Il diritto patrio

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Diritto (2012)

Il diritto patrio

Italo Birocchi

Ricognizione del tema

Nella storiografia italiana il tema è relativamente nuovo e, per così dire, magmatico, tanto che si parla di 'diritto patrio' senza per lo più indicare il significato con cui lo si adopera. Negli usi correnti sembra infatti di potervi riconoscere un senso debole, come uno dei diritti particolari in dialettica con il diritto comune, e un senso forte, per indicare che gli ordinamenti europei in età moderna andarono caratterizzandosi come diritti patrii. Qui verrà adoperato nel secondo significato. Le due maniere di intendere questo fenomeno non derivano tanto dalla valutazione dei processi di affermazione dei diritti patrii nelle varie esperienze, meno o più sviluppati, quanto dall’impostazione storiografica adottata: in una visione di continuità con l’esperienza medievale, il diritto patrio appare solo come uno dei diversi diritti particolari che caratterizzano il modello pluralistico del diritto comune, senza assurgere a rilevanza propria.

Di tale visione continuista si è fatta a lungo portavoce la storiografia italiana, che infatti, con lo sguardo fisso sulla penisola, per indicare l’esperienza moderna si è avvalsa semplicemente di un riferimento neutro – allude solo allo scorrere del tempo – parlando di 'tardo' diritto comune: continuista nell’impostazione, e per di più ben cosciente della frammentazione politica e della mancanza di sentimenti unitari forti, in presenza, come si sa, di una lunga egemonia spagnola, fino a tempi recenti quella storiografia ha manifestato poco o nessun interesse per la storia del diritto patrio. È vero che, in una panoramica generale prospettata oltre settant'anni fa, Francesco Calasso (1939) aveva rimarcato il processo di statualizzazione del diritto comune vissuto dagli ordinamenti giuridici europei dell’età moderna. Ma Calasso, interessato soprattutto all’esperienza medievale, non approfondì la propria intuizione, mentre gli studiosi successivi non raccolsero quello spunto, attirati soprattutto dallo studio della dottrina di scuola, necessariamente legata alle fonti tradizionali dello ius civile romanorum e dello ius canonicum; va da sé, invece, che si può cogliere l’esperienza dei diritti patrii puntando lo sguardo verso i circuiti pratici e inquadrando complessivamente l’esperienza italiana all’interno di quella europea.

Il dato certo è che anche gli ordinamenti italiani furono toccati dal quel processo di differenziazione del diritto comune che portò a grande fortuna uno dei significati di 'comune' già apparso nel tardo Medioevo, come diritto generale e proprio di ciascun ordinamento. La diversificazione giuridica non avvenne attraverso un processo rettilineo di affermazione della legge, ma coinvolse tutte le fonti, espressione della comunità politica. E fu importante l’azione della prassi (giudici, notai, avvocati), specialmente per quanto riguarda gli istituti dallo spiccato legame con il territorio.

Ma la diversificazione del diritto non coincide di per sé con l’emersione del diritto patrio, che si ricollega alla costruzione di un'identità nazionale o comunitaria, nella quale, comunque, rimase sempre presente il senso di appartenenza alla matrice europea.

Il processo di diversificazione del diritto entro ciascun ordinamento

L’emersione di un diritto territoriale specifico entro ciascun ordinamento non fu affatto un fenomeno di monopolio: avvenne innanzi tutto attraverso il fiorire di una molteplicità di fonti normative legate a ciascun Paese: leggi del sovrano (principe o repubblica), statuti e consuetudini, leggi pattuite nei parlamenti. È un processo impressionante per la mole delle raccolte e soprattutto per la consapevolezza dei contemporanei che queste fonti costituissero il nucleo del rispettivo ordinamento. Da qui l’esigenza, ripetutamente espressa, di raccogliere le varie tipologie di norme, che ebbe talora solo conati, più spesso realizzazioni ufficiali o private, spesso corredate da commentari.

