta all’integrazione nel nucleo dei valori fondamentali della società americana.

Il seme e la pianta

Vicenda analoga a quella di New York è la storia della Chiesa valdese di Chicago, originata nel 1892 da due gruppi di emigranti valdesi di fine Ottocento provenienti dalle alte Valli valdesi, che seguirono il pastore Filippo Grilli – italianizzazione da Grill − chiamato al servizio pastorale in una Chiesa evangelica indipendente fondata da un altro italiano, Michele Nardi43.

Nacque così la Italian Presbyterian Church, dal 1928 Waldensian Presbyterian Church: dovette trattarsi di un’esperienza travagliata, dal momento che alcuni dei membri di quella comunità confluirono presto in altre aggregazioni di immigrati evangelici: la West Taylor Street Mission, la First Italian Methodist Church, la Moody Italian Church e infine la Italian Pentecostal Church che raccolse la maggior parte dei membri della Chiesa fondata dal pastore Grilli44. Tra i suoi parrocchiani, del resto, vi era il mosaicista Luigi Francescon, uno dei primi seguaci della predicazione pentecostale di William H. Durham e quindi tra i fondatori del movimento pentecostale italiano45.

Di poco più recente della Chiesa valdese di Chicago, quella di Rochester (New York), costituita nel 1908 da un gruppo di emigranti valdesi originari di Grotte (Agrigento), incoraggiati al grande passo dal loro pastore, quell’Alberto Clot46 che avevamo conosciuto come rappresentante della Chiesa valdese negli USA. E così il 4 luglio – di nuovo una data non casuale – del 1909 fu inaugurata la Italian Waldensian Presbyterian Church of the Evangel (sic) che in breve ottenne un pastore dall’Italia, Giovanni Tron. Soltanto sei anni dopo però, la Chiesa cancellava il nome ‘valdese’ per qualificarsi semplicemente come The Church of the Evangel e quindi, possiamo intendere, per allargare la sua missione oltre i confini della specifica identità d’origine.

La vicenda della comunità di Grotte è assolutamente emblematica del prezzo che l’evangelismo italiano pagò alla ‘grande emigrazione’ transoceanica: in pochi anni, infatti, declinò quasi fino alla scomparsa una Chiesa valdese che a fine Ottocento aveva costruito un tempio, aperto una scuola primaria frequentata da circa 300 alunni e, dal 1904, anche una scuola tecnica47.

A New York, invece, negli stessi anni la comunità nata dagli emigrati di Grotte visse un momento di particolare crescita, soprattutto sotto la guida del pastore metodista italo-americano Joseph Vitale. Si evidenziano molti elementi che concorrono a delineare il profilo di una Chiesa d’immigrati che ‘negoziava’ la sua identità nella società di accoglienza costruendo un amalgama di tradizioni italiane e di valori americani: un corollario importante di questa negoziazione tesa a favorire il migliore inserimento sociale fu la coesistenza di costumi e tradizioni trasportate dall’Italia con l’adozione di nuovi modelli etici propri della società americana quali frequentare assiduamente una chiesa, leggere regolarmente la Bibbia, risparmiare denaro, avere fiducia in se stessi48. Da rilevare, infine, l’impianto culturale ‘risorgimentale’ che caratterizzava questa esperienza: il riconoscimento del valore dell’unità nazionale, la denuncia del potere temporale della Chiesa cattolica e la celebrazione della sua fine, l’intreccio tra protestantesimo e fraternità massonica49 sono elementi fortemente caratterizzanti quel tempo e quella stagione culturale dell’evangelismo italiano e quindi anche dell’emigrazione evangelica all’estero.

Ma il tempo lavorava contro l’idea stessa di una Chiesa ‘italiana’, che già negli anni della Grande depressione iniziò a declinare sia in termini numerici che di attività, sino alla chiusura avvenuta nel 1959. Del tutto analogo il ciclo della missione metodista italiana che, avviata nel 1880, si concluse nel 194950. Quanto ai battisti, la Chiesa ‘italiana’ aperta nel 1902 chiuse nel 195751. A distanza di decenni, la portata del ruolo svolto da quelle Chiese e da quelle aggregazioni sociali su base etnica è confermato dal fatto che in un censimento del 1999 la percentuale degli abitanti di Rochester d’origine italiana che si professava protestante ammontava al 19%52, una quota infinitamente superiore alla quota percentuale dei protestanti nella società italiana negli anni della grande emigrazione verso gli Stati Uniti.

Anche l’esperienza di Rochester conferma che, nonostante gli sforzi di alcuni pastori e il sostegno delle chiese italiane, nelle grandi aree urbane i nuclei di emigranti evangelici – privi di un comune centro di interessi economici e di una immediata riconoscibilità nel melting pot dell’America di quegli anni – nel passaggio alla seconda o alla terza generazione finirono per perdere alcuni tratti dell’identità dei loro padri e dei loro nonni: affievolitisi i rapporti con l’Italia, protesi a inserirsi nella nuova società, in pochi decenni si trovarono a essere americani a tutti gli effetti, anche nell’appartenenza denominazionale.

Resta il fatto che nella fase di prima socializzazione nel nuovo contesto delle società d’immigrazione, le Chiese e le identità religiose ebbero un ruolo importante di sostegno ai percorsi individuali e collettivi degli immigrati. In qualche caso questa funzione si è risolta nel giro di poche generazioni, pur lasciando tracce che oggi anche la storiografia americana sull’immigrazione tende a valorizzare53.

