Il patriziato

Storia di Venezia (1996)

Il patriziato

Giuseppe Cullino

Senza più mito

A quanto mi risulta, l'ultimo convincente sostenitore della bontà del patriziato veneziano quattrocentesco è stato Fernando Fagiani, autore di una fulminea (ed irripetibile, data la sua pressoché immediata scomparsa) incursione nella storiografia veneta, volta a spiegare uno dei cardini della storia della Repubblica, ossia la tradizionale compattezza della società lagunare, ch'egli individuava, per dirla in due parole, nella opzione marittima conseguente alla creazione dell'emporio realtino, dopo l'esaltante impresa della IV Crociata (1). A dire il vero, Fagiani centrava la sua indagine soprattutto nel XIII secolo (in dichiarata polemica con Cracco, secondo il quale la storia della società veneziana del tardo Medioevo si riduce ad una ragnatela di soprusi, prevaricazioni, complotti dei ricchi e potenti e finalmente vittoriosi aristocratici contro i loro men fortunati concittadini); questo poco noto autore, insomma il Fagiani, esaminò soprattutto il Duecento, ma le conclusioni alle quali giunse possono essere tenute per buone almeno sino a tutto il Quattrocento: e furono - ripeto - considerazioni quantomai positive sull'efficienza e la solidarietà di una società che premiava anzitutto la meritocrazia.

Non erano, non sono di quest'avviso altri recenti e prestigiosi autori, a cominciare dagli americani Finlay, Chojnacki e Queller, per i quali l'unica solidarietà rintracciabile all'interno del patriziato veneziano quattrocentesco è quella offerta dalla connivente turpe pratica del broglio (2).

Tutti costoro sono partiti dalla constatazione che il mito di Venezia, quello che fu elaborato da scrittori come Gasparo Contarini, Donato Giannotti, Pietro Bembo o Paolo Paruta, e poi recepito e amorevolmente esaminato e acutamente analizzato da generazioni di storici fino alla Fasoli ed a Gaeta, questo mito, insomma, essi denunciarono non essere mica poi tanto rispondente alla realtà, giacché il comportamento dei patrizi - documenti alla mano - non risultava sempre e dovunque improntato, come suol dirsi, a specchiata virtù e le pecore nere non mancavano: anzi sembra proprio che i negri ovini superassero gl'immacolati.

A dimostrar ciò, per toglierci il velo dagli occhi Queller scrisse un libro (peraltro dedicato, con tocco squisito, "Alla comunità dei venezianisti"); in che consista l'impresa valga a spiegarlo l'elenco dei sottotitoli degli ultimi due capitoli: Peculato; Frode; Conflitto di interessi; Profitti illeciti; Tangenti; "Bustarelle"; Estorsione; Abuso dell'autorità giudiziaria; Falsificazione di documenti; Contraffazione; Violenza; Violazione della segretezza; Disobbedienza; Violenza verbale e fisica; Disordine nei consigli; Scorrettezze di vario genere (3).

Insomma, il patriziato lagunare che affollava il maggior consiglio, accresciuto notevolmente nel corso del XV secolo (4), immiserito (5), improvvidamente aperto al giovanile concorso, ossia a forze tanto inesperte quanto agevolmente manovrabili (6), giungeva alle soglie del Rinascimento moralmente tarato e corroso dai vizi, sicché l'assemblea era dominata dalla pratica del broglio e a nulla era valsa la proibizione, stabilita nel 1442, di sollecitare i voti esortando a por ballotta, in favore dell'uno o dell'altro candidato, con l'espressione "dayla, dayla". Incapace di contenere lo sdegno per quanto da lui stesso scoperto, Queller concludeva il terzo capitolo del suo volume con immagine fortemente suggestiva: "Guardando ben da vicino, si vede che il libro aperto tra le zampe del leone alato è in realtà un palinsesto: al di sotto del motto ufficiale ῾Pax tibi Marce, Evangelista meus', si può decifrare il vero e duraturo slogan della Repubblica di Venezia: ῾Dayla, dayla'" (7).

A questo punto mi pare non ci sia più molto da dire, o da scoprire. Oddio, vero è che il mito, appunto in quanto tale, non è il Vangelo, ossia non s'ha da prendere alla lettera l'autocelebrazione, la buona immagine di sé tramandataci dal governo stesso della Repubblica; né occorreva varcare l'Atlantico per spiegare a noi Italiani che non sempre la voce della classe politica (e dei suoi collaboratori: ieri i letterati e gli artisti, oggi i mass media) esprime la verità: al tempo del fascismo magari si andava in piazza ad applaudire il duce, ma quanto a credere a tutto quello che diceva, hai voglia.

Tuttavia, se personalmente ritengo che certo furore demolitorio andrebbe un pochino sfumato, credo anche che i sopraccennati autori non abbiano detto nulla di inesatto: davvero i patrizi veneziani conoscevano bene la disonestà e la corruzione e non erano migliori delle altre oligarchie urbane, delle classi nobiliari italiane ed europee; del resto, perchè mai avrebbero dovuto essere diversi?

Però...

Però non si può negare che il XV secolo fu per Venezia un'epoca di splendore e potenza: all'incirca tra il 1405 ed il 1428 essa conquista la Terraferma dall'Adda all'Isonzo, e la Dalmazia; la sua egemonia nel Levante perdura anche dopo la caduta di Costantinopoli (8), e la perdita di Negroponte (1479) è ben presto rimpiazzata dall'acquisto di Cipro (1489); nonostante il dissanguamento delle guerre antiviscontee, perennemente rinnovantesi nella pianura lombarda (1426-1428, 1431-1433, 1436-1441, 1446-1449, 1452-1454), e del logorante conflitto contro gli Ottomani in Morea (1463-1479), con tutto ciò la Repubblica è riottosa ad accettare la pax italica imposta dalla Firenze medicea, che viola conquistando il Polesine (1482-1484); ma poi ecco la guerra per Rovereto (1487), e ancora in esaltante progressione la conquista dei porti pugliesi (1496) e di Cremona (1499), per finire con la trionfale cavalcata in Cadore ed in Istria di Bartolomeo d'Alviano (1508); dopo di che venne Agnadello e nulla fu più come prima.

Ma nel Quattrocento - ripeto - la prova di rigogliosa vitalità offerta da Venezia è impressionante.

Venezia. Senonché la sua storia coincide in buona parte con quella del suo patriziato, che pertanto - almeno per il periodo in esame - in qualcosa o in qualche sua parte dovette essere grande (a meno che non si voglia pensare che fu soltanto grandemente fortunato).

