IL NOVECENTO. INTRODUZIONE

Storia di Venezia (2002)

IL NOVECENTO.  INTRODUZIONE

Mario Isnenghi

«Varda San Giorgio e vede la Salute!»*

Nei giorni in cui scrivo queste pagine i visitatori affollano le sale delle Procuratie Nuove, al Museo Correr, in piazza S. Marco, per vedere Venezia nelle tele di Bellotto(1); e nell’isola di S. Giorgio, di faccia alla Piazzetta, si apre un’altra attesa e venezianissima mostra, dell’ancora più insigne ed amato propagatore delle immagini di Venezia nel mondo, Canaletto(2): altri paesaggi urbani, vedute e scorci del Settecento veneziano, in un gioco inesausto di rispondenze della memoria e agnizioni. È per lo meno dalle grandi mostre dei pittori veneziani negli anni Trenta(3) che la città si rammemora e si rappresenta duplicandosi e moltiplicandosi grazie a un’industria della memoria — coniugata all’industria del forestiero — forte dello straordinario patrimonio di immagini accumulato nel corso dei secoli da una successione di occhi di paesaggisti che l’hanno vista, ricordata, mandata in giro per il mondo(4). I dilettanti sul seggiolino pieghevole e in cappello di paglia che coronano il loro sogno di dipingere Venezia ‘dal vero’ astraendosi dalle torme di curiosi che salgono e scendono i gradini del ponte dell’Accademia, per rifinire — milionesima cartolina illustrata — le monumentali proboscidi della cupola della Salute o per goticizzare a dovere la sottostante facciata di Ca’ Franchetti; ed anche, più seriali ancora, gli innumerabili turisti armati di macchina fotografica impegnati a certificare il proprio passaggio a Venezia chiamandone a testimone il ponte dei Sospiri, fra reciproci scatti incrociati: sono gli estremi eredi di un infinito e plurisecolare stratificarsi e sovrapporsi di visioni a visioni, di una Venezia scomposta e ricomposta in frammenti, flash, fotogrammi nella raffigurazione e nella memoria dei veneziani e del mondo, oggi approdata all’era affine dell’illusorio e del virtuale(5).

Passati egregi

Si sa: l’Italia tutta è paese delle rovine e popolo dei morti, rigenerata dalla memoria del passato innanzi a se stessa e agli altri. Non per niente, nell’Ottocento, compie il proprio Risorgimento, cioè è perché c’era, si rammenta, si ritrova; capovolge — o si prova a capovolgere — in ragion d’essere ed essenza distintiva Roma antica, Dante, i Comuni e le «urne de’ forti»(6). E questa dialettica fra essere stato ed essere, in equilibrio instabile fra una spossatezza nostalgica e l’energia delle «egregie cose» che da un passato più degno del presente potrebbero derivare, proietta più obliquamente le proprie sofferte ambivalenze sulle ex città capitali degli Stati preunitari. La Nazione, unificandosi e facendosi Stato, chiede a Torino e a Napoli, a Parma e a Milano, a Firenze, ma in maniera precipuamente dolorosa a Venezia, di retrocedere da capitale a provincia, da soggetto politico a soggetto amministrativo, e da repubblica imperiale a periferia di un Regno(7). Nel 1866 questa ex capitale di un impero di terra e di mare viene annessa al Regno d’Italia nelle forme più incolori e mediocri. La disfatta gloriosa(8) del 1848-1849(9) aveva sì costituito e continuerà a lungo a costituire una risorsa, ma paradossalmente anche un problema identitario: da una parte risarcisce nobilmente e tinge con i tratti gratificanti della tragedia e dell’epos il tramonto inglorioso della Serenissima cinquant’anni prima; dall’altra, nella città annessa al Regno d’Italia, costituisce un elemento di disturbo, per quei conati rivoluzionari, per quei panni repubblicani, e persino per quella sorta di liberto mezzo borghese mezzo ebreo quale è, fra gli eredi e reduci del patriziato, quell’avvocato Medina o Manin con tutti quei suoi operai dell’Arsenale al limite fra ribellione e devozione(10). Alla città di S. Marco servirà quasi mezzo secolo per temperare quella diversità in forma invece di glorioso ritrovamento di sé nella continuità — assai più antifrancese che antiaustriaca — e per placare ogni inquietudine nella rassicurante immagine di un 1848 a tal punto svigorito e deprivato di ascendenti e di eredi da potersi considerare una «rivoluzione restaurata»(11).

La proiezione operativa di tale riaggiustamento dello sguardo si può considerare la giunta clerico-moderata che regge la città per venticinque anni dalla metà degli anni Novanta al primo dopoguerra(12). Fra il 1890 e il 1895 la giunta laico-progressista guidata da Riccardo Selvatico sperimenta brevemente un’idea di Venezia che implica anche una diversa connessione fra il presente e il passato della città, remoto e prossimo: tutto ciò che sta idealmente compreso fra la tenerezza populista delle commedie dialettali del sindaco-poeta(13), le aule scolastiche fieramente autonome dai simboli religiosi, il monumento a Paolo Sarpi eretto nel luogo dell’attentato gesuita(14), il sussidio alla nascente Camera del lavoro nella riadattata Scuola della Misericordia(15) e l’invenzione dell’Esposizione internazionale d’arte(16). Con strategica duttilità il patriarca Sarto, in una città-capitale dell’Opera dei Congressi e della rivincita cattolica, revoca in anticipo l’astensione della sua ‘Venezia reale’ dalla politica cittadina benedicendo il passaggio dal clerico-intransigentismo al clerico-moderatismo(17). «Instaurare omnia in Christo» — motto del futuro papa Pio X — implica ben più che un contingente accordo elettorale con i notabili del patriziato e la «Gazzetta di Venezia» di Ferruccio Macola. Bloccare sul nascere una frattura delle classi dirigenti che apriva ai rossi invece che aprire ai neri, rende per la seconda volta anticipatrice e moderna — non retrograda, ma avvenirista — la formula amministrativa su cui si regge il Comune di Venezia. Il carattere precoce della fragile maggioranza di Selvatico è risaputo; meno ovvio è stato riguardare come ancora più anticipatrice quella che potremmo considerare la modernità reazionaria di Grimani. Eppure è proprio all’ombra di questo patrizio tornato al potere nelle nuove forme della democrazia elettorale e delle sue sempre riconfermate maggioranze che non solo si realizza prima che altrove il superamento degli steccati fra cattolici e laici, ma altrettanto precocemente maturano anche i promettenti intrecci fra una destra conservatrice e una nuova destra nazionalista: due destre i cui capofila possiedono un nome che rappresenta esso stesso una rendita di posizione, perché sono nomi di casate dogali, che affondano le proprie risonanze nella lontananza dei secoli e che riempiono di sé i palazzi e i musei della città di S. Marco, reinnescando e vivificando i giochi di sponda con il passato: Filippo Grimani e Piero Foscari.

Il reticolo materiale e immateriale è talmente solido e diversificato da poter reggere non solo agli interscambi fra vecchia e nuova destra, ma anche alla compresenza della religione di Venezia come era — uomo-simbolo Pompeo Molmenti(18) — e degli inventori di nuove tradizioni e approdi della venezianità: Foscari — tramite simbolico fra una memoria non invalidante e l’azione — e l’uomo nuovo Giuseppe Volpi, antichi e nuovi ‘dogi’ di un’autorappresentazione in fase di ripristino, con sullo sfondo — rendendo così dei mediatori anche gli artefici di Marghera — l’oltranza modernista dei manifesti futuristi di Marinetti, aspirante interratore del Canal Grande e uccisore del chiaro di luna(19). L’era Grimani-Foscari — che è giusto definire così, cogliendo la compatibilità delle sue interne tensioni — prepara la guerra per l’Adriatico, prepara Porto Marghera e prepara l’era Volpi. Come si situa, all’interno di questo rilancio novecentesco della venezianità — industrialista, navalista, irredentista, imperialista — la figura di Gabriele D’Annunzio? L’autore dell’Allegoria dell’autunno, di un romanzo veneziano quale Il Fuoco (1900), del discorso per la Lega navale alla Fenice nel 1901 e del dramma delle origini La Nave (1907) ricopre certamente un ruolo strategico nella rianimazione degli stereotipi della venezianità, nei ricuperi e nella risemantizzazione e riattivazione politica della memoria della Serenissima(20). Sono oltre vent’anni di rielaborazione ideologica del mito di Venezia(21), con la frase ornata e il gesto, con l’allocuzione e il proclama; e con la figura stessa del poeta-vate e del poeta-soldato allocata, in via materiale e immateriale, nei luoghi cittadini di pace e di guerra, da Palazzo Ducale al Forte S. Andrea, dalla Casetta Rossa in Canal Grande alle formelle imperiali di S. Maria del Giglio, accarezzate con lo sguardo e il tatto nel buio della sera, tornando in calle del Doge(22). Negli stessi anni in cui Thomas Mann raccoglie e ripropone l’immagine estenuata e disfatta de La morte a Venezia — a poca distanza dalle misere fierezze dell’Ultimo Contarini contemplate da Hofmannsthal e dalle Venezie di Ruskin, Barrès, Proust, Baron Corvo — Gabriele D’Annunzio vi scrive e vi ambienta un testo altrettanto alto e luttuoso, il Notturno, in cui il grande tema decadente della ‘morte a Venezia’ si dimostra perfettamente compatibile con un rinnovato protagonismo cittadino e con fruizioni e rilanci vitalistici(23). Fiume e il fiumanesimo vengono pensati, diretti, raccontati e cantati in gran parte da Venezia: Venezia che nel 1914 aveva per prima convertito i suoi nazionalisti dal triplicismo filogermanico all’ansia e al progetto politico della quarta sponda(24) e che con Giovanni Giuriati — nipote e figlio di resistenti e proscritti del 1848-1849 — ha calamitato e associato quali referenti e attori i giuliani e i dalmati. L’ingombrante figura del poeta reinventore della Serenissima Repubblica ha tuttavia implicato anche frizioni all’interno del blocco in formazione, con le sue componenti cattoliche e moderate, puntualmente segnalate dalle polemiche del 1908, quando i ‘duri’ de «La Difesa»(25) attaccano Foscari e Grimani che, trasformando in vistoso rito pubblico i festeggiamenti per La Nave, si sono lasciati irretire — in nome dell’arte applicata alla politica — da quel poeta neopagano(26). È l’Italia, è Venezia guelfa che invoca accenti appropriati, facendo valere lasciti diversi della tradizione nella città di S. Marco. Di nuovo, nel dopoguerra, il nome del ‘Comandante’ diventa segnale di divisione, poiché ispira e attraverso i suoi uomini in larga misura riesce a controllare e a orientare il Fascio veneziano. Un Fascio di difficile decodificazione(27) — perché depauperato dei giovani nazionalisti schieratisi per l’intervento nel 1914-1915 e in buona parte caduti in combattimento(28) e perché in larga misura urbano e privo di retroterra rurale —, che si riconosce nei miti irredentisti e della Nazione armata, spingendosi con il suo leader Piero Marsich sin sull’orlo della sedizione: ovvero a sognare un fascismo radicale capeggiato non dal duce, ma dal Comandante e una ‘Marcia su Roma’ che muova da Fiume e da Venezia. Inverando così anche le sottintese alternative di Venezia ‘nuova Roma’ che accade di veder trapelare nei più orgogliosi ricuperi della memoria marchesca(29). Sono secessioni mentali mai integralmente risolte, che nella Venezia fra le due guerre renderanno sia D’Annunzio sia Marsich — questi due eroi delle origini — presenti e assenti a un tempo. E lo stesso Giuriati — pur non tentato al punto di Marsich dall’avventura senza ritorno al fianco del poeta, e spintosi sino alla segreteria nazionale del Partito(30) — restituito invece negli anni Trenta a parti di comprimario: mentre il comando cittadino vede connettersi, al vertice, la nuova aristocrazia del denaro(31) e quella antica del sangue(32).

Serrate del Novecento

Lo spirito di ciò che precede implica l’idea di un ciclo storico novecentesco improntato a una visione orgogliosa della venezianità, che allinea sia gli imprenditori politici del riuso del passato, sia i corrispettivi intellettuali militanti e funzionari(33). Esso si nutre di una memoria e di una identità intensamente pervasive, ma scommette sulla possibilità di reinverarle, non subendo i pur contigui e sempre imminenti struggimenti della memoria invalidante(34) e il fascino della retroversione. I professionisti della memoria — custodi e guide di carte, tele, marmi, negli archivi, nelle biblioteche e nei musei — si prestano ad allargare o restringere e politicizzare o spoliticizzare il senso del proprio lavoro anche in ragione dei mutevoli contesti esterni, che per circa mezzo secolo li indirizzano a scegliere di vivere il proprio ruolo in vista di una riattualizzazione o di una archeologia della memoria(35). Sistole e diastole. Quel che è vero per la città nel suo complesso, è vero anche e precipuamente per gli eruditi, che ne sono gli analisti e i mitografi(36). Che le vicende personali, i ruoli istituzionali e le carriere professionali situino i Barbantini(37) e i Damerini(38), i Fogolari(39), i Fusinato, i Musatti(40), gli Elio Zorzi(41) ed altri con loro nell’area e nell’aura di Foscari o Volpi(42) — con eventuali approdi finali dei reduci più longevi della ‘grande Venezia’ sotto l’egida e la protezione del suo superstite interprete e mecenate, Vittorio Cini, nell’isola di S. Giorgio e alla Fondazione Giorgio Cini(43)questa appunto è la parabola del Novecento a Venezia; come Novecento a Venezia — con tutta la sua complessità e dialettica interne — è che, auspice Gaetano Cozzi, alla cui memoria va qui un grato pensiero, proprio agli autori di questo volume si sia affidata alla fine degli anni Novanta la Fondazione Cini e noi, per nostra parte, anche per conto della Fondazione Cini abbiamo potuto ripensare e raccontare per tutti il Novecento a Venezia. Sono situazioni e dialettiche possibili al compimento di un ciclo.