L’immigrazione ‘diasporica’ in Europa

Dopo la caduta del fascismo e la fine della politica anti-immigratoria del Ventennio e quindi in corrispondenza del processo di ricostruzione, ripresero i flussi emigratori. La differenza rispetto al passato fu costituita dalle mete, questa volta europee piuttosto che extracontinentali. In particolare, tra il 1946 e il 1970 emigrarono dall’Italia quasi 7 milioni di persone, con un tasso medio di quasi il 5 per mille annuo sul totale della popolazione; il picco del fenomeno si registrò nel decennio tra il 1956 e il 1965.

Man mano che procedeva il processo di ricostruzione industriale del paese ed emergevano importanti segnali di ripresa dell’economia settentrionale, l’emigrazione acquisiva una specifica fisionomia meridionale. Ad esserne colpita sarà quindi la Chiesa valdese ‘della diaspora’ piuttosto che quella storicamente radicata nelle Valli.

La Chiesa prese atto con ritardo della rilevanza del fenomeno: ancora nel 1952 da parte dei suoi vertici non vi era alcuna coscienza del fatto che di lì a poco l’emigrazione avrebbe eroso la base costitutiva di tante comunità del Mezzogiorno: caso tipico quello di Bernalda (Matera) che al moderatore Achille Deodato, che la visitò in quell’anno, apparve come il frutto della ‘meravigliosa avventura’ dell’evangelizzazione nel Sud d’Italia54. Quindici anni dopo quella fiorente comunità fotografata in una chiesa sovraffollata era praticamente ridotta a una o due famiglie.

Alcuni esponenti valdesi, autorevoli ma non in posizione di leadership, sembrarono rendersi conto del problema e delle sue potenziali conseguenze viaggiando per l’Europa in occasione di convegni ecumenici internazionali o di visite alle Chiese sorelle. «Un grande lavoro si potrebbe svolgere tra gli italiani che lavorano in Svizzera – scrisse ad esempio il pastore Giorgio Girardet in un rapporto del 1957 − I nostri colleghi svizzeri sentono il problema ma non hanno il tempo di occuparsene»55. Qualche anno dopo gli fece eco il suo collega Aldo Comba, decisamente preoccupato per le condizioni degli operai italiani in Germania56.

Ma ancora in quegli anni la Tavola non sembra in grado di fronteggiare questa sfida: del resto, ancora negli anni Cinquanta la percezione era che l’evangelizzazione del Mezzogiorno producesse frutti importanti, né possiamo trascurare che buona parte della leadership della Chiesa, formatasi e residente in Piemonte o comunque nel Nord, non potesse o non sapesse cogliere la gravità dei processi in atto.

Appare quindi in decisa controtendenza un testo a firma di Giorgio Peyrot, giurista di fama, consulente della Tavola e tra le personalità più forti della Chiesa valdese di quegli anni, specificatamente dedicato alla «necessità di provvedere per tempo ad una efficiente organizzazione della diaspora valdese fuori dall’Italia»57. Non sorprende il fatto che il testo sia estremamente lucido e rigoroso nell’analisi dei quattro fattori che, a giudizio dell’autore, avrebbero dovuto spingere la Chiesa a tematizzare l’emigrazione di tanti suoi membri all’estero. Il primo, quello religioso, deriva dalla necessità di «evitare che l’emigrazione dei membri delle nostre chiese, avvenendo specialmente per individui isolati e senza basi di appoggio, comporti l’isolamento». Il secondo fattore, centrato sulla dimensione ecclesiastica del problema, intende evitare che «attraverso l’emigrazione […] le nostre chiese perdano in Italia numerosi effettivi». Il terzo fattore, economico, punta a creare reti di sostegno degli immigrati evangelici. Infine il fattore politico per evitare che «attraverso l’attuazione e lo sviluppo della unificazione europea, per il flusso delle genti verso nuovi e più attraenti mercati di lavoro, le nostre chiese rischino di trovarsi di fronte a una crisi di spopolamento».

Dopo aver definito gli obiettivi strategici del progetto, Peyrot indicava una serie di misure pratiche utili a perseguirli, proponendo fra l’altro l’istituzione di Unioni valdesi all’estero «con finalità di carattere ricreativo, religioso ma non chiesastico che si proponessero come luoghi di aggregazione sociale e culturale». L’asse strategico della proposta resta tuttavia orientato all’inserimento degli emigrati valdesi nelle Chiese riformate dei paesi di immigrazione.

Il ‘progetto Peyrot’ aveva una solida coerenza nel delineare per gli emigrati valdesi all’estero un percorso di «integrazione protetta e negoziata» dalla loro Chiesa. Immaginava, cioè, che la Chiesa assumesse la ‘questione migratoria’ come tema centrale della sua strategia di quegli anni, adottando provvedimenti amministrativi coerenti e investendo le necessarie risorse umane e finanziarie.

Scorrendo gli atti della Tavola valdese di quegli anni, quel progetto sembra cadere nel vuoto; del resto anche dalle Chiese del sud, quelle che disponevano di occhi e antenne più sensibili per monitorare il fenomeno, non giungevano richieste, analisi o proposte particolarmente urgenti. Quell’anno fu molto più incisivo il Sinodo che, riconoscendo nell’emigrazione «un urgente problema ed una specifica vocazione per la nostra chiesa», sollecitò «[la] venerabile Tavola [a] rivolgere un appello circostanziato alle nostre chiese, allo scopo di suscitare vocazioni di servizio sociale e cristiano a favore dei nostri emigranti e rendersi interpreti delle preoccupazioni del sinodo presso le Chiese evangeliche all’estero»58.