Gli esempi di virtù non solo politica, non solo collettiva, a cercarli non mancano e il Dizionario Biografico degli Italiani può fornircene parecchi, basta sfogliarlo. A parte gli atti di eroismo come quelli di Giorgio Corner, uno dei principali accusatori del Carmagnola e di lì a poco catturato dai Milanesi mentre operava, come provveditore in campo, nella Valtellina; rinchiuso e torturato per sette anni nei forni di Monza, non parlò (il Visconti voleva conoscere i nomi degli altri accusatori e quali fossero le prove emerse); riuscì infine a tornare nella sua città il 1 ° ottobre 1439, secondo la testimonianza del Sanudo: "mandato in una burchiella per il Po, con la barba fino alla cintura, con una veste trista, e amalato, dalla quale infirmità adì 4 decembre [...] el morite", ma al sepolcro fu accompagnato dal doge e dalla signoria al completo, tra due ali di folla; non meno eloquente la vicenda, narrataci dal Barbaro, del "meschin anemoxo" Giacomo Cocco, che il 28 aprile 1453 colò a picco con la sua nave nel Bosforo, in "quanto che sarìa a dir diexe paternostri", nel disperato tentativo di incendiare la flotta turca che assediava Costantinopoli; ma, a prescindere dicevo da individuali esibizioni di virtù, più in generale sono noti il coraggio e l'energia dimostrati dai Veneziani nel corso delle vicende seguite alla disfatta di Agnadello, quando non pochi patrizi si fecero soldati, a quanto pare senza troppo scapitare nel confronto con le tradizionali virtù guerriere delle quali era depositaria la nobiltà suddita e foresta: è ancora Sanudo ad informarci che attorno al 20 settembre 1510, mentre le truppe veneziane assediavano Verona tenuta dagli Imperiali, fu intercettato un messaggio inviato dal commissario pontificio - ossia da un avversario della Repubblica -, dal significato inequivocabile: "Lauda [riferisce il cronista] quelli zentilhomeni veneti, qualli de dì e di note tra le artellarie, solicitar zente d'arme, fantarie, stratioti, turchi, vituarie etc; dice: mai l'aria cre[du]to. Li provedadori mai non dormeno, fanno uno pasto tra il dì e la notte, hanno nature diaboliche, che mai si consumano" (9).

Certo, bisogna far la tara al patriottismo di parte ed alla propaganda politica, che nella temperie del momento non dovette mancare, pure è un fatto che, a leggere le biografie delle emergenze patrizie quattro-cinquecentesche, come pure a scorrere semplicemente i registri delle deliberazioni senatorie, c'è di che rimanere stupiti di fronte all'attivismo, all'efficienza, alla duttilità quotidianamente dimostrata da uomini che trovavano del tutto normale passare da una carica politica ad un compito di ordine amministrativo o giudiziario, dallo stato da Terra a quello da Mar: essi sapevano benissimo adeguarsi a ricoprire - che so? - l'incarico di rettore a Bergamo e subito dopo quello di avogadore o savio alle decime, per finire magari un anno o due più tardi consigliere a Cipro o duca di Candia. È vero, avevano alle spalle (soprattutto nel XV secolo) la pratica della mercatura, un impareggiabile bagaglio d'esperienza acquisito nei viaggi sulle galere di Fiandra o nei fondachi del Levante; c'era inoltre ad assisterli, a predisporre l'ordito su cui lavorare, ad assicurare la continuità gestionale, il personale amministrativo della burocrazia, sul cui apporto rinvio al contributo di Andrea Zannini in questo stesso volume: bisogna insomma tener conto di diverse componenti, epperò resta, a mio vedere, che dobbiamo riconoscere loro - come si è detto - una diffusa attitudine alla politica, la capacità insomma di passare, nel giro di poche ore, dalla discussione sui problemi delle valli del Bresciano ai rapporti tra il clero latino e quello ortodosso nelle isole dell'Egeo, alla consistenza da assegnare all'armata marittima ormai prossima a salpare.

Era insomma assai diffuso, se non il senso dello stato, perlomeno quello della politica e questo finiva per diventare un valore, una tradizione specifica alla quale bisognava rifarsi: solo così si spiega come potesse suonar credibile il ricorso alle "sancte leze", all'esempio dei "sapientissimi" progenitori che tanto spesso introduce le deliberazioni delle assemblee; o non è forse vero che, all'inizio del settimo decennio del XV secolo, Pio II, nel corso di una violenta invettiva antiveneziana, aveva stigmatizzato in questi termini la loro condotta: "Vogliono apparire cristiani di fronte al mondo mentre in realtà non pensano mai a Dio e, ad eccezione dello stato, che considerano una divinità, essi non hanno nulla di sacro, né di santo. Per un veneziano, è giusto ciò che è buono per lo stato, è pio ciò che accresce l'impero [...]. Misurano l'onore in base ai decreti del senato" (10).

Dunque virtù e vizio, onestà e corruzione, dedizione ed opportunismo convivevano in una classe sociale che, a detta del Sanudo, nel 1493 contava ben 2.600 maschi abili al maggior consiglio; allora (e diamo a Cesare quel che è di Cesare), concludiamo proprio con Queller: "Il mito, quando funziona, indirizza verso la norma il comportamento di coloro che lo accettano. Il mito del patriziato veneziano adempì alla sua funzione presso alcuni del gruppo dei ricchi, bennati e potenti, che costituiva l'autentica élite all'interno del patriziato. Un piccolo numero di nobili devoti, esperti e ricchi, reggeva un fardello pesantissimo di responsabilità politiche" (11).

Imperialismo e demografia

Ma gli opportunisti immorali, ch'erano la maggioranza, in che rapporto stanno con l'espansionismo veneziano quattrocentesco, fino a che punto rappresentarono una remora o non rivestirono invece una funzione dinamica? Non è detto che una società corrotta ripieghi necessariamente su se stessa, decada prontamente; sto pensando all'invettiva famosa di Giugurta contro Roma: "o urbem venalem et mature perituram, si emptorem invenerit!" (12); il furbo numida aveva ragione eppure si sbagliava, perché proprio quel popolo ormai privo di valori positivi si apprestava a produrre il massimo sforzo colonizzatore, sicché per due secoli avrebbe continuato a dilatare i confini dell'Impero sino alla Britannia, alla Dacia, alla Mesopotamia...

In altri termini, senza quella turba di patrizi immiseriti o comunque desiderosi di arricchirsi, di procurarsi un "posto al sole", quali probabilità di successo avrebbe avuto il programma imperialistico che portò al dogado Francesco Foscari, nonostante gli ammonimenti del predecessore Tommaso Mocenigo? L'espansione nella Terraferma, insomma, fino a che punto dipese dalla cupidigia di quanti videro nell'ampliamento dello stato nuove occasioni di sfruttamento, di arricchimento lecito o no che fosse, e dunque, in ultima analisi, dalla pratica del broglio?

Dopo la conclusione della guerra di Chioggia (1381) ed il conseguente ingresso nel maggior consiglio di trenta famiglie, per lo più cittadine o candiote, onde sopperire alla falcidie causata dallo stato di conflittualità esistente nell'Egeo e - ma soprattutto - dalla pestilenza del 1360-1361, guasti che avevano determinato la scomparsa di 44 casate fra il 1350 ed il '79 (13), possiamo ritenere il patriziato veneziano come una classe sostanzialmente chiusa (ulteriori cooptazioni di famiglie, pur continuando a verificarsi, risultarono fenomeni sporadici sino alla grande riapertura del Libro d'oro realizzata a partire dal 1646); una classe sociale formata, dunque, e dai caratteri e ruoli ormai definiti.

Vero è che, almeno sino al 1423 (data che segna la trasformazione del Comune in Dominium, sancendo il principio d'una progressiva aristocratizzazione dello stato), la chiusura del patriziato - come pure quella, un po' più lenta ma all'incirca parallela, dell'ordine cittadino - non è paragonabile, nelle sue forme, alla rigorosa delimitazione che sarà posta in atto un secolo dopo, tra il 1506 ed il '26; specie negli anni immediatamente successivi alla conquista delle nuove province non mancarono infatti margini di incertezza, individuabili nella disponibilità a largheggiare sulla concessione della cittadinanza de intus, nel dibattere circa l'opportunità di allargare alla nobiltà suddita le prerogative politiche: è il caso, ben noto, di Antonio Contarini, che il 7 settembre 1411 vide respingere dal maggior consiglio la sua proposta di coinvolgere la nobiltà dalmata nell'amministrazione della Terraferma (14).

Ben presto, però, il patriziato avocò a sé, senza eccezioni, il monopolio della politica interna ed estera, relegando le nobiltà locali alla gestione dell'amministrazione urbana e del contado; nella pratica riuscì a farlo anche perché, in quel torno di anni, esso fu interessato da una forte crescita demografica che gli consentì di far fronte alle nuove incombenze.

