Il lavoro

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Diritto (2012)

Il lavoro

Riccardo Del Punta

Dalla Liberazione allo Statuto dei lavoratori

All’indomani della Liberazione, a dispetto dell’urgenza del tema sociale cui rimandava, il diritto del lavoro era come un fiume disseccato (per una ricostruzione, cfr. Ichino, in Il diritto del lavoro nell'Italia repubblicana, 2008, pp. 4 e segg.), che pagava l’immedesimazione che aveva avuto con l’abrogato ordinamento corporativo (un frutto, sia pur particolare, del quale, peraltro, era stato anche quel codice civile che per la prima volta aveva previsto una disciplina organica del lavoro subordinato).

Una ripresa, pur non immediata, ci fu soltanto negli anni Cinquanta, a partire dall’emanazione della Costituzione. Agli elementi di continuità con la tradizione si sovrapposero, in quel periodo, gli strappi di avanguardie che puntavano al rinnovamento della cultura giuridica del lavoro.

Una corrente, per l’appunto definita costituzionale (la principale voce della quale è stata la «Rivista giuridica del lavoro», legata alla CGIL – Confederazione Generale Italiana del Lavoro – e annoverante studiosi prestigiosi), propose di valorizzare le norme costituzionali come fondamento di un 'nuovo' diritto del lavoro, o comunque a rimarcare, di questo (per es., Costantino Mortati), la componente pubblicistica.

Tale movimento si intrecciò (cfr. Ichino, in Il diritto..., cit., pp. 28 e segg.) con un'altra corrente, cosiddetta istituzionistica, che, in continuità con una tradizione tedesca recepita nell’epoca corporativa, proponeva (per  es., Renato Balzarini) una ricostruzione del rapporto di lavoro subordinato fondata non sul contratto, ma sull’inserimento del lavoratore nell’impresa intesa come istituzione portatrice di un interesse oggettivo, e dall’ordinamento della quale discendeva la trama dei poteri dell’imprenditore e dei doveri del lavoratore; una concezione che poteva essere utilizzata (sia pure senza il mordente politico dei 'costituzionalisti') anche in chiave di contrasto all’abuso dei poteri imprenditoriali.

La prospettiva istituzionistica, che è stata ripresa, in particolare, da Renato Scognamiglio (cfr. la sua intervista, del 1992, in Il diritto..., cit., pp. 519 e segg.), è risultata alla fine minoritaria, ma è in qualche modo risuonata, al di là della differente prospettiva politico-culturale (influenzata, almeno in origine, dal materialismo marxiano), nelle posizioni di autori come Umberto Romagnoli o i successivi Fabio Mazziotti e Luigi Mariucci, i quali, in polemica con le (poi dominanti) concezioni contrattualistiche, hanno ravvisato l’essenza della subordinazione nel sostrato fattuale e sociale del rapporto di produzione incentrato sulla separazione del prodotto del lavoro dal suo produttore. A metà degli anni Cinquanta, era lecito dire  che

la dottrina giuslavoristica [aveva ritrovato] finalmente la propria bussola, [...] costituita da una sorta di neo-istituzionalismo costituzionale, ovvero di riabilitazione dell’istituzionismo e dell’acontrattualismo degli anni ’30, purificati dal riferimento onnipervasivo ai principi costituzionali (Ichino, in Il diritto..., cit., p. 35).

In realtà, preceduta e accompagnata da elaborazioni come quella di Luigi Mengoni, che è poi confluita nel suo saggio del 1962 Il contratto di lavoro nel diritto italiano (pubblicato in Il contratto di lavoro nel diritto dei Paesi membri della C.E.C.A., a cura di G. Boldt, C. Camerlink, P. Horion et al., 1965, pp. 407-504), nonché sospinta dall’influenza di Francesco Santoro Passarelli (tramite le sue Nozioni di diritto del lavoro, 1945, e altre opere; su questo autore v. Romagnoli, Giugni, Dell’Olio, Persiani 1997), si è poi avuta la progressiva ripresa di una corrente contrattualistico/privatistica.

Un contrattualismo che non ha peraltro mai comportato, neppure negli studiosi di taglio più civilistico, alcun passo indietro rispetto alla diversità giuslavoristica, espressa in termini di 'specialità', o comunque di rivendicazione dell’anima anche 'pubblicistica' della materia (Vallebona 1996).