La ‘serrata’ — la venezianissima scelta decisionista del chi xe dentro xe dentro e chi xe fora xe fora — rappresenta un dato ricorrente della memoria che si reinvera, costitutivo del Novecento a Venezia. S’intende che dire ‘Novecento a Venezia’ implica per noi il rifiuto — motivato altrove(44) e qui rimotivato in maniera forte e specifica — della visione del fascismo come mera parentesi, eruzione occasionale e di superficie, priva di radici nella storia. Qui le radici si venezianizzano. E, venezianizzandosi, ecco che duce e gerarchi possono anche adombrare strutture e figure del potere non estranee(45), ma che, soprattutto, la ‘Repubblica di Venezia’ può sottopelle coltivare il diritto naturale a rispecchiarsi in dogi e patrizi autoctoni, di vecchia e nuova appartenenza aristocratica: la ‘grande Venezia’ fra le due guerre, portofranco — in questo senso e non in quello di un presunto afascismo — della cultura e della mondanità internazionale. La mobilità sociale e l’accesso alla sfera pubblica sono regolati proprio dal meccanismo — escludente e includente — della serrata, anzi da una successione di serrate che nel giro di pochi anni scompongono e ricompongono i ceti dirigenti e decidono per i decenni a venire. Il problema del blocco sociale che governa per trent’anni la città — fra Riccardo Selvatico e Davide Giordano — è che sino al primo dopoguerra un’alternativa è possibile e sempre imminente (per ridiventarlo, poi, di nuovo, dopo il ventennio fascista). I numeri lo consentirebbero e dall’anteguerra al dopoguerra lo ricordano a tutti a ogni successiva tornata elettorale, amministrativa e politica(46). Qualche collegio elettorale sì, ma Ca’ Farsetti — a differenza delle amministrazioni comunali degli altri capoluoghi veneti — non verrà mai espugnata dalle sinistre, che pure ci vanno vicine più d’una volta, sia prima che dopo la Grande guerra, tanto da poter essere, proprio per questo, sentite e usate come un pericolo immanente e una ragione per serrare le fila e far blocco contro di loro: perché le sinistre sono il trenta, quaranta e più per cento, ove facessero il pieno di ogni possibile alleanza e di tutti i voti potenziali. Come tener ‘fuori’ dalla sfera del potere e però, insieme, ‘dentro’, sottomesso, questo popolo di sinistra, è il problema di chi governa Venezia. Lo tengono fuori le serrate, che tuttavia nel contempo assicurano meccanismi di compensazione che derivano, anch’essi, dal vissuto e dal mito(47). Palazzi e casette, ricchi e poveri, patrizi e plebei, chi comanda e chi lavora al servizio o può sperare di venir sfamato da chi comanda, praticano da sempre le stesse calli e campielli e osterie, in forme e misure di promiscuità e mescolanza inusitate, che derivano dalla struttura della città e dal suo mito corporativo statalista. Non si contano, nel Novecento e prima, i rassicuranti richiami delle élites a queste funzioni di comando tradizionalmente delegate dai molti ai pochi, con soddisfazione generale e larghi lasciti di memoria e gratitudine popolari al paterno governo della Serenissima. Lo stereotipo politicamente più proficuo e di lunga durata, sempre riattivabile per i bisogni dell’ora, è quello del buon popolo veneziano — e istriano e dalmata — che piange nel 1797 la fine della Repubblica patrizia, mentre pochi arruffapopoli borghesi e patrizi immemori si dilettano al gioco di moda della rivoluzione e della democrazia. Il pur breve passaggio dei francesi segna durevolmente la città, seguito da una lunga eco di rancore, che ricorda solo le spoliazioni di opere d’arte, e dove si mescolano il sentirsi traditi dei novatori e la vendetta dei conservatori; mentre, del trattato di Campoformido — cinico baratto territoriale, fisiologico però proprio alla luce di una diplomazia tradizionale — si ricorda con ostilità chi dà, la Francia rivoluzionaria, assai più di chi prende, l’Austria restauratrice. Ci affrettiamo tuttavia a ritrarci da queste aree della memoria, irte di implicazioni politiche e di nodi storiografici, per ritornare a quelle che abbiamo individuato come le ricorrenti serrate del Novecento. Esse incidono sulla composizione e gli orientamenti delle élites, ma alla fin fine — e questo è ciò che con il fascismo avverrà in tutta Italia — il succedersi delle delegittimazioni esclude da ogni autonomia nella sfera pubblica intere classi, parti e soggetti della società. Un’avvisaglia si può già cogliere in ciò che accade in città davanti alla guerra di Libia. L’elettorato di parte popolare ha da poco mandato alla Camera — battendo Pietro Orsi, professore di Storia al «Foscarini» e a Ca’ Foscari e futuro podestà — il primo deputato socialista di Venezia: è Elia Musatti, rampollo di una grande famiglia ebrea cittadina, che ha suoi componenti al vertice dell’economia e della classe dirigente (il padre, che è anche presidente della comunità israelitica), fra i cultori della venezianità (gli zii Eugenio e Cesare) e, politicamente, in collocazioni antitetiche (il cugino Alberto, nazionalista della prima ora e presidente dell’associazione cittadina). È già significativo, seppur non raro, che l’elettorato di sinistra abbia bisogno e si riconosca in un membro per nascita della classe dirigente, ovvero in uno ‘spostato’, secondo le stigmatizzazioni delle scienze sociali coeve; anche altri dirigenti del proletariato e sottoproletariato, del resto, sono avvocati e professori o studenti di Ca’ Foscari, e solo in qualche caso agitatori di professione venuti — anch’essi — ‘da fuori’. Che il deputato dei socialisti e il leader di chi osteggia la guerra coloniale sia un Musatti dà modo a Luciano von Ingenheim, in arte Luciano Zuccoli — il germanofilo e africanista romanziere di successo che dirige l’antico quotidiano della classe dirigente, la «Gazzetta di Venezia» — di attaccare contemporaneamente in «Elia Bey» uno ‘straniero interno’ e un traditore della propria classe. Mal gliene incoglie, perché nella proprietà — così come, in generale, nella classe dirigente veneziana — gli ebrei non mancano(48). Quella antisemita è dunque una miccia che per ora non prende, mentre il sopraggiungere della Grande guerra impone altre retoriche e chiavi di accesso all’area della legittimità. È un processo di selezione scandito in più tempi. La campagna interventista espelle dalla ‘piazza’ — nel senso anche letterale di piazza S. Marco — e più in generale riduce e progressivamente nega l’agibilità politica ai neutralisti(49). Precipuamente, ma non solo alla loro ala di sinistra, i socialisti; anche il neutralismo cattolico e il neutralismo liberale sono indotti a reinterpretare e disciplinare i propri comportamenti. L’angolatura territoriale suggerisce proprio che la dicotomia della mobilitazione pro o contro la guerra sia troppo restrittiva e non in grado di rappresentare i comportamenti mediani e diffusi di una sorta di zona grigia, la quale però, a differenza di quella della seconda guerra, finirà per porsi anch’essa sul terreno della guerra e della patria in guerra: che è poi il terreno di un civismo moderato e legalitario fatto proprio anche da una leva di giovani cattolici, compresi in prima fila i figli delle primarie famiglie cattoliche cittadine, che misurano il proprio ritorno alla patria anche e proprio nell’uniforme di combattenti(50). Così si può considerare che sia per lo stesso notabilato conservatore alleato della nuova destra, compreso il sindaco, cui non si conoscono trasporti interventisti; e del resto, un navigatore di lungo corso della politica locale e nazionale, il vagamente ‘radicale’ Antonio Fradeletto, pur non essendo stato un fautore dell’intervento, resterà in tempo di guerra il rinomato conferenziere pubblico che era, applicando questa volta la sua sonora eloquenza alla guerra e alla resistenza invece che ai temi letterari o di costume, e meritandosi oggi dal suo biografo l’epiteto ossimorico di «interventista ‘neutrale’»(51). Infine, a Venezia, l’Austria c’era stata e la Germania corposamente c’era, nelle idee, negli affari, nelle relazioni pubbliche e private.

Caporetto implica una seconda selezione e il dopo Caporetto — fra inverno 1917 e primavera 1918 — una terza. La disfatta fa gravare il sospetto e proietta — anche in prospettiva — l’ombra dell’ostracismo su tutti coloro, individui o gruppi sociali, che non riescano a schivare il ricatto di un’accusa di disfattismo che, quanto più è immateriale nei suoi fondamenti, tanto più può librarsi minacciosa e agire come arma di esclusione. La terza cerchia muraria — quarta, se contiamo la Libia — eretta a tracciare i confini del ‘dentro’ e ‘fuori’ della nuova legittimità indotta dalla guerra, è quella dei resistenti. L’andar via o il restare, e poi — nelle contese del dopoguerra — l’essere andati via o l’essere restati nelle città occupate o a rischio di occupazione, è condizione complessa, ricca di spinte e di sfaccettature anche locali, e forse non ancora sufficientemente esplorata. Per le zone effettivamente occupate — nel Friuli e in parte del Veneto — è stato a lungo considerato patriottismo andarsene e connivenza restare: non senza, tuttavia, un contenzioso permanente fra politici e religiosi, siori e contadini, e storiograficamente — in anni più vicini a noi — fra l’angolatura e le rilevanze della storia politica e quelle della storia sociale(52). Ma — oltre che a Padova, la nuova capitale della guerra — i processi materiali e mentali si evolvono diversamente a Venezia, che una manciata di chilometri continua precariamente a separare dalle prime linee austriache. Qui è umano — e per molte famiglie veneziane obbligatorio — rifugiarsi lontano, a Pesaro, Reggio Emilia, Chieti o altrove. E può tingersi di eroico, restare. È qui, in questo ultimo anno di guerra, che prendono forma e valore i comportamenti e le figure dei resistenti. Nel dibattito politico del primo dopoguerra, i resistenti civili avanzeranno il diritto di affiancarsi ai combattenti. È un combattente di questo particolarissimo fronte interno — la resistenza civile nella città difesa dai cannoni della Marina e dalle scariche di fucileria predisposte da Foscari sulle altane cittadine(53) — lo stesso leader del fascismo veneziano, Piero Marsich, che non ha vestito la divisa e sarà tuttavia politicamente alla testa degli ex combattenti. Di questo orgoglio di aver tenuto in vita la città nell’ora del massimo pericolo, traspaiono tracce nelle autorappresentazioni del poi(54). E già sotto le bombe: «Chi parte per Mogian / No xe certo un venesian» — assicura la Musa popolare, nella testimonianza di un cronista-aedo di Venezia in armi: già prima di Caporetto, nelle estati di guerra, non è tempo di vacanze in villa(55). Vi si manifesta l’etica della distinzione — certo non nuova nei processi di formazione dei gruppi dirigenti — coi suoi crediti politici esigibili dopo la vittoria. E vi si aggiunge forse una dimensione propriamente veneziana: l’orgoglio identitario della difensiva eroica, un ritorno di memoria, poiché anche la Venezia del 1849 aveva sofferto e resistito.

Negli esiti, la situazione è tuttavia invertita rispetto ad allora. Non c’è nessuna eroica disfatta con cui dover convivere, sul ponte non sventola bandiera bianca, come nei versi struggenti di Arnaldo Fusinato; e anzi vuole il caso — che non si può neanche considerare del tutto un caso(56) — che proprio l’anno di un possibile e incipiente venir meno della nazione, il 1917, coincida con gli esordi di Porto Marghera. Come il 1848-1849 risarcisce il 1797, il 1917-1918 risarcisce il 1848-1849. E i ponti, negli anni Trenta, diverranno due, con la nascita del ponte automobilistico aperto dai due piloni del Littorio(57), accanto al ponte ferroviario, austriaco, ma italianizzato dal protagonismo tecnico di Paleocapa(58) e dalla resistenza della batteria di cannoni risorgimentali che ancor lo presidia.