Nel 1963 fu il V distretto, quello comprendente le Chiese della Calabria e della Sicilia, a denunciare che «malgrado il tanto decantato miracolo economico molti nostri concittadini del sud d’Italia vivono nella miseria e […] sono costretti a emigrare [...]. Le nostre chiese impoverite numericamente devono lasciare da parte gli inutili crucci e gli sterili rimpianti, devono – come si dice – serrare le fila e andare avanti perché − in molti o pochi che siamo – il nostro dovere di servire il Signore qui ed ora ci lega al nostro posto»59.

Il Sinodo reagì esortando «la Tavola e le comunità a dare la massima importanza a questo problema» e invitando la Tavola «a inviare nel settore della emigrazione gli elementi più attivi e socialmente impegnati, e curare la preparazione di ministeri specifici per l’emigrazione»60.

Qualcosa in effetti sembrava muoversi, essenzialmente attraverso il rafforzamento dell’azione pastorale nei confronti degli immigrati italiani: il principale laboratorio fu la Svizzera, dove erano presenti comunità di lingua italiana inserite nell’ordinamento valdese. Proprio a Zurigo operava in quegli anni una sorta di ufficio di collocamento gestito dalla comunità evangelica61. L’esperienza zurighese risultava particolarmente significativa perché riusciva a realizzare un’integrazione tutt’altro che scontata tra la componente elvetica e quella degli immigrati italiani62.

A Basilea giunse, nel 1962, il pastore Liborio Naso con lo specifico incarico di promuovere un’azione pastorale tra gli immigrati italiani.

Intanto presso il centro di Agape (Prali, nei pressi di Torino), la frontiera più avanzata della Chiesa valdese nella riflessione sull’intreccio tra fede e politica, si svolgevano convegni di formazione che davano una lettura economica e complessiva del fenomeno migratorio. Nel 1962 proprio in quella sede si svolse un seminario di formazione riservato a un gruppo di laici che di lì a poco sarebbe andato a lavorare tra gli emigranti italiani: tra i relatori il biblista Bruno Corsani, il teologo e giornalista Giorgio Girardet, il giovane sociologo Goffredo Fofi.

Quanto alle Chiese dei paesi di immigrazione, dopo una fase di palese sottovalutazione iniziarono a prendere coscienza del problema e dei suoi risvolti economici e pastorali: è del 1961, ad esempio, una presa di posizione ufficiale della Federazione delle chiese protestanti svizzere, che denunciando il grave problema degli alloggi, auspicava che «coloro che portano il nome cristiano, nel nostro paese, prenderanno coscienza delle loro responsabilità nei confronti dei nostri ospiti stranieri che sono nostri fratelli senza distinzione di confessione o di nazionalità»63.

Tornando all’Italia, nel 1965 si riunì il secondo Congresso evangelico italiano nel tentativo, solo in parte riuscito, dal momento che importanti denominazioni come le Assemblee di Dio in Italia non vi parteciparono, di dare forma e visibilità all’unità degli evangelici italiani. Si trattò comunque di un importante appuntamento che pose le basi di quella che, due anni dopo, sarebbe diventata la Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Il Congresso affrontò argomenti di ordine generale e anche politico, tra i quali l’emigrazione, che veniva interpretata come «un esempio tipico del disordine della nostra società, una causa di dolorose crisi morali, economiche e sociali» e come «fenomeno che investe profondamente la responsabilità di tutte le chiese e di tutte le istituzioni civili».

Data la forma giuridica ancora aleatoria di quest’organismo, quanto agli impegni il congresso non poté andare oltre l’appello alle Chiese evangeliche perché affrontassero «questo problema in maniera cosciente e coordinata, mediante la predicazione dell’Evangelo, il servizio personale e comunitario, appoggiando altresì ogni azione intesa a modificare le condizioni economiche che rendono attualmente inevitabile l’emigrazione»64. L’elaborazione del congresso evangelico, tuttavia, per rigore di analisi e ricchezza di proposte può ben porsi in continuità con la ‘piattaforma’ contenuta nel ‘progetto Peyrot’ del 1957.

Nel 1966, quando cioè il trend delle emigrazioni iniziava a declinare, il Sinodo valdese prese finalmente la decisione di «destinare almeno un pastore o anziano evangelista a pieno tempo a un lavoro itinerante tra gli emigrati in Europa». In ottemperanza a questo mandato, la Tavola liberò da altri incarichi uno dei suoi membri che aveva sensibilità e competenza rispetto al tema, il pastore Pierluigi Jalla, perché «dedicasse il più possibile del suo tempo a questo settore di attività che richiede numerosi viaggi e contatti con l’estero»65.

L’anno dopo il Sinodo formalizzò quella decisione. Nel 1968 prese corpo un altro esperimento: l’invio in Germania di una coppia di pastori, Silvio Ceteroni e Carmen Trobia, ai quali fu affidato l’incarico di promuovere un’azione pastorale tra gli emigranti italiani. Il loro lavoro incontrò qualche criticità: dai rapporti, ad esempio, emergeva un grande impegno ma anche la difficoltà nell’individuare obiettivi precisi e una strategia per perseguirli. Nel particolare contesto dell’emigrazione italiana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta, sembrava cadere la centralità della tradizionale figura pastorale che pure tanta rilevanza aveva avuto nelle migrazioni ‘evangeliche’ precedenti.