Il fenomeno era generale: sappiamo che dopo la grande pestilenza del 1348 la popolazione italiana conobbe una forte accelerazione, passando dagli 8 milioni del 1400 agli 8,8 del 1450, ai 10 del 1500, agli 11,6 del 1550; ovviamente, il fenomeno si registrò anche a Venezia e, secondo un recente studio, fu proprio il patriziato a segnare il maggior incremento: dopo una stasi protrattasi tra il 1385 ed il 1430, esso infatti venne interessato da una rapida crescita sin circa alla metà del secolo, poi il trend declinò progressivamente sino al 1530, pur mantenendosi positivo; dopo di che prese a manifestarsi un'inversione di tendenza che non sarebbe più mutata (15).

Questo in universali: vogliamo provare ora a precisare meglio questi dati e a dare un nome alle famiglie in questione?

Secondo la già citata puntualizzazione di Hocquet, attorno al 1300 il patriziato era costituito da 210 casate, passate a 181 alla metà del secolo e risalite a 217 dopo le cooptazioni del 1381: pertanto all'aprirsi del Quattrocento il loro numero doveva attestarsi poco sopra il paio di centinaia.

Per cercar di capire quel che accadde in seguito, ho provato a calcolare le registrazioni della Balla d'oro effettuate nel corso del primo trentennio da quando ci furono conservate, ossia tra il 1° marzo 1414 ed il 28 febbraio 1443 more veneto (16), per solito a presentare il candidato all'avogaria, giurando davanti ai testimoni che questi possedeva i requisiti previsti, vale a dire l'età minima richiesta e la legittimità della nascita, era il padre; nel caso in cui quest'ultimo fosse assente da Venezia, o defunto, la formalità veniva espletata dalla vedova o dai parenti. Qualche volta, se padri o figli non sono presenti all'atto, le registrazioni forniscono la spiegazione. Ho raccolto queste notizie nella tabella che segue. In essa si riportano le casate (che possono comprendere più famiglie; in presenza di grafie difformi da quelle invalse in età moderna, ho proceduto al rinvio), quindi il numero di figli registrati (Figli), eventualmente precisando quanti risultano in Levante (L), per lo più come mercanti o balestrieri nelle galere, e quanti invece nella Terraferma (Tf), quasi sempre per sfuggire alla peste o per studiare a Padova. Segue il numero dei padri (Padri), riportando - sempre allorché la fonte ci fornisca il dato - quante volte non si presentarono all'avogaria di persona, o perché morti (m) o perché assenti da Venezia (a) ; in quest'ultimo caso solo raramente i registri informano se il genitore si trovasse impiegato nella mercatura (L) o nei rettorati (Tf), sicché nella tabella al numero degli assenti (m + a) andranno sommate, per ottenere la cifra totale, pure eventuali ulteriori precisazioni della seconda eventualità (L, Ti) ; sottolineo che le annotazioni relative ai padri riguardano non il loro numero assoluto, ma quante volte essi si presentarono o no di persona dinanzi agli avogadori in occasione della notifica dei figli alla Balla d'oro: in altri termini, a titolo di esempio, i dati relativi alla sottoelencata famiglia Alberti vanno letti così: tra il 1414 ed il '43 vennero registrati 4 figli, tutti di un unico padre, il quale solo una volta comparve dinnanzi al magistrato, mentre le altre tre volte venne sostituito nel compito o dalla moglie o da parenti, essendo risultato in due occasioni assente da Venezia (non si sa per qual ragione) e nella terza, ed ultima, defunto (17).

Abbiamo dunque in tutto 142 famiglie con 1.750 maschi prossimi alla maggiore età (si rammenti che fino al 1441 gli interessati dovevano avere perlomeno vent'anni); di questi 1.750, risultano assenti da Venezia 271 (15,5%), e più precisamente 194 (11,1%) in quanto impegnati nella mercatura, e 77 (4,4%) perché a Padova o in villa, per solito onde evitare la peste (calamità che fu particolarmente avvertita nel corso del terzo decennio del secolo).

Queste 1.750 creature furono generate da ben 952 padri, il che potrebbe significare che siamo di fronte ad un quoziente di natalità non proprio altissimo: 1,8; pertanto neppure due figli maschi alla soglia della maggiore età (donde una presumibilmente elevata mortalità giovanile, a meno che non tutti i maschi siano stati registrati: non è raro infatti il caso, specie nei primi anni considerati, di un genitore che presenti in una sola circostanza più di un figlio, ed ancora il 27 novembre '41 Federico Contarini di Bernardo approfittò di un unico giorno per dare in nota Carlo, Ambrogio e Michele, che non erano gemelli).

A favore di una diffusa alta mortalità depone pure l'esame dei dati relativi ai genitori: in occasione della presentazione dei 1.750 figli, per 576 di essi (32,9%) il padre risulta defunto, di 126 (7,2%) è assente non si sa per qual motivo, mentre per altre 8 volte (0,4%) si precisa trovarsi in qualche località della Terraferma e soltanto in 6 casi (0,3%) è in Levante o in Fiandra.

Ancora qualche considerazione: quando il padre è assente o viene dichiarato defunto, il figlio si trova sempre a Venezia; per solito un solo iscritto è impegnato nella mercatura, il che fa pensare proprio ad un avvicendarsi tra genitori e figli, o fratelli, nelle scale mediterranee o sulle rotte del Nord. Prime fra tutte le famiglie più ricche, con maggiori interessi nel settore del commercio: il 10 ottobre 1444 (ossia qualche mese dopo il termine del periodo in esame), il procuratore Alvise Venier di Leonardo notifica il figlio Marino alla Balla d'oro, precisando "qui est in Syria".

Di tutto rilievo, poi, i dati che si riferiscono ai numerosissimi Contarini, mentre altre casate allora all'apice della fortuna - perlomeno politica - come i Foscari, mostrano una consistenza decisamente esigua.

Ma non è questa la sede per un simile discorso, e invece vorrei piuttosto ritornare al numero di famiglie sopra elencate, che è piuttosto basso (solo 142), laddove si rammenti che nel 1381 la loro consistenza era stata fissata a 217; dico subito che nella prima metà del XV secolo le famiglie patrizie dovevano superare certamente la cifra di 142: queste ultime infatti sono solo quelle che tra 1414 e 1443 denunciarono

Tabella 1
Tabella 1 (segue)
Tabella 1 (segue)