Venezia viva

Commetteremmo, ora, un errore di prospettiva, rischiando di sbagliare tutti gli accenti, se ci volgessimo a quell’alba industrialista con occhi o antifascisti o ecologici o postmoderni, e con l’amarezza del tramonto della grande fabbrica e di quel modello stesso di sviluppo che intanto, ai nostri giorni, anche Venezia e le sue zone industriali hanno conosciuto e che si riflette in questo volume. La completezza della parabola vissuta vuole infatti che vi si riflettano anche le energie vitali e quegli spiriti di intrapresa. Tanto più che essi non concernono solo i capitalisti, gli uomini del gruppo veneziano, i quadri dirigenti della città nazionalfascista: Foscari e i suoi ‘Sette Savi’(59) vengono dal nazionalismo, ma gli itinerari personali di Volpi, di un quotidiano modernizzatore come «L’Adriatico», le figure dei clerico-moderati della giunta Grimani o quelle degli ingegneri e tecnici pubblici e privati che concepiscono e realizzano la nuova Venezia delle ciminiere non sono tutti all’insegna di una analoga, teleologica continuità politica; e del resto le convergenze sul ‘fare’ — fare fabbriche e farle di là dall’acqua, nelle campagne e barene sull’altra sponda della laguna, con quel filo sottile di sei chilometri che distingue e collega che è il ponte — sono ancora più ampie e socialmente e politicamente variegate. Non vi si oppongono i socialisti. Nasceranno fabbriche, e con esse posti di lavoro, nuovi soggetti operai e promettenti sviluppi del proletariato e del conflitto di classe(60). Con il senno di poi, scorgiamo le illusioni; ma una storia complessiva è anche storia di illusioni e magari di grandi illusioni(61). Se noi, per la coscienza di come sono andate poi a finire, non sapessimo renderne conto e stendessimo il velo del lutto anche sull’ideazione e la realizzazione di un polo industriale originale e grandioso quale diventerà in poco tempo Marghera — ovviamente, iuxta propria principia, in regime di capitalismo economico e, fra breve, nell’ambito di un regime politico autoritario e repressivo —, ricadremmo una volta di più nel cono d’ombra della morte a Venezia e della memoria invalidante. Quelle stesse che portano non solo ai tradizionali sdoppiamenti tra il fare e il non fare e — come usa dire — fra partito del fare e partito del non fare, con tutte le semplificazioni che contraddistinguono, ieri e oggi, queste puntigliose e reciprocamente incomprensive rappresentazioni antagonistiche; ma conducono a sdoppiamenti ancora più sorprendenti: come la cecità diffusa e vorremmo dire volontaria, assolutamente tipica, per cui ci volle una mostra nel secondo dopoguerra avanzato su Venezia nell’Ottocento(62) per vedersi rivelare e riuscire a scorgere quello che, peraltro, era stato sempre e rimaneva sotto gli occhi di tutti: cioè che nell’Ottocento le fabbriche a Venezia c’erano state e in gran parte ancora c’erano, attive o no: solo che — come da più secoli, emblematicamente, l’Arsenale, città nella città, inaccessibile dietro le sue mura — officine del gas e silurifici, fonderie e cotonifici, cantieri navali e tabacchifici godevano di uno statuto di extraterritorialità visiva. Ridotti a muri esterni, luoghi impraticabili e separati e per così dire vuoti urbani. A differenza dei palazzi affacciati su canali e rii, penetrabili alla luce e ai cangianti riflessi dell’acqua — con la conseguenza, tante volte rilevata dai suoi studiosi innamorati, di un gioco di specchi fra interni ed esterni dove tutta Venezia è come un grande ‘interno’ all’aperto(63) — le fabbriche incistate nel tessuto urbano sono luoghi chiusi, sbarrati in se stessi, dove l’occhio non penetra. Quale veneziano — se non era un arsenalotto, cioè se non ci lavorava — è mai entrato in vita sua, sino al riuso, pochi anni fa, da parte della Biennale, nei pur immensi spazi dell’Arsenale(64)? Quanti di noi sono entrati nelle vaste aree attrezzate della Marittima(65)? Al Mulino Stucky, dove solo negli anni Cinquanta è cessato il lavoro? E nell’attigua e altrettanto nordica Birreria? O alla Junghans e negli altri cantieri della Giudecca? Se Marghera ‘non’ è Venezia, benché sia lì di faccia in bella vista, poche isole e non molte brìcole più in là, sull’altro orlo della laguna, neanche la Giudecca è Venezia? Si direbbe che agli occhi dei più malinconici cultori della memoria — di una memoria, però, dimidiata — quella grande e lunga isola vicinissima e visibilissima dalla fondamenta delle Zattere — dove tutti gli abitanti della città sono stati bambini o hanno accompagnato a prendere il sole altri bambini — fosse solo il luogo decaduto di riposti e misteriosi giardini romantici ormai posseduti dagli innamorati di Venezia, preferibilmente inglesi; o l’antica isola dei ‘Giudei’. Passato, comunque, e magari, oggi, per ironia dei tempi, un passato di fabbriche dismesse e vuote; e luogo remoto — ancorché in bella vista e distante solo 300 metri — in cui poteva accadere ai più di non metter mai piede per anni o tutt’al più, una volta all’anno, per la festa del Redentore. E allora, la gigantesca mole del Mulino, castello moderno(66)? Azzerato, anche se la sua nera sagoma intralcia la visione dei tramonti. Come azzerati da un’obiezione pregiudiziale e da un altero sguardo interiore saranno per generazioni il blocco di fabbriche di Marghera, così come l’omonimo abitato; e Mestre, con tutto il suo, e anzi per effetto del suo vorticoso crescere, sarà un non-essere(67). Parlo di sentimenti che conosco perché li ho intensamente coltivati anch’io, sulle pagine di Molmenti e di Tassini, e li sento ancor vivi in sottofondo. Che il centro attuale di Mestre si sviluppi, dalla metà dell’Ottocento, a partire e attorno alle abitazioni e ai giardini di un pugno di veneziani in villa; che, nei primi decenni di crescita, il centro motore di Mestre, ancora spostato verso la laguna e la città madre, sia stato piazza Barche e che le barche con merci e con persone abbiano continuato per qualche decennio a fare la spola tra piazza Barche e il canale di Cannaregio, sopravvivendo all’arrivo del ponte e della ferrovia; che nel Novecento — sopraggiunte Marghera, le fabbriche, la modernità — gli abitanti della nuova Mestre(68) siano stati per tanta parte i figli dei veneziani che si sposavano e volevano spazi e affitti decenti, la camera per il figlio, riscaldamento, luce, macchina(69): raramente si è voluto vedere tutto questo. E anche il travaso di giovani famiglie lo si è unilateralmente rubricato e sofferto come deportazione o addirittura — parola chiave — come biblico esodo. Certo, non intendiamo sminuire la portata degli spostamenti in terraferma, per le proporzioni e gli effetti, né dimenticare le motivazioni di bonifica politica sotto quelle della bonifica igienico-sanitaria, che muovono il ‘piccone risanatore’ fra le due guerre all’attacco dei vecchi quartieri rossi, nella Venezia dell’ingegnere del Comune Eugenio Miozzi(70), come in altre città; ed è vero che per molti era obbligato e sofferto il Bondì, caro campielo, non saremo noi a sminuire la malinconia degli addii alle calli e alle fondamente, di chi era costretto e non sceglieva liberamente lui di andare in terraferma: o ‘in campagna’, se il suo senso di venezianità era particolarmente pronunciato e scontroso. Ma è come se gli storici dell’emigrazione continuassero ancora a presentarci quella partenza — gigantesco e complesso fenomeno — solamente nella luce di una fuga di miserabili e di affamati e non anche come la scelta intraprendente e fiera di ripensare e ricostruire la propria vita. L’autore del ponte del Littorio, del garage di piazzale Roma, del Rio Nuovo, del ponte degli Scalzi e di tanti altri interventi edilizi — Miozzi si vanta di essere quello che ha costruito di più a Venezia, dopo Sansovino — continua e accentua l’azione degli ingegneri e architetti delle generazioni precedenti(71). Il paradosso della memoria invalidante porta infatti solitamente a sottacere che — come documentano gli storici dell’architettura — gran parte della Venezia in cui oggi ci aggiriamo e per cui ci struggiamo non viene da secoli lontani, ma è stata costruita nell’Ottocento(72). Viviamo in piena mimesi. In particolare quella ‘Venezia minore’, che intanto si è acclimatata, è entrata a far parte del colore locale, ci appare ‘eterna’ e necessaria: proprio come tutti quegli abusi edilizi d’ogni tempo, le escrescenze cresciute sui tetti e le pareti dei palazzi — altane, terrazzi, camini, gabinetti d’altri tempi, finestre d’ogni forma e misura, intonaci e verande —, violazioni più o meno patenti del volto originario dell’edificio, più volte così restituito alle funzioni dell’abitare, secondo standards dettati dall’incedere del tempo, dall’interesse privato e dal modificarsi del gusto. Tutto un pullulio di ritocchi e di cambiamenti — è ovvio — del volto cittadino, ma via via riassorbiti dall’insieme e oramai idealmente ‘condonati’ — anzi, capovolti in colore locale, elementi identitari, divenuti essi stessi oggetto di manutenzione e salvaguardia — da parte dei più strenui difensori del passato.

Una ricostruzione della storia di Venezia nel Novecento deve cogliere il divenire di Venezia e dunque muoversi in questa realtà negata — che sia la fabbrica o che sia la continuata trasformazione di immobili e luoghi —, riuscire a porsi in equilibrio tra quell’esserci e quel non vedere, fra tutto quell’operoso fare — che era anche un disfare e un rifare e un trasformare — e l’incantesimo del non riuscire, non potere e al limite non dovere proprio fare più. Dopo quel fatale e conclusivo 1797. Mentre, all’opposto di quel personaggio che combatteva ancora non accorgendosi di esser morto, Venezia è viva, decide e fa, ripetendo di esser morta.

Terra e acqua

Due dimensioni precipue della territorialità caratterizzano in maniera eminente le vicende cittadine nel corso del secolo: una concerne il cuore di Venezia, piazza S. Marco; e una i suoi perimetri esterni, cioè i nessi o l’incertezza sui nessi fra il centro storico, la laguna, le isole e quel bordo occidentale fra laguna e terraferma in cui sono cresciute e crescono Mestre e Marghera(73). La Piazza viene politicamente neutralizzata dopo la seconda guerra mondiale, cioè ricondotta a una sua centralità metastorica sottratta alla cronaca, dopo essere stata per trent’anni, dal ’15 al ’45, il luogo della contesa e della messa in scena degli esiti del confronto politico. Quale sia, oggi, lo spazio veneziano è materia di dura contesa — urbanistica, economica, culturale — di cui quest’opera a molte voci reca essa stessa i segni e che può cercare di testimoniare, ma non di risolvere. Scriviamo mentre si lavora alla preparazione di un altro referendum sulla separazione istituzionale fra ‘Venezia’ e ‘Mestre’, la città madre e la figlia — degenere o ormai cresciuta che sia(74) —, che andrebbero secondo i promotori del referendum, di qua e di là dall’acqua, sciolte da un vincolo innaturale e restituite ciascuna alla propria — diversa — normalità. Un analogo distacco è da poco avvenuto — su un altro orlo della laguna — per il Cavallino, uscito volontariamente dalla ‘grande Venezia’ sancita dalla normativa inglobante degli anni Venti e autocostituitosi in Comune autonomo in tempi, come sono i nostri, di propensioni autocentriche. Ovviamente, è uno strappo straordinariamente più carico di implicazioni il sì o il no alla separazione fra ciò che nominiamo Venezia e ciò che nominiamo Mestre; e qui l’incertezza sui nomi risponde all’incertezza sui rapporti(75), ma si estende persino agli abitanti del Lido, territorio di frontiera pur tanto più inoffensivo di Marghera o di Mestre: anche chi abita al Lido, quando prende la motonave e fa i suoi canonici 12 minuti sull’«Aquileia» o sull’«Altino»(76), annuncia in casa che va a Venezia. Strappare il cordone ombelicale non significa infatti solo onorare le divinità dell’ora — le si chiami decentramento o perdita del centro e autoreferenzialità — ma per Mestre voltare definitivamente le spalle all’acqua (parola d’ordine: dimenticare piazza Barche(77)), e per Venezia un ‘ritorno all’isola’(78). Vera e propria divaricazione: eccesso di oblio da una parte, di memoria dall’altra. Un pezzo della città bipolare(79) si sradica, l’altro pezzo torna a radicarsi. Memoria ed oblio ugualmente e simmetricamente orientati, peraltro. In realtà mentre si omologa o mentre si riconosce unica, ciascuna delle due entità — come sempre avviene negli equilibri fra memoria ed oblio — ricorda o dimentica solo una parte di sé, ma potrebbe ricordarne o dimenticarne anche altre. Come avviene, ci si sceglie un passato a preferenza di un altro, in funzione del presente(80). Venezia vista dall’alto e cioè dall’aereo, con il massimo di prospettiva e di modernità tecnologica, quando dalla terraferma vera e propria si plana fra terra e acqua verso la pista del «Marco Polo», torna a riunificarsi mostrandosi come un insieme: e cioè come un arcipelago di isole, di canali, di insenature e di coste abitate, dentro e ai bordi dell’acqua. Poi, una volta planati fra terra e acqua, si rientra ciascuno nel proprio diverso sentire(81). E a Venezia — capitale del virtuale — le rappresentazioni stanno di casa e possono risultare micidiali.

Il richiamo alla materialità degli spazi non toglie che ogni senso di territorialità si presenti comunque intessuto di elementi immateriali; e che questa duplicità nel nostro caso rischi di relegare una volta di più la territorialità nell’indistinto, visto che al carattere comunque marginale attribuito alla geografia dai nostri usuali postulati culturali, si aggiunge la gloriosa e immanente immaterialità dell’idea di Venezia, con tutto ciò che vi rimanda, laguna e Piazza non escluse. Quanti, in effetti, di coloro che abitano Venezia la conoscono e la praticano dalla barca? Praticano, cioè, abitualmente e dall’interno, l’elemento più irriducibile e distintivo dell’unicità di Venezia, l’acqua? E quanti — fra coloro stessi che ritengono di essersi fatta una passabile idea delle paratie mobili, vulgo Mose, che, piazzate nei canali d’accesso fra mare e laguna, dovrebbero nei prossimi decenni permettere di regolare il flusso delle maree e salvare la città dal frequente ripetersi delle acque alte — ne ragionano in termini di conoscenza tecnica dei nessi fra natura e artificio? Venezia è cresciuta sull’acqua e si è salvata dall’acqua grazie a una capacità plurisecolare di ammodernare gli interventi tecnici vòlti a imbrigliare la natura — osservano i tecnocrati e una parte della cultura veneziana(82); ma un’altra parte di essa si sente e si presenta come più irriducibilmente veneziana e più sensibile al passato e al futuro della città unica proprio perché ritiene che la storia e la tecnica vi abbiano ormai raggiunto un punto di non ritorno, al di là del quale, proseguendo così, non vi sarebbero che la dissoluzione e la rovina(83): qui tutto si è già compiuto e ciò che il nostro tempo può e deve fare a Venezia e per Venezia è un’adeguata manutenzione, una ferma e amorosa custodia del passato. Ma né i novatori né i conservatori sembrano stati finora in grado di animare una frequentazione stabile e vitale della laguna, una conoscenza diretta e diffusa delle sue isole e dei suoi canali, della flora e della fauna. Motoscafi turistici e veloci barchini di pescatori di frodo, in numero maggiore che non in passato, percorrono ora i canali della laguna e sfrangiano i bordi delle barene: così troverete scritto in questo volume; ma anche che, nonostante la persistenza, a Venezia e pure a Mestre, delle associazioni remiere e iniziative di festa e tradizioni inventate che pur sono riuscite ad affermarsi, come il Palio delle Repubbliche marinare o la frequentatissima «Vogalonga», non è ridiventato costume avere la barca, andar per acqua coi tempi lenti dei remi, esplorare la laguna, magari solo prendendo un sandolo a ore da coloro che li affittano, alle Guglie o S. Fosca, microcantieri della domenica che infatti non ci sono quasi più. Che fare delle isole minori, ora che — da pochissimi anni, siamo proprio a una svolta cruciale — non le proteggono più, attribuendo loro significati e funzioni(84), le polveriere e gli ospedali del recente passato? In assenza di una restituzione di funzioni e di riusi confacenti, la desertificazione e l’abbandono non possono che reinnescare e rendere più credibile, una volta di più, la nenia e l’autocompianto della morte di Venezia. Quel venir meno di funzioni e il connesso spopolamento sembrano infatti alludere a una devitalizzazione onnicomprensiva(85). La sera, in Piazzetta, non ci sono ragazzi a fare il liston. E al ponte delle Guglie non fanno più el gardo di una volta: il castagnaccio.