Il campo affidato a una coppia di pastori era davvero troppo vasto e, in assenza di un chiaro quadro di riferimento, l’intero progetto risultava poco solido nelle stesse premesse. Anche da Basilea giungevano rapporti che confermavano una crisi della strategia ‘pastorale’ adottata dalla Tavola per fronteggiare la sfida delle migrazioni: «Il nostro contatto con gli operai italiani è diminuito – scrive il pastore Naso nella relazione sulla vita della Comunità del 1968 – per il fatto che i più ora si sono sistemati e non hanno più bisogno dei nostri modesti servizi assistenziali; quasi tutti vengono qua per accumulare il gruzzolo necessario per costruirsi la casa in Italia (o qualcosa di simile) e non s’interessano di nessun altra cosa»66. Né si può trascurare che, diversamente dall’emigrazione italiana oltreoceano, quella in Europa degli anni Cinquanta e Sessanta aveva spesso caratteristiche stagionali e ‘circolari’, estranee cioè a ogni logica di integrazione permanente.

Intanto, dal 1967 era operativo a Palermo il Centro per l’emigrazione, frutto di una collaborazione con il Comitato europeo per le migrazioni delle Chiese europee e operante sotto gli auspici del Consiglio ecumenico delle Chiese e della neonata Federazione delle Chiese evangeliche in Italia.

Con gli anni Settanta da una parte declinava il tasso emigratorio italiano ma dall’altra si facevano più difficili le condizioni di vita degli emigrati italiani in alcuni paesi, che iniziavano ad adottare politiche restrittive non di rado accompagnate da campagne xenofobe contro gli immigrati. La Chiesa valdese, evidentemente in ritardo nella sua strategia sulle migrazioni, colse però questo elemento di novità adottando un linguaggio anche politico: il sinodo del 1970, ad esempio, espresse la sua protesta per le condizioni degli emigranti, chiedendo al governo di adoperarsi per l’abolizione dello statuto dei lavoratori stagionali in Svizzera67.

La politicizzazione del tema era ovviamente uno dei portati dello spirito del 1968 che aveva attraversato anche la Chiesa valdese: in una fase in cui i processi di emigrazione rallentavano di anno in anno e quindi con un ritardo non più recuperabile, la Chiesa sentiva il bisogno di un dibattito di ampio respiro sul tema del lavoro pastorale tra gli emigrati: un’esigenza condivisa dalla stessa Tavola che avvertiva l’urgenza di «una ristrutturazione di questo lavoro»68.

Sembrava quindi che il 1971 dovesse essere l’anno in cui la Chiesa avrebbe potuto programmare la sua strategia pastorale, politica e di servizio nei confronti della questione. Le cose andarono però in tutt’altra direzione: all’apertura del sinodo, infatti, Peyrot pose un problema di ordine procedurale legato alla lista degli aventi diritto al voto e, tra coloro che a suo avviso non avevano titolo deliberativo, vi era proprio la coppia Ceteroni Trobia, ovvero coloro che per la loro esperienza si annunciavano tra i protagonisti della sessione. Seguì un aspro confronto sulle procedure e l’interpretazione dei regolamenti che si concluse con un voto contrario alle tesi di Peyrot, il quale, giudicando il Sinodo non validamente costituto, ne abbandonò i lavori. Dopo questo esordio, si comprende come vennero a mancare i presupposti per un dibattito sereno e costruttivo ed effettivamente il Sinodo si limitò ad approvare una raccomandazione del tutto ininfluente alla Tavola perché mantenesse viva l’attenzione al tema dell’emigrazione.

Quel dibattito di ampio respiro di cui in molti sentivano il bisogno, in realtà non avvenne mai. Del resto, nel 1973, e per la prima volta in Italia, il saldo sulle immigrazioni superava quello sulle emigrazioni, sia pure di poche unità: anche se proseguì l’impegno della Chiesa valdese nei confronti degli emigrati italiani, soprattutto dove essa aveva comunità in grado di offrire assistenza pastorale e sostegno sociale, il quadro complessivo evolveva in altra direzione. L’Italia si avviava a divenire un paese che doveva attrezzarsi ad accogliere immigrati al suo interno.

In 75 anni, quelli che in grande misura coprono il periodo di più intensa emigrazione dall’Italia, spariscono dalla mappa delle presenze valdesi decine di comunità del Mezzogiorno come Barcellona (Messina), Grotte (Agrigento), Pietraperzia (Enna), Salle (Chieti), Schiavi d’Abruzzo (Chieti), Borrello (Chieti), Gioia del Colle (Bari), Falerna (Catanzaro)69; d’altra parte, se in cifre assolute nel 1975 la consistenza numerica dei valdesi nelle Valli e nel Mezzogiorno resta analoga a quella del 1901, occorre ricordare che nel frattempo la popolazione italiana è passata da quasi 33 milioni a oltre 54 milioni. Certamente l’emigrazione non fu la causa unica di questo svuotamento; tuttavia, dall’analisi della consistenza dei flussi migratori dalle Valli valdesi prima e dalle comunità valdesi del Mezzogiorno dopo, appare difficile affermare che «più che dall’emigrazione la vita delle comunità valdesi, metodiste e battiste fu turbata profondamente dagli avvenimenti politici mondiali»70.

Il modello di ‘emigrazione diasporica’ che coinvolse molti valdesi provenienti soprattutto dalle Chiese meridionali fu più subìto che intenzionalmente costruito e perseguito: persa negli anni Cinquanta l’opportunità di orientare e organizzare i propri membri che intendevano emigrare, la Chiesa valdese si trovò nella condizione di rincorrere un processo che si modificava costantemente; la scelta di puntare sulla rete delle preesistenti chiese valdesi all’estero, pienamente sostenibile e razionale sul piano organizzativo, implicava anche l’elaborazione di una strategia di più ampio respiro tesa a tenere saldi quei legami culturali e sociali necessari a realizzare quei processi di ‘integrazione protetta e negoziata’ intuiti da Giorgio Peyrot. L’intuizione del seminario di Agape, e cioè che il perno del lavoro tra gli emigrati italiani dovessero essere dei laici con funzione di ‘mediatori culturali’ piuttosto che dei pastori, ebbe solo sporadiche conseguenze pratiche. Del resto, autorevoli personalità valdesi ritenevano che, più che inseguire gli emigranti all’estero, la Chiesa dovesse impegnarsi per trattenerli in Italia: era questo uno degli obiettivi del Servizio cristiano fondato dal pastore Tullio Vinay a Riesi (Caltanissetta) nel 196171: un esperimento ‘riformista’ di ampio respiro ideale che intendeva coniugare testimonianza cristiana, impegno sociale e promozione economica nella prospettiva, tra l’altro, di offrire un’alternativa all’emigrazione.