Tali compilazioni rispondevano al problema di accertamento e di razionalizzazione del diritto, ma presentano un significato più ampio, che è quello di 'rappresentare' il diritto, cioè di produrlo e proporlo in forma ordinata nella comunità politica come espressione di istituzioni, ceti e ordini operanti nella società civile: incideva l’onda lunga del cultismo, che aveva messo al centro dell’attenzione la storicizzazione del diritto. Si raccoglieva di tutto: capitula parlamentari, consuetudini e stili giudiziari, statuti, ordini particolari, formule negoziali, normative principesche. Se nel Medioevo il diritto scritto era stato per antonomasia il diritto romano, ora questa identificazione tendeva a perdersi, appunto perché si mettevano per iscritto tanti altri diritti, che, grazie all’invenzione della stampa, rapidamente potevano circolare ed essere interpretati. Si può parlare di 'rappresentare' il diritto in quanto l’istituzione, la comunità o il ceto, di cui la fonte normativa era espressione, appartenevano a un ordinamento e agivano al suo interno. Si realizzava una vera e propria appropriazione degli spazi giuridici da parte di fonti locali o statuali, per quanto non in forme esclusive né in tempi brevi.

Così in Francia, nel corso del Cinquecento, si diede corso alla redazione delle consuetudini (coutumes), già disposta dal re Carlo VII nell'ordonnance del 1454 (art. 125). Come spesso accadeva per i progetti di riordinamento in antico regime, la norma nasceva da esigenze processuali. La messa per iscritto delle consuetudini era vista come mezzo per ovviare alle lungaggini dei processi, allorché una parte allegava disposizioni consuetudinarie, fondate sulla tradizione orale e spesso di significato controverso. Nella stessa Francia, a più riprese, i cahiers de doléances dei tre Stati chiesero anche la raccolta delle ordonnances: la richiesta fu accolta dal re Enrico III nell 'ordonnance de Blois (1579) e sboccò nel code Henri III (1587).

Nella penisola iberica, già nel Quattrocento si registra un imponente movimento teso alla redazione di norme territoriali, regie o delle Cortes, che culminano in alcune fondamentali raccolte come l’Ordenamiento de Montalvo (1484), le Leyes de Toro (1505) e la Nueva recopilación de las leyes (1567).

Per fare un esempio che ci porta in Italia, in Sardegna (allora regno dipendente dalla corona spagnola), la richiesta, avanzata nel Parlamento del 1602-1603, di raccogliere sia le consuetudini dei villaggi sia gli statuti delle città fu accolta dal re di Spagna Filippo III, sebbene non trovasse attuazione; ma negli anni Quaranta di quel secolo furono pubblicate due compilazioni riguardanti norme regie (Leyes y pragmaticas reales del reyno de Sardeña [...], 1640, a cura di Francesco Vico) e parlamentari (Capitula sive acta curiarum regni Sardiniae [...], 1645, a cura di Giovanni Dexart).

Complessivamente, la raccolta di fonti normative non era solo un atto teso a facilitare la loro reperibilità, bensì presupponeva il riconoscimento del ruolo istituzionale dei soggetti che le avevano espresse; e le raccolte non si proponevano come mere sillogi di provvedimenti preesistenti, essendo implicita un’opera di 'razionalizzazione' – ovvero di storicizzazione – della fonte originaria, che, attraverso il commento o direttamente agendo sul testo, poteva incidere sui contenuti.

Per quanto multiforme nelle sue linee, può dirsi che il processo di rappresentazione del diritto esprimesse uno spirito tendenzialmente convergente. A questo contribuivano i testi normativi di efficacia generale (anche se le norme non erano uguali per tutti), come nel caso di molte prescrizioni risalenti al principe o ai parlamenti o a complessi statutari della città dominante estesi alle comunità sottomesse. Il profilo unitario si esprimeva inoltre attraverso la vasta fioritura di commentari di raccolte di legislazione: in questo lavorio, infatti, era inevitabile l’impiego delle categorie e della strumentazione dotta, sicché i commenti tendevano a smussare i particolarismi di origine e a rendere compatibili le relative interpretazioni nell’ordinamento considerato.

Vi era del resto una giustificazione generale (per quanto latente), addotta per affermare lo spirito di convergenza tra le molteplici fonti: il principio della ragion di Stato, inteso in un senso pregnante – era già in Giovanni Botero – come insieme delle conoscenze delle condizioni storico-geografiche del territorio, al quale occorreva ispirarsi, almeno nel campo del diritto pubblico, per governare e promuovere un sistema normativo efficace.