figli maschi giunti alla soglia della maggiore età, mentre i registri della Balla d'oro prevedono, intestando loro una carta, numerose altre casate (ben 96) che peraltro non ho considerato, o perché non notificarono alcun figlio, o perché lo fecero fuori dai termini qui fissati. Esaminiamo allora quest'altro elenco, che riporta le famiglie iscritte alla Balla d'oro, ma senza figli registrati nel trentennio 1414-1443. In questa lista, di nomi, si riportano tra parentesi le date (ante 1414 e post 1443) nelle quali si verificarono registrazioni (i citati regg. 162 e 163 dell'avogaria di comun comprendono infatti il periodo 1414-1463, con dati saltuari a partire dal 1411), oppure denominazioni alternative delle famiglie. In corsivo sono le casate della cui esistenza non ho trovato conferma sicura (18). I nomi che risultano sono dunque: Acotanto, Adoldo, Agadi, Aicardo, Albizo, Amizo, Aponal (1413), Avenario, Aventuradi, Babilonio, Balastro (1454), Barisan, Benzon, Biacqua, Bobizo, Bocasso (1446), Boninsegna, Bonomo, Breoso, Brizi, Buora, Busenago (1413), Calergi, Campanile, Caresini, Cavalier, Cavalli, Carosso, Collalto (1456), Costantini, Cremonese, dalla Scala, da Mar, da Polenta, d'Arduin, Dente, Diesolo (Equilo, Esulo), Donusdeo, Fondulo, Fradello, Franco, Gomberto, Grassoni, Grego (1413), Grisoni, Istrego, Lanzuol, Lorenzo, Lucari, Malatesta (1413), Malaza, Marango, Marioni, Marmora, Martinazo, Martinengo (1451), Masolo, Matono (1451), Mazaman, Mengolo, Miegano, Miolo, Negro, Nicola, Pantaleo, Papacizza, Pencin, Polini, Porto, Quintavalle, Rampani (Ramponi), Romano, Rosso, Ruzier (1456), Savoner (Savonario), Semitecolo, Sesendolo, Spatafora (1412), Spinal, Staniel (Stenier), Steno, Stornado, Talonigo (Tolonigo), Tardinello, Tomado, Vendelin, Verardo, Vidal, Vidore, Vielmo, Vignati, Vioni, Vizzamano, Volpe, Ziani, Zorzani.

Con tale apporto (anche se risultasse valido solo in parte) ci si avvicina facilmente alle 217 famiglie calcolate alla data del 1381. Tuttavia il fatto di imbattersi, nell'arco di un trentennio, in ben 96 casate che non ritennero opportuno o non poterono presentare i loro figli alla Balla d'oro, contro altre 142 che lo fecero, questi dati insomma mi pare possano sollevare delle perplessità. Infatti o la cifra di 217 pecca per troppo di vigore, è esagerata, oppure dobbiamo supporre: 1) che buona parte dei patrizi non fosse troppo interessata alla politica (sappiamo che per solito vi si dedicavano abbastanza tardi, non prima dei 35-40 anni, dopo aver impiegato la giovinezza a guadagnarsi il pane e tutto il resto con la mercatura); 2) che per molte famiglie l'estinzione fosse imminente, per essere verosimilmente limitate ad un unico nucleo privo di figli maschi, o per aver posto altrove (ad esempio nel Levante) la loro residenza; 3) la compresenza, ovviamente, dei punti 1) e 2).

Per quel che può valere, la mia opinione (la quale peraltro andrebbe confortata con l'esame di altre fonti) è che siamo di fronte ad un insieme di concause, dove tuttavia risulta prevalente quella indicata nella prima alternativa: penso insomma che andrebbe verificata l'effettiva esistenza di 217 casate dopo le cooptazioni seguite alla guerra di Chioggia, a meno che non si voglia pensare che negli anni immediatamente successivi sia avvenuta una improvvisa drastica contrazione del loro numero. Se poi fosse vero quest'ultimo punto, troverebbero spiegazione le preoccupazioni affioranti all'interno stesso del governo, in quel torno di tempo, sulla presenza di una crisi demografica: sto pensando alla proposta (peraltro non recepita) avanzata nell'ottobre 1403 dai capi della quarantia, tesa ad immettere automaticamente nel patriziato una famiglia cittadina ogni qualvolta si fosse estinta una nobile; ancora, all'esortazione al matrimonio propugnata dall'umanista Francesco Barbaro nel De re uxoria (1416), quindi ai guasti causati dalla pestilenza che infierì particolarmente negli anni Venti ed infine all'abbassamento a 18 anni per l'estrazione della Balla d'oro, attuato nel 1441 (19); escluderei invece l'ipotesi della perdita del rango nobiliare in seguito a mésalliances, a matrimoni misti, poiché la legge del 26 maggio 1422 escludeva dal maggior consiglio solo i nati da donna servile, non da borghesi o cittadine, la qual cosa sarebbe avvenuta solo nel 1526.

Sennonché di questa presunta rapida diminuzione del numero delle casate patrizie, avvenuta tra il 1382 ed il 1413, non vi sono testimonianze, né spiegazioni credibili alle quali sia possibile ricorrere, tanto più che il fenomeno dell'estinzione fu sì fisiologico, ma ebbe tempi assai blandi, specie nei primi secoli dell'età moderna: prendendo per campione le 142 famiglie sicuramente vitali - ossia accertate come presenti nella politica veneziana durante l'arco di tempo 1414-1443 -, ebbene le genealogie del Barbaro-Tasca ne documentano come ancora sussistenti, negli ultimi tempi della Repubblica (circa 1770), ben 109; il che significa che mediamente ne scomparve una ogni dieci anni.

Poiché non vogliamo pensare che nel periodo 1382-1413 ci sia stata una morìa così gagliarda da farne fuori tre ogni dodici mesi (esattamente il doppio di quanto si sarebbe verificato nell'arco di tempo compreso tra il 1350 ed il '79, allorché - come si è visto - scomparvero 44 casate, con una media annua di 1,5), il sugo allora di tanto discorrere è che parte di quelle 96 famiglie presenti nei registri dell'avogaria fossero già estinte o emigrate fuori città, o sul punto di esserlo, e che solo l'ignoranza e/o lo scrupolo burocratico dei compilatori le abbia fatte vivere: la riprova è fornita dal fatto che ben poche di esse compaiono nella successiva storia veneziana (20).

Famiglie e dinamica matrimoniale

All'aprirsi del Quattrocento, dunque, le casate patrizie non dovevano essere troppo numerose, anche se talune di esse - ad esempio i Contarini, i Corner, i Morosini, i Querini, i Venier - comprendevano diversi rami. Poi, come si è avuto modo di osservare, si verificò un'autentica esplosione demografica che si protrasse per tutto il secolo.

Sulla scorta delle genealogie del Barbaro ho provato a ricostruire il numero dei matrimoni con figli maschi viventi, verificati in essere in un certo anno, a scadenza di mezzo secolo: dico subito che ciò che segue consiste in un sondaggio largamente approssimativo, il quale andrebbe integrato con i dati che possono offrire altre fonti dell'archivio dell'avogaria di comun, ai Frari (in primis, la Cronaca matrimoni e - quantomeno per alcuni anni - il Libro d'oro nascite); il Barbaro inoltre prende in esame solo le casate ancora sussistenti nella seconda metà del XVIII secolo, compresi i rami già residenti a Candia e giunti nella Dominante dopo la caduta dell'isola in mano ai Turchi (1669). Pertanto - ripeto - questo elenco ha unicamente il valore di un sondaggio in grado di offrire una semplice indicazione del fenomeno, una prima immagine del trend dell'articolazione matrimoniale interna alla nobiltà lagunare, dalla quale rimangono anzitutto escluse le unioni infeconde oppure che generarono solo femmine o maschi non pervenuti alla maggiore età; con tutto ciò, la tabella qui proposta può suggerire la potenziale proliferazione (o contrazione) relativa dei vari rami, perché se dobbiamo presumere che il perdurante istituto della fraterna comportasse la coabitazione di più generazioni o unità familiari sotto lo stesso tetto, mi sembra altrettanto probabile che, in presenza di più nuclei con figli maschi, taluno d'essi si sia, quantomeno pro tempore, trasferito in una casa appartenente al patrimonio domestico, oppure in una dimora d'affitto. Nella tabella, per quanto concerne le cooptazioni al patriziato, le famiglie comprese nella "serrata" del 1297 vengono datate con tale anno; relativamente alle ammissioni verificatesi nei secoli XV e XVI, il nome di battesimo si riferisce al primo beneficiario. In corsivo sono le famiglie signorili di fatto non partecipi - se non eccezionalmente - della vita politica veneziana.