L’evangelismo dell’immigrazione

A partire dagli anni Ottanta e con il progressivo consolidarsi dei flussi di immigrazione verso l’Italia, le Chiese evangeliche si sono poste il problema di come strutturare la loro azione nei confronti di questo fenomeno. La prima risposta alla nuova sfida è del 1984, quando la Federazione delle Chiese evangeliche (Fcei) istituì il Servizio migranti, poi rifugiati e migranti (Srm), quale strumento per la propria azione di servizio nei confronti di chi arrivava in Italia e di pressione politica per garantire leggi rispettose dei principi evangelici di accoglienza e solidarietà. Partner importante di questo servizio, soprattutto nella fase di varo delle istituzioni europee, sono stati il World Council of Churches e il Churches Comittee on Migrant Workers in Europe – poi Churches Commission on Migrants in Europe (Ccme) – una rete nata sotto gli auspici della Conferenza delle chiese europee (Kek) che per altro mantiene rapporti di collaborazione costante con analoghe strutture cattoliche.

Se la prima risposta del protestantesimo storico ai flussi di immigrazione è quindi stata di tipo diaconale e politico, solo più recentemente essa ha assunto una fisionomia anche ecclesiastica, attenta cioè al rapporto con la complessa e variegata realtà degli immigrati di fede riformata. Attraverso una serie di convegni di studio e soprattutto sotto l’impulso d’una crescente presenza di immigrati evangelici nelle Chiese italiane, a partire dal 199072 ha preso corpo il progetto ‘Essere chiesa insieme’.

Secondo il dossier statistico della Caritas del 2003 – il primo che offre dei dati specifici sulle varie confessioni cristiane – gli immigrati evangelici in Italia erano il 5,8%, pari a quasi 90.000 unità. Fonti della Fcei rilevano che sulla base di un’indagine da essa stessa realizzata nel 2004, risulta che su circa 300 comunità locali aderenti alle varie che compongono la Fcei – valdesi, metodisti, battisti, luterani, Esercito della salvezza, alcune Chiese libere – almeno 200 «sono in qualche modo coinvolte dal fenomeno “Essere chiesa insieme”»73. La concentrazione delle presenze di immigrati nelle Chiese evangeliche italiane si rivela comprensibilmente più alta al Nord – 89 chiese registrano questa presenza – che nel Mezzogiorno (25) o al Centro (34).

Queste nuove presenze, particolarmente significative in comunità ad alta concentrazione di immigrati come a Palermo, Parma, Bologna, Brescia, Udine74, per fare solo qualche esempio, hanno imposto una seria riflessione di ordine culturale, teologico ed ecclesiologico: le Chiese italiane, infatti, pur pienamente disponibili a ospitare gli evangelici immigrati per il loro culto e, spesso, interessate a celebrare il culto in comune, non sembravano avvertire che questo incontro avrebbe determinato eccezionali cambiamenti nella forma delle celebrazioni, delle liturgie e della stessa organizzazione comunitaria. Almeno nei primi anni, in altre parole, la specifica identità culturale degli evangelici provenienti dall’Africa o dall’Asia non sembrava trovare adeguato riconoscimento da parte degli italiani e rischiava di «gettare le fondamenta di un muro di divisione e incomunicabilità: Babele invece di pentecoste, l’incomprensione invece della comunione nella conversione»75.

D’altra parte, ancora nel 1995, l’aspetto di servizio all’immigrato76 sembrava prevalere sulla coscienza che il fenomeno dell’immigrazione avrebbe rapidamente modificato il profilo dell’evangelismo italiano. Col passare degli anni, iniziavano però ad emergere diversi ‘modelli’ di integrazione tra evangelici italiani e immigrati, e tuttavia tutti orientati in un’unica direzione: «non solo politica dell’accoglienza, ma anche quella della ricezione e del confronto»77. In altre parole ‘dal servizio all’integrazione’.

Al momento attuale, possiamo individuare cinque tipologie78 di rapporto tra l’evangelismo italiano – non solo quello federato nella Fcei – e l’immigrazione: innanzitutto le ‘Chiese accoglienti’, quelle in maggioranza composte da fedeli ‘autoctoni’ che però si sono date una strategia di apertura nei confronti degli immigrati evangelici. Il culto ha pertanto dei momenti in cui si garantisce una traduzione o si prevede la libertà di espressione in altre lingue; analoga attenzione si presta alla scelta degli inni e alla valorizzazione degli immigrati nella gestione della vita comunitaria. Sotto il profilo dei rapporti quantitativi gli immigrati restano una minoranza.

Le ‘Chiese integrate’ sono quelle che, preso atto della rilevanza della componente immigrata, hanno riorganizzato la vita comunitaria, le modalità di svolgimento del culto e le strategie di presenza nel territorio dove operano. Sono Chiese che si sono impegnate nella gestione diretta di servizi di orientamento e formazione e rivendicano esplicitamente un carattere multiculturale.