Piazza e campielli

Torniamo in ‘piazza’ e a questa dimensione della territorialità, più che mai frutto di tratti materiali e di implicazioni simboliche. Il Novecento a Venezia ricomincia, si può dire, con la conquista della ‘piazza’ ad opera dei giovanissimi fautori dell’intervento dell’Italia. Sono i ragazzi delle scuole, più ancora dei loro fratelli maggiori cafoscarini, a espellerne progressivamente i neutralisti fra autunno 1914 e primavera del ’15. La geografia dei cortei e delle dimostrazioni, che è stata studiata analiticamente ricostruendola dalle cronache dei quotidiani cittadini — specie della «Gazzetta di Venezia», fra sospettosa e compiaciuta, come tutte le forze d’ordine, nel veder crescere questa nuova gioventù nazionale, vogliosa e capace di prendersi la ‘piazza’ e di tenere la ‘piazza’ — mostra una sorta di coazione a muovere da qualunque punto della città verso S. Marco; e la polizia ha il suo daffare nel tentativo di bloccare tutti i ponti e le calli da cui, suddividendosi e ricomponendosi, la folla che ha per esempio ascoltato Cesare Battisti alla Misericordia può puntare all’obiettivo(86). Nei mesi più caldi dell’attesa, i due schieramenti arrivano a misurarsi in Piazza ogni sera; e su questo, oltre che delle più o meno minuziose cronache giornaliere dei quattro quotidiani cittadini, disponiamo di una testimonianza straordinaria della parte soccombente, quella ostile alla guerra, nelle memorie — politicamente realistiche e tuttavia accarezzate dal soffio della giovinezza — scritte nel secondo dopoguerra da un dirigente del Partito Comunista Italiano, Girolamo Li Causi, allora giovane socialista salito dalla Sicilia al Nord per frequentare Economia. Ci racconta anche lui le modalità e i tempi di quelle quotidiane simulazioni di guerra che costituiscono fra l’altro il redde rationem fra le due anime del Partito Socialista Italiano; ed è una fortuna disporre qui in parallelo dei ricordi di un suo coetaneo, Arduino Cerutti, che diventa socialista proprio al fuoco della predicazione battistiana, facendosi arrestare e processare, mescolato ai nazionalisti, nei tumulti seguiti al discorso del deputato di Trento. È anche uno scontro emblematico fra generazioni e fra professori e studenti, che ha come cornice S. Marco e addirittura — per ricorsi della memoria ancora più densi — i tavolini del Caffè Florian(87). Sembra tuttavia di poter notare come l’associazione dei socialisti con piazza S. Marco — prima e dopo la Grande guerra — sia meno intima e necessaria di quella degli interventisti del ’15 e dei movimenti protofascisti dell’anno 1919 e seguenti, che se ne proclamano eredi. Il potere è concentrato e gerarchico; i contropoteri sono plurali e diffusi. Vengono, sì, i giorni in cui, venezianamente, S. Marco calamita tutti; ma le radici, la vita e le lotte quotidiane dei rossi si associano più appropriatamente a luoghi meno aulici e più disseminati: sestieri popolari quali Castello, Cannaregio, Dorsoduro, tutti più del sestiere di S. Marco, e più in particolare via Garibaldi, campo S. Polo, soprattutto il colorito e vivacissimo campo S. Margherita, cui tra il serio e il faceto qualcuno arriva ad attribuire uno statuto di autonomia, fra carnevalesca e sovversiva, denominandolo ‘Repubblica di santa Margherita’(88). È qui o negli immediati paraggi di quest’area a forte connotazione plebea che, al termine di peregrinazioni logistiche, si insedia la Camera del lavoro e poi la Casa del popolo(89) (in località Malcanton: nomen omen, sono portati a ritenere gli avversari); è intorno a questa ‘S. Marco’ dei proletari che avvengono diverse delle sfide più violente e omicide del dopoguerra veneziano(90), che traducono in sangue le simulazioni di scontro inaugurate sin dall’anteguerra dai garangheli politici delle avanguardie nazionaliste riunite all’osteria «da Codroma», in pieno territorio nemico(91). Se ci proiettiamo avanti nel tempo, torniamo a vedere un regime di doppia territorialità, con il centro cittadino presidiato da coloro che prendono e detengono il potere: la Piazza nei giorni della Marcia su Roma, delle visite di Mussolini, di Hitler, delle parate militari, della Kommandantur tedesca con la bandiera uncinata che sventola da un balcone delle Procuratie Nuove: gli stessi — corsi e ricorsi — da cui un secolo prima si affacciava il governatore austriaco. E giù, come allora, di nuovo, nel 1945 come nel 1848, il movimento popolare, vestendo panni e insegne nazionali, reintegra se stesso e la Piazza nei flussi della memoria. Penso — prima che ai giorni delle parate partigiane dopo la Liberazione — alla fantasiosa, futuristica azione della Resistenza veneziana con lancio di manifestini dal campanile grazie a un sistema di detonatori che permette agli autori di essere già giù, spettatori del proprio colpo(92).

Naturalmente, fra le due guerre — persino in quelli che una memoria d’epoca mantenutasi straordinariamente inalterata nel tempo vagheggia ancor oggi come i luminosi Ultimi anni del Leone — S. Marco non vive solo di eventi politici sopra le righe, ma delle lusinghe della sua atemporale normalità: la Marangona e le altre campane che si scatenano, dall’alto del campanile, alle nove, a mezzogiorno e a tutte le ore canoniche, come hanno sempre fatto; i Mori che battono il loro martello sulla campana, dalla Torre dell’Orologio; i bambini — diverse leve di bambini — che fanno il trenino sulle liste di pietra bianca che si disegnano sul pavimento; e i colombi, e i venditori di grano, e i foresti coperti di grano e di colombi, e i fotografi che li vanno eternando; con tanto di banda municipale, la domenica, e di sinfonia del Nabucco e del Guglielmo Tell o magari dei Maestri cantori. Senza la preoccupazione, per maestro e orchestrali, che nessuna richiesta di ‘cambiar musica’ sorga dalla Piazza, perché gli scavezzacolli del dopoguerra hanno messo la testa a partito. O sono stati ridotti al silenzio. E, semplicemente, la musica che si suona fra le due guerre è sempre la stessa. Venezia fra le due guerre è fatta così, vive e va raccontata fra squilli, ciàcole e silenzi, nei suoi luoghi di visibilità massima e in quelli, appena discosti, dove ci si rifugia a vivere appartati. In fondo, questa duplicità esistenziale, la contiguità e insieme la separatezza della sua sfera pubblica — fra politica e mondana — e delle sue minute sfere private d’ufficio e di campiello, esalta nella città del conte Volpi — il nuove doge dell’aristocrazia del denaro — una geografia che la precede, costitutiva di questa città particolare, in senso urbanistico e mentale(93). Assai più che dalle fabbriche di Marghera, rivelatesi posti di lavoro per operai di prima generazione, nati e residenti in provincia, agli strati popolari cittadini le occasioni di lavoro vengono dall’indotto turistico del sistema economico volpiano. La C.I.G.A. (Compagnia Italiana Grandi Alberghi), il turismo dei grandi circuiti internazionali, l’industria della memoria e dell’arte danno lavoro: integrano grande e piccola gente in un blocco corporativo e gerarchico che si autolegittima anche rivivendo le tradizioni nel moderno. Questo dato di dipendenza e di integrazione corporativa sussiste ed è ciò che — vista dall’interno delle classi dirigenti — fa ricordare come un successo universale gli anni della ‘grande Venezia’. Ci possono però essere altre maniere per ricordarli e per metterli a fuoco. La serrata ormai avvenuta e legalizzata a livello nazionale esclude da ogni azione politica autonoma tutti coloro che non fanno parte della risultante elitaria di quel succedersi di strette, fra il ’15 e il ’25, l’ultima delle quali chiude la parentesi Matteotti e l’Aventino; ma è ovvio che chi, venezianamente, si riconosca nella politica decisionista che si esprime nella esclusione, ha paternalisticamente in mente un popolo che, di suo, non avrebbe nessun bisogno e nessuna voglia di fare politica: tolti di mezzo o tacitati i sobillatori, è sufficiente persuaderlo che c’è chi pensa e provvede per lui. E che ci siano, nelle calli, sufficienti bàcari, trani, malvasie e, in più, le moderne attrattive della cultura di massa dispensate dal regime tramite il Dopolavoro(94). Il lettore troverà nel volume i dati relativi al lavoro, all’economia e alle condizioni di vita effettive delle classi popolari veneziane fra le due guerre(95). Così come gli attori e i pubblici delle istituzioni culturali, le università, i luoghi della musica, la vita teatrale, la letteratura, colti nella loro dimensione di professionalità e di gusto(96) e nei non pochi momenti d’eccezione.

Noi, qui, vorremmo affiancare alla narrazione di Maria Damerini — allora brillante frequentatrice di feste, salotti e spettacoli, accanto a contesse(97) e capitani d’industria, artisti e gerarchi, e oggi ferma depositaria di quella memoria(98) — un’altra narrazione, che è Scomparso a Venezia di Mario Bonfantini. Non certo perché al romanzo dello scrittore novarese si possano attribuire le valenze documentarie, di cronistoria dall’interno, che riconosciamo a Gli ultimi anni del Leone nella testimonianza della moglie di Gino Damerini, direttore della «Gazzetta di Venezia» e intellettuale di punta del blocco nazionalfascista sin dai tempi di Foscari e dei ‘Sette Savi’(99); ma la cui parabola conta per noi anche quando da attore di prima fila retrocede fra i comprimari(100), per le eclissi e le ricomparse del secondo dopoguerra, nella cerchia protetta di S. Giorgio e di Vittorio Cini. Pensiamo tuttavia che Scomparso a Venezia possa fare da contraltare ai fulgori dei potenti proprio perché ambientato in sottofondo, negli stessi anni, fra le mezze tinte e la marginalità di una Venezia periferica, di caffeucci, osteriole, abitata dagli umili e dagli esclusi, ai bordi della città del potere e del successo(101), e per qualche personaggio ai bordi anche della legalità(102). Non che il protagonista del romanzo abbia direttamente a che fare con la microcriminalità, stimato funzionario, com’è, di una grande società in cui si possono indovinare le Assicurazioni Generali, paracadutato per caso da Milano in quel micromondo vagamente misterioso e tentante. Lo scrittore — lui stesso partigiano — gli rigenera la vita e gli insegna l’antifascismo proprio attraverso questa astrazione totale e quest’oblio. Lo sbocco politico del personaggio letterario potrà anche apparire edificante e le pagine più convincenti restare quelle dimesse fra la trattoria della Vida e l’osteria del Buso. La scelta di affiancare qui i due diversi spaccati cittadini, dei quali l’uno sfuma e completa necessariamente l’altro, deriva dalla singolare analogia di atmosfere e di circostanze fra le pagine di Bonfantini — scritte del resto a posteriori — e ciò che sappiamo dei luoghi e dei personaggi in cui si rifugiano e maturano nell’attesa i protagonisti della futura stagione della Resistenza a Venezia(103). Quelli appunto che si sottraggono, che negli anni grandi — degli altri — vivono in disparte, in attesa dei «giorni veri»(104): possono essere le riunioni politiche in barca, nella laguna dietro la Giudecca, vicina e remota(105); secessioni private, obiezioni personali e familiari, come quelle dello scrittore Ugo Facco De Lagarda in barca a vela dal Casin degli Spiriti in laguna nord il primo 28 ottobre di guerra(106); lo studio d’avvocato dove il futuro presidente del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) veneziano sopravvive producendo anonime comparse per i colleghi che, a differenza di lui, hanno ancora cause e le possono sostenere in tribunale(107); il Circolo degli scacchi al Caffè Omnibus in riva del Carbon, dove un oscuro impiegato della S.A.D.E. (Società Adriatica di Elettricità) patito di Salgari studia strategia e perfeziona le mosse che anni dopo gli serviranno per ideare, a due passi di lì, la beffa del Teatro Goldoni(108); le quiete sale della Biblioteca Querini, dove anche in regime di censura si possono riuscire a fare ‘cattive letture’ e vengono ricuperati i libri di Piero Gobetti e poi degli ebrei in difficoltà(109); isole di resistenza intellettuale al «Foscarini»(110) o al «Benedetti»(111); qualche banco o antro pieno di libri usati dove ci si ritrova tra affini e qualche volta approdano i messaggi degli esuli(112): i luoghi e le forme di sopravvivenza dei dissidenti sono i più diversi, se fra essi sopravvive persino una osteria ‘militante’, quella della famiglia Spina a S. Vio, superstite di una rete più ricca e capace di accompagnare, fra gestori e avventori, più generazioni di sinistra(113). Al solito, non è il caso — a Venezia — di immaginarsi antitesi secche, dove l’esporsi e il ritrarsi, ovvero le vite dei maggioritari e dei minoritari, non si incontrino mai. Sarà un caso, ma colpisce: Giuseppe Turcato si anfratta alla S.A.D.E., cioè proprio nel centro del sistema di potere economico-politico che fa capo a Volpi, prima di venirne fuori come massimo regista e scenografo della Resistenza più marcatamente veneziana e poi anche come il suo più assiduo narratore(114); Armando Gavagnin, allontanato dal «Gazzettino» — dove ritornerà nel ’45 da direttore, in attesa di divenire e fare a lungo il vicesindaco — trova dopo il carcere e il confino rifugio alle Assicurazioni Generali(115); Ugo Facco De Lagarda attraversa gli anni di regime compiendo una carriera direttiva alla Banca Commerciale; Gino Luzzatto, espulso da Ca’ Foscari perché ebreo, rimane un punto di riferimento intellettuale e ispira discretamente la «Nuova Rivista Storica», con Angiolo Tursi per segretario di redazione e, di nuovo, Turcato fra i collaboratori. Si potrebbe continuare, ma tutti questi nascondimenti arieggiano a luoghi di quiete precaria e come irreale al centro del ciclone. E ci pare allora che non senza coerenza il romanzo della Resistenza a Venezia si svolga pressoché per intero nel chiuso di una stanzetta, centralissima e occulta, che incombe dall’alto sul più affollato e trafficato crocevia cittadino, campo S. Bartolomeo. Del resto La grande Olga(116) traduce in trama narrativa situazioni reali, quella del critico letterario Aldo Camerino il quale, al culmine della persecuzione degli ebrei, trascorre gli ultimi 564 giorni del fascismo murato all’interno di un nascondiglio in una casa amica(117).