Vediamo ora, per le principali branche del diritto, come avvenisse il processo di specificazione all’interno di ciascun ordinamento.

a) Esso fu particolarmente rilevante nell’ambito variegato del diritto pubblico, a cominciare dalle cosiddette leggi fondamentali, per quanto si tratti di norme sempre rimaste allo stato di nebulosa, anche perché raramente messe per iscritto. Con 'leggi fondamentali' si intendeva il complesso delle norme riguardanti la struttura stessa del regno, ovvero il suo assetto fondamentale (secondo la concezione di Jean Bodin). Il concetto risaliva alle dottrine medievali (si parlava allora di 'leggi del regno'), ma maturò in seno alla cultura umanistica del tardo Cinquecento. Secondo una visione organicista, le leggi in questione erano appunto l’anima che faceva vivere l’intero organismo. Tali regole erano considerate costanti e talmente legate alla comunità ('proprie') che erano indisponibili al sovrano (e dunque rappresentavano un limite al suo potere); contemporaneamente, nella loro origine consuetudinaria, delineavano una sorta di 'costituzione' d’antico regime e un segno di partecipazione dei ceti alla vita dello Stato. Va da sé, infatti che la gestione di questo deposito di norme, di per sé incerto e plasmabile con l’interpretatio, era considerato affare della dottrina e del ceto togato raccolto nei tribunali supremi, con un risultato complessivo di partecipazione al potere che esprimeva gli equilibri sociali esistenti. Si registra comunque uno sforzo di precisazione, al punto che là dove il processo andò molto avanti, la storiografia ha potuto parlare di leggi fondamentali positive: per es., l’ereditarietà della monarchia, la successione al trono con esclusione delle donne, l’inalienabilità del demanio, la separazione dei beni propri del principe da quelli della corona, la religione cattolica del sovrano, la suddivisione della nazione in ordini.

Entrano poi in considerazione le regole (modificabili) sulle istituzioni dello Stato, con la disciplina delle rispettive competenze e delle relazioni reciproche. Si tratta di quel settore del diritto pubblico che, nel secondo Seicento, sotto la spinta delle teorie giusnaturaliste di Samuel Pufendorf e di Ulrich Huber, ricevette una sistemazione scientifica come ius publicum peculiare, cioè specificamente proprio di ciascun ordinamento.

Del diritto pubblico costituiva un settore vitale l’insieme delle norme che regolavano i rapporti con la Chiesa: la tipologia era assai vasta (disposizioni concordatarie, regie o anche consuetudinarie), per la duttilità delle soluzioni da trovare in relazione alla funzione di instrumentum regni della religione: funzione che postulava l’esigenza di controllo ma poteva essere soddisfatta solo assicurandosene l’appoggio. Dal canto suo, la Chiesa di Roma, pur rivendicando l’indipendenza del proprio magistero, aveva tutto l’interesse a mantenere una posizione privilegiata protetta, e così a intrattenere relazioni particolari con i singoli Stati.

b) Il processo di differenziazione proseguiva nelle procedure, settore determinante per il problema della giustizia e perciò oggetto di interventi ripetuti e relativamente organici sin dal primo Cinquecento; in questo settore si registra talvolta una sorta di appropriazione da parte del sovrano. Mentre infatti restava centrale la funzione del re-giustiziere, il sistema giurisdizionale si faceva sempre più complesso tra giustizia centrale, periferica e cetuale e, almeno nei livelli di vertice e nelle materie chiave, richiedeva l’insediamento di organi tecnici. Si trattava dunque di razionalizzare in un disegno logico gli itinerari di giustizia, cominciando con la sistemazione della prassi e degli stili dei tribunali. Ne sono espressione la Peinliche Gerichtsordnung dell'imperatore Carlo V (1532), l’ordonnance del re di Francia Francesco I del 1539, gli ordini del re di Spagna Filippo II per i Paesi Bassi (1570).

È vero che entro tali obiettivi erano tollerati anche spazi di partecipazione corporativa e comunitaria, come mostra sia la persistenza in periferia di una regolamentazione tra privati di tipo pattuito (la cosiddetta infragiustizia), sia la proliferazione di privilegi che, mentre accordavano la possibilità di ricorrere a magistrature speciali, implicavano, almeno in parte, l’utilizzazione di regole specifiche del territorio, del corpo o dell’amministrazione: il che tendenzialmente produceva un diritto speciale. Complessivamente, tuttavia, si può parlare di una tendenza a sottrarre la disponibilità della materia ai privati e ai gruppi e ad avocarla impersonalmente al sovrano e ai suoi tribunali. Ne è un segno anche la precoce specificazione dell’insegnamento di praxis e più in generale dello ius criminale.

Ridisegnare le procedure significava stabilire la tela giudiziaria, e in particolare regolare l’iter del procedimento presso le corti statuali, facendo di esse il fulcro dell’intera giurisdizione (o per la competenza esclusiva o perché operanti in sede d’appello, nonché per il prestigio e la visibilità al centro del potere).