Le ‘Chiese rigenerate’ sono quelle nelle quali la componente immigrata ha finito per costituire la maggioranza dei membri frequentanti e per dare una nuova impronta alla comunità preesistente. In qualche caso il processo di ridefinizione del profilo della comunità ha attraversato criticità anche traumatiche, soprattutto quando la parte italiana si è sentita ‘invasa’ dalla componente immigrata. Infine le ‘Chiese etniche’ sono quelle che si danno una specifica finalità di aggregazione delle comunità degli immigrati e che, pur accogliendo anche alcuni italiani, si strutturano secondo i bisogni, la cultura, le tradizioni liturgiche e di aggregazione di un particolare gruppo di immigrati. Una variante di questa tipologia è costituita dalle ‘Chiese multietniche’ che si costituiscono su base linguistica. In genere anglofone o francofone, finiscono per accogliere membri dei vari continenti. È questo il modello più diffuso in ambito pentecostale e quindi, presumibilmente, quello che ha la maggiore consistenza numerica.

Dati certi sulla consistenza del fenomeno non esistono: quelli generalmente accreditati sono offerti dal dossier statistico Caritas/Migrantes che nel 2009 indicava una presenza di immigrati evangelici di 121.000 unità: un dato, in mancanza di altri strumenti di rilevazione, meccanicamente ricavato sulla base della percentuale degli evangelici nei paesi di provenienza. Il sistema di calcolo presuppone cioè che i ghanesi o i filippini evangelici immigrati in Italia corrispondano esattamente alla loro quota percentuale nel paese di provenienza. Questo meccanismo presenta una serie di limiti che ha determinato una sottovalutazione del dato complessivo79.

In ogni caso l’immigrazione costituisce il maggiore fattore di crescita dell’evangelismo in Italia in generale, e anche della sua componente storica costituita soprattutto dalle Chiese valdesi che assorbono quote crescenti di presbiteriani e riformati, da quelle metodiste e battiste.

In questa prospettiva le Chiese del protestantesimo storico, quelle che più tempestivamente e con maggior convinzione hanno puntato all’integrazione, vivono un’interessante transizione verso una dimensione multietnica e multiculturale.

Presumibilmente il fenomeno avrà ulteriori evidenti ricadute sul piano della teologia, dell’ecclesiologia, della liturgia e della testimonianza pubblica dell’evangelismo in Italia. E si tratterà di un fenomeno di grande rilievo sociale, culturale e spirituale. L’immigrazione, infatti, non affievolisce il sentimento religioso ma al contrario lo esalta in un percorso identitario esposto a spinte contrastanti: del passato e del futuro, dello sradicamento e del bisogno di integrazione. «In questo senso – come rileva Lucà Trombetta – la rielaborazione della religione nella sua dimensione personale e collettiva rappresenta un vero laboratorio di cambiamento e di adattamento»80.

Ripensando all’esperienza delle emigrazioni italiane all’estero, un grande interrogativo riguarda la funzione sociale delle Chiese evangeliche rispetto ai complessi processi d’integrazione della popolazione recentemente immigrata. Le Chiese possono essere un prezioso laboratorio di ‘negoziazione’ dell’identità nella quale immigrati di prima generazione potranno avviare e consolidare il loro percorso di integrazione a partire da sistemi comunitari protetti e accoglienti. In altri casi potranno essere dei gusci identitari che, al contrario, avranno una funzione disgregante sul piano sociale: la mancanza di un’adeguata legislazione sulla libertà religiosa e l’adozione in alcune regioni di norme restrittive in materia di locali di culto, rischiano di rafforzare questa tendenza all’autoesclusione dallo spazio pubblico e quindi alla ghettizzazione identitaria.

L’esito di queste opposte dinamiche dipende sia da che cosa sapranno fare le Chiese evangeliche per proporsi come vettori di integrazione che dallo spazio culturale e politico in cui questo processo si giocherà. Anche in questa prospettiva i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia, al fondo, ci richiamano a precisare i valori politici, sociali e culturali che vecchi e nuovi italiani potranno condividere nel nostro paese.

Note

1 I valdesi nel Rio de la Plata (1858-2008). Modelli di emigrazione, Atti del XLVIII Convegno di Studi sulla Riforma e sui movimenti religiosi in Italia (Torre Pellice 2008), a cura di G. Ballesio, «Bollettino della Società di studi valdesi», [d’ora in poi BSSV], 204, giugno 2009. Colgo l’occasione per ringraziare la dott.ssa Gabriella Ballesio, direttrice dell’Archivio della Tavola valdese di Torre Pellice, che con competenza e tempestività mi ha segnalato alcune fonti di cui mi sono avvalso per questa ricerca. Sul tema dell’emigrazione valdese in America latina cfr. R. Ponti, Le colonie valdesi in Uruguay e Argentina (1856-1914), «Studi emigrazione», 40, 2003, 150, pp. 277-302; C. Vangelista, M. Reginato, L’emigrazione valdese, in Migrazioni, St.It.Annali, 24, a cura di P. Corti, M. Sanfilippo, Torino 2009.

2 G. Watts, The Waldenses in the New World, Durham (North Carolina) 1941.

3 Cfr. Emigrazione e storia d’Italia, a cura di M. Sanfilippo, «Quaderni del giornale di storia contemporanea», Cosenza 2003, p. 22.

4 P. Corti, L’emigrazione piemontese. Un modello regionale? in Emigrazione e storia d’Italia, cit. p. 29.

5 T.G. Pons, Cento anni fa alle Valli il problema dell’emigrazione, «Società di studi valdesi», Opuscolo del XVII febbraio, Torre Pellice 1956, p. 4, cit. in G.V. Avondo, E. Peyronel, Cît Paris… in Val Chisone. L’emigrazione nel pinerolese tra ’800 e ’900, Cantalupa 2006,  p. 43.