E tuttavia bisogna guardarsi dal prendere le vicende cittadine dal solo lato umbratile, scordandosi del lato en plein air, visto che in luce sta chi comanda o si piega al comando. Perché sono veri tutt’e due i lati e non si governa Venezia (neanche una storia di Venezia) cogliendone un lato solo. Un piccolo grande colpo di scena — e una tappa nell’uscita dalla clandestinità e nella riconquista antifascista della Piazza —si ha quando il giovane professore Sandro Gallo, una notte del 1941, «eludendo le ronde notturne, macchiò di rosso sanguigno la carta geografica del teatro di guerra, esposta in Piazza S. Marco, trasformando così la dimostrazione delle vittorie nazifasciste in un impressionante atto di accusa»(118). Qualcuno dei protagonisti della Resistenza veneziana, che è anche fra gli autori del nostro volume, non ama troppo riandare alle circostanze più esterne della lotta; sbuffa, in particolare, quando gli si chiede ancora una volta di ricordare la beffa del Goldoni(119), dove fu proprio lui, da allora e per sempre ‘Cesco’(120), a salire sul palcoscenico per leggere il proclama partigiano agli allibiti spettatori, compresi nelle prime file quelli in divisa tedesca e fascista. E però non c’è nulla di più veneziano di questa azione teatrale e la città andava riconquistata anche così, misurandosi su questo terreno che le è proprio. Teatro nel teatro, certo, e l’autore della pièce, Giuseppe Turcato — ‘Marco’ —, lo sottolinea con lucido compiacimento: quella sera la compagnia di Elena Zareschi dava Pirandello, Vestire gli ignudi. Ma poi riemerge dalle viscere della città, in quella serata del ’45 al Goldoni, un’altra serata del 1866 alla Fenice, di scena quella volta Il Trovatore, i patrioti di allora e gli austriaci(121). Si è già fatto cenno all’azione del campanile di S. Marco, altra forma di riappropriazione dei luoghi simbolici cittadini: con i giovani ribelli a naso all’aria che se ne stanno sotto la Torre dell’Orologio tra la folla a godersi i loro manifestini che scendono volteggiando dalla cella campanaria, mentre i marò della Decima Mas li cercano dove loro, grazie a un marchingegno nel lancio, non sono già più(122). Qualche cosa di futuristico riecheggia anche nell’ultima regia e scenografia partigiana di Bepi Turcato, meno nota della ‘beffa’, ma affine nella concezione(123). Siamo proprio alla chiusura, nei giorni dell’insurrezione, quando le possibili conclusioni oscillano fra un’ultima rabbiosa carneficina e una diplomatizzazione del conflitto che permetta la ritirata di tedeschi e fascisti dai loro ultimi insediamenti. Uno degli ultimi duelli collettivi, a distanza, si consuma nel tratto di Venezia che separa due luoghi non neutri della geografia cittadina: l’Accademia di Belle Arti e il Collegio Navale a S. Elena, dove sono asserragliati 350 militi della Decima Mas, molti dei quali giovanissimi. Nel colmo della notte, da questo lembo estremo della città, a fianco dello stadio «Pier Luigi Penzo» — intitolato al pilota esploratore — e sfilando accanto a Oberdan, Carducci e agli altri personaggi pubblici del famedio nazionale concentrati ai Giardini(124), la colonna dei resistenti fascisti dell’ora estrema è annunciata in movimento, minacciosa e aggressiva, lungo la riva dell’Impero, con obiettivo l’Accademia di Belle Arti. Qui infatti è il quartier generale dei ‘traditori’ antifascisti, da dove il comando partigiano guida l’insurrezione. Poco più di mezz’ora a piedi separa il possibile cozzo dei due gruppi armati. Le narrazioni del dopoguerra rievocano quell’ultima notte di guerra civile come una fantasmagoria sinistra di luci e ombre, in cui — con l’aiuto anche di elettricisti che d’improvviso tolgono e riaccendono le luci dei fanali — la regia e le maestranze partigiane riescono alla fine a far saltare i nervi e a disgregare le file dei giovani assalitori, prima che si possa arrivare a diretto contatto. Siamo ormai al limite della messa in scena(125); e, nelle prossime ore e giorni, non mancheranno vere e proprie ricostruzioni fotografiche e cinematografiche a posteriori su Venezia che insorge(126): con partigiani veri e ipotetici, talvolta sconosciuti e sorti dal nulla, ma ornati di lunghe chiome e ricche cartuccere alla Pancho Villa, che si mettono in posa di sparo sui ponti e sui tetti di Venezia. Non ci sono solo il lato ludico e l’ovvia, opportunistica corsa all’io c’ero, generalizzata dovunque. C’è Venezia; e, in più, la presenza a Venezia di una parte consistente di ciò che resta dei quadri, delle maestranze, dei macchinari della cinematografia italiana. Nei due anni di Repubblica Sociale proprio Venezia è diventata la nuova precaria capitale della cultura, dell’editoria e del cinema, si sono girate pellicole, vi hanno lavorato gli uomini dell’Istituto Luce e la loro base logistica, l’Albergo Bonvecchiati, ha preso misteriosamente fuoco(127). Nell’ora che fa da spartiacque nella storia del Paese e che può esserlo anche per i singoli, nella carriera e nella vita, non mancano certo i convertiti e in genere coloro che trovano conveniente recitare la parte di chi ha lavorato per la causa seppur ‘dall’interno’ degli apparati di regime. E anche gli antifascisti di lungo corso non possono guardare ai nuovi venuti troppo per il sottile. È questa l’ora dei voltafaccia e delle rese — come ci sono sempre nei grandi passaggi di fase — e dei salvacondotti incrociati, dei salvataggi in angolo, delle finzioni pubbliche e private. Ci vorrà un quindicennio perché Roberto Rossellini, sulla scia di un racconto di Indro Montanelli, confessi la doppiezza delle identità e gli avvolgimenti della recita, per sé e per la quasi generalità dei propri concittadini, nel film su un eroe per sbaglio quale il finto Generale Della Rovere. Nel 1945, non solo i professionisti dell’immaginario e della rappresentazione, ma tutti sono, più che mai, chiamati a reinventarsi sulla scena della vita. Francesco Pasinetti — il giovane cineasta di talento cresciuto nel G.U.F. (Gruppi Universitari Fascisti) veneziano e nelle pagine permissive de «Il Ventuno» — entra sveltamente nel canone dell’antifascismo; e a maggior ragione, ma più segretamente, ‘Kim’ ovverosia Franco Arcalli, giovane amatissimo leader del partigianato locale e futura firma del cinema che conta come sceneggiatore. Proprio a Kim e i suoi compagni verrà intitolata — non a caso, da un interprete autentico quale Turcato — l’opera forse più azzeccata sulla Resistenza a Venezia.

Alla tradizione endogena del teatro nei campi e al carattere diffuso dell’insediamento delle sinistre rimanda felicemente la metodica riconquista dei luoghi cittadini narrata da Cerutti, reduce nei giorni della Liberazione dal lavoro politico nel regno del Sud e in procinto di essere nominato presidente del C.L.N. provinciale:

Andai a Castello a occupare la sede rionale del fascio, poi a S. Maurizio e infine a S. Polo. Qui si era spontaneamente riunita una grande folla. Mi si invitò a parlare e parlai fra gli applausi, emozionatissimo. A un tratto mi accorsi che stavo parlando in dialetto. Non importa, continuai in veneziano: forse era più immediato e meglio corrispondente al clima del momento. Credo di aver fatto il più bel discorso della mia vita(128).

Il ponte di Calatrava

Gli ottimisti hanno considerato la ripresa dello scavo dei canali negli anni Novanta — dopo decenni di interruzione — come il segno di una generale rimessa in movimento(129). Tanto più che quando alla guida della città s’era candidato ed era giunto per la prima volta un filosofo — non ponendo in dubbio che Venezia avrebbe avuto d’ora in poi un rappresentante di alto profilo sul piano dell’immagine e nella pur precipua e sovraesposta dimensione dei contatti culturali — i più increduli avevano brutalmente richiamato alla più sporca e umana quotidianità dei doveri sindacali: le fognature, le scoàsse, la pulizia dei canali. E poi per il fatto che ripulire i rii — e farlo per tutta la loro ramificazione dal centro alla periferia, non accontentandosi di affrontarne solo alcuni, i più visibili e redditizi dal punto di vista dell’effetto-annuncio — comporterebbe di per sé anni e anni di lavoro e, in pratica, un ciclo continuo di interventi poiché si finisce da una parte e già bisogna ricominciare dall’altra. Dunque, manutenzione, però manutenzione permanente; quotidianità necessaria della città d’acqua, ma anche interventi di sistema, che richiedono vi sia e sia in grado di funzionare continuativamente una macchina, in tutte le sue dimensioni normative, economiche e tecniche. Per la verità, neppure su questo obiettivo — minimo, considerando un canale alla volta, ma a suo modo strategico ragionando in termini di sistema acqueo complessivo — si sono viste risolvere le contrapposizioni e ricomporsi in un comune, umile e assennato fare, e fare manutenzione dell’esistente per l’appunto, i due partiti o le due mentalità che tengono in sospensione Venezia e l’idea di Venezia. In un recente convegno all’Ateneo Veneto i tecnici vicini alle posizioni di Italia Nostra hanno infatti messo in discussione — al di là del mero intervento di svuotamento e ripulitura — la natura e la qualità dei materiali usati e delle contestuali forme di intervento nel consolidamento dei bordi e nel rialzo delle rive, proponendo nel contempo anche la questione delle masegne, cioè delle pietre della pavimentazione cittadina in restauro, per qualità, forma e posta in opera(130). La divaricazione si sposta quindi fino a ricomprendere anche i livelli tecnici più specifici, non già del fare o non fare, ma del come fare. Naturalmente, ogni scelta, pubblica o privata che sia, qui o altrove, deriva da un dibattito e può a sua volta promuoverlo; e qui non c’è nulla di particolarmente veneziano. La particolarità di Venezia sta nella circostanza che qui si possa sommare la difficoltà, che c’è dovunque, di governare le società complesse, con l’amore irriducibile dei «militanti della memoria», per applicare alla «memoria invalidante» di Venezia le categorie di Todorov e di Mayer. Gli effetti possono essere paralizzanti e l’indecisionismo diventare costume. Sono passati cinque anni da quando si è consumato il rogo della Fenice. Un grande simbolo, di decifrazione persin troppo ovvia e su cui si sono con amara delizia esercitati commentatori di ogni parte del mondo, subito gettatisi a capofitto nel mito funebre così patentemente offerto a tutti come chiave di lettura. Palazzo Gritti — la sede del dipartimento di Studi storici di Ca’ Foscari, dove lavorano diversi fra gli autori di questo volume — è il più vicino al teatro, subito al di là del canale in quel momento asciutto: bastava che il vento quella sera soffiasse in quella direzione... Questo per dire che non siamo ignari della fragilità estrema e della straordinaria esposizione al rischio della catastrofe di Venezia, per sua stessa natura. E il sindaco-filosofo, in piedi fra le rovine con il suo patetico elmetto giallo, sembrava in quel momento incarnare nel modo più alto l’autocoscienza tragica di quel fulmineo dissolversi e venir meno; e dell’obbligo, comunque, di ricominciare. Rifare il teatro, rifarlo subito — e, come all’epoca della caduta del campanile(131), come era e dove era — parve in poche battute realizzare finalmente una unità di intenti facendo per una volta convergere le opposte retoriche. Riuscire davvero a ricostruirlo nei tempi celeri stabiliti — e con tutti gli ammodernamenti tecnologici nei dispositivi interni consentiti dal rispetto della tradizione — avrebbe potuto apparire ed essere vissuto come un segnale straordinario di volontà ed energia vitale. Non essendo questo avvenuto, la forza del simbolo si rovescia nel suo contrario e assume oggi un significato d’impotenza(132). E il non fare per motivi al tempo stesso ricorrenti e contingenti, perché una volta di più non si riesce a programmare e a governare i grandi lavori pubblici, districandosi nelle pastoie normative, decidendo chi e come debba realizzare il lavoro e controllando che effettivamente lo faccia e lo porti a termine nei tempi previsti(133), costituisce un sostanziale aiuto agli assoluti di tutti coloro che — sia pure arrivandoci da presupposti diversi — sono già a priori inquieti e diffidenti di fronte a tutto ciò che si muove e mette a rischio Le pietre di Venezia(134).

Si farà o non si farà il ponte di Santiago Calatrava(135)?

  • Mattino di giugno, poco dopo le 8. Il ponte della Paglia non è ancora impedito dagli ammiratori del vicino ponte dei Sospiri. Si transita agevolmente, anzi un pittore giapponese si concede il lusso di star lì seduto a dipingere. Uno sguardo all’isola di S. Giorgio e un tocco sulla tavolozza, uno sguardo e un tocco. Sagome velate, con toni perlacei fra rosa e viola. Alla Guidi, non brutto. Ma due veneziani che passano commentano, in dialetto, con la frase del titolo. Controllo ed è come dicono loro: il pittore venuto da lontano guarda S. Giorgio e dipinge la Salute.

Ringrazio Giandomenico Romanelli per avermi amichevolmente assistito nella individuazione di alcuni degli autori del volume (Mario Isnenghi)

1. Bernardo Bellotto 1722-1780, catalogo della mostra, a cura di Bozena Anna Kowalcäyk-Monica da Cortà Fumei, Milano 2001.

2. Fondazione Giorgio Cini, Canaletto Prima Maniera, Milano 2001.

3. Rinvio al contributo di Giandomenico Romanelli, Le arti, in questo volume; e, per i precedenti, a Venezia nell’Ottocento. Immagini e mito, catalogo della mostra, a cura di Giuseppe Pavanello-Giandomenico Romanelli, Milano 1983.

4. Rinvio al contributo di Gian Piero Brunetta in questi volumi, che presenta la storia del cinema a Venezia e su Venezia come lo sbocco di una secolare storia della ‘visione popolare’ che passa attraverso la pittura, le stampe popolari, la lanterna magica e tutti i possibili intrecci e strumenti dell’immaginario.

5. Il gioco visivo non concerne solo e sempre il passato, può anche riguardare il futuro e, meglio ancora, i futuri mancati, come quando entrano in gioco Le Corbusier, Wright, i progetti rimasti sulla carta e negli archivi: Le Venezie possibili. Da Palladio a Le Corbusier, catalogo della mostra, a cura di Lionello Puppi-Giandomenico Romanelli, Milano 1985.

6. V. da ultimo Alberto M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino 2000 e, in una delineazione del passato più sociale che ideologica, Ruggiero Romano, Paese Italia. Venti secoli di identità, Roma 1994.

7. Mario Isnenghi, L’elaborazione del lutto, in Id., La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 383-429 (pp. 381-482); e più di recente, ancora sulla compresenza e i riusi della memoria, Id., Fine della Storia?, in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, pp. 405-436.

8. Id., Le gloriose disfatte, «Mélanges de l’École Française de Rome. Italie et Méditerranée», 109, 1997, pt. I, pp. 21-34.

9. Paul Ginsborg, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49, Milano 1978; Venezia Quarantotto. Episodi luoghi e protagonisti di una rivoluzione 1848-49, catalogo della mostra, a cura di Giandomenico Romanelli-Michele Gottardi-Franca Lugato-Camillo Tonini, Milano 1998; e la raccolta ragionata di documenti proposta da Piero Brunello, Voci per un dizionario del Quarantotto, Venezia 1999.

10. Adolfo Bernardello, Veneti sotto l’Austria. Ceti popolari e tensioni sociali (1840-1866), Verona 1997, pp. 53-146, 147-188.

11. Eva Cecchinato, La rivoluzione restaurata. Il 1848-49 a Venezia fra memoria e oblio, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1999-2000.