Con nuclei si intendono i membri di un casato che alla data risultano sposati con figli maschi, oppure figli senza prole (computati come una sola unità, indipendentemente dal loro numero) di genitore precedentemente staccatosi dal principale colonnello della famiglia (21).

Come sappiamo, il Barbaro non è compiutamente attendibile, giacché ignora quantomeno le seguenti 33 famiglie, che pur abbiamo trovato come vitali nei registri della Balla d'oro relativi al periodo 1414-1443, e delle quali si riporta - quando possibile - la presunta data di estinzione: Abramo (1520), Alberti (1590), Anselmi (1519), Arimondo (1684), Avanzago (1600), Barbo (1760), Benedetti (1624), Boccole (1483), Bonzi (1508), Briani (1679), Caravello (1567), Coppo (1708), dal Verme (1500), d'Armer (1553), d'Arpino (1503), Ferro (1681), Fontana (1505), Girardi (1685), Gonzaga, Guoro (1660), Lolin (1626), Onoradi (1520), Orso (1466), Paradiso, Polo (1425), Signolo (1570), Storlado (1468), Surian (1630), Tagliapietra (1670), Viaro (1655), Zaccaria (1524), Zancani (1502), Zantani. Assai limitata (benché non assente come fenomeno) la ricomparsa di qualcuna delle 96 famiglie nominalmente presenti negli elenchi della Balla d'oro, ma è d'obbligo - per chi abbia in animo di occuparsene con uno studio specifico - la verifica di possibili omonimie o la presenza di altro ramo della casata in questione.

Ma torniamo, per qualche breve considerazione, alla tabella sotto riportata circa le casate esistenti tra 1400 e 1550 e destinate a perdurare: pertanto in base - al Barbaro - alla data del 1400 sono 112, con 758 nuclei famigliari; nel 1450 salgono a 114 (+ 1,8%), con 1.255 nuclei (+ 65,6%), nel 1500 abbiamo 118 famiglie (+ 5,4%, con riferimento alla data iniziale del 1400) e ben 1.523 nuclei, il che comporta un incremento del 101% sempre rispetto alla cifra di un secolo prima; nel 1550, infine, troviamo 119 casate (+ 6,2%) e 1.416 nuclei (+ 86,8%).

Direi che da questo pur sommario esame escono confermate le conoscenze già acquisite, quali risultano compendiate nel più volte ricordato saggio della Todesco: il patriziato veneziano conosce un fortissimo aumento della sua consistenza nella prima metà del Quattrocento, verosimilmente nel quarto e quinto decennio; il fenomeno continua, pur con minore intensità, per tutto il secolo; il Cinquecento registra infine un'inversione del trend.

Qualche breve ulteriore annotazione: alla data del 1450, rispetto ad un cinquantennio avanti, risultano in controtendenza le famiglie Ghisi, Magno, Nani, Orio, Premarin; nel 1500, in rapporto al 1450, si amplia l'arco delle casate: risultano infatti anomale quelle dei Baffo, Belegno, Boldù, Correr, da Ponte, Donà, Erizzo,

Tabella 2
Tabella 2 (segue)
Tabella 2 (segue)

Foscarini, Gabriel, Lando, Miani, Morosini, Muazzo, Ruzzini, Sagredo, Venier, Zen, Zulian, Zusto; nel 1550, infine, riguardo alla precedente rilevazione assumono un comportamento difforme rispetto alla tendenza generale le famiglie Avogadro (di origine bresciana, un ramo dei quali iscritto al Libro d'oro, altri invece rimasti a far parte della nobiltà locale), Balbi, Battagia (pure di origine lombarda, di Codignola), Belegno, Benzon (cremaschi), Bernardo, Boldù, Bragadin, Cicogna, Cocco, Collalto (nobili trevigiani, stessa posizione degli Avogadro), Corner, Correr, da Ponte, Donà, Emo, Falier, Ghisi, Giustinian, Gradenigo, Grimani, Gritti, Lando, Lippomano, Longo, Malipiero, Martinengo (stessa posizione degli Avogadro), Miani, Minio, Mocenigo, Moro, Muazzo, Pasqualigo, Priuli, Querini, Ruzzini, Salamon, Savorgnan (nobili friulani, uguale posizione degli Avogadro), Tiepolo, Vendramin, Zen.

Concludo frivolmente, proponendo delle curiosità: esigue e pur tuttavia destinate a durare sino al termine della Repubblica le famiglie Baseggio (costantemente 2 nuclei, per tutto il periodo in esame), Caotorta e Celsi (1 solo), Gussoni, Zulian e Zusto (oscillano tra 1 e 2); di contro, ecco i 107 nuclei famigliari dei Contarini, che rilevati in essere alla data del 1500, avrebbero potuto rendere questa casata da sola un piccolo patriziato, beninteso se volessimo ancora dar credito alla fola (che non ha mai giustificato il suo dire, se non con pittoresche ciance risalenti all'araldica seicentesca), per cui le famiglie veneziane si sentivano legate dallo stesso cognome.

Una società vitale

A questo punto, da quanto rilevato scaturiscono soprattutto interrogativi, a cominciare dall'instabilità del patriziato lagunare verificatasi fra gli ultimi decenni del XIV secolo e gli inizi del successivo, allorché sembra siano venute a mancare quasi un centinaio di casate. In attesa di ulteriori ricerche che possano spiegare - ma anzitutto confermare - il fenomeno (gli studiosi che se ne sono occupati definiscono il periodo come privo di variazioni, sostanzialmente statico), non resta che prendere atto dei dati, ipotizzando trattarsi di famiglie "piccole", ovvero mononucleari, esposte ad un'elevata mortalità in parte dovuta ai rischi della mercatura, all'alea di prolungate (o forse, in taluni casi, durature) permanenze in Levante.

Poi, l'esplosione demografica, che grossomodo coincide con l'avventura imperialistica nella Padania, con l'elezione del doge Foscari. Abbiamo allora un patriziato sempre più numeroso, a causa della progressiva parcellizzazione di famiglie che diventano "larghe", ma nel contempo autonome (come da regola, pur all'interno del minimo comun denominatore rappresentato dall'etichetta del cognome) e diverse per cultura, ricchezza, ambizioni politiche.

Insomma, ci si sposa di più e si generano figli, il che - tra l'altro fa - presumere che gli uomini si allontanino meno dalla città; contemporaneamente assistiamo a due fenomeni paralleli e probabilmente interconnessi: 1) il Comune si trasforma in Dominio (1423), ottiene dall'imperatore il vicariato in gran parte della Terraferma (1435-1437) ed il patriziato assume il monopolio della politica statale, escludendo la nobiltà suddita da ogni ipotesi di compartecipazione al livello più alto; 2) si diffonde la corruzione, in relazione all'aumentata possibilità di facili guadagni conseguente all'espandersi dell'amministrazione statale.

Vorrei soffermarmi su quest'ultimo punto, cui ho già accennato sopra in forma dubitativa: da che mondo è mondo, quasi sempre le società più ricche sono anche le meno prolifiche, e viceversa; i figli, insomma, li fanno i poveri.

I patrizi meno abbienti furono dunque, verosimilmente, i protagonisti dello sviluppo demografico quattrocentesco; ma per spiegare l'inusitata intensità con cui ebbe a manifestarsi il fenomeno, occorre tener presente che agli occhi di costoro allora parevano schiudersi impensate prospettive di promozione economica: nel Quattrocento Venezia è ricchissima, ma alle tradizionali risorse del commercio marittimo si affiancano ora quelle derivanti dalla conquista di nuovi territori, in Italia e nel Levante.