6 J.P. Baridon, Abrégé de l’Histoire de la Colonie Vaudoise, a cura di S. Rivoira, BSSV, 204, giugno 2009, p. 167.

7 Ibidem, p. 218; il riferimento è al noto verso della Genesi «Crescete, moltiplicatevi e riempite la terra» (Gen. 9, 1).

8 Tra i favorevoli, il pastore della Chiesa di Rorà, Michel Morel, che nel 1860 fu inviato dalla Tavola a rendere il suo servizio proprio in quel contesto; all’opposto buona parte dell’establishment della Chiesa; cfr. E. Gosso, La figura di Daniele Armand Ugon e la sua importanza nel processo di consolidamento della colonia, in I Valdesi nel Rio de la Plata (1858-2008), cit., p. 47; cfr. E. Tron, I valdesi nella regione Rio Platense, BSSV, 89, 1948, pp. 46-47.

9 Ibidem, p. 172.

10 Synode de 1859, Claudiana, Torino 1859, p. 31.

11 G. Tourn, Valdesi in Sudamerica. Storia e memoria, BSSV, 204, cit., p. 16.

12 Ibidem.

13 D. Armand-Ugon, lettera datata 10 marzo 1882, inviata al presidente del Comitato di evangelizzazione Matteo Prochet, in Archivio Tavola Valdese [d’ora in poi ATV], serie 9, cart. 133, cit. in E. Gosso, La figura di Daniele Armand-Ugon e la sua importanza, cit., p. 48.

14 Cfr. G. Tourn, Valdesi in Sudamerica, cit., p. 18.

15 N. Tourn, Pubblicato dal Comitato “I Valdesi all’Estero” per l’Esposizione di Milano1906, Torino 1906, cit. in G. Tourn, Valdesi in Sudamerica, cit., p. 19.

16 Ibidem, p. 19. Cfr. J. Jalla, Histoire des Vaudois des Alpes et de leurs colonies, Pignerol 1922.

17 D. Stokoe, The Mormon Waldensians. A Thesis Presented to the Department of History, Brigham Young University, dicembre 1985, dattiloscritto, p. 57.

18 Ibidem, p. 58.

19 G. Watts, The Waldenses, cit., p. 43.

20 Ibidem, p. 67.

21 Ibidem, p. 70.

22 A. Comba, Valdesi e massoneria. Due minoranze a confronto, Torino 2000, p. 27; G. Gamberini, I protestanti nella massoneria italiana del primo Novecento, BSSV, 132, dicembre 1972.

23 S. Bompiani, A short history of the Italian Waldenses who have inhabited the valleys of the Cottian Alps from ancient times to the present, New York 1897.

24 Ibidem.

25 «Le Témoin» 15 dicembre 1892, p. 51.

26 «Le Témoin» 13 aprile 1893, p. 124.

27 Ibidem.

28 «Charlotte Observer», 8 giugno 1893.

29 P. Naso, Come una città sulla collina. La tradizione puritana e il movimento per i diritti civili negli USA, Torino 2008.

30 G. Watts, The Waldenses, cit., p. 91.

31 «Le Témoin», 29 giugno 1893.

32 G. Watts, The Waldenses, cit., p. 97.

33 Ibidem, p. 99.

34 W. Form, Italian Protestants: Religion, Ethnicity, Assimilation, «Journal for the scientific study of religion», 39, 3, 2000, p. 310.

35 «The methodist yearbook», 85, 1918, p. 122; la pubblicazione, nata e proseguita sino al 1911 con la testata «Rivista evangelica Nord America», proseguì sino al 1933; The Italian American Experience. An Encyclopedia, ed. by S.J. LaGumina, New York 2000, p. 511.

36 Ch. D. Ferroni, The Italians in Cleveland, New York 1980, p. 104.

37 P. Ferrero, Immigrazione. Fa più rumore l’albero che cade che la foresta che cresce, Torino 2007, p. 18.

38 Ibidem, p. 179.

39 D. Dunlap, In Synagogue Design, Many Paths, «New York Times», 8 dicembre 2002.

40 Salvo qualche nota bibliografica il seguente paragrafo è ripreso da un intervento, non pubblicato, di J. Collins in occasione del centenario dell’American Waldensian Society, The Italian Methodist Church in New York City, New York 2006. Il testo integrale presso l’Archivio della Tavola Valdese in Torre Pellice (Torino) [d’ora in Avanti ATV] ATV, John Collins.

41 G. Iurato, Pietro Taglialatela. Dalla filosofia del Gioberti all’evangelismo antipapale, Torino 1972.

42 L. Covello, The Heart is the Teacher, New York 1958; cfr. Anche M.C. Johanek, J.L. Puckett, Leonard Covello and the making of Benjamin Franklin High School: education as if citizenship mattered, Philadelphia 2007.

43 Originario della provincia di Forlì, combattè con Garibaldi a Mentana. Emigrato negli USA per ragioni di lavoro, al ritorno da un suo viaggio in Italia dove aveva conosciuto un americano di fede evangelica, si mise a studiare la Bibbia. Seguì una conversione che lo portò ad essere una delle maggiori personalità del primo pentecostalismo italiano; cfr. E. Stretti, Il movimento pentecostale. Le Assemblee di Dio in Italia, Torino 1998; F. Toppi, E mi sarete testimoni. Il movimento pentecostale e le assemblee di Dio in Italia, Roma 1999.