12. Per il profilo degli avvenimenti rimando al volume Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, e in partic. al saggio dello stesso Emilio Franzina, Introduzione, pp. 3-113; ma qui e altrove è anche naturale rinviare il lettore, per tutti i precedenti e le connessioni del caso, ai saggi della parte dedicata all’Ottocento, a cura di Stuart Woolf, in questi volumi.

13. Riccardo Selvatico, La bozeta de l’ogio, Venezia 1975; Id., I recini da festa, Venezia 1975.

14. Luisa Alban, I monumenti pubblici a Venezia dopo l’annessione, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1993-1994, pp. 188-228.

15. Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992.

16. Enzo Di Martino, La Biennale di Venezia 1895-1995. Cento anni di arte e di cultura, Milano 1995.

17. Mezzo secolo dopo, la lungimiranza della Chiesa veneziana troverà agli occhi di molti conferma nell’atteggiamento del patriarca Roncalli, futuro papa lui pure, nei processi, stavolta, di ‘apertura a sinistra’ che proprio a Venezia trovano un loro campo di sperimentazione. Per i tempi e i modi di questa strategia dell’attenzione anche alle dinamiche interne al partito socialista, rinvio al saggio di Leopoldo Pietragnoli-Maurizio Reberschak in quest’opera.

18. Monica Donaglio, Il difensore di Venezia. Pompeo Molmenti tra idolatria del passato e pragmatismo politico, «Venetica», n. ser., 13, 1996, nr. 5, pp. 45-72; ed ora, della stessa autrice, la tesi di dottorato discussa all’Università degli Studi di Venezia nel 2001, Un esponente dell’élite liberale: Pompeo Molmenti politico e storico di Venezia.

19. Filippo Tommaso Marinetti-Umberto Boccioni-Carlo Carrà-Luigi Russolo, Contro Venezia passatista (27 aprile 1910), e Filippo Tommaso Marinetti, Uccidiamo il Chiaro di Luna! (aprile 1909), entrambi in Filippo Tommaso Marinetti, Teoria e invenzione futurista, a cura di Luciano De Maria, Milano 1968, rispettivamente pp. 30 e 13.

20. Uno dei frutti sarà l’immersione totalizzante in una nomenclatura venezianista in stile alto, tutta dogi e ‘Mare Nostrum’, di un intero quartiere residenziale moderno, strategico negli sviluppi novecenteschi cittadini, l’isola del Lido. Cf. Assunta Cuozzo-Silvia Piro, Le vie del Lido di Venezia, Venezia 1998.

21. Per le circostanze generative dei testi, Gino Damerini, D’Annunzio e Venezia, Venezia 1992 [1943]; e inoltre Mario Isnenghi, D’Annunzio e l’ideologia della venezianità, in D’Annunzio e Venezia. Atti del convegno, a cura di Emilio Mariano, Roma 1991, pp. 229-244, ora in Id., L’Italia del fascio, Firenze 1996, con il nuovo titolo Il poeta-vate e la rianimazione dei passati, pp. 47-62.

22. Gabriele D’Annunzio, Notturno (1921), Milano 1953, p. 49.

23. Mario Isnenghi, Una ‘ragione eroica di vivere’, in D’Annunzio a cinquant’anni dalla morte. Atti del convegno, Pescara 1989, ora in Id., L’Italia del fascio, Firenze 1996, con il nuovo titolo Lo spettacolo eroico, pp. 85-94.

24. Luciano Pomoni, Il Dovere Nazionale. I nazionalisti veneziani alla conquista della piazza (1908-1915), Padova 1998, pp. 206-231.

25. È il quotidiano dei cattolici veneziani (1882-1917) diretto dal fedelissimo Francesco Saccardo.

26. L’episodio è ricostruito da G. Damerini, D’Annunzio e Venezia, pp. 95-110.

27. Rinvio ai tre capitoli di questo volume che affrontano da varie angolature gli anni del dopoguerra, rispettivamente di Luca Pes, Il fascismo adriatico, Renato Camurri, La classe politica nazionalfascista, e Gianni Riccamboni, Cent’anni di elezioni a Venezia; e al volume di Giulia Albanese, Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia 1919-1922, Padova 2001.

28. L. Pomoni, Il Dovere Nazionale, pp. 527-531.

29. Anche uno dei dimessi poeti del «Sior Tonin Bonagrazia» fa sventolare così, nel nr. 45 dell’«ano XXXVII», 11 novembre 1921, La bandiera de la Serenissima: «Ma che possa el Leon su Italia tuta / Generoso e potente dominar, / Sostegno d’una pase ben costruta, / Dei nemici teror, e in tera e in mar; / Possa Venezia e Roma,alfin sorele, / Eterne trionfar soto le stele [...]».

30. Salvatore Lupo, Il Fascismo, Roma 2000, pp. 309-316.

31. V. in questo volume il capitolo di Maurizio Reberschak, Gli uomini capitali: il «gruppo veneziano» (Volpi, Cini e gli altri).

32. Rimando di nuovo all’analisi della classe politica fra le due guerre procurata in questo volume da R. Camurri, La classe politica.

33. È la doppia tipologia di intellettuale su cui è costruito il mio volume omonimo uscito presso Einaudi nel 1979, riproposto in parte in L’Italia del fascio.

34. Faccio mia l’espressione di Charles Maier, nata in riferimento alla Shoah, nel testo Un eccesso di memoria? Riflessioni sulla storia, la malinconia e la negazione, tradotto in italiano dalla rivista «Parole Chiave», 1995, nr. 9, p. 33, con il titolo La memoria e le cose. Di intonazione non dissimile — fra le tante riflessioni sulla memoria che caratterizzano gli anni Novanta — il saggio di Tzvetan Todorov, Les abus de la mémoire, Paris 1995.

35. In questa parte, come in quella dedicata all’Ottocento, si occupano degli archivi e delle biblioteche rispettivamente Francesca Cavazzana Romanelli e Stefania Rossi Minutelli.

36. V. in questo volume il saggio di Marco Fincardi, I fasti della ‘tradizione’: le cerimonie della nuova venezianità.

37. Eugenio (Nino) Barbantini (Ferrara 1884-Venezia 1952) è personaggio ritornante in ogni storia dell’arte e dell’organizzazione artistica e culturale a Venezia. Nel Dizionario Biografico degli Italiani (VI, Roma 1964, pp. 37-39) il suo profilo è tracciato dal suo sodale Gino Damerini. Una biografia e bibliografia più recenti sono offerti da Nico Stringa negli atti del convegno del 1992 in Palazzo Ducale, Nino Barbantini a Venezia, a cura di Sileno Salvagnini-Nico Stringa, Treviso 1995, con saggi di alcuni fra gli studiosi e gli organizzatori culturali a Venezia nelle generazioni successive alla sua, da Francesco Valcanover ad Aldo Bettagno, da Guido Perocco a Giandomenico Romanelli, al cui saggio, Le arti, in questo volume si rinvia. Di Barbantini, come degli altri di quel prestigioso gruppo generazionale, mi sono occupato nella seconda parte del saggio su La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 439-448 e 464-465 (pp. 381-482). Egli si riconferma protagonista nel quadro nazionale di Sileno Salvagnini, Il sistema delle arti 1919-1943, Bologna 2000.

38. Gino Damerini (Venezia 1881-1967), come redattore e direttore di lungo corso della «Gazzetta di Venezia», è un protagonista del mio saggio su La stampa in questo volume. Un profilo simpatetico, in morte, è quello di Emilio Mariano, Gino Damerini cittadino dell’altra Venezia, Venezia 1968, con una bibliografia degli scritti a cura di Giorgio E. Ferrari, pp. 23-33. Nel dicembre 2000 l’Ateneo Veneto gli ha dedicato un convegno di studi di cui si attendono gli atti.

39. Gino Fogolari, sovrintendente alle Gallerie e ai monumenti di Venezia e membro autorevole sia della fraglia artistica di Ca’ Pesaro che di quella gastronomico-politica dei ‘Sette Savi’; come l’avvocato Giuseppe Fusinato, appartiene all’area del nazionalismo sin dalla sua fase aurorale: i loro nomi sono ricorrenti — come quelli di Barbantini, Damerini e Foscari — in lavori come quelli di L. Pomoni, Il Dovere Nazionale e di Maria Damerini, Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929-1940, Padova 1988, in larga misura incentrati proprio su questa generazione degli anni Ottanta colta in diversi momenti della sua parabola.

40. L’avvocato Alberto Musatti (Venezia 1882-1960) è figlio del medico umanista Cesare e cugino di Elia e fa parte anche lui dello stesso gruppo amicale e politico. Oltre che gli autori citati, ne parlano Giannantonio Paladini, Politica e cultura a Venezia tra Ottocento e Novecento: i Musatti, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 443-448 (pp. 431-448); e Simon Levis Sullam, oltre che nel contributo in quest’opera, nel volume, Una comunità immaginata. Gli Ebrei a Venezia (1900-1938), Milano 2001.

41. Elio Zorzi (1892-1955), luogotenente di Damerini alla «Gazzetta di Venezia», dal primo dopoguerra responsabile dell’ufficio stampa della Biennale, presenza lungamente attiva nella società e nella cultura veneziana, meriterebbe senza dubbio l’attenzione degli studiosi, in proprio e anche come attore collettivo in quanto membro di una grande famiglia veneziana, patrizia de casa vecia, monumento alla lunga durata, che vede in scena come influenti eredi e custodi della memoria nel secondo Ottocento il padre di Elio, Alvise Piero, e ai nostri giorni i figli Alvise e Marino, tutti e due storici di Venezia, il primo opinionista di influenza internazionale sulle sorti di Venezia, il secondo attuale direttore della Biblioteca Marciana. Notizie su Elio e su Alvise Piero Zorzi vengono intanto fornite in più luoghi da Alvise Zorzi, come nella succosa Introduzione alla riedizione di Elio Zorzi, Osterie veneziane, uscito a Bologna da Zanichelli nel 1928 e ristampato a Venezia da Filippi nel 1967. Il libro fa memoria e leggenda anche dei ‘Sette Savi’ (pp. 97-98).

42. Una silloge, di quei nomi e di quegli anni, nella Post;fazione (pp. 301-318) apposta da Giannantonio Paladini alla riedizione di un volume del 1943 che si può esso stesso considerare una testimonianza e una memoria di prima mano: G. Damerini, D’Annunzio e Venezia. Notizie e clima anche nelle appassionate memorie della vedova di uno di loro, M. Damerini, pur essendo Gli ultimi anni del Leone incentrati sugli splendori dell’età matura.

43. Qui rimando al capitolo di Gino Benzoni.

44. Mario Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari, Torino 1979; Id., L’educazione dell’Italiano, Bologna 1979; Id., L’Italia del fascio.

45. Il poeta dialettale Eugenio Genero apre la sua raccolta poetica del Decennale coi versi di Dose (la mia copia di Ancora un rèfolo è dedicata, di pugno dell’autore, «All’amico carissimo Vincenzo Bucca», uno dei primi dirigenti del Fascio veneziano).

46. Emilio Franzina, L’eredità dell’Ottocento e le origini della politica di massa, in Venezia, a cura di Id., Roma-Bari 1986, pp. 117-151. Id., Una ‘belle époque’ socialista: venezianità e localismo in età giolittiana, in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992, pp. 275-306; Giannantonio Paladini, Serrati e Li Causi a Venezia: un sodalizio politico e umano, ibid., pp. 307-315; ma si rimanda anche a Daniele Resini, Cronologia, ibid., pp. 317-509, particolareggiata soprattutto per i primi decenni (pp. 317-391). Nella memorialistica si stagliano vividi i due capitoli veneziani — dal 1913 al 1922 — di Girolamo Li Causi, studente siciliano a Ca’ Foscari e giovane quadro socialista in ascesa (Il lungo cammino. Autobiografia 1906-1944, Roma 1974, pp. 35-91); ma sono anche da vedere le Memorie del suo coetaneo Arduino Cerutti — rampollo di un influente clan borghese veneziano, convertito al socialismo dalla frequentazione con Cesare Battisti, e in seguito antifascista, dirigente del C.L.N. provinciale e senatore (Venezia 1980, pp. 9-27); qualche nota sui suoi primi passi politici — questi, monarchici e cattolici — nella Venezia d’anteguerra anche nei libri autobiografici dell’avvocato Francesco Carnelutti, specie Mio fratello Daniele, Roma-Milano 1940, pp. 57, 139.

47. A sessant’anni di distanza l’uno dall’altro, riconfermano questa idea di un rapporto particolare fra le classi sociali — di integrazione nella differenza — anche due affreschi affini, pur se diversamente localizzati, quali quelli di E. Zorzi e di M. Damerini.

48. L’episodio è ricostruito da Stefano Sorteni in La «Gazzetta di Venezia» di Luciano Zuccoli 1906-1912, tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, a.a. 1985-1986.

49. L. Pomoni, Il Dovere Nazionale.

50. Loredana Nardo, ‘Nova et vetera’: universitari e laureati cattolici fra Venezia e l’Italia (1897-1937), tesi di laurea, Università degli studi di Venezia, a.a. 1996-1997, pp. 169-217. Della stessa, più in generale, v. il contributo in quest’opera.

51. Daniele Ceschin, La ‘voce’ di Venezia. Antonio Fradeletto e l’organizzazione della cultura tra Otto e Novecento, Padova 2001, pp. 255-282.

52. Gustavo Corni, L’occupazione austro-germanica del Veneto nel 1917-1918: sindaci, preti, austriacanti, patrioti, «Rivista di Storia Contemporanea», 18, 1989, nr. 3, pp. 386-408; Mario Bernardi, Di qua e di là dal Piave. Da Caporetto a Vittorio Veneto, Milano 1989; Camillo Pavan, Grande guerra e popolazione civile, I, Caporetto. Storia, testimonianze, itinerari, Treviso 1997; Mario Isnenghi-Giorgio Rochat, La Grande Guerra 1914-1918, Firenze 2000, pp. 421-437.

53. Ezio Maria Gray, Venezia in armi, Milano 1917, pp. 72-84; G. Damerini, D’Annunzio e Venezia, pp. 134-136.

54. Quando nel 1931 muore il poeta dialettale Arturo Galvagno, Aqua e late sul «Sior Tonin Bonagrazia», il suo giornale, ricorda che ai tempi di Caporetto era stato «l’animadore del nostro zornal» (47, 23 maggio 1931, nr. 21). Nel 1917 Galvagno aveva raccolto in un volumetto edito dalle stesse Officine Grafiche Carlo Ferrari che stampano il periodico, i suoi Canti de Guera, versi veneziani dall’interventismo all’aprile 1917.