Della ricostruzione contrattuale del rapporto di lavoro, per lo più in termini di scambio, ergo di contrapposizione tra gli interessi (essendo rimasta sempre minoritaria, in controtendenza com’era con lo spirito del tempo, la tesi della natura associativa del contratto di lavoro, sostenuta da Aldo Cessari e continuata dalla sua scuola), e che ha annoverato, peraltro, anche versioni spurie (come quella di Giuseppe Suppiej, nella quale è entrata anche una concezione quasi comunitaria e 'oggettivistica' dell’impresa), gli esponenti di spicco sono stati Federico Mancini e Gino Giugni, che ne hanno avviato la prevalenza.

A Mancini (per una riflessione autobiografica del quale cfr. l'intervista, del 1993, in Il diritto..., cit., pp. 475 e segg.) si deve lo studio La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro (1957), dedito a ricostruire la posizione del lavoratore servendosi delle categorie del diritto civile dei contratti, in polemica con le tesi istituzionistiche ma a un tempo in quella logica di protezione del contraente debole che emergeva come la cifra dominante del diritto del lavoro di fonte legislativa.

Di Giugni è Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro (del 1963, quando già l’autore si era segnalato alla nascente comunità giuslavoristica), una ricostruzione in chiave contrattualistica della dinamica centrale del rapporto di lavoro, vale a dire l’inquadramento del lavoratore e il regime delle mansioni.

Altri mattoni contrattualistici sono stati portati, negli anni Sessanta e all'inizio dei Settanta, da Cecilia Assanti (1963), sul potere disciplinare; Giorgio Ghezzi (1965), nel fuoco della classica categoria civilistica della mora del creditore; Giuseppe Pera (1965), sulle assunzioni obbligatorie; Mattia Persiani (1966), per l’importante ricostruzione del contratto di lavoro come contratto 'di organizzazione', che ha in seguito riscosso diffusi, sebbene non unanimi, consensi; Luigi Montuschi (1967), sui limiti legali nella conclusione del contratto; Tiziano Treu (1968), sull’onerosità del rapporto e sulle deviazioni della retribuzione dal principio di corrispettività; Edoardo Ghera (1970), sui nessi tra sistema del collocamento, all’epoca rigorosamente pubblico (almeno sulla carta), e la conclusione del contratto di lavoro (per tutti i testi cui si fa riferimento qui e nel corso del saggio si rinvia alla sezione Opere).

In questi studi l’approccio contrattualistico, lungi dall’essere fine a se stesso, era strumentale al consolidamento degli istituti e alla valorizzazione delle implicazioni personalistiche di questi (organicamente ricostruite da Carlo Smuraglia in La persona del prestatore nel rapporto di lavoro, 1967).

Era aperto, nel contempo, il cantiere del diritto sindacale, nel quale, al di là dell’acquisita operatività di un diritto di sciopero consegnato (dalla dottrina maggioritaria) alla titolarità del singolo lavoratore nonché ampiamente 'liberalizzato' (ma sopravvivevano dissensi sulla liceità delle forme cosiddette abnormi, negata, per es., da Pera), restavano irrisolti i nodi del regime giuridico del sindacato e della contrattazione collettiva.

Così, mentre ancora si esploravano le possibili modalità di attuazione dell’art. 39 della Costituzione (v. Problemi costituzionali del diritto sindacale italiano, 1960, di Pera, che non ha poi cessato di sostenere le ragioni di un 'trentanovismo' aggiornato ai tempi), la contrattazione collettiva, riemersa dal congelamento corporativo, trovava un ubi consistam istituzionale nel diritto privato dei contratti, e in particolare nella nozione di 'interesse collettivo' e nell’impiego della categoria della rappresentanza: nasceva così, grazie a F. Santoro Passarelli, l’istituto del contratto collettivo 'di diritto comune'.

Partendo da tutt’altra prospettiva, sincretisticamente influenzata dalla teoria sindacale nordamericana e dalle posizioni di Otto Kahn Freund (su cui cfr. Il pluralismo e il diritto del lavoro, 1982), il già evocato Giugni, che per opinione comune ha avuto una posizione centrale e determinante nell’elaborazione del diritto del lavoro repubblicano (per una riflessione retrospettiva, cfr. Giugni 2007), presentava, nel 1960, quell’Introduzione allo studio della autonomia collettiva che proponeva un radicale mutamento di approccio. Secondo Giugni, l’essenza del fenomeno sindacale non risiedeva nel diritto statuale ma nella prassi del sistema di contrattazione collettiva, inteso, secondo la lezione romaniana, come 'ordinamento' a sé stante, provvisto di una propria e irriducibile giuridicità, pur essendo comunicante, per più canali, con quello statuale.