44 G. Watts, The Waldenses, cit., p. 175.

45 F. Toppi, Luigi Francescon, Roma 1997.

46 Originario delle Valli valdesi, prima di assumere l’incarico negli USA, ebbe la cura delle chiese di Rio Marina (Isola d’Elba), Palermo, Vittoria (Ragusa) e Grotte (Agrigento) dove fondò una loggia massonica; A. Comba, Valdesi e massoneria, cit., p. 46. L’appartenenza alle logge di un uomo chiave delle relazioni tra la Chiesa valdese e gli USA potrebbe confermare l’ipotesi, certamente da approfondire, di un ruolo importante della massoneria nel sostegno all’emigrazione valdese negli USA.

47 V. Vinay, Storia dei Valdesi. Dal movimento evangelico al movimento ecumenico, Torino 1980, p. 270.

48 W. Form, Italian Protestants: Religion, Ethnicity, and Assimilation, «Journal for the scientific study of religion», 39, 3, 17, 2002, p. 312.

49 Il fondamento di questa relazione sta nella particolare situazione italiana tra Otto e Novecento quando la massoneria e la Chiesa valdese apparivano i più rilevanti «organized bodies that papacy has to face in Italy», come scrisse sull’«Independent» il pastore valdese Teofilo Gay nel 1890, cfr. A. Comba, Valdesi e massoneria, cit., p. 71.

50 W.R. Ward, Faith in action. A history of Methodism in the Empire State, 1784-1984, Rutland (VT) 1986, p. 51.

51 W. Form, Italian Protestants, cit., p. 315.

52 Ibidem, p. 318.

53 Cfr. S.L. Baily, Immigrants in the Land of Promise. Italians in Buenos Aires and New York City, 1870 to 1914, Ithaca (NY) 1999, p. 10.

54 A. Deodato, A Letter from Italy, 1952, ATV, cartella Collette. Informazioni estero.

55 G. Girardet, Rapporto alla Tavola relativo alla visita nella Svizzera tedesca dal 1 al 14 marzo 1957, ATV, Raccolta relazioni di delegati all’estero, Svizzera tedesca, 1954-1959.

56 A. Comba, Rapporto alla Tavola relativo alla visita in Germania dal 1 al 31 maggio 1960, ATV, Raccolta relazioni di delegati all’estero, Germania, 1954-1961.

57 G. Peyrot, Emigrazione ed organizzazione della diaspora valdese fuori d’Italia, 24 aprile 1957, ATV, Note, articoli, appunti e pareri, vol. 1, doc. 34.

58 Atti del Sinodo della Chiesa valdese [d’ora in avanti ASCV], 1961, p. 24.

59 RSCV, 1963, p. 60.

60 ASCV, 1963, p. 26.

61 RSCV, 1964.

62 Con i nostri emigranti nella Svizzera orientale. Limiti e responsabilità di un’opera che si va potenziando, «La luce», 10, 9 marzo 1962. Dall’articolo si evince che la comunità che raccoglieva emigrati italiani provenienti, tra l’altro, da Viterbo, Trieste, Domodossola, San Salvo (Chieti), Brescia, Trento, Pesaro.

63 «La Luce», n. 10, 9 marzo 1962.

64 II Congresso delle Chiese evangeliche italiane, Sul problema delle migrazioni, Atti e documenti, Roma 1965, p. 145. La qualità di quella elaborazione è confermata da un altro documento del Congresso evangelico: Le migrazioni all’interno del nostro paese e le migrazioni all’estero viste dai centri di partenza, ibidem, p. 131.

65 RSCV, 1966, p. 22.

66 ATV, Cartella «Basilea».

67 ASCV, 1970, n. 23, p. 37. In adempimento al mandato sinodale, la Tavola valdese scrisse al Ministero degli Esteri ricevendo puntuale riscontro ma intanto, come riferì al sinodo del 1971, le trattative sul tema tra il governo italiano e quello svizzero erano fallite, RSCV 1971, p. 20.

68 RSCV, 1970, p. 21.

69 V. Vinay, Storia dei valdesi, cit., p. 274-275, 411-412.

70 Ibidem, p. 408.

71 T. Vinay, G. Vinay, Giorni a Riesi, Torino 1966.

72 Convegno con gli immigrati evangelici: Essere chiesa insieme, «NEV», 28 settembre 1990.

73 Fcei, Raccolta dati su Essere chiesa insieme, giugno 2004.

74 Cfr. A. Köhn, Essere chiesa insieme a Udine. Un’esperienza di interculturalità protestante, in R. De Vita, F. Berti, L. Nasi, Democrazia, laicità e società multi religiosa, Milano 2005, p. 165.

75 P. Naso, Tra Babele e Pentecoste, «NEV Dossier» 7, supplemento al numero 23 dell’8 giugno 1994.

76 Per la tipologia delle attività cfr. Migranti nelle nostre Chiese, «SRM materiali», dicembre 1995.

77 D. Tomasetto, Essere chiesa insieme, «SRM Materiali», 20-22 febbraio 1998.

78 P. Naso, Le chiese africane in Italia. Mappe geografiche e teologiche, Religioni e dis/integrazione sociale, a cura di P. Lucà Trombetta, «Religioni e sette nel mondo», 1, 2009.

79 P. Naso, Il caso delle chiese evangeliche africane, in P. Naso, B. Salvarani, Il muro di vetro, Bologna 2009.

80 P. Lucà Trombetta, Le religioni degli immigrati nella società pluralista, in A. Nesti, Multiculturalismo e pluralismo religioso tra illusione realtà. Un altro mondo è possibile?, Firenze 2006, p. 161.

CATEGORIE