55. E.M. Gray, Venezia in armi, p. 137.

56. Anche il libro del nazionalista E.M. Gray, che è  datato 1917, dedica il capitolo conclusivo a colorire l’antitesi fra una Venezia di prima della guerra — quella dei Luttazzi e Fradeletto e anche Molmenti —, paga di vivere di turismo, e l’«aria nuova», il «progresso», le «oficine», il «porto» reclamati dall’anima e dalla poesia popolare: «E senza al foresto / Lustrarghe el tabaro / Cantemo Venezia / Regina del mar» (ibid., p. 151).

57. Rinvio al capitolo di Guido Zucconi sull’architettura del Novecento a Venezia.

58. Adolfo Bernardello, La prima ferrovia fra Venezia e Milano. Storia della imperial-regia privilegiata strada ferrata Ferdinandea lombardo-veneta (1835-1852), Venezia 1996.

59. Nino Barbantini, Gino Damerini, Gino Fogolari, Giuseppe Fusinato, Aristide Montalbotti, Alberto Musatti, Omero Soppelsa.

60. I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione. 1917-1940, a cura di Francesco Piva-Giuseppe Tattara, Venezia 1983; v. qui, nella parte dedicata al Novecento, il capitolo di Cesco Chinello.

61. Grandi e colpevoli. Scrivo queste note negli stessi giorni in cui il pubblico ministero Felice Casson chiede la condanna dei vertici della Enichem e della Montedison per le 260 vittime del cloruro di vinile, ex lavoratori del Petrolchimico, dei quali «157 già deceduti» e altri 103 ammalati — scrive sinistramente il «Gazzettino» di Venezia del 6 giugno 2001, allineando due lugubri elenchi alfabetici (Nicoletta Benatelli, ‘Il cvm ha colpito / nell’indifferenza’, pt. I, Cvm, i numeri di una strage, p. IX).

62. Venezia città industriale. Gli insediamenti produttivi del 19° secolo, catalogo della mostra, Venezia 1980.

63. Sergio Bettini, Venezia nascita di una città, Milano 1988.

64. Giorgio Bellavitis, L’Arsenale di Venezia. Storia di una grande struttura urbana, Venezia 1983.

65. Adesso però si può. Il porto ‘tira’ — dicono le cronache — sia nel comparto turistico che in quello commerciale, ma gran parte di quest’area e delle sue strutture dismesse e superate ai suoi fini vengono ora riciclate, soprattutto per usi universitari. Lo I.U.A.V., già presente nell’ex Cotonificio, vi sta compiendo una prova di forza, moltiplicando la misura e riqualificando nel senso del moderno il proprio insediamento; e anche Ca’ Foscari intende costruirvi la grande biblioteca generale delle facoltà umanistiche, mentre si avvia a compimento lo spostamento della facoltà di Economia in un’altra zona industriale dismessa e riciclata, il Macello comunale a S. Giobbe. Rinvio alle notizie fornite da Giannantonio Paladini.

66. Raffaella Giuseppetti, Un castello in laguna. Storia dei Molini Stucky, Venezia 1995.

67. Ma il discorso si potrebbe allargare. Chi le vedeva, in Italia, le fabbriche di Marghera mentre si affermavano e avevano corso agli occhi di quasi tutti l’immagine zoppa del ‘triangolo industriale’ e quella congiunta del ‘Veneto rurale, Sud del Nord’?

68. Rimando al contributo di Sergio Barizza.

69. I dati e i tempi della ridislocazione nei capitoli sull’ultimo sessantennio di L. Pietragnoli-M. Reberschak, e di Luca Pes, Gli ultimi quarant’anni.

70. V. qui il capitolo di Alessandro Casellato; per il ruolo di Miozzi, Vincenzo Fontana, Profilo di architettura italiana del Novecento, Venezia 1999, pp. 165-167; e Valeria Farinati, Eugenio Miozzi, nel secondo dei Profili veneziani del novecento, a cura di Giovanni Distefano-Leopoldo Pietragnoli, Venezia 1999.

71. V. Fontana, Profilo di architettura, pp. 48-50, per i precedenti; per una visione complessiva delle trasformazioni del XIX secolo, Giandomenico Romanelli, Venezia Ottocento. Materiali per una storia architettonica e urbanistica della città nel secolo XIX, Roma 1977.

72. Lo documenta V. Fontana, Profilo di architettura; e, in chiave diversa, Alvise Zorzi, Venezia scomparsa, Milano 1989 (ma è già la quarta uscita di un’opera fortunata) nella quale Zorzi, riprendendo autorevolmente la parte che fu dell’avo Alvise Piero a fianco di John Ruskin, allinea le distruzioni e sostituzioni intervenute dopo la fine della Serenissima: duecento pagine illustrano la Storia di una secolare degradazione; altre duecento il Repertorio degli edifici veneziani distrutti, alterati o manomessi.

73. Su isole e laguna rinvio qui al contributo di Franco Mancuso.

74. Sergio Barizza, Storia di Mestre, Padova 1994.

75. Le dinamiche materiali e mentali della ‘città bipolare’ sono il tema della tesi di laurea di Michele Casarin, Venezia, Mestre. Mestre, Venezia. Luoghi, parole e percorsi di un’identità, Università degli studi di Venezia, a.a. 2000-2001.

76. Due delle motonavi costruite e denominate negli anni Trenta, quando si voleva che tutto rimandasse a significati complessivi; quelle di oggi — in epoca di individualismo di massa e disincanto — si chiamano tutt’al più «Sandra».

77. Fabio Brusò, Piazza Barche. Mestre (1846-1932), Verona 2000.

78. Una tematica e una linea di tendenza raccolte da Giovanni Distefano e Giannantonio Paladini che proprio al Ritorno nell’isola dedicano la seconda parte (pp. 293-450) della loro Storia di Venezia 1797-1997, III, Dalla monarchia alla Repubblica, Venezia 1997, dopo una prima parte Fuori dell’isola (pp. 17-174) e Un tornante decisivo costituito dall’alta marea del 4 novembre 1966 (pp. 175-192).

79. Leonardo Benevolo, Venezia. Il nuovo piano urbanistico, Roma-Bari 1996.

80. Sono le problematiche sottese all’opera in più volumi da me diretta su I luoghi della memoria nell’Italia unita, Roma-Bari 1996-1998.

81. La pubblicistica sul che fare oggi a Venezia e di Venezia è multiforme. Ripartendo dalla distruttiva acqua alta del 1966 — data periodizzante sia per gli interventi ipotizzati che per l’impatto cruciale sull’opinione pubblica — va ricordato l’inquietante e fortunato Venezia fino a quando? (Padova 1967) del giornalista veneziano Giulio Obici. Un caposaldo si può considerare il Rapporto su Venezia dell’Unesco (Milano 1969), segno anche della mondializzazione dei referenti e degli sguardi sul problema Venezia. Fra i testi non ancora espressamente citati, ma tenuti presenti per questa parte più aperta e problematica dell’Introduzione, si situano quelli di intellettuali che sono contemporaneamente dei politici, uomini che decidono o che orientano le decisioni. Ricordo i lavori di Wladimiro Dorigo, Una legge contro Venezia. Natura, storia, interessi nella questione della città e della laguna, Roma 1973, a proposito della legge speciale dello stesso 1973, e Una laguna di chiacchiere, Venezia 1972, puntiglioso contraddittorio con un opinionista influente come Indro Montanelli, assunto a prototipo di chi, nel mondo, ritiene che amare Venezia possa bastare a vedere il meglio per lei, e un cui dichiarato alleato in loco può considerarsi Sandro Meccoli, La battaglia per Venezia, Milano 1977, introdotto da pagine impegnative di Bruno Visentini, sindaco auspicato e mancato (pp. 9-21); una continuazione di tale ‘battaglia’, ispirata a Venezia città del mondo irriducibile a una dimensione comunale o nazionale, è la raccolta di articoli tratta dall’omonima rubrica di Meccoli sul «Gazzettino», Ponte della Libertà e altri scritti veneziani, Venezia 1990. Una ricaduta letteraria di quella stessa temperie, con personaggi riconoscibili — fra cui Montanelli, che non muta neppure nome — è il romanzo Il campiello sommerso, Milano 1974, del giornalista e narratore veneziano Nantas Salvalaggio, rabbiosa rassegna di profittatori, impotenti e collusi nella città che muore. Un’inversione si realizza nel 1988 con il convegno della Fondazione Gramsci e nel 1989 con gli atti Idea di Venezia, che si usa considerare la base progettuale del futuro sindaco Massimo Cacciari. Più vicini nel tempo i ragionamenti e le cifre riuniti da Paolo Costa — successore di Cacciari — in Venezia. Economia e analisi urbana, Milano 1993; e gli interventi di Gianfranco Bettin, in partic. Laguna Mondo (conversazione con Renzo Franzin), Portogruaro 1997; ragiona dell’oggi anche Fabio Isman, Venezia, la fabbrica della cultura. Tra istituzioni ed eventi, Venezia 2000, esprimendo i punti di vista operativi dell’Associazione Venezia 2000. Cultura e Impresa, ripresi nelle riflessioni del suo presidente Giuseppe de Rita, intervistato da Antonio Galdo in Capolinea a Nordest, con prefazione di Renzo Piano, Venezia 2001; una sintesi dei punti di vista di Italia Nostra è stata offerta nel novembre 1997 dal nr. 343 del «Bollettino» omonimo curato dalla sezione veneziana. Un aggiornamento su problemi e indirizzi è il numero monografico (2, settembre 2000, nr. 4) di «Insula Quaderni» dedicato a Venezia Novecento, con interventi di svariati specialisti, fra i quali la storia, i modelli matematici e le previsioni statistiche circa le alte maree, in Le acque alte di Paolo Canestrelli, pp. 69-76; ma questa Introduzione trae spunto anche da opere quali Venezia salvata (1956) di Mary McCarthy, Milano 1999; Josif Brodskij, Fondamenta degli incurabili — scritto nel 1989 per il Consorzio Venezia Nuova — e poi più volte ristampato da Adelphi; da un libro del ritorno, quale Venezia. La città ritrovata di Paolo Barbaro, Venezia 1998; ma anche da giovani scrittori veneziani, quali il Tiziano Scarpa di Venezia è un pesce, Milano 2000, e il Roberto Ferrucci di Giocando a pallone sull’acqua. Venezia e il Venezia in serie A, Venezia 1999 (in partic. le pp. 38-41, con la difesa, controcorrente, della ‘modernità’ del vecchio stadio in laguna da parte di un abitante in terraferma). E da ultimo, le Libere Associazioni Veneziane con cui lo psicoanalista Antonio Alberto Semi accompagna il lettore lungo itinerari fra materiali e immateriali in ’mòre, undicesima uscita, per il Natale 2000, nella collanina di piccoli libri veneziani commissionati ad personam dal Consorzio Venezia Nuova (il primo Natale fu segnato, nel 1989, dal già ricordato Fondamenta di Brodskij, l’ottavo, nel 1997, dalla Venezia [...] ritrovata di Barbaro).

82. Piero Bevilacqua, Venezia e le acque. Una metafora planetaria, Roma 1998 (con una doppia postfazione, 1995 e 1998, di Massimo Cacciari).

83. Gianandrea Mencini, Sull’onda viva del mare. Moto ondoso: storia di un problema, Roma 2000.

84. Il problema delle funzioni e delle forme del moderno compatibili con gli specifici di Venezia è al centro delle riflessioni di Giuseppe Mazzariol (1922-1989) che nel mondo delle idee e delle istituzioni culturali ha rappresentato per un trentennio una delle presenze più lucide e vivificanti. Come risulta anche dalla Cronaca di Facoltà 1977-1982, Vicenza 1982, voluta da Mazzariol dopo sei anni di presidenza della nuova facoltà di Lettere, da lui considerata strategica, come, più in generale, l’Università a Venezia; e qui è il caso di ricordare un’altra intraprendente figura di organizzatore intellettuale, l’italianista Mario Baratto, negli stessi anni preside della facoltà di Lingue (Incontro di studio in memoria di Mario Baratto, a cura di Anco Marzio Mutterle, «Annali di Ca’ Foscari. Rivista della Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Venezia», 24, 1985, nr. 1). La figura di Mazzariol e la tematica delle funzioni più appropriate a vivere e a far vivere Venezia sono state ripensate in una giornata in suo onore svoltasi alla Fondazione Querini il 22 ottobre 1999, con interventi di protagonisti quali Giorgio Busetto, Massimo Cacciari, Paolo Costa, Wladimiro Dorigo, Giovanni Morelli e Giandomenico Romanelli.

85. Fra gli ultimi segnali non buoni, il trasferimento di proprietà, non a Mestre, ma addirittura a Milano — e si spera solo di quella — della casa editrice Marsilio, che, nata a Padova quarant’anni fa, Cesare De Michelis ed Emanuela Bassetti avevano saputo far diventare un’impresa culturale di statura nazionale a Venezia.

86. L. Pomoni, Il Dovere Nazionale, pp. 407-408; Mario Isnenghi, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Milano 1994, pp. 207-224.

87. G. Li Causi, Il lungo cammino, p. 50.

88. La ricorda E. Zorzi in Osterie veneziane nel profilo di quella che si poteva considerare la sede di governo della ‘Repubblica’, la trattoria Capon, con l’animatore Angelo Vianello detto Pastassuta, scaricatore e sindacalista operaio, e sullo sfondo il settimanale «Sior Tonin Bonagrazia» «organo ufficiale della Repubblica» (pp. 99-100). Al di là del colore, di dove venga e come si affermi la spiccata identità di campo S. Margherita — tuttora il più vivo dei grandi campi veneziani — lo ricostruisce la tesi di laurea di Giovanni Sbordone, La ‘Repubblica’ di Santa Margherita. Storia e storie di un grande campo popolare, Università degli studi di Venezia, a.a. 2000-2001.

89. D. Resini, Cronologia, riporta i dettagli sui successivi spostamenti della Camera del lavoro nel contesto urbano, dalla Scuola della Misericordia al Malcanton.

90. Le ha restituite alla conoscenza la ricerca di G. Albanese, Alle origini del fascismo.

91. Elio Zorzi, Codroma, in Id., Osterie veneziane, pp. 96-97; M. Damerini, Gli ultimi anni, pp. 96-97.

92. Giuseppe Turcato, Dal ‘Diario storico’ della brigata Garibaldi ‘Francesco Biancotto’, in Kim e i suoi compagni. Testimonianze della Resistenza veneziana, con una nota introduttiva di Id., che non risulta, ma è il curatore del volume, Venezia s.a. [ma 1980], pp. 65-66.

93. Fra i tramiti di questa Venezia minore, va rammentata la vena malinconica e la sottile continuità da epigoni dei piccoli poeti dialettali, la cui schiera è ancor fitta fra le due guerre: né il già nominato A. Galvagno, né Giusto Fuga — il libraio editore che nel 1914 ripropone i Canti del popolo veneziano di Jacopo Vincenzo Foscarini, detto «el Barcariol» e poi ne eredita il nome d’arte pubblicando in Venezia mia! (1933) sonetti in lode del duce —, né tanto meno Eugenio Genero, che è fra gli squadristi della prima ora, potrebbero tuttavia essere regalati all’opposizione. V. Eugenio Genero, Soto ’l cielo de Venezia, Venezia 1922, aperta da una balda immagine fotografica dell’autore, atteggiato ancora come un artista dai tratti anarchici; e — presso un’altra delle tipografie veneziane attive sul mercato delle piccole tradizioni locali: stavolta non Zanetti, ma Bortoli — Ancora un rèfolo. Venezia Anno X. La fotografia di Genero ha ancora il fiocco nero, ma anche, appuntata sul petto, una medaglia. Il prefatore è il commediografo Gino Rocca, che lo tipizza, non senza paternalismo, come un simpatico sognatore ben noto alla città.

94. L’antico e il nuovo del tempo libero popolare nel contributo di M. Fincardi, I fasti della ‘tradizione’.

95. L’economia cittadina viene qui illustrata nel capitolo di Giovanni Luigi Fontana.

96. In questo Novecento vi sono dedicati, rispettivamente, i capitoli di Giuseppe Gullino, L’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti e L’Ateneo Veneto, G. Paladini, G. Zucconi, Giovanni Morelli, Paolo Puppa e Giorgio Pullini.

97. L’alta società al femminile è uno dei due poli del saggio di genere di Nadia Maria Filippini, Storia delle donne: culture, mestieri, profili, dedicato in parallelo anche alle donne del popolo.

98. Conosco in parte e mi auguro possa alla fine vedere la luce il seguito, oscuro e offeso, di quei brillanti anni Trenta e cioè quegli anni Quaranta che agli occhi della memorialista continuano a raffigurarsi come Gli anni dell’avvoltoio (titolo provvisorio).

99. Cf. gli atti del convegno dell’Ateneo Veneto su La Venezia di Gino Damerini (dicembre 2000), in corso di allestimento.

100. Restando fedele a se stesso, anche sul terreno di una storiografia politica venezianista, come ha dimostrato Filippo Maria Paladini nella sua relazione al già citato convegno su Damerini: Gino Damerini, la storia di Venezia e la retorica del suo ‘dominio’ adriatico: ideologie della ‘venezianità’ ed imperialismo (1938-1943).

101. Un clima che può essere richiamato da quello di un recente film di ambientazione veneziana, Pane e tulipa;ni, di Silvio Soldini.

102.  È la Venezia anfrattata e sottovento, ricuperata e descritta qui da A. Casellato, cui devo anche la segnalazione del libro di Bonfantini (Torino 1972).

103. Gli episodi che seguono sono quasi tutti documentati da due ricche raccolte di scritti di protagonisti e testimoni: 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976; e il già ricordato volume Kim realizzato in morte di ‘Kim’ Arcalli; lo stesso Turcato lavorava all’allestimento di un altro volume i cui materiali sono conservati nell’archivio dell’Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea. Su La Resistenza nel Veneziano sono essenziali i due volumi a cura di Giannantonio Paladini e Maurizio Reberschak editi nel 1984-1985 dal Comune di Venezia.

104. Il titolo del libro di Giovanna Zangrandi sulla Resistenza bellunese, I giorni veri 1943-1945, Milano 1963, è un’espressione ritornante nella memoria dei nostri personaggi.

105. Ettore Altieri (Messina), I miei ricordi su Ruggero Pavanello, operaio della Giudecca, e sugli scioperi di Marghera, in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, pp. 322-323 (pp. 319-328).

106. Ugo Facco De Lagarda, La crociera del ‘Barbacuore’, dall’incipit programmatico: «Occorreva sottrarsi anche e più in quel 28 ottobre 1940 all’artificiosa sarabanda di gloria commemorativa che era nell’aria», in Id., Cronache cattive, Milano 1962, pp. 189-192. Sul personaggio e l’opera, v. gli atti del convegno dell’Ateneo Veneto, Ugo Facco De Lagarda, 1896-1982. La vocazione inquieta di uno scrittore veneziano, a cura di Alessandro Scarsella, Venezia 2000.

107. A. Cerutti, Memorie, p. 84. Il memorialista racconta di avere partecipato a una riunione fondativa del Fascio veneziano nello studio dell’avvocato Marsich a S. Angelo e di esservisi sottratto, con il vecchio senatore Tecchio; e di essere poi entrato, da neolaureato, nel «più prestigioso studio di Venezia, quello del professor Carnelutti», sottraendosi tuttavia presto anche a questo. «Il professor Carnelutti era un uomo straordinario, dotato di un ingegno formidabile, sapeva emergere in qualunque campo del diritto. Dotato di un fisico eccezionale, la sua capacità di lavoro era praticamente illimitata. Ma c’era in lui la mancanza di qualunque luce ideale, non era che una formidabile macchina per pensare. Venuto il fascismo non si schierò con i dominatori, ma nemmeno contro di loro, in modo da ricavare da questa ambivalenza la più grande utilità. Ammiravo Carnelutti ma non mi sentivo di diventare suo discepolo».

108. Giuseppe Turcato, Frammenti di autobiografia, con introduzione a cura di Cesco Chinello, «Venetica», n. ser., 14, 2000, nr. 3 (numero monografico: Comunisti! Autobiografie e memorie dei rossi in una regione bianca), pp. 158-180.

109. Antonio (Agostino Zanon Dal Bo), Recapiti pericolosi, in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, pp. 420-421 (pp. 409-424).

110. È il liceo classico dove insegnano futuri resistenti quali l’azionista Agostino Zanon Dal Bo e Giovanni Ponti, primo sindaco di Venezia postfascista.

111. Cesco Chinello, in morte del suo vecchio professore Francesco Semi, ha di recente raccontato gli incontri, decisivi per la sua formazione, coi docenti, fra cui il prossimo comandante partigiano Sandro Gallo, e gli allievi di una classe del liceo scientifico «Benedetti» degli anni di guerra. Se ne può vedere una versione nella Introduzione ai Frammenti di Turcato nel cit. numero del 2000 di «Venetica» sulla memoria dei rossi nel Veneto bianco. Emanuele Battain ha fatto altrettanto per una terza liceo del 1943 al «Foscarini», raccontandone agli allievi del liceo «Marco Polo» nella prima Giornata della Memoria (27 gennaio 2001). Ne avevano parlato anche un altro degli studenti di allora, Lucio Rubini, in Prima del coprifuoco (ricordi del ‘Foscarini’ e del ‘Marco Polo’) seguito da una Nota di A(gostino) Z(anon) D(al Bo), in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, pp. 531-533 e 534-535.

112. La cartolina di Gustavo Corinaldi, ebreo veneziano, spedita al libraio Rigattieri dal campo di concentramento di Fossoli. Corinaldi non tornerà e Rigattieri consegna la cartolina a Turcato, che racconta la vicenda in Kim e i suoi compagni. testimonianze della resistenza veneziana, a cura di Giuseppe Turcato, Venezia s.a. [ma 1980], pp. 49-50.

113. Manlio Dazzi, Osteria, e Marco (Giuseppe Turcato), Gli Spina. storia di una famiglia durante il fascismo, in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, pp. 337-338 e 339-344.

114. Oltre che le 600 pagine del volume di testimonianze curate per il Comune a 30 anni dal ’45, ‘Marco’ è ritornato più volte sui luoghi e i personaggi della Resistenza, li ha ‘messi in scena’ sia nell’ora dell’azione che nell’ora della memoria e della narrazione. V. il dialogo che fra ‘Marco’ e ‘Cesco’ continua, oltre la morte dello stesso Turcato, con il gioco incrociato delle memorie dell’autobiografia di Turcato a cura di Chinello.

115. Armando Gavagnin, Vent’anni di resistenza al fascismo. Ricordi e testimonianze, Torino 1957 (ristampato dal Comune di Venezia nel 1979); su di lui (1901-1978), Renzo Biondo (Boscolo), Un combattente democratico: Armando Gavagnin, in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, pp. 397-398. È un’altra delle significative traiettorie di vita e degli spaccati cittadini che la memorialistica veneziana del Novecento offre alla ricostruzione degli spiriti del secolo. Cogliamo l’occasione per rammentare — fra memoria e sforzo storiografico — i due folti volumi di Ugo Facco De Lagarda con l’amara e pur volitiva Cronistoria dei fatti d’Italia 1900-1950, Milano 1975.

116. Ugo Facco De Lagarda, La grande Olga, Milano 1966 [1958].

117. Aldo Camerino, Ricordi di un recluso, «Il Gazzettino», 15 settembre 1950. Camerino esce di circolazione il 30 novembre 1943 e proprio con le pagine su Il silenzio di Aldo Camerino si aprono gli Incontri di libertà di Giuseppe Turcato, in Kim e i suoi compagni. testimonianze della resistenza veneziana, a cura di Id., Venezia s.a. [ma 1980], pp. 33-35, che ricorda anche le sere con Carlo Izzo al Circolo scacchistico veneziano e i rapporti interrotti, dopo le leggi razziste, fra Ezra Pound e i suoi, sino a quel punto, amici Camerino e Izzo, l’anglista traduttore di sue poesie.

118. Enrico Longobardi ‘Rega’, Sandro Gallo ‘Garbin’, a Venezia, in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, pp. 484-485 (pp. 483-486).

119. Giuseppe Turcato, La ‘Beffa del teatro Goldoni’-12 marzo 1945, ibid., pp. 249-258.

120. Dal nome del compagno di lotta Francesco Biancotto, fucilato.

121. È la situazione ripresa dal film di Luchino Visconti, Senso (1954).

122. G. Turcato, Dal ‘Diario storico’, pp. 65-66. Il titolo del paragrafo è L’Arcangelo Gabriele.

123. Id., ‘Stratagemma’ contro la Decima Mas-30 Aprile 1945: ore 1.20, in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, pp. 259-274.

124. Questo capitolo della statuaria pubblica veneziana, ai Giardini Napoleonici, è stato ricostruito da Eva Cecchinato nella relazione Martiri ed eroi. I complessi monumentali cittadini e le ridefinizioni della venezianità, al convegno «Arte e memoria» tenutosi a Venezia presso l’Accademia di Belle Arti, per iniziativa del Centro Donna e dell’Istituto veneziano per la storia della resistenza e della società contemporanea, il 4 maggio 2001.

125. È la chiave della «rappresentazione» suggerita da Gianni Scarabello, Viaggio nella vita, in Kim e i suoi compagni. testimonianze della resistenza veneziana, a cura di Giuseppe Turcato, Venezia s.a. [ma 1980], p. 170  (pp. 170-175).

126. Venezia insorge girato con mano e macchine professionali, quindi nel giro dell’Istituto Luce, tra fine aprile e primi di maggio 1945. Fra le attribuzioni ipotizzate anche Francesco Pasinetti e Glauco Pellegrini, ma nella giornata del 23 aprile 1997, quando la pellicola restaurata è riapparsa in pubblico, i critici riuniti nell’Auditorium S. Margherita di Venezia le hanno messe in dubbio.

127. Sul ’43-’45 a Venezia v. il saggio di Raffaele Liucci, mentre Emilio Franzina esplora il vissuto cittadino e i processi di adeguamento e di trasformazione dei tre anni di guerra che precedono. Per il 1943-1945 ricordiamo anche Carlo Fumian, Venezia ‘città ministeriale’ (1943-1945), in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 365-394; Simon Levis Sullam, La rinascita del Partito Fascista a Venezia (1943). Cronaca e spunti interpretativi, «Venetica», n. ser., 13, 1996, nr. 5, pp. 101-160; Marco Borghi, Una miriade di centri. La localizzazione delle sedi ministeriali della Repubblica di Salò nel Veneto (1943-1945), ibid., n. ser., 10, 1993, nr. 2, pp. 319-350.

128. A. Cerutti, Memorie, p. 159.

129. Su cui rinvio, con precipuo riferimento al laboratorio laguna negli anni Novanta, all’ultimo paragrafo del contributo di F. Mancuso.

130. Venezia e la laguna: cura o incuria?. Atti del convegno, Venezia 2001, con interventi fra gli altri di Massimo Favilla, Giorgio Nubar Gianighian, Cristiano Gasparetto e Gherardo Ortalli.

131. Il campanile di San Marco. Il crollo e la ricostruzione 14 luglio 1902-25 aprile 1912, catalogo della mostra, Milano 1992.

132. Se il termine di paragone delle nostalgie comparative del passato — postulato come sempre migliore e più efficiente del presente — è la ricostruzione del campanile di S. Marco, ci vollero allora dieci anni, 1902-1912. C’è ancora un certo margine. E intanto — maggio 2001 — è stato festosamente riaperto, dopo un annoso restauro, un altro dei teatri storici di Venezia, quello dei Grimani, il Teatro Malibran. Il sindaco ha dato appuntamento al presidente della Repubblica fra due anni per l’inaugurazione della Fenice risorta. Intanto — sul fronte affine dei grandi musei cittadini — giugno 2001 vede la riapertura, dopo il restauro, di Ca’ Rezzonico, con il suo Museo del Settecento, e qualche mese dopo si assiste alla riapertura di Ca’ Pesaro, con la sua Galleria di Arte Contemporanea, chiusa al pubblico da una dozzina d’anni.

133. Emilio Rosini, Il giudice e l’architetto. Opere pubbliche e giustizia amministrativa: il caso della Fenice, Venezia 2000.

134. John Ruskin, Le pietre di Venezia, a cura di Attilio Brilli, Milano 2000.

135. È l’ennesimo scontro fra pontisti e antipontisti. Il progetto del famoso costruttore di ponti, già votato dal consiglio comunale e in teoria pronto per il passaggio alla fase esecutiva, dovrebbe unire le due sponde del Canal Grande fra piazzale Roma e l’area della ferrovia. La sicura bruttezza dei luoghi non sembra preservare il progetto dalle obiezioni del ‘No’, pronte a rivestirsi stavolta delle ragioni pratiche del ‘non serve’; mentre, scambiandosi le parti, il ‘Sì’ mette innanzi le ragioni simboliche del costruire e lasciare un segno del moderno anche a Venezia.

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