Con l'aprirsi del secolo, nel 1402, si verificano infatti due avvenimenti di incalcolabile importanza, autentici colpi di fortuna per il Comune Veneciarum: la disfatta degli Ottomani ad Ankara e l'improvvisa scomparsa di Giangaleazzo Visconti, signore di gran parte dell'Italia del nord; immediata conseguenza del disastro turco fu l'irrisoria facilità con cui Venezia procedette all'annessione di una quantità di isole città piazzeforti nell'Egeo, che ne avrebbero assicurato a lungo il predominio marittimo e commerciale (22); quanto poi al vuoto politico creatosi con la morte del duca di Milano, sappiamo che, per quanto riguarda il Veneto, fu ben presto colmato.

Verrà un giorno, forse, in cui qualcuno ascriverà a specchiato suo merito l'effettuato calcolo, la monetizzazione di quanto rese ai nostri felici progenitori l'aver messo le mani su tanti bei possedimenti, ma sarà certo assai più difficile render conto dei risvolti psicologici, quantificare le attese, le speranze che accompagnarono e sottesero il fenomeno.

Sull'aumento dei posti venutisi a creare nell'apparato dell'amministrazione statale, rinvio ancora una volta allo studio di Zannini, in questo stesso volume: si tratta di alcune centinaia di impieghi riservati al patriziato, in concreto della possibilità di conferire cespiti sicuri e promozione sociale ad altrettante famiglie (23); ma non basta: accanto ai ruoli pubblici, chiaramente documentabili, quante altre forme di guadagno, più o meno conosciute o defilate o addirittura poco lecite vennero a crearsi?

Del Torre ne ha analizzata una, compiutamente morale e neppur delle minori - sfuggita, non si sa come, ai fulmini statunitensi -: quella dei benefici ecclesiastici (maggiori, dei piccoli non si sa ancora nulla). Tra il 1405 ed il 1550 egli ha calcolato che 84 su 113 vescovi della Terraferma furono veneziani (75 nobili e 9 borghesi), contro 1 o prelati di origine locale, sicché "quasi il 90% di quanto le mense vescovili dello stato da terra fruttarono ai loro titolari [...] entrò nelle borse di patrizi e cittadini della dominante, mentre neppure il 4% fu appannaggio dei sudditi", al punto che ancora nel 1509 il Priuli poteva scrivere che "quando uno nobille havea molti fiolli, ne faceva uno prete et tutti vivevanno soto l'ombra sua" (24).

È probabile dunque che la febbre espansionistica che attraversa il Quattrocento veneziano abbia trovato nel patriziato povero una delle principali spinte propulsive, invano o troppo debolmente contrastata dagli esponenti delle famiglie ricche, che monopolizzavano i traffici delle mude e trovavano nell'emporio realtino la base delle proprie fortune (si pensi agli ammonimenti della famosa lettera-testamento del doge Mocenigo su su fino alle rampogne del diarista Priuli): la Repubblica - come si è già avuto modo di ricordare - affronta così il logorante interminabile duello con i Visconti nelle pianure lombarde, e poi combatte nella Toscana, nel Polesine, nella Puglia; ma non è minore il suo impegno nel Levante, dove affronta il Turco nella Morea, in un lungo conflitto di carattere dichiaratamente offensivo (il che costituisce quasi un unicum nella condotta osservata dalla Repubblica nei confronti degli Ottomani); una guerra destinata a concludersi con una pace umiliante, con lo smacco della perdita di Negroponte, il grande possedimento alla soglia degli Stretti, peraltro di lì a poco compensato con il riuscito colpo di mano su Cipro.

L'aggressività nell'Egeo si accompagna con il perdurante slancio espansionistico nella Penisola. Una volontà coralmente vissuta dai Veneziani, nonostante il suo alto prezzo e le non poche delusioni incontrate.

Gaetano Cozzi ha felicemente evidenziato questo stato d'animo, questa psicosi collettiva sottolineando l'euforia che pervase la città in occasione dell'offensiva intrapresa contro Ferrara, nel 1482: "La guerra [egli scrive] era stata approvata a larghissima maggioranza. Quello che colpisce è l'entusiasmo con cui la si iniziava". Ecco, entusiasmo, pur dopo tanti conflitti e tanti lutti.

Ma se tutta la società lagunare è pervasa dalla febbre di conquista, è indubbio che erano soprattutto certi settori a promuovere ambizioni imperialistiche; ascoltiamo ancora Cozzi: "Dopo Agnadello, il diarista Gerolamo Priuli imputerà ai nobili della Quarantia di esser tra i maggiori responsabili della disfatta, in quanto avevano appoggiato con i loro voti i senatori che più si battevano per la politica di espansione in Romagna. Egli scriveva che ῾il iuditio de li nobelli quaranta di la quarantìa criminal nel Senato veneto hera pericolosissimo rispecto che heranno poveri et haveanno pocho da perdere et mancho da pagar angarie, et solamente atendevano al beneficio loro et ad augmentar el stato per aver regimenti et magistrati' " (25).

A questo punto, vorrei sollevare un interrogativo, che è poi una considerazione provocatoria (ma neppur tanto, a meno che non si voglia negare Machiavelli): e cioè, se la cupidigia e la corruzione che dominavano il maggior consiglio furono funzionali all'espansionismo veneziano, in definitiva alla potenza della Repubblica, è possibile, anzi lecito dare di queste storture morali un giudizio politicamente negativo? In altri termini, se realtà spirituali che dal punto di vista dell'etica erano da condannare, allorché in sede politica vennero ad adempiere ad un compito costruttivo, fino a che punto una classe dirigente doveva trovar conveniente combatterle?

Così per sempre

Ed infatti il governo marciano non affrontò contro la pratica del broglio quella che suol definirsi una battaglia campale (e perciò il fenomeno non fu estirpato); vi apportò invece dei correttivi, dei rimedi, com'era nella sua prassi politica e nell'ordine della convenienza, una convenienza ispirata alla tradizionale moderazione veneziana. Dopo aver rialzato il limite per l'estrazione della Balla d'oro (1497), gli anni a cavallo dei secoli XV e XVI conobbero un gran legiferare in materia di corruzione elettorale, come ad esempio i provvedimenti emanati il 28 giugno dello stesso 1497, l'11 agosto 1507 e poi ancora un anno dopo, il 25 agosto 1508, sinché il 13 settembre 1517 il maggior consiglio stabilì la creazione di una nuova magistratura, ispirata alla tradizione classica e dalla forte valenza morale: i censori.

Leggi e decreti, insomma, si riproposero con caparbia puntualità, ma alla fin fine lasciarono il tempo che avevano trovato, suppergiù come le grida di manzoniana memoria.

Poi sopraggiunse il trauma di Agnadello, il ridimensionamento della potenza veneziana. Il patriziato non ne uscì certo eticamente rinnovato (anche se va tenuta presente la forte valenza psicologica del mea culpa pronunciato proprio dal doge Loredan all'indomani del disastro, quasi in una sorta di collettiva espiazione, di autodenuncia dell'immoralità dilagante che aveva provocato l'ira divina (26), ma indebolito nel prestigio sì. E dunque anche privato della superbia di un tempo, dell'antica protervia.

Ebbe allora inizio il rovesciamento del suo trend demografico, e certo fu meno difficile per gli esponenti delle famiglie ricche, per la classe senatoria, prendere in pugno il controllo della massa dei "poveri"; con l'età grittiana, poi, la tendenza oligarchica si fece più scoperta, coadiuvata anche dalla nascita (anzi, dal completamento) del "mito" di una repubblica equilibrata giusta prudente virtuosa, e finalmente pacifica.

