Gentile, il modernismo e la religione

Croce e Gentile (2016)

Gentile, il modernismo e la religione

Fulvio De Giorgi

Gentile teologo politico

In una sola occasione Gentile ci ha lasciato due redazioni di un suo scritto ed è il caso della conferenza La mia religione, pronunciata il 9 febbraio 1943 a Firenze, ma già stesa, nelle linee portanti, nell’agosto del 1942. Proprio tale abbozzo contiene un avvio e una conclusione perentori e fulminanti dai quali conviene prendere l’abbrivio:

Io sono cristiano, perché credo nella religione dello spirito. E sono anche cattolico, perché credo che il cristianesimo sia una chiesa; e non ci può essere stata chiesa cristiana che la cattolica. (Chi dice chiesa dice comunione, e la comunione non può che essere universale) (La mia religione, con postilla di U. Spirito, in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici, 13° vol., 1971, p. 5).

Il torto (torto grave) di chi del sentimento crede di potersi far forte per battere in breccia la ragione, non è quello di esagerare l’importanza del sentimento come base della vita; ma di isolarlo e perciò soffocarlo privandolo dell’aria in cui è il suo respiro. E il torto (anche esso gravissimo) del razionalismo non è quello di voler viva e sovrana la ragione, ma di voler ammazzare il sentimento di cui essa stessa la ragione vive; poiché essa non è mai altro che ragione del sentire, a quel modo che il sentimento propriamente non è mai altro che il sentir della ragione. L’unità dei due termini, in cui è la pienezza e il vigore dello spirito, mi fa sentire Dio e me lo fa pensare e con esso e per esso mi rende spiegabile tutto quello che penso (p. 12).

Gentile, nel professare apertamente il suo cattolicesimo, riteneva, al tempo stesso, di non dover ripudiare neppure una sillaba dei suoi scritti precedenti (messi all’Indice dalla Chiesa) e dunque ribadiva il suo attualismo idealistico e l’intrascendibilità del pensiero. Egli si professava «tutto sommato» cattolico e «cattolico quale mi vollero i miei genitori, quantunque in un modo diverso dal loro» (p. 6). Rivendicava il diritto di non ammettere altri dogmi se non quelli che potevano esser suoi. E si appellava alla giobertiana «poligonia del vero», per dire: «Il mio cattolicesimo non è altro che il mio cattolicesimo (così il mio idealismo; così il mio attualismo; così tutto)» (p. 5). E, ribadendo che la sostanza della religione è la fede in Dio, aggiungeva:

Ogni domma è suscettibile di un significato che s’accordi con la libera autodeterminazione del soggetto. Purché questi creda in Dio e a lui si rivolga con quell’amore che slarga l’animo, liberandolo dalle angustie del particolare e aprendolo alla comprensione dello spirito infinito.

Allora il Dio in cui si ha fede non può non essere un Dio personale, un Dio trascendente, un Dio creatore; quale non può essere se non per l’uomo che sia spirito immortale. Che sono i dommi fondamentali del Cristianesimo.

Dio infatti, oggetto del nostro amore, non può essere altro che spirito come il nostro, il cui amore vuol essere identificazione, ossia riconoscimento di reciproca identità: assoluta identità. E lo spirito è personalità (o coscienza di sé); è trascendenza (perché non si può essere coscienza di sé senza trascendere se stesso, cioè quel medesimo che è l’esistente, il finito); è creazione (perché la coscienza di sé è estrazione del tutto dal nulla); è immortalità (perché la coscienza di sé è pensiero, che è entrare nell’eterno, contenere e risolvere in sé ogni molteplicità spaziale e temporale).

Credere in Dio, porre fermamente innanzi a noi questa realtà suprema ed infinita, amarla sentendola intima a noi come il nostro essere profondo, è scorgerla e perciò determinarla nella luce del nostro mondo interiore quale esso si celebra nell’atto immanente del nostro essere spirituale (pp. 7-8).

Erano formulazioni ben lontane dalla tradizione dogmatica del cattolicesimo e dalla sua storia dottrinale e intellettuale (modernismo incluso). Il nodo stava nell’identità assoluta di Dio e uomo, nello spirito o, meglio, nell’atto immanente e perciò autocosciente del pensiero. Separare Dio e uomo come due enti opposti, due termini reciprocamente estremi era, per Gentile, porli in termini astratti. La realtà risultava nell’unità uomo-Dio senza la quale non ci poteva essere cristianesimo e neppure religione dello spirito:

L’uomo che scopre in sé Dio e in certo modo quindi lo crea non è l’uomo naturale, è l’uomo che è spirito, l’uomo entrato nel regno dello spirito, e quindi è uomo ed è Dio. Il quale perciò non è dall’uomo, anzi piuttosto da se medesimo. E il Dio che si umanizza è il Cristo e chi mercé sua partecipa della sua divina natura (pp. 8-9).

E tuttavia l’identità non è immediata, perché è mediata dall’autocoscienza del pensiero: dunque non sopprime l’opposizione, essenziale al momento religioso dello spirito. Ma, d’altra parte, la religione acquista il calore della vita nel fuoco del pensiero, diventando pensiero senza cessare di essere sentimento: «Lo spirito sente, è sentimento, sia che sia tutto se stesso e prescinda perciò dall’atto con cui afferma se stesso; sia che sia tutto oggetto e oblii se stesso in questo oggetto, estatico» (p. 11).

Ugo Spirito ha osservato che tutto intero questo scritto può rientrare, coerentemente, nelle linee dell’attualismo idealistico gentiliano. Ciò è senz’altro vero. Ma proprio per questo, dunque, nella conferenza del 1943 si sottolineava una caratteristica sempre presente nella filosofia di Gentile, non limitata alla pur importante «poligonia del vero» giobertiana (sulla quale insiste Del Noce 1990, pp. 195-282). Da qui una coloritura particolare, che diventa, per lo storico, il problema da studiare, in tutta la biografia intellettuale gentiliana.

L’ambiente siciliano d’origine aveva consegnato a Gentile una radicale dicotomia, i cui due poli lasciarono entrambi una traccia profonda nel suo animo: da una parte una fede religiosa cattolica immediata, quella della madre, Teresa Curti, e dall’altra un razionalismo anticlericale e massonico, di impronta allora positivista, ma con più lontane radici nella cultura isolana, limitrofo alla sociabilità collegata alla professione del padre, il farmacista Giovanni. Questa dicotomia rimase nel profondo dell’animo gentiliano come vitale contrasto e lotta sentimentale: come dissidio dell’animo, la cui composizione e inveramento e riduzione a unità diventavano orizzonte ultimo dell’impegno morale; come stile e come gusto, anche letterario, ravvisabile nella polarità di intimo interesse sia per Alessandro Manzoni sia per Giacomo Leopardi (Manzoni e Leopardi, 1928).

Nell’opera postuma, che porta la data del 1943, alla vigilia della sua morte, dunque, Gentile scriveva:

D’altra parte, è pur noto che dentro l’animo stesso si combattono non di rado i più duri contrasti, che riesce difficile conciliare [...]. C’è in noi, in questi casi, un altro, che ci contradice e ci osteggia, e noi non riusciamo a renderci conto de’ motivi ch’egli abbia per mettercisi contro: qualcuno che ci assedia, che ci tormenta e non ci dà tregua (Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, 1987, pp. 39-40).

Ma Dio, anche ignorato e disconosciuto, è sempre lì nel fondo del nostro cuore; e ci punge, ci agita, ci turba finché non sia stato scoperto e confessato. Ed è lì, sempre immediato, innanzi ai nostri occhi nella sua ferrea logica di essere necessario nel sistema di tutte le sue necessarie determinazioni (p. 89).

Ciò, tra l’altro, aiuta a comprendere come la cifra più autentica di Gentile, complessivamente considerando il suo pensiero e la sua azione, sia forse quella del teologo politico e del riformatore religioso-civile: e se da una parte la radicale dicotomia originaria rimase sempre nella sua psicologia del profondo, dall’altra, a livello di elaborazione intellettuale, essa tese a risolversi e a inverarsi nella ripresa di una particolare modulazione del romanticismo risorgimentale, quella di un profetismo ideale e storico teso verso una riforma spirituale e morale degli italiani, in guisa di fede civile. Nella sua ultima opera, appena ricordata, egli concludeva:

Ma se la teocrazia non è parola vuota, non c’è ragione di adombrarsene. Perché nessun dubbio che il volere dello Stato è un volere divino, sia che s’intenda nella immediatezza della sua autorità, sia che più pienamente si assuma come l’attualità concreta del volere. C’è sempre Dio: il Dio del Vecchio e del Nuovo Testamento (p. 68).

Rosmini, Gioberti, Spaventa, Marx

L’avvio vero e proprio del pensiero gentiliano avvenne a Pisa dal 1893, negli anni del suo alunnato alla Scuola Normale Superiore, in cui fu allievo di Donato Jaia – che lo introdusse a un idealismo di matrice spaventiana –, Alessandro D’Ancona e Amedeo Crivellucci. Ma tra le relazioni che sollecitavano il giovane filosofo non c’erano solo i maestri pisani: dal giugno 1896 si aggiungeva l’amicizia con Benedetto Croce, fondamentalmente antihegeliano, che lo introduceva alla conoscenza del pensiero di Antonio Labriola e, soprattutto, al grande dibattito internazionale su Karl Marx, tra revisionismi e confronti del marxismo con il kantismo, il neokantismo, lo hegelismo.

La tesi di laurea, scritta sotto la guida di Jaia, condusse alla prima e importante monografia, Rosmini e Gioberti (1898), in cui permaneva l’impianto spaventiano di vedere in Antonio Rosmini-Serbati il Kant italiano e in Vincenzo Gioberti lo Hegel italiano: con una forte e positiva ripresa, in senso spiritualistico, del pensiero rosminiano, ma anche con una rilettura di Rosmini in chiave giobertiana (e di un Gioberti idealista), che cercava di espungerne – in quanto filosoficamente irrilevanti – i caratteri cattolici (in un momento in cui, peraltro, Rosmini era considerato un semieretico dalla stessa Chiesa cattolica). Contemporaneamente Gentile pubblicava La filosofia di Marx (1899), volume che comprendeva la tesina sul materialismo storico, ma pure un nuovo studio sulla filosofia della prassi, in cui leggeva fichtianamente la pedagogia froebeliana, come concezione (non materialistica) in cui la conoscenza va di pari passo con la prassi.

Al chiudersi del 19° sec. era chiaro il nucleo teorico che appassionava Gentile, unificando i suoi vari interessi e però tenendo il suo discorso contiguo, ma ben distinto da quello di Croce. Egli lo diceva presentando una riedizione napoletana, da lui curata, di scritti filosofici spaventiani, nel 1900: la conoscenza come sapere all’opera, come agire, come prassi, oggettivazione dell’Io come perpetuo progresso.

Del resto l’alveo filosofico hegeliano-italiano avviava Gentile a considerare, nel primo Novecento, il suo filosofare in chiave di «Totalità», come avveniva per altri percorsi dell’hegelomarxismo internazionale contemporaneo. Ma come dinamizzare una categoria, la ‘totalità’ appunto, onnicomprensivamente immobile? Nella prolusione napoletana del 1903 – La rinascita dell’idealismo – Gentile si poneva allora il problema di ‘quale’ idealismo, il problema di conciliare la trascendenza con l’immanenza, il problema del «movimento delle idee»: erano esigenze e linee di ricerca, non erano ancora risposte.

Il modernismo e la nascita dell’attualismo

La pubblicazione, dal 1903, della rivista «La Critica» segnava l’avvio del sodalizio con Croce nel segno di un nuovo idealismo: cioè come spiritualismo (dunque antimaterialismo e, in questa chiave, antipositivismo) e come filosofia moderna e perciò immanentismo.

Ma già Eugenio Garin ha puntualmente notato come Gentile, pur in questo contesto intellettuale,

venne collegandosi nel primo decennio del secolo anche con sollecitazioni molto diverse, a cui converrebbe, forse, badare più di quanto non si faccia: vuol dirsi dei pragmatisti e di pensatori francesi variamente mescolati col modernismo e con le questioni sollevate dal modernismo. […] Anche per questo è tanto più significativa la presenza [tra le sue letture] fra il 1903 e il 1909 di figure come Laberthonnière e Blondel, come James, come Boutroux, quasi a sottolineare per un verso l’attenzione alla discussione religiosa, e per un altro la tensione “pratica”, all’“azione” (Garin 1991, p. 51).

Pertanto, con giustissimo giudizio storico, Garin conclude:

D’altra parte, quando andiamo a verificare i testi, e nei testi il maturare della teoria dell’atto, se troviamo Spaventa e lo Hegel di Spaventa (col richiamo a Marx), accanto non troviamo tanto Fichte e il fichtismo, pur largamente diffuso, quanto il pragmatismo da un lato, e i filosofi dell’azione e il modernismo dall’altro (p. 53).

Anzi, direi, soprattutto i filosofi dell’azione e, segnatamente, Maurice Blondel, per il quale, come osservava Gentile, l’attività pratica diventava l’unico organo efficace della filosofia.

Nel considerare, dunque, il problema storico dei rapporti di Gentile con il modernismo, occorre distinguere chiaramente due ambiti: quello, estrinseco, della polemica pubblica per affermare una propria supremazia e quello, più intrinseco e teoretico, del confronto filosofico. Sul piano della lotta culturale in vista di un’egemonia intellettuale, Croce e Gentile insieme, anche se forse con differenti motivazioni, individuarono tra i loro primi avversari proprio i modernisti, soprattutto italiani (De Giorgi 2009, pp. 19-21, 71): i modernisti nelle loro elaborazioni e nel loro convergere con altre espressioni culturali neospiritualistiche e psicologistiche (che guardavano a Franz Brentano e Alexius von Meinong, fino a giungere a Edmund Husserl, ma talvolta recuperando anche Rosmini: penso a Francesco De Sarlo e a suoi allievi come Giovanni Calò e Gaetano Capone Braga). In questa lotta, Croce e Gentile non provavano imbarazzo alcuno a trovarsi a braccetto con gli integralisti cattolici e con l’enciclica Pascendi. Sul piano filosofico puro, invece, mentre Croce non mostrava interesse per i modernisti che considerava superati, Gentile appariva ben altrimenti attento (Barbera Veracini 1969) e, pur dietro la cortina fumogena della polemica, aperto a positive influenze.

Per capire la posizione di Gentile, occorre sì considerare i suoi saggi di critica ai modernisti, raccolti, nel 1909, nel volume Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia. Ma non bisogna dimenticare che negli stessi anni, tra il 1907 e il 1913, a Palermo (dove c’era il sacerdote Onofrio Trippodo, estimatore di Blondel e legato a Gentile; e dove l’editore Remo Sandron pubblicava, nel 1907, un saggio di Giovanni Cesca che cercava un’apertura del trascendentalismo kantiano verso la filosofia dell’azione) nasceva l’attualismo: dalla prolusione palermitana del 1907 (sul concetto della storia della filosofia) alla memoria letta nella Biblioteca filosofica di Palermo nel dicembre 1911 (L’atto del pensare come atto puro, 1912) fino a Il metodo dell’immanenza (1913) e a La riforma della dialettica hegeliana e B. Spaventa (1913), tutti ricompresi nel volume La riforma della dialettica hegeliana (1913). E qui, nel crogiuolo dell’attualismo, sta il cuore segreto dell’assunzione gentiliana di Blondel.

L’orizzonte era sempre quello hegeliano-spaventiano e il volume sul modernismo si concludeva con un saggio (Le forme assolute dello spirito) in cui Gentile riprendeva la monotriade hegeliana arte-religione-filosofia, affermando, nell’avvertenza introduttiva, che essa costituiva il punto di vista da cui tutti gli altri saggi erano stati scritti.

Di fronte, dunque, alla filosofia dell’azione (Lucien Laberthonnière, ma, soprattutto, Blondel) Gentile criticava il suo non concludere nell’idealismo hegeliano. Ma, nel contempo, la faceva sua, rileggendola idealisticamente, proprio per riformare la dialettica hegeliana e per ‘dinamizzare’ la totalità.

Molto noto è il primo aspetto, la sua critica al modernismo. La filosofia mistica blondeliana attraverso la dialettica della volontà si apriva alla trascendenza, criticando e superando ogni ‘estrinsecismo’ religioso (Losito 2014), cioè l’intellettualismo della neoscolastica: l’azione, in quanto immanenza presente, disvelava la dialettica della volontà e consentiva un’accoglienza non intellettualistica della realtà escatologica in quanto tale, attraverso la Grazia. Gentile seguiva, in tutto, la proposta blondeliana, ma ne rifiutava l’esito escatologico e la Grazia: così, attraverso l’idealismo hegeliano, riportava l’escatologia nella storia umana, nel farsi progressivo dell’umanità, come spirito (logo, pensiero). La filosofia blondeliana appariva, dunque, a Gentile antitrascendentale, risucchiata inevitabilmente nel prekantismo. Egli postulava un contrasto incomponibile tra l’intellettualismo oggettivistico del cattolicesimo (mutuato dal platonismo) e il soggettivismo (hegeliano-spaventiano) della filosofia moderna. Perciò Blondel e i modernisti, che puntavano su un’impossibile ‘terza via’, gli apparivano perdenti e senza futuro: mentre il cattolicesimo tradizionale aveva dalla sua la perpetuità teorica del platonismo. Gentile non vedeva come, nella filosofia dell’azione, potesse sussistere la duplicità delle volontà (dell’uomo e di Dio), mentre per lui la volontà crea Dio creando se stessa e crea se stessa creando Dio: affermazione di Dio e insieme affermazione di sé e perciò azione e vita. Totalità idealistica in Gentile e perciò, per lui, irrisolvibile dualismo in Blondel. La certezza – e qui c’era accordo – non si raggiunge con il ragionamento, ma con l’azione, cioè con l’amore e la volontà. Ma la volontà è organo della vita, non della conoscenza, è il processo dello spirito: bisogna amare la verità (ogni verità, non solo quella religiosa) e trasformarsi per raggiungerla. Tuttavia, il processo dello spirito non andava confuso, come – secondo Gentile – faceva Blondel, con la teoria di tale stesso processo, pur essendone la condizione. E tale teoria dunque, in quanto scienza, non aveva come organo la volontà, ma la ragione, il pensiero, la logica. Perciò l’idealismo nuovo (in cui la verità si fa, è storia) era il vero idealismo cristiano (del Cristo che è Dio e uomo), cioè il cristianesimo più coerente, senza residui platonici.

Ma questo primo aspetto (di critica e di polemica) non deve oscurare e occultare il secondo aspetto, intravisto da Garin: il ruolo necessario e fondamentale che il blondelismo ha giocato nella nascita dell’attualismo. Bastino pochi accenni. L’action (1893) di Blondel, che si presentava come «scienza della prassi», negava la distinzione ontologica tra essere e conoscere, tra conosciuto e conoscente (M. Blondel, L’azione, a cura di S. Sorrentino, 1993, p. 131). E poneva ogni atto come sintesi di volontà volente e operante (p. 102) e volontà deliberata e voluta (p. 226). Ma tale dialettica sporgeva sempre in un’eccedenza, un’opposizione interna, una sproporzione, quasi come una passività da vincere (p. 249). Blondel voleva superare la morale del naturalismo e la morale metafisica in una «morale morale» (p. 376):

Pertanto, grazie a una progressione inevitabile dell’analisi, che mette semplicemente in luce una verità già vivente in noi, siamo indotti a volere non tanto l’oggetto, non tanto il fatto, ma l’atto o l’essere medesimo della volontà (p. 435).

Ma se l’azione non può confinarsi nell’ordine naturale, essa da sola non può oltrepassarlo: da qui la necessità di un trascendimento, quasi un’ascensione mistica (non un ‘salto’ in senso fideistico), come riconoscimento di un «ospite misterioso»: «E quello che in questa sede bisogna chiamare Dio è un sentimento del tutto concreto e pratico. Per trovarlo non occorre rompersi la testa, ma bisogna metterci il cuore» (p. 477). La verità non vive affatto nella forma astratta e universale del pensiero: bensì nella pratica, nell’atto. «L’atto per eccellenza è una comunione autentica, una specie di mutua generazione delle due volontà che vivono in noi». «Quindi quando vogliamo pienamente, è lui [Dio], è la sua volontà che vogliamo. […] Per questo all’azione soltanto è attribuito il potere di manifestare l’amore e conquistare Dio» (pp. 530-31).

L’attualismo nasceva, propriamente, come rilettura idealistica (rovesciamento-inveramento) di Blondel, in cui la volontà volente e la volontà voluta diventavano pensiero pensante e pensiero pensato e in cui si immanentizzava la conquista spirituale di Dio.

Il nodo del rovesciamento-inveramento gentiliano stava nell’immanentismo: il blondeliano metodo dell’immanenza appariva incompleto e parziale, occorreva trarlo, con radicalità teoretica, a un immanentismo assoluto, assumendo che immanentismo assoluto e idealismo coincidessero. Occorreva passare dal metodo dell’immanenza al principio (pensiero, logos) dell’immanenza, mentre Blondel rimaneva in un principio di volontà o amore: così non raggiungeva Dio, ma ricadeva nel fenomeno, nel soggettivismo del soggetto finito; per non essere trascendentale finiva ateo. E tuttavia nell’immanenza immanentizzante gentiliana, l’immanenza immanentizzata (soggetto) si opponeva alla trascendenza immanentizzata (oggetto) e, nella loro concreta dialettica, si risolveva. Quello di Gentile era un Dio-senza-Dio: una fede (religiosa) contenuta nel non-Dio. Il non-Dio (filosofia) comprende Dio (religione): come lo Spirito comprende la materia. Non ateismo fenomenico, ma ateismo divinizzato, misticismo vuoto e pure concreto, filosofia umano-divina.

L’atto del pensiero dunque, nella sua concretezza e attualità, non può trascendere se stesso se non nell’atto stesso. Ogni preteso trascendimento teorico implicava un’oggettivazione astratta: una teoria, un pensiero pensato, vero solo nella sua astrazione. Né si poteva porre la religione come potenzialità prelogica (Grazia) che si sviluppava nell’atto (autocoscienza credente), perché ciò avrebbe supposto una precategoria, quasi un’immanenza dell’immanenza, ma che allora poteva essere pensata solo staccandola dal pensiero pensante, come presupposto dato, con ciò ricadendo nel dualismo del naturalismo astratto che l’attualismo pensava di aver superato.

Contemporaneamente, partecipando ai dibattiti sulla scuola, Gentile faceva del nascente attualismo (e del suo recupero di una hegeliano-spaventiana divinità dello Stato) il nerbo di una tensione verso una riforma morale e civile degli italiani. La scuola doveva, certo, essere laica, ma di una laicità positiva, perciò governata dalla filosofia: scuola, pertanto, non di uno Stato laico perché neutrale, ma laico perché divino in sé (non derivante la sua divinità dall’esterno, dalla Chiesa), reale attività etica e perciò espressione assoluta di religiosità immanente. Questa prospettiva non convinceva Croce.

Ma c’era di più. La mistica blondeliana se abbassata a idealismo (intrascendibilità del pensiero) bruciava le distinzioni nel pensiero (e tra pensiero e azione) e conduceva a quello che poteva apparire come un misticismo presentista. Da qui perciò l’accusa di misticismo rivolta a Gentile da Croce nella lettera-articolo su «La Voce», pubblicata il 13 novembre 1913. Vi fu poi la risposta di Gentile l’11 dicembre. E ancora la replica di Croce il 12 gennaio 1914. Aveva ragione Croce quando diceva a Gentile che il suo «atto puro», che egli chiamava Pensiero, poteva ugualmente essere chiamato Vita, Sentimento, Volontà. E certo, dal punto di vista crociano, questa filosofia della volontà intrascendibile (e senza distinzioni) e dell’atto o attivismo o azione pura era misticismo.

Nel secondo volume del Sistema di logica come teoria del conoscere (1923) Gentile cercò di rispondere: in qualche modo, l’attualismo doveva porre una distinzione tra logica dell’astratto e logica del concreto e ribadire come l’unità non cancellasse la triade delle forme spirituali (arte-religione-filosofia o, che è lo stesso, soggetto-oggetto-autocoscienza). Dunque, per sfuggire alla critica crociana, Gentile sottolineava l’equazione della teologia con la filosofia, la quale afferma, come la teologia cristiana, la monotriade, ma elimina ogni ‘dato’ presupposto.

Il Dio reale fuori dal soggetto era vero, ma come mito del logo astratto: verità delle religioni storiche, certo importante, e tuttavia parziale (in-attuale al pensiero). Il soggetto, ponendosi, negava e superava e bruciava questa trascendenza astratta e perciò inesistente (ateismo metodologico), in una combustione che era morte di Dio, ma per concretizzarsi nella dialettica del pensiero (e perciò della vita e della volontà: autoctisi, autocoscienza creatrice cioè coscienza autocreatrice, atto puro come divenire puro): divinità del non-Io; Dio non-Io. Dunque il pensiero, nell’eternità presente della sua logica concreta, creava sia il soggetto sia il Dio-creatore (oggetto): creava, non nel senso empirico e banale del logo astratto (come poteva dire il positivismo: Dio invenzione umana), ma come autoporsi assoluto della dialettica tra non-Dio (soggetto) e Dio (oggetto) e perciò come unica, ma necessaria, autotrascendenza, a sua volta intrascendibile. E il Dio (oggetto assoluto) vero e concreto era necessariamente in relazione (oppositiva e perciò veramente dialogica) con il soggetto: era un Dio-incarnato, un Dio-con-noi, l’Emmanuele, il Cristo, vivente nel profondo del nostro cuore e però, appunto, intrascendibile fuori dal nostro cuore. Tale Dio-col-soggetto e in divenire non poteva peraltro assumere i caratteri (mitici) della narrazione evangelica, né, più in generale, poteva ammettere una Rivelazione ‘dall’esterno’, che non fosse cioè autocreazione e perciò immanenza autorivelatrice. Il Dio astratto non poteva essere combusto una volta per tutte, la morte di Dio era un divenire perenne: un divino (o un umanesimo divino) che si fa eternamente bruciando il divino. In ogni caso Gentile così concludeva la sua opera maggiore:

Filosofia, dunque, teologizzante? E perché no? Soltanto che la teologia dei teologi non ha mai propriamente parlato di Dio, poiché i teologi non hanno mai conosciuto Dio, avendolo sempre presupposto, scambiandolo con la sua ombra. Che se teologizzare dovrà dirsi parlare comunque di Dio, non sarà poi un gran male, considerato che Dio, più che il pensiero dei teologi, è anche e sopra tutto il pensiero costante di ogni uomo che non si trastulli con giochi dell’intelligenza, ma viva seriamente la sua vita in cui è impegnato l’universo, e che gli fa sentire perciò il peso di una divina responsabilità (Sistema di logica come teoria del conoscere, 2° vol., 5a ed. riveduta, 1987, p. 384).

Leggere allora questo Dio cristiano e gentiliano come sostanzialmente riducibile alla triade hegeliana (arte-religione-filosofia), come faceva la sinistra gentiliana (Ugo Spirito), era legittimo: ma qualcosa si perdeva. E del resto leggerlo in senso trascendente-modernista, come faceva la destra gentiliana (Armando Carlini) era pure possibile: ma qualcosa – e di più – si perdeva. Solo Gentile rimase fedele al gentiliano Dio cristiano (e, a modo suo, cattolico).

Una fede, una scolastica, una Chiesa

In realtà, proprio perché si poneva come filosofia dell’azione (o dell’atto), il pensiero gentiliano si doveva rovesciare-inverare nella prassi, sviluppando la dimensione civile del precedente impegno per l’educazione nazionale.

Con la Teoria generale dello spirito come atto puro e con i Fondamenti della filosofia del diritto (1916) Gentile poneva la prospettiva dell’unità di teoria e pratica – opposta alla distinzione crociana di pensiero e azione, teoria (come estetica e come filosofia) e prassi (come economica e come etica). Se nella Teoria egli affermava che «l’energia che sostiene la vita, è appunto la consapevolezza del divino e dell’eterno» (Teoria generale dello spirito come atto puro, 1987, p. 148), precisando che l’attualismo partecipava dei pregi del misticismo, ma si sottraeva ai suoi difetti (perché il misticismo non riusciva a concepire lo spirito come volontà, sentimento, amore, libertà, autoctisi, nella differenza-identità di finito e infinito), nei Fondamenti poneva la società – come svolgimento dell’unico uomo che è costituito da tutti gli uomini nel loro essere spirituale – non inter homines, bensì in interiore homine. Insomma l’idealismo attuale

ha ritrovato Dio, e ad esso volgesi, ma non ha bisogno di rifiutare nessuna delle cose finite; […] per cui la cosa finita è la realtà stessa di Dio. E si sublima così davvero il mondo in una teogonia eterna, che si adempie nell’intimo del nostro essere (Teoria generale dello spirito, cit., p. 265).

Ma il momento decisivo venne dalla Prima guerra mondiale. Distaccandosi dal sentire di Croce, Gentile vide la guerra come ‘pienezza del tempo’: sviluppò, cioè, una visione in positivo della guerra, come prova decisiva e grande chance per la nuova Italia, come vera educazione nazionale. Gentile chiariva, negli scritti raccolti in Guerra e fede (1919), che la guerra non era un mero conflitto tra Stati, ma un dramma quasi divino, cioè uno sforzo in cui il Tutto era impegnato: atto assoluto e dovere supremo.

Nell’immediato dopoguerra, scrivendo – nel 1919 – il proemio al primo numero del «Giornale critico della filosofia italiana», egli osservava che tanto sangue non poteva essere stato versato invano, e che, pur affondando le radici nell’egoismo e nell’individualismo utilitaristico, stava ormai germogliando una fede idealista. La guerra rendeva l’attualismo un attivismo civile religioso e lo avvicinava, sempre più rapidamente, all’attivismo fascista e alla sua religione politica, con la mediazione del giobertismo ma, soprattutto, del mazzinianesimo (De Giorgi 2010, pp. 258-70).

Nel 1920, nel primo dei Discorsi di religione, dedicato a Il problema politico e rivolto ai giovani, Gentile chiariva la sua valutazione delle necessità del momento storico. Se, attualisticamente, l’arte era l’affermazione del soggetto e la religione l’affermazione dell’oggetto, la storia richiedeva, in quel momento, un sacrificio dell’individuo, del soggetto, a beneficio dell’oggetto: esprimeva un bisogno religioso e chiedeva soluzioni di fede. Egli affermava:

Noi tutti oggi sentiamo come troppo già esaltammo in passato la forza, il valore e il diritto dell’individualità o dell’astratta soggettività; […] noi sentiamo pulsare qualche cosa che supera l’individuo e limita il soggetto […]. Oggi noi sentiamo ravvivarsi dentro di noi e ingigantire il bisogno, quasi legge inderogabile, di questa fede […] una forma di vivere sociale dove tutta si possa liberamente spiegare la forza dello spirito, e che cominci dunque dal far guerra ad ogni sorta d’individualismo astratto (Discorsi di religione, 1957, pp. 26-28).

Ma «questo ritrovare se stessi in una realtà che ci limita e trascende, questo è […] la religione»:

Il nostro pensiero non può non essere religioso, la nostra azione non può non essere compenetrata di spirito religioso. E se la nostra azione è azione politica o Stato, il nostro Stato conviene pure che sia governato da uno spirito schiettamente e profondamente religioso (p. 29).

Giova, in questo svolgimento biografico gentiliano, distinguere due momenti storici diversi: il primo (fino al 1926) era quello della fede come rivoluzione-restaurazione, una fase kerygmatica, collegata al fascismo-movimento; il secondo (dal 1927 circa) risolveva e strutturava quella fede in una teologia politica come dogmatica dello Stato-Chiesa cioè del totalitarismo, collegato al fascismo-regime.

Nel primo momento si collocano la partecipazione di Gentile al primo governo Mussolini, dopo la marcia su Roma, la riforma della scuola, con l’accento sull’insegnamento della religione cattolica nelle scuole elementari (Ambrosoli 1980), l’iscrizione al Partito nazionale fascista nel 1923, la rottura definitiva con Croce alla fine del 1924, fino – emblematicamente – alla stesura del Manifesto degli intellettuali fascisti nel 1925. E in tale Manifesto egli affermava il carattere religioso del fascismo: fede ardente, intransigente, energica e violenta; concezione austera della vita, serietà religiosa che non distingue la teoria dalla pratica; rivoluzione come movimento spirituale che si fa Stato (Politica e cultura, 2° vol., a cura di H.A. Cavallera, 1991, pp. 5-13).

Naturalmente, in questa visione, il cattolicesimo come religione nazionale degli italiani e la stessa Chiesa cattolica come sua ‘empirica’ organizzazione avevano una notevole importanza come elementi costruttivi della nuova Italia fascista: ma dentro e non mai fuori o accanto lo Stato etico. Gentile pertanto, nel 1929, fu ostilmente contrario ai Patti lateranensi e, in particolare, al Concordato, che sancivano, ai suoi occhi, un mostruoso e contraddittorio ibrido. Egli dovette accettare le scelte di Benito Mussolini, che andavano in altro senso, vivendole come una sconfitta e adoperandosi, successivamente, per arginarne la portata (Di Lalla 1975, pp. 401-08).

Vi è chi ha notato, giustamente, un declino della fortuna di Gentile dopo il 1929 (Del Noce 1990, p. 324) e un progressivo sfaldarsi della sua scuola nei dissensi polemici di allievi ed epigoni. L’attualismo si faceva scolastica, nominalismo, retorica, ideologia in senso astratto, come copertura sedicente etica delle corruzioni piccole e grandi pullulanti nel conformismo di regime. Gentile scriveva Origini e dottrina del fascismo (1929) e Dottrina del fascismo (1937) e chiedeva il giuramento di fedeltà al fascismo per i professori universitari. Tra il 1925 e il 1943 dirigeva e realizzava l’Enciclopedia Italiana, alla quale chiamava a collaborare anche cattolici di diversa sensibilità e per la quale redigeva la parte filosofica della voce Religione. Egli peraltro sapeva bene – come scriveva nel 1931 – che senza una vera e unanime moralità della Nazione

il Fascismo cesserebbe di essere quel movimento che è sempre stato e vuol essere, di ricostruzione nazionale, per trasformarsi in un processo malefico di disgregazione e dissoluzione delle forze morali del popolo italiano (Politica e cultura, cit., p. 504),

ma ribadiva un suo fideismo cieco «a prescindere dalle pretese individuali irragionevoli e assurde, a prescindere dalle immeritate fortune, delle quali è puerile meravigliarsi o credere che sieno evitabili» (p. 508), insomma a prescindere dall’immoralismo reale e dal diffusivo soggettivismo deteriore.

D’altra parte, proprio a partire dal 1929, intensificava attacchi e critiche alla scuola neoscolastica dell’Università cattolica del S. Cuore. Ma, soprattutto, cercava un colpo d’ala teoretico che potesse ridargli smalto. Al declino dell’attualismo rispondeva, pertanto, con un attualismo «alquanto mutato d’aspetto». Quello della Filosofia dell’arte (1931) e del postumo Genesi e struttura della società è il Gentile ‘filosofo europeo’: europeo perché storicamente posto, a fianco di Carl Schmitt e di Martin Heidegger, tra i massimi filosofi del totalitarismo contemporaneo, cioè di regimi ideologici di massa a partito unico, in cui «al Partito spetti un potere semplicemente spirituale, e allo Stato tutto il potere temporale» (Politica e cultura, cit., p. 273).

Nel 1931, in una conferenza in Svezia (I fondamenti dell’idealismo attuale), Gentile, da una parte, enfaticamente sosteneva che l’attualista non negava Dio, ma insieme ai mistici ripeteva Est Deus in nobis, dall’altra affermava che lo spirito è natura che si fa spirito – essere che è non essere, bene che è male, pace che è guerra – dove lo spirito arde eterno e brucia ogni scoria (e dunque ogni Dio trascendente). Ma significativi ed eloquenti sono, soprattutto, gli appunti per la conferenza Il fascismo come concetto della vita, tenuta il 9 giugno 1932 a Udine, nei quali si legge: «Il fascismo è perciò 1. Antindividualismo 2. Lotta e sacrificio 3. Religione 4. Stato etico 5. Stato totalitario 6. Libertà» (cit. in Cavallera 1992, p. 17). E nella più nota conferenza, tenuta a Praga il 30 aprile 1935, egli ribadiva Il carattere religioso dell’idealismo italiano e parlava del «Tutto, la Realtà, Dio stesso» come soggetto pensante, che «non pensa per me solo, ma per tutti»: volontà di tutti cui tutto deve obbedire, pretesa dell’uomo di Stato che deve conquistare gli spiriti. E presentava l’attualismo come filosofia che «non può non essere politica» e che perciò si buttava «nella mischia»: la sua forza stava nella sua fede animatrice e perciò nel suo carattere religioso, cioè nel partecipare del «carattere totalitario e perciò vitale o etico della religione». E del resto, in moltissimi interventi, egli ribadiva l’ormai stucchevole equazione dogmatica: Stato fascista come Stato religioso e perciò etico e perciò totalitario (Politica e cultura, cit., pp. 86-87, 89-90, 127-29, 149-50, 174). Il fascismo, dunque,

ha un credo, cui è legata indissolubilmente tutta la sua esistenza; ha una dottrina che è sostanza della sua vita, così come per ogni cristiano i dommi della sua fede e i comandamenti (p. 151).

Non sorprende che nel 1934 tutta l’opera di Gentile fosse posta all’Indice, insieme a quella di Croce. Peraltro se, nell’opposizione al fascismo, Croce, in quegli anni, si attestava su una «religione della libertà», che quasi sacralizzava la persona, senza la quale non poteva darsi vita etico-politica e perciò Stato, Gentile, nell’opposizione all’antifascismo, si attestava su una fede fascista come religione dello Stato, come teologia politica dello Stato etico e totale, senza il quale non poteva darsi libertà dell’individuo. E se l’ultimo Croce sviluppava le sue idee sull’utile nella categoria della «vitalità», Gentile sviluppava il suo attualismo recuperando una precategoria che era sia «sentimento» sia «società trascendentale».

Nel 1931, infatti, La filosofia dell’arte si poneva come una nuova filosofia o, meglio, un nuovo attualismo, reinterpretato dal punto di vista del sentimento, inteso come una «precategoria» (Sasso 2000). Gentile affermava che il «senso» era «quasi conoscenza immediata e punto di partenza della cognizione riflessa» (La filosofia dell’arte, 2000, p. 12) e il «sentimento» era «soggettività, immediata e pure dialettica», «pura forma soggettiva» (p. 144), «un non so che», «qualche cosa, che ognuno sente e nessuno sa dire precisamente che cosa sia»; «non è pensiero», «non è suscettibile di formolazione logica» (pp. 152-53): è la «forza che regge e sorregge l’animo» (p. 154), il «centro produttivo universale» (p. 161), l’«Atlante che regge questo mondo», «vita profonda che ci anima della vita possente dell’universo», «una forza creatrice», «per tutto presente ne’ suoi effetti, e non afferrabile né con gli occhi né con la mente in nessun punto», «il fondo vivo del nostro noi» (p. 321). Emanuele Severino (2014) ha parlato piuttosto di una potenzialità, di dynamis in senso aristotelico, realtà presupposta che trascende l’esperienza (pp. 47-48). Che il sentimento fosse precategoria o dimensione potenziale apriva, in ogni caso, un’aporia nell’attualismo, una distinzione di grado: poteva essere la rivincita di Blondel e, dunque, una fuoriuscita dal totalitarismo (R. Jacques, M. Blondel’s “Action” against the totalitarians, «University of Toronto quarterly», 1940, 1, pp. 214-21). Ma non fu così.

Sempre Severino ha fatto notare che come il «sentimento» (nella Filosofia dell’arte) così anche la «società trascendentale», quale «originale socialità» (in Genesi e struttura, cit., p. 32), mostrava il carattere di realtà presupposta (Severino 2014, p. 54). Era la ricerca – non più fichtiana come per il primo attualismo, ma quasi si direbbe occultamente schellinghiana – di un prefondamento (per lo Stato come opera d’arte e in interiore homine), qualcosa come «la terra e il sangue» per Heidegger. Se il sentimento è «il fondo vivo del nostro noi» (La filosofia dell’arte, cit., p. 321), tuttavia «in fondo all’Io c’è un Noi; che è la comunità a cui egli appartiene» (Genesi e struttura, cit., p. 15), dunque

queste radici misteriose che s’incontrano, si uniscono e fanno una grande rete nascosta sono le anime, non i loro più alti pensieri: le anime che come tali, cioè come sentimento, s’intendono naturalmente pur che si volgano l’una all’altra; s’intendono perché si trovano d’un solo sentire, e tutte un’anima sola (La filosofia dell’arte, cit., p. 179).

Era l’ultima e più essenzializzata parola della teologia politica gentiliana. Le pagine finali dell’ultimo libro di Gentile, dismettendo le «illusioni» del cristianesimo ‘mitologico’, esprimevano dunque l’estrema e radicale purificazione della ‘sua’ religione (Del Noce 1990, p. 273): così integralmente spirituale da non poter ammettere un’immortalità ancora residualmente naturalistica, cioè intesa come perpetuità.

Nella prassi religiosa l’uomo oscilla sempre fra un polo e l’altro della dialettica redentrice, che assicura la costante felicità. E ora perciò nel sentimento del proprio nulla anima ingemiscit e dispera, ora invece riconquista la speranza della salvezza, che si assicura unendosi a Dio; e dionisiacamente si innalza nel sentimento della sua divina dignità e immortalità (Genesi e struttura, cit., p. 144).

Cristianesimo che conteneva il nichilismo e superava la morte di Dio in un cattolicesimo dionisiaco.

A epigrafe di questa sintetica ricostruzione dell’itinerario gentiliano possiamo porre due affermazioni, di soli quattro anni successive alla morte del filosofo, di due personalità, tra loro diverse, ma entrambe molto attente all’attualismo. Nel 1948, il filosofo cattolico Gustavo Bontadini affermava:

Le arti, come si sa, nelle facoltà medioevali erano il nome della filosofia; la vita, per Gentile, e in particolare l’attività politica, fu la sua theologia. Il passaggio fu la sua reductio artium ad theologiam. Così, dopo il filosofo, l’uomo, o, se può piacere, il teologo (Dal problematicismo alla metafisica, 1952, p. 21).

E nello stesso anno, il filosofo problematicista ed ex attualista Spirito, parlando di Gentile, aggiungeva:

Religione e metafisica si sono congiunte in un unico sapere e in un’unica fede, sollevandosi a forme altissime di coscienza del divino. Se non che, per quanto profonda, questa fede non è riuscita ad avere il sopravvento e, anziché guadagnar progressivamente terreno di fronte alle forme deteriori e più immediate del soggettivismo, ha finito per lasciarle dilagare in proporzioni sempre più paurose, fino a sboccare nella crisi attuale. Per quanto profonda, dunque, la fede non si è rivelata tale da vincere la prova storica, che è poi l’unica prova consentita a una concezione immanentistica della vita (Il problematicismo, 1948, p. 30).

Se, dunque, Gentile tese, per tutta la vita e con tutte le sue energie spirituali, a essere un teologo politico e un riformatore religioso-civile, se cercò di promuovere – nel pensiero e nell’azione – un profetismo ideale e rivoluzionario, per una riforma spirituale e morale degli italiani, in guisa di fede civile, se per tale causa egli dispiegò un alfieriano titanismo che giunse al supremo sacrificio di sé, tuttavia tale tentativo storicamente non si radicò e non si impose, ma anzi – e per fortuna degli italiani – fallì.

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