Tutto questo implicava, ovviamente, dare impulso alla professionalizzazione dei giudici, imponendo un elevato livello di preparazione tecnica – di solito controllabile attraverso il riscontro del raggiunto grado di licenza, che precedeva appena il dottorato –, che tra l’altro poteva anche arrivare a prevedere una conoscenza accertata del diritto patrio, come nel caso dell’ordinamento iberico (l. 2 de Toro).

La giurisdizione veniva così permeata da uno spirito tendenzialmente omogeneo, che passava per l’individuazione dei valori protetti dall’ordinamento e riguardava la concezione del reato e la funzione della pena. Se questo è il senso dell’appropriazione delle norme del settore da parte dello Stato, non è affatto sinonimo di affermazione della volontà unilaterale del sovrano.

Le sollecitazioni a intervenire erano esplicite ed espresse in forme molteplici. In Francia, come nei Paesi della monarchia spagnola, a lungo il motore dei provvedimenti regi fu costituito dalle denunce e lamentele contro gli abusi dell’amministrazione della giustizia.

Ci sono poi le sollecitazioni meno dirette, ma altrettanto puntuali e soprattutto propositive, date dalle Practicae, opere che facevano da cemento tra i provvedimenti normativi, le consuetudini e lo stylus curiae e la dottrina: organizzavano le varie fasi del processo e, spesso, i capisaldi ispiratori del penale sostanziale. In tal senso si ricollegavano alle nuove forme di governance che trovavano nel penale uno dei perni della propria affermazione, come ben ha colto Mario Sbriccoli (Giustizia criminale, in Lo Stato moderno in Europa: istituzioni e diritto, a cura di M. Fioravanti, 2002, pp. 173-78).

Indicative, e anzi emblematiche dell’appropriazione della materia della procedura da parte del sovrano, sono le due ordonnances del re di Francia Luigi XIV, relative rispettivamente alla procedura civile (1667) e a quella criminale (1670).

c) Diversa la situazione nel campo del diritto penale sostanziale, ove si riscontra un intervento abbastanza raro e per lo più di contorno dei legislatori in materia di reati. Basti notare che anche un sovrano forte come Luigi XIV non emanò nel settore sostanziale un’ordonnance come quelle per la procedura.

Certo parziali, se non episodici, furono gli interventi legislativi negli ordinamenti italiani.

Ma tutto questo vale se si guarda all’appropriazione per via legislativa; se invece si guarda al processo di differenziazione del diritto le cose cambiano.

C’era innanzi tutto un campionario di comportamenti diffusi ma di basso profilo – perché attinente alle periferie o al novero dei reati minori (furti semplici e devastazioni campestri, abbattimento delle chiusure, appropriazioni di bestiame, giochi e risse, ingiurie, violazione della normativa sui pesi e misure, sulle bevande lecite, sugli spazi aperti al pubblico, sulla vita notturna, ecc.) –, la cui definizione era lasciata alle comunità e alle rappresentanze cetuali, con conseguente spazio alla legislazione locale e alla consuetudine; e si procedeva spesso con la conciliazione o con provvedimenti amministrativo-giurisdizionali di varia natura.

C’era poi l’elaborazione vera e propria dei principi e dei valori, che tendenzialmente era dislocata presso enti o soggetti diversi dal 'legislatore'. Presso la Chiesa, innanzi tutto, da cui l’ordinamento derivava tante fattispecie d’incriminazione – in primis l’eresia, la bestemmia, il sacrilegio e poi buona parte dei comportamenti contro la morale sessuale – per le quali si può parlare di una assunzione diretta della morale religiosa da parte dell’ordinamento secolare. L’ordinamento derivava dall’esterno i valori per dirigere la sua azione, ma li faceva suoi – essenziale era qui il filtro della dottrina e della giurisprudenza – e colpiva come crimen la loro violazione. Tutto questo a prescindere da fasi di tensione con il potere ecclesiastico, che negli Stati confessionali italiani post-tridentini non mancarono e che in qualche modo si riverberarono anche sul comparto penale (a Venezia e Napoli, in particolare).

Affidataria della costruzione dei principi dell’ordinamento penale era inoltre la dottrina, alla quale era tacitamente demandata l’attività logico-creativa necessaria per definire e connettere le figure di reato secondo processi che finivano per elaborare anche la parte che noi chiamiamo generale del diritto penale.

Le ragioni complessive della dislocazione di cui si è parlato sono da ricondurre al fatto che i caratteri dei sistemi penali del tempo erano sì rivolti al disciplinamento sociale, ma le istituzioni su cui si reggeva esprimevano solo un debole deposito di valori, che pertanto dovevano essere attinti altrove. Questo spiega la costruzione dell'ideologia della comunità e della patria e il culto dell’obbedienza – la disobbedienza era la morte dell’anima, come recitava una norma della citata Recopilación de las leyes (lib. VIII, tit. V, l. I) – quali strumenti per suscitare uno spirito di coesione attorno alle istituzioni.

d) Non c’è dubbio che per quanto riguarda il diritto privato la diversificazione degli ordinamenti fosse più debole. Ma va sottoposto a revisione critica il giudizio corrente per il quale questo settore sarebbe restato per tutta l’età moderna essenzialmente un ambito del diritto comune; né vale addurre il fatto che le raccolte normative di cui si è parlato innanzi contenevano solo norme episodiche in materia privatistica ed erano prive di una trama complessiva. Tale constatazione indica solo che nel comparto civilistico tardò a farsi strada nei vari ordinamenti l’esigenza di una compilazione sistematica (ne sono esempi, nella prima metà del Settecento, il progetto del re Federico Guglielmo I di Prussia nel 1714 e il programma del cancelliere Henri François d’Aguesseau in Francia, che tra il 1731 e il 1747 ebbe anche un inizio di attuazione, mentre come realizzazione si può rammentare il Codex bavaricus civilis del 1756).

La situazione è complessa, e non si può dire che la materia civilistica si sottraesse completamente al processo di differenziazione tra gli ordinamenti, né dedurne un presunto disinteresse dei sovrani: lo prova, per le colonie europee, l’abbondantissima legislazione in tema di Stato e di capacità delle persone, di matrimonio, di rapporti di lavoro (ne sono esempio le Leyes nuevas di Carlo V, 1542, e il code noir di Luigi XIV, 1685). In realtà gli ordinamenti esprimevano un deposito pluricentrico di valori su determinati profili organizzativi della vita civile. Una parte significativa degli istituti legati alla famiglia, alle successioni e allo status delle persone (donne, ebrei, ecc.) passava per la legislazione regia (come le citate Leyes de Toro), ma era anche lasciata agli statuti e alla consuetudine; altrettanto avveniva per i rapporti di lavoro e per le pratiche agrarie, la cui disciplina era aperta alle visuali dei ceti e forze sociali: il feudo coesisteva con rapporti di proprietà borghesi, le istanze di liberazione del commercio e delle attività produttive coesistevano con quelle tese a mantenere gli istituti corporativi.

Inoltre, in forme ancor più evidenti che nel diritto penale sostanziale (ove comunque agiva l’interesse ad avere un settore criminale efficiente perché vitale per la difesa del potere), il privato fu terreno di attività della dottrina e della giurisprudenza. In proposito entra in considerazione la trasformazione del diritto comune classico in due direzioni, solo apparentemente contraddittorie: quella della sua giusnaturalizzazione e quella della sua statualizzazione.

La giusnaturalizzazione introdusse potentemente la considerazione dei profili di 'ragione' combinandoli entro gli schemi tecnici del diritto. Si pensi alle teorizzazioni in tema di proprietà, ora sempre più costruita attorno al soggetto, piuttosto che emanazione delle cose, e dunque ai suoi bisogni e al suo lavoro; si pensi ancora alla teoria del contratto come categoria generale fondata sull’accordo, strumento apprestato per la libertà degli scambi e dunque ancora in funzione del soggetto. A questo processo di giusnaturalizzazione dettero impulso non solo figure di giuristi, ma anche teologi, 'politici' e così via, ma importa notare che esso fu tutt’altro che astratto: tendeva, invece, a configurarsi secondo differenti culture ed esperienze di governo. Si pensi al problema della liceità dell’interesse nel mutuo, spesso diversamente trattato anche sul piano filosofico a seconda dell'influenza di ideologie mercantili: tra Roma e Anversa non c’era coincidenza, e persino il teologo cattolico Leendert Leys (Leonardo Lessio o Leonardus Lessius) poteva addurre (in De iustitia et iure [...], 1605) che nelle Fiandre non era stata recepita la relativa bolla di condanna papale (la Detestabilis avaritiae di Sisto V, 