L'elaborazione di questo mito - che avrebbe accompagnato e sotteso la futura vicenda del patriziato, il quale, in linea di principio, avrebbe continuato a ritenerlo valido almeno per tutto il XVI secolo - ebbe tra i suoi elementi portanti il richiamo alla solidarietà civica di un tempo, all'età aurea della IV Crociata, del secolo di Marco Polo, quando i Veneziani erano soprattutto mercanti (27).

Questo simbolico ritorno ai valori del passato, alimentato dall'umanesimo (28), poté operare nella coscienza del patriziato perché Venezia non cessò mai del tutto di essere se stessa, ossia non rinnegò le sue radici. Mi spiego: se la Repubblica fosse davvero giunta sino a Milano o se la caduta di Costantinopoli l'avesse estromessa per sempre dal mare, i Veneziani avrebbero dovuto ripensare, rinnovare mentalità cultura psicologia; essi infatti sarebbero stati costretti a dedicarsi solo al loro retroterra padano, finendo inevitabilmente per assumere connotati "signorili", uniformandosi e confondendosi con le altre nobiltà italiane ed europee. In sostanza, avremmo assistito ad una sorta di rifondazione dello stato marciano e della sua classe dirigente.

Ma così non fu ed Agnadello venne poi a "congelare", a bloccare per sempre ogni possibile evoluzione, condannando Venezia a rimanere ciò che era: uno stato anfibio, incapace di risolversi compiutamente nella terra o nel mare, quasi prigioniero del proprio passato; sicché non può stupire come, ancora post res perditas, all'indomani della caduta della vecchia Repubblica, la municipalità democratica non riuscisse a concepire la sopravvivenza di una nuova entità politica che non comprendesse pure la costa orientale dell'Adriatico: può sembrare un paradosso, ma a leggere i verbali delle sedute dei municipalisti del 1797, si ricava con chiarezza ch'essi erano anche disposti a fare a meno di Padova, ma non dell'Istria.

Pertanto - e torniamo al Quattrocento - la conquista della Terraferma non fece dimenticare il mare, anche se sarebbe legittimo supporre che l'opzione "italiana" fosse stata in grado di prevalere rapidamente; di recente Gino Benzoni ha annotato, con la consueta felicità espressiva: "Soggettivamente Venezia - anche se ormai zavorrata da un cospicuo stato territoriale - continua a protendersi verso il Levante, continua a collocare nel mare la propria identità. Importantissima ῾la materia presente del Levante', ripete, nel 1489, il senato: in essa è impegnata la ῾mazor parte dei cavedali de questa cità' [...]. Solo se egemone in Levante sembra che Venezia possa consistere e sussistere"; e ricordo che, in un lavoretto di qualche anno fa, chi scrive ha provato a calcolare il rapporto tra gli impegni militari affrontati dalla Repubblica in Italia e sul mare, nel corso dei 106 anni compresi tra il 1404 ed il 1509; ecco i dati: contro 40 anni (38% dell'intero periodo) di guerre sostenute nella Penisola, ce ne furono ben 37 (35%) dedicati a conflitti incentrati nell'Egeo e nello Ionio (29).

Del resto, la ripresa veneziana dopo il tracollo di Agnadello fu resa possibile anche dalla solidità dello stato da Mar: la flotta, le strutture dei circuiti mercantili, i dominii erano rimasti intatti; certo, fu allora gran ventura per la Repubblica che il Turco non approfittasse della crisi per gettarsi sui suoi possedimenti marittimi: non solo, ma in qualche misura la salvezza venne proprio dal tradizionale nemico, dalla ventilata ipotesi (avanzata in senato il 13 luglio 1509 dal figlio del doge, e futuro procuratore, Lorenzo Loredan) di un'alleanza veneto-turca in funzione antipontificia ed antiimperiale; come è noto, il progetto fu poco più di un bluff, tuttavia ebbe un forte impatto psicologico, nell'uno e nell'altro campo, sia dei Veneziani che degli alleati loro avversari.

Ma per tornare all'oggetto del nostro discorso, cioè al patriziato, ritengo che la persistenza, al più alto livello, della componente marittima dello stato non abbia mancato di contribuire alla scelta, puntualmente ribadita anche nelle più gravi congiunture, di una gestione monopolistica della politica.

Sarebbe infatti stata realmente praticabile la compartecipazione della nobiltà di Terraferma alla gestione dello stato da Mar? Come pensare di conferirle incarichi non già nell'armata marittima, ma neppure nelle isole dalmate o greche, nelle località costiere, dove ogni cosa - dai rifornimenti per le truppe ai collegamenti commerciali - dipendeva dalla flotta?

E poiché Venezia considerò sempre il suo stato come un tutto unitario, ne deriva che solo i suoi patrizi fossero ritenuti in grado come erano di espletare qualunque incarico in qualsiasi luogo. Il prezzo di questo monopolio fu l'aumento della consistenza demografica del ceto politico, accompagnato dalla corruzione, dal broglio.

Questo processo non sarebbe durato all'infinito se anche una sola delle sue premesse fosse cambiata (ad esempio, se si fosse verificata una contrazione quantitativa del patriziato, ovvero se Venezia si fosse impadronita di Milano), ma così non fu; dopo Noyon, infatti, la Repubblica si ritrovò con uno stato territorialmente modesto (quantomeno in Italia), cui la nobiltà lagunare poteva bastare, con i dovuti correttivi.

Il Quattrocento e gli inizi del secolo successivo, ove tutto era parso ed era stato possibile, consegnavano alle future vicende dello stato marciano una classe di governo ormai definitivamente stabilita nel suo ruolo, nei suoi rapporti interni ed in gran parte della sua consistenza.

1. Fernando Fagiani, Schizzo storico-antropologico di un gruppo dirigente: il patriziato veneziano (secoli XII-XV), "Studi Veneziani", n. ser., 15, 1988, pp. 15-69 (Cf in particolare pp. 32-37).

2. Nella traduzione italiana: Robert Finlay, La vita politica nella Venezia del Rinascimento, Milano 1982; Stanley Chojnacki, Political Adulthood in Fifteenth-Century Venice, "The American Historical Review", 91/4, 1986, pp. 791-810; Donald E. Queller, Il patriziato veneziano. La realtà contro il mito, Roma 1987.

3. D.E. Queller, Il patriziato veneziano, pp. 301-420.

4. Maria Teresa Todesco, Andamento demografico della nobiltà veneziana allo specchio delle votazioni del Maggior Consiglio (1297-1797), "Ateneo Veneto", 176, 1989, pp. 130-133 (pp. 119-164).

5. D.E. Queller, Il patriziato veneziano, p. 65; Angelo Ventura, Scrittori politici e scritture di governo, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1981, p. 545 (pp. 513-563)

6. Tra il 1441 ed il 1497 l'età per la presentazione alla Balla d'oro dei giovani patrizi venne abbassata da 20 a 18 anni; poi, in conseguenza dei negativi risvolti che tale decisione aveva provocato, venne riportata al limite precedente: Gaetano Cozzi-Michael Knapton, Storia della Repubblica di Venezia. Dalla guerra di Chioggia al 1517, Torino 1986 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII/1), p. 107.

7. D.E. Queller, Il patriziato veneziano, p. 149.

8. La documentazione archivistica prodotta da Ashtor non lascia dubbi sul fatto che per tutto il Quattrocento i traffici di Venezia col Levante si mantennero ad un livello di assoluta preminenza (Eliyahu Ashtor, Levant Trade in Later Middle Ages, Princeton, N.J. 1983, passim).