L’influenza, soprattutto metodologica, della teoria giugniana sulla cultura giussindacale italiana è stata enorme, malgrado l’assunto della separatezza dell’ordinamento intersindacale non abbia resistito al tempo.

Il dato di maggiore interesse, a mio giudizio, è peraltro consistito nell’alleanza 'di fatto' che si è consumata fra la teoria in discorso e il poco invasivo approccio privatistico.

Nel frattempo, la dottrina aiutava a sviluppare le basi ordinamentali dell’autonomia collettiva con studi come quello di Romagnoli (Il contratto collettivo di impresa, 1963) o quello di Ghezzi (La responsabilità contrattuale delle associazioni sindacali, 1963), dedito a perfezionare l’innesto del sistema sindacale nell’ordinamento civile.

Il tutto, in un dibattito che si era lasciato alle spalle l’alone della 'provvisorietà' del sistema sindacale 'di fatto', almeno da quando Mancini, nella sua famosa prolusione bolognese del 1963, messi a nudo i residui corporativi dell’art. 39 della Costituzione, seconda parte, aveva presentato la non attuazione di tale norma come una forma superiore di realizzazione costituzionale.

Ma l’attenzione della già solida comunità giuslavoristica – che dal 1966, a Cagliari, con la neonata Associazione italiana di diritto del lavoro e della sicurezza sociale (AIDLaSS), aveva cominciato a riunirsi nelle annuali giornate di studio –, era oramai concentrata sulle realizzazioni legislative.

Sembrava, in quel momento, che nulla potesse ostacolare le «magnifiche sorti e progressive» di una materia giovane e in ascesa, anche accademica.

Gli anni Settanta

All’indomani dell’evento centrale del decennio – l’emanazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori –, Mancini, nella sua relazione a una delle giornate di studio dell'AIDLaSS su questo tema (La rappresentanza professionale e lo Statuto dei lavoratori, in La rappresentanza professionale e lo Statuto dei lavoratori, Atti delle giornate di studio AIDLaSS, Perugia (22-23 maggio 1970), 1971, pp. 13-48), proclamava con spavalda finezza l’avvento dei tempi nuovi, provocando una spaccatura tra la dottrina 'giovane' e quella tradizionale, di impronta 'tecnica', che assisteva con spavento alla fragorosa irruzione della politica nel dibattito scientifico, e temeva un certo spirito antimprenditoriale dello Statuto.

Né sono mancate le critiche dall’opposto versante, centrate sull’accusa che lo Statuto avesse ecceduto nella cooptazione istituzionale delle maggiori confederazioni sindacali.

Non è possibile, in questa sede, ricostruire i rivoli (prevalentemente saggistici e convegnistici) di questo doppio dibattito, che ha avuto, come protagonisti principali, i 'giovani leoni' degli anni Sessanta (tra i quali Giugni, Mancini, Romagnoli, Treu), assurti rapidamente al rango di maestri, attorniati da una classe di più giovani e non meno determinati studiosi, che tuttavia si muovevano nei solchi di scuola tracciati dai primi.

Alle principali scuole si debbono anche i famosi commentari allo Statuto dei lavoratori, dal primo, redatto da Giugni e Antonino Freni (1971), a quelli delle scuole bolognese (Ghezzi, Mancini, Montuschi, Romagnoli, 1972) e barese (a cura di Giugni, 1979), e del gruppo coordinato da Ubaldo Prosperetti (1975).

In generale, a parte le critiche di segno 'conservatore', la materia ha avuto, in quel periodo, una forte omogeneità politico-culturale, animata dal genius temporis del 'collettivo' (cfr. De Luca Tamajo, in Il diritto..., cit., pp. 79 e segg., anche per una ricostruzione del decennio), e vivificata da una concezione conflittuale delle relazioni sindacali.

Per quanto concerne gli studi sul regime giuridico dell’autonomia collettiva, v’erano difficoltà tanto per la concezione privatistica, congenitamente poco adatta (al di là dei tentativi di rinnovarla, compiuti soprattutto da Persiani) ad assorbire la complessità del fenomeno sindacale, quanto per quella di impronta giugniana, non facile da conciliare con il nuovo modello, in qualche modo 'pubblicistico', della normativa promozionale.

Tali difficoltà non sono mai state portate, peraltro, sino al punto di rottura, anche perché, tramontata la soluzione 'trentanovista', non sembrava che ve ne fossero altre praticabili.

Più in generale, la stagione in esame è stata improntata al rinnovamento della metodologia dell’indagine giuslavoristica, in chiave di attenzione al sostrato sociale, così come alle implicazioni politiche dei temi del lavoro.

È giunto a maturazione, nell’occasione, quel tipico atteggiamento antipositivistico, concentrato sulla dimensione funzionale delle norme piuttosto che su quella formale e macrosistematica, che è divenuto la cifra distintiva del giurista del lavoro.

La spinta al rinnovamento non poteva risparmiare la dimensione giudiziale, rinnovata dalla riforma processuale del 1973 nonché agitata da indirizzi di avanguardia, ai quali però si opponevano non soltanto la parte più tradizionalista del movimento (incluso Pera, in questo orgogliosamente 'conservatore'), ma anche studiosi come Mengoni (di cui cfr. quella lettura d’obbligo per qualunque giuslavorista che è Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico, «Jus», 1976, pp. 3 e segg., poi in Id., Diritto e valori, 1985, pp. 11 e segg.), nei quali l’apertura problematica era bilanciata dalla fedeltà al metodo sistematico.

Quello di Mengoni è stato lo sforzo più importante di sollecitare il diritto del lavoro a chiarire a se stesso la propria posizione metodologica. Ma, al netto degli omaggi rituali, di rado tale tentativo è stato raccolto da una dottrina più entusiasmata dalla politica del diritto che dalla riflessione sul proprio modus procedendi.

Per es., se l’approccio interdisciplinare era ormai in gran voga (con un ambiente elettivo nel «Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali», fondato nel 1979 da Giugni, e divenuto da subito, e non soltanto per le temutissime rassegne dottrinali del suo direttore, la più autorevole rivista giuslavoristica), esso si indirizzava in modo partigiano sulle relazioni industriali e la sociologia 'di area', se non quasi sulla riflessione politologica, estromettendo dal campo cognitivo l’economia, trattata come se appartenesse a una dimensione 'altra' (ma che non avrebbe tardato a prendersi rivincite).

Gli studi del periodo si sono focalizzati, oltre che su messe a punto poi divenute classiche, come lo studio di Raffaele De Luca Tamajo La norma inderogabile nel diritto del lavoro (1976), sulle novità del ciclo statutario.

Dominante è stato l’interesse per il tema dei licenziamenti, che ha annoverato studi importanti (faccio mie le scelte di De Luca Tamajo, in Il diritto..., cit., pp. 146 e segg.), di taglio generale (Maria Vittoria Gentili Ballestrero, 1975), sulle causali del recesso datoriale (Mario Napoli, 1980, in una monografia, La stabilità reale del rapporto di lavoro, che è una delle migliori in senso assoluto su questa materia), sulla reintegrazione (Massimo D’Antona, 1979), sul bilanciamento tra licenziamento e tutela del lavoro (Salvatore Hernandez, 1979).

Sempre in area statutaria, la dottrina si è soffermata sulla nuova nozione di 'condotta antisindacale' (Mario Giovanni Garofalo, 1979, e Treu, 1974), e sulla disciplina di sostegno dell’attività sindacale nell’impresa (Mario Grandi, 1976).

Alla subordinazione e ai suoi dintorni sono state dedicate monografie impegnative, come quella di Oronzo Mazzotta su interposizione illecita e subordinazione (1979).

Studi significativi sono stati dedicati, infine, alla posizione soggettiva del lavoratore dipendente (Francesco Santoni, 1979); all'esile fattispecie del lavoro parasubordinato (Giuseppe Santoro Passarelli, 1979); al dirigente (Paolo Tosi, 1974); a riservatezza e segreto nel rapporto di lavoro (Pietro Ichino, 1986); all’incipiente legislazione di parità tra i sessi (Gentili Ballestrero, 1979); all’impiego pubblico, precorrendo le future tendenze di riforma (Mario Rusciano, 1978).

Ma, nello scorcio finale del decennio, la fase aurea del garantismo era già entrata in una prematura crisi che ha costretto il diritto del lavoro (al pari del sindacato), se non a pentirsi delle conquiste appena fatte, a riadattarsi in una logica 'emergenziale' (cfr. Il diritto del lavoro nell’emergenza, a cura di R. De Luca Tamajo, L. Ventura, 1979), o di flessibilizzazione, sindacalmente controllata, di alcuni trattamenti (A. Cessari, R. De Luca Tamajo, Dal garantismo al controllo, 1982). Gli anni Ottanta erano alle porte.

Gli anni Ottanta

Questo decennio è forse quello di più ardua lettura (per una ricostruzione, cfr. Ferraro, in Il diritto..., cit., pp. 163 e segg.), con una materia ancora sospinta dall’onda garantistica degli anni Settanta, il cui programma rimaneva da completare, ma che cominciava a sentirsi ostaggio di un futuro incerto; e ciò con il peso di nodi irrisolti come quello delle regole sindacali.

I dilemmi del momento furono scolpiti da Il diritto del lavoro negli anni ’80 («Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali», 1982, pp. 373-409), la relazione di Giugni alle giornate AIDLaSS baresi del 1982, che si concludeva con la proposta di un compromesso tra le istanze di socialità e quelle di efficienza.

All’opposto del decennio precedente, negli anni Ottanta divennero dominanti le tematiche sindacali che erano condizionate, tra l’altro, da un’evoluzione in corso (in senso 'neocorporativo' e politico) del ruolo del sindacato.

La prima importante monografia da ricordare è L’organizzazione e l’azione sindacale (1980) di Matteo Dell’Olio, che

pur impregnata di una solida impostazione civilistica di ricostruzione del fenomeno sindacale, dopo aver inquadrato il vincolo associativo nell’ambito della categoria dei contratti plurilaterali, mostrava ampia sensibilità ad assecondare la tendenza delle associazioni sindacali a prefigurare una disciplina di carattere vincolistico e tendenzialmente generale (Ferraro, in Il diritto..., cit., p. 185).

Grande impressione suscitò altresì lo studio di Giuseppe Ferraro (Ordinamento, ruolo del sindacato, dinamica contrattuale di tutela, 1980), che cercava di chiudere il cerchio del diritto sindacale poststatutario tramite l’individuazione, quale punto di comunicazione tra ordinamento statuale e intersindacale e, altresì, di auspicata stabilizzazione di un sistema pur pluralistico, del criterio della 'maggiore rappresentatività', il quale recepiva l’egemonia imperante delle tre centrali confederali e il ruolo regolamentare da esse esercitato.

Risalgono a quegli anni anche i contributi (sull’ordinamento intersindacale e sull’inderogabilità, 1984 e 1985) di Gaetano Vardaro, che purtroppo non ha avuto il tempo di portare a definitiva maturazione le proprie originali riflessioni.

Ai problemi giuridici centrali della contrattazione collettiva sono dedicate le monografie di Rusciano (Contratto collettivo e autonomia sindacale, 1984), con un’eccellente ricostruzione critica del dibattito, e di Mariucci (La contrattazione collettiva, 1985), con un’analisi giuridica fortemente calata nella realtà fattuale della contrattazione.

Molto frequentato, in una comunità che stava allargandosi a vista d’occhio, è stato altresì il tema dell’azione sindacale nell’impresa, che hanno cercato di consolidare giuridicamente vari studi (di Piergiovanni Alleva, 1980; Marco Biagi, 1986; Bruno Caruso, 1992; Giancarlo Perone, 1981; Silvana Sciarra, 1985). Di stretta ascendenza giugniana Libertà e immunità del sindacato (1986) di Umberto Carabelli.

Alla tematica in discorso sono stati dedicati intensi convegni AIDLaSS, come le giornate svoltesi a Macerata nel 1988, nonché dibattiti su riviste specializzate, come quello ospitato, nel 1987-88, dalla giovane rivista «Lavoro e diritto», espressione della scuola bolognese.

Nel complesso – sebbene con l’importante eccezione del ruolo di accompagnamento e commento della l. 12 giugno 1980 nr. 146, nel quale si sono distinti, ex multis, Franco Carinci, Gentili Ballestrero e Romagnoli, Santoni –, la materia non ha maturato un sufficiente consenso sulle ipotesi di riforma che pure circolavano, restando prigioniera del 'cerchio magico' disegnato dalla suggestione giugniana dell’autonomia intersindacale, dall’elaborazione privatistica di ispirazione santoriana, e dallo sfruttamento talora opportunistico della 'maggiore rappresentatività'.

Un analogo 'fallimento' è stato totalizzato sulla tematica della subordinazione, nella quale, al di là dell’avveniristica monografia di Marcello Pedrazzoli su Democrazia industriale e subordinazione (1985), protesa verso un’ambiziosa chiusura del cerchio tra la dimensione individuale e quella collettiva, si sono segnalate le monografie di Ichino (Subordinazione e autonomia nel diritto del lavoro, 1989), per la proposta di rivalutare l’autonomia del lavoratore nella qualificazione del rapporto, e Pessi (Contributo allo studio della fattispecie lavoro subordinato, 1989), per la valorizzazione della rilevanza qualificatoria della retribuzione.

Nel contempo, lungo gli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, è proseguita l’esplorazione del contratto di lavoro. Fra i temi affrontati, ancora la subordinazione, tramite diverse lenti: il 'lavoro a distanza' (Lorenzo Gaeta, 1993); il potere direttivo (Adalberto Perulli, 1992); la mobilità del lavoratore (trattata, in uno studio molto influente, da Franco Liso, 1982); la retribuzione (Massimo Roccella, 1986; Lorenzo Zoppoli, 1991); le clausole generali (Carlo Zoli, 1988; Patrizia Tullini, 1990); la mora del creditore (Valerio Speziale, 1992); le vicende sospensive (Angelo Pandolfo, 1991; Riccardo Del Punta, 1992); l’eguaglianza e le discriminazioni (Marzia Barbera, 1991); la sostituzione soggettiva nel rapporto (Sergio Magrini, 1980); il trasferimento d’azienda (Roberto Romei, 1993); la cassa integrazione guadagni (Gentili Ballestrero, 1985); da varie angolazioni, i licenziamenti (Mazziotti, 1982; Carlo Cester, 1983; Francesco Basenghi, 1991; Luisa Galantino, 1984); la prescrizione dei crediti di lavoro (Arturo Maresca, 1983); la tutela del lavoratore nel mercato (Gian Guido Balandi, 1984; Massimo Cinelli, 1982).

Il diritto del lavoro tra due secoli

Sin dai primi anni Novanta la materia è entrata in uno stato di accentuata fibrillazione (cfr. Del Punta, in Il diritto..., cit., pp. 253 e segg.), in connessione con l’avvento della globalizzazione e le critiche economiche alla sostenibilità del diritto del lavoro.

Questo non significa, peraltro, che il programma giuslavoristico sia stato abbandonato. Anzi, si è tentato di declinarlo, forse per meglio puntellarlo, anche nella prospettiva del diritto sociale europeo, nell’elaborazione del quale (per es., con l’impegno per la 'costituzionalizzazione') si sono distinti Roccella (1997), Sciarra (2002) e Veneziani (2004), oltre a Caruso (1992), Barbera (con il testo curato nel 2007, Il nuovo diritto antidiscriminatorio), Guarriello (1992), D’Antona (1998b).

A parte questa novità, il posizionamento di fondo della materia è rimasto immutato. Da un lato, non è riuscita a giungere a compimento la risalente tensione verso l’‘autonomia’ sistematica. Dall’altro, il fatto che il retaggio civilistico abbia continuato a essere custodito da un pur non maggioritario filone di studiosi (tra i quali Mazzotta e Vallebona), non ha comportato un’effettiva ripresa di dialogo con un diritto privato pur ormai lontano dal prototipo ottocentesco.

Entro queste coordinate, il dibattito si è disperso in un’esasperata produzione saggistica o commentaristica, su tematiche come la rivisitazione del nesso fattispecie-tutele, l’impatto dei mutamenti organizzativi, le tipologie flessibili (dove il dibattito è stato fuorviato, a lungo, dal cosiddetto decreto Biagi, ovvero il d.lgs. 10 sett. 2003 nr. 276), le esternalizzazioni, i licenziamenti (sui quali cfr. la ricognizione di Luca Nogler, La disciplina dei licenziamenti individuali nell'epoca del bilanciamento tra i principi costituzionali, alle giornate AIDLaSS del 2007).

Un settore in espansione è stato quello della tutela della persona, inteso ampiamente, con uno sviluppo degli studi antidiscriminatori (Barbera, Gentili Ballestrero, Gisella De Simone) e in tema di maternità e paternità (Donata Gottardi), e riflessioni nuove o attualizzate sui profili emergenti del mobbing e dei danni non patrimoniali.

Nulla di risolutivo è emerso, invece, dagli studi di diritto sindacale, nei quali, a parte ulteriori affinamenti sul tema della libertà sindacale (Franco Scarpelli, 1993) e la prosecuzione delle riflessioni sullo sciopero nei servizi essenziali (che ha risvegliato il dibattito sulla regolazione del conflitto: cfr., per es., Franca Borgogelli, 1998), l’ha fatta da padrone il tema del contratto collettivo, circa il quale monografie pur apprezzabili, come quelle di Nogler (1997) e di Giampiero Proia (1994), non hanno sciolto il nodo di un regime segnato dalla crisi del contratto collettivo di diritto comune, ma anche dalla difficoltà di evolvere verso qualcosa d’altro.

Un grande impegno di sistemazione, la dottrina l’ha messo, infine, nella maggiore riforma istituzionale del periodo, quella del lavoro pubblico, nella quale, oltre a Rusciano, si sono distinti Carinci – promotore del più importante commentario alla normativa (2007) e direttore de «Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni» –, Lorenzo Zoppoli (1991), e su tutti D’Antona (sino all’ultimo saggio sull’attualità dell’art. 39 della Costituzione, del 1998).

Ma se il dibattito giuslavoristico a cavallo tra i due secoli non si è perso in una decadente autocontemplazione, nondimeno la crisi della materia ne è stata una presenza costante se non ossessiva, che ha pesato sia nella discussione dei contenuti sia nella riflessione generale, finita sovente nella morsa di schemi di lettura semplificanti, come quello della contrapposizione a tutto campo con l’economia.

Per altro verso, la vischiosità della dicotomia destra-sinistra ha impedito che la divaricazione di analisi e prospettive (tra 'ortodossi' e 'riformisti') che era palpabile nel grande corpo della sinistra giuslavoristica giungesse (come sarebbe stato, forse, salutare) a un punto di rottura.

Così, mentre gli 'ortodossi' (dei quali ha continuato a essere una voce la «Rivista giuridica», passata nel 2005 alla direzione di Alleva) insistevano a invocare la preminenza costituzionale del 'sociale' sull’'economico', sollecitavano la materia ad alzare il tiro per meglio contrastare i rilanci del modo di produzione capitalistico (M.G. Garofalo, 1999), o lamentavano nostalgicamente lo smarrimento dell’anima giuslavoristica (L. Mariucci, 1997), sul versante 'riformista' Giugni avvertiva, già nel 1993, che il lusinghiero giudizio sull’opera compiuta (nell’offrire riscatto ai lavoratori, costruire le basi dello Stato sociale e promuovere l’autonomia dei gruppi sociali) non doveva distogliere da un confronto aperto e coraggioso con la nuova realtà di una società postindustriale fondata sull’innovazione e sulla conoscenza.

Nel 1994, in uno dei suoi affreschi più brillanti (Eguaglianza e differenza nel diritto del lavoro, «Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali», 1994, pp.545-65), Romagnoli invitava il diritto del lavoro a smettere di illudersi di poter vincere la partita con l’economia capitalistica, costringendo questa ad arrendersi alla propria razionalità egualitaria.

Una pietra miliare di queste riflessioni è stata posta da Diritto del lavoro di fine secolo: una crisi di identità? («Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale», 1998, 1, pp. 311-31), nel quale D’Antona (le cui Opere sono state raccolte nel 2000), radiografava la crisi di identità di fine secolo, con riferimento a ciascuno dei pilastri sui quali si era fondato il patto costituzionale del dopoguerra: lo Stato-nazione, minato dalla globalizzazione; la grande fabbrica, destrutturata dal postfordismo; la promessa della piena occupazione; la pretesa di rappresentanza generale del sindacato.

Un altro autore alla ribalta è stato Treu, in prima fila (cfr. Politiche del lavoro. Insegnamenti di un decennio, 2001) nel predicare il rinnovamento delle politiche del lavoro nei nuovi scenari globali e tecnologici, andando alla ricerca di nuove tecniche per difendere i valori ispiratori della materia (cfr. anche M. Magnani, Il diritto del lavoro e le sue categorie, 2006), e riqualificandosi (come hanno sostenuto anche altri filoni della materia, per es. la scuola napoletana) come istituzione di governo del mercato del lavoro.

Ma in altri autori le istanze di riforma sono state declinate in termini di discontinuità. È il caso di Biagi (per una rievocazione del quale, cfr. Pedrazzoli 2002), ennesimo emblema della propensione del giurista del lavoro alla politica del diritto, il quale era convinto (cfr. Progettare per modernizzare, postfazione a T. Treu, Politiche del lavoro. Insegnamenti di un decennio, 2001, pp. 269-80) che il diritto del lavoro necessitasse di una modernizzazione, sotto il segno di una riconciliazione non di comodo tra le istanze sociali ed economiche, della quale egli seguiva le tracce nelle esperienze europee.

Di Biagi, più che questo o quello scritto (ma cfr. Marco Biagi: un giurista progettuale. Scritti scelti, a cura di L. Montuschi, M. Tiraboschi, T. Treu, 2003), è da ricordare l’azione complessiva, sempre fedele al proprio 'progetto' e mossa da un pragmatismo che suonava straniero nel dibattito domestico.

Un approccio, quello di Biagi, con tratti in comune con quello di Ichino, di gran lunga il giurista del lavoro più presente nel recente dibattito pubblico. È del 1996, in particolare, l’uscita de Il lavoro e il mercato, nel quale egli ha condensato il proprio programma di riforma radicale del diritto del lavoro (cui ha dato veste scientifica nei tre volumi de Il contratto di lavoro, 2000-2003), orientato a ricentrare la tutela sui servizi di assistenza al lavoratore nel mercato piuttosto che sulle protezioni inderogabili, e a favorire il decentramento del sistema di relazioni industriali.

Il merito più importante di Ichino è, a mio giudizio, quello di aver costretto la materia a fare i conti con la prospettiva economica (anche per scoprirne il carattere non così monolitico, come ho cercato di mostrare nel saggio L’economia e le ragioni del diritto del lavoro, «Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali», 2001, 89, pp. 3 e segg.).

Conclusioni

Ad abbracciare, con un unico sguardo, l’evoluzione dottrinale del diritto del lavoro repubblicano, la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta appaiono come l’epoca 'eroica' della crescita e del consolidamento della materia, scandita da grandi libri e da quelli che ho voluto definire, affettuosamente, apprendisti maestri; negli anni Settanta, con una materia in ascesa, la generazione dei padri fondatori ha consolidato la propria presa carismatica, affiancata da una generazione di giovani allievi che, pur totalizzando libri importanti, non ha messo in discussione la primazia dei primi; gli anni Ottanta sono stati un momento di transizione e alternanza di cifre diverse, con una produzione scientifica (soprattutto di argomento sindacale) di qualità, e un panorama generazionale inalterato; gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo sono stati, per un verso, quelli dell’esplosione accademica della materia (nella quale cresceva, frattanto, una terza generazione di studiosi, pur ancora esitante tra il percorrere le orme dei 'padri' o lo sfidare l’autorità dei 'nonni'), che pure non è stata arricchita dalla nascita di nuove scuole scientifiche, ma è stata, al contrario, appesantita dallo strutturarsi di gruppi prevalentemente accademici e di potere, e, per altro verso, quelli della messa in questione della giustificazione del diritto del lavoro, dalla quale sono derivate forti polarizzazioni politiche.

Un percorso, quello raccontato per linee essenziali, generoso e appassionato, quasi labirintico nel dipanarsi tra ordinamento statuale, corpi intermedi e – più di recente – dimensione sovrannazionale, ma sempre animato da una grande dedizione alla disciplina, sebbene, di frequente (anche se con numerose attenuanti), troppo autoreferenziale.

Le nuove correnti trasversali che percorrono il firmamento giuridico (diritti fondamentali, 'giustizia' contrattuale, danni alla persona, tutela della privacy, regolazione della concorrenza e del mercato), insieme con la crescente complessità della realtà economico-sociale di riferimento, sembrano suggerire, oggi, l’opportunità di una nuova riflessione 'costituente', pur nel dubbio che la cultura giuslavoristica sia in grado di attendervi.

Ciò in un contesto nel quale, a meno di giocare soltanto in difesa (o in barricata), abbarbicandosi alle vecchie dicotomie, le sfide da superare sono più ardue di quelle che hanno dovuto affrontare, combattendo le ancora forti resistenze conservatrici ma in un ambiente politico-culturale fattosi propizio, i 'ribelli' degli anni Cinquanta e Sessanta.

L’augurio è che la materia sappia sentirsi provocata, piuttosto che spaventata, da tale impegnativo compito, continuando a farsi custode di quello 'spirito' del diritto del lavoro che ne ha fatto un fulgido protagonista della storia del Novecento.

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