9. Dizionario Biografico degli Italiani, cf. nell'ordine le "voci", a cura di chi scrive: Cocco, Giacomo; Corner, Giorgio; Contarini, Federico (più precisamente i volumi XXVI, Roma 1982, p. 519; XXIX, Roma 1983, p. 212; XXVIII, Roma 1983, p. 157; in particolare, per l'ultima citazione sui provveditori veneziani, Marino Sanuto, I diarii, XI, a cura di Rinaldo Fulin, Venezia 1884, col. 397).

10. R. Finlay, La vita politica, p. 58.

11. D.E. Queller, Il patriziato veneziano, pp. 425 s.

12. Caio Sallustio Crispo, Bellum Iugurthinum, cap. 35, § 10.

13. Jean-Claude Hocquet, Oligarchie et patriciat, "Studi Veneziani", 17-18, 1975-1976, p. 406 (pp. 401-410); il saggio di Hocquet consiste in una rassegna critica di studi volti a puntualizzare la natura del patriziato lagunare, in rapporto alla sua consistenza demografica ed agli equilibri interagenti tra diverse consorterie famigliari.

14. Mi permetto di rinviare in proposito ad altro mio contributo, in questo stesso IV volume, dedicato alla complessa questione de L'evoluzione costituzionale, in particolare alla tabella cronologica della legislazione costituzionale ed al successivo paragrafo dedicato alla regolamentazione dell'ordine patrizio e cittadino.

15. Sui dati concernenti la situazione della Penisola, Ruggiero Romano, La storia economica. Dal secolo XIV al Settecento, in AA.VV., Storia d'Italia, II/2, Torino 1974, p. 1820 (pp. 1813-1931); per quelli sul patriziato veneziano, M.T. Todesco, Andamento demografico della nobiltà veneziana, pp. 130-137; il movimento naturale (nascite, morti) del patriziato, per gli anni 1530-1540, in Daniele Beltrami, Storia della popolazione di Venezia dalla fine del secolo XVI alla caduta della Repubblica, Padova 1954, tav. 10 f.t.

16. Come è noto, il 4 dicembre, giorno di santa Barbara, i patrizi che avessero compiuto vent'anni (18 fra il 1441 ed il '97) si recavano a Palazzo ad estrarre un bossolo: i trenta ai quali la sorte lo riservava di color giallo, anziché nero, anticipavano a ventun anni - in luogo dei venticinque previsti dalla legge - l'ingresso in maggior consiglio.

17. A.S.V., Avogaria di Comun, regg. 162 e 163: Balla d'oro, passim.

18. Ibid.; Andrea Da Mosto, L'Archivio di Stato di Venezia, Roma 1937, pp. 71 ss.

19. Cf. rispettivamente: M.T. Todesco, Andamento demografico della nobiltà veneziana, p. 131; G. Cozzi-M. Knapton, Storia della Repubblica, p. 118. Il primo lazzaretto fu istituito a Venezia in seguito ad un voto del maggior consiglio del 10 ottobre 1423 (A.S.V., Maggior Consiglio deliberazioni, reg. 22, c. 54).

20. Naturalmente non si può escludere che l'elenco delle 96 famiglie in questione risulti "gonfiato" da alterazioni grafiche o dialettali: gli Spinal, ad esempio, potrebbero esser stati un ramo dei Badoer: v. Marco Pozza, I Badoer. Una famiglia veneziana dal X al XIII secolo, Abano Terme (Padova) 1982, p. 13.

21. A.S.V., Misc. Codd. I, Storia Veneta 17-23: Marco Barbaro, Arbori de' patritii [...], passim; ivi, Avogaria di Comun, regg. 162 e 163: Balla d'oro; [Giuseppe Bettinelli], Famiglie patrizie venete [...], Venezia 1774.

22. Freddy Thiriet, La Romanie vénitienne au Moyen Âge. Le développement et l'exploitation du domaine colonial vénitien (XIIe-XVe siècles), Paris 1957, pp. 366 s. Su questo punto mi permetto di rinviare anche al paragrafo La politica delle annessioni del mio contributo, in questo stesso volume, intitolato Le frontiere navali.

23. E quando tutto ciò sembrava non bastare, poteva pur sempre verificarsi qualche straordinario, temporaneo provvedimento, come avvenne il 15 aprile 1442 - lo stesso anno, si badi, in cui furono emanate nuove regole per accertare il possesso della nobiltà -, allorché su proposta dei capi della quarantia Andrea Barbo e Luca Falier il maggior consiglio stabiliva di riservare per quattro anni ai patrizi poveri il rettorato di Pinguente, in Istria, ed una dozzina di castellanie, in considerazione del fatto che "propter continuas expensas et angarias factionum, quas in his guerris sustulerunt, et pro honore nostri Dominii sit bonum subvenire dictis nostris nobilibus ut possint vivere sub umbra nostra" (A.S.V., Compilazione leggi, b. 294, fasc. Nobiltà veneta, c. 901 r-v). I rettorati minori, appannaggio dei patrizi poveri, potevano consentire degli utili (anche perché, diversamente dalle principali città dello stato, non richiedevano particolari spese di rappresentanza ed erano meno esposti al controllo del governo centrale); pertanto, anche a non considerare taluni cespiti "sommersi", ma leciti, come quelli derivanti dal traffico delle valute, che per solito il rettore spartiva col suo vicario, non erano rari i casi di peculato o di estorsione, sicché il salario ufficiale poteva risultare solo una parte - e neppure la maggiore - degli introiti effettivamente percepiti; esemplare, in proposito, la vicenda del podestà di un piccolo centro di frontiera: Michael Knapton, La condanna penale di Alvise Querini ex rettore di Rovereto (1477): solo un'altra smentita del mito di Venezia?, "Atti dell'Accademia Roveretana degli Agiati", 238, 1988, p. 313 (pp. 303-332).

24. Giuseppe Del Torre, Stato regionale e benefici ecclesiastici: vescovadi e canonicati nella terraferma veneziana all'inizio dell'età moderna, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Classe di scienze morali, lettere ed arti", 151, 1992-1993, cf. rispettivamente pp. 1175 e 1185 (pp. 1171-1236).

25. G. Cozzi-M. Knapton, Storia della Repubblica; per le citazioni, cf. rispettivamente pp. 67 e 129.

26. Riferisce il Sanudo, in data 8 luglio 1509: "disse [il doge], che per la nostra superbia tutte queste potentie erano acordà contra de nui, perché tocavemo el cielo, et tutti spendeva, tutti portava fodre [...]. Poi riprese ad guardarsi dai vicij e haver timor di Dio e far justitia, perché Dio ne ajuterà e haveremo il nostro stado indrio" (Marino Sanuto, I diarii, VIII, a cura di Nicolò Barozzi, Venezia 1882, col. 497).

27. Ancora a Cinquecento inoltrato troviamo due successivi dogi, Antonio Grimani (1521-1523) ed Andrea Gritti (1523-1538), che si erano arricchiti con la mercatura: v. Ugo Tucci, Il patrizio veneziano mercante e umanista, in Id., Mercanti, navi, monete nel Cinquecento veneziano, Bologna 1981, p. 18 (pp. 15-41). La suggestione del mito rimarrà comunque una presenza immanente nella psicologia e nella memoria dei Veneziani, che sempre ne trarranno motivo d'orgoglio: si pensi al grande discorso di Andrea Tron, tenuto nel senato il 29 maggio 1784.

28. A. Ventura, Scrittori politici, pp. 533-542.

29. Rispettivamente: Gino Benzoni, Amsterdam: la nuova Venezia, in L'epopea delle scoperte, a cura di Renzo Zorzi, Firenze 1994, p. 185 (pp. 183-214); Giuseppe Gullino, La politica veneziana di espansione in Terraferma, in AA.VV., Il primo dominio veneziano a Verona (1405-1509), Verona 1991, p. 13 (pp. 7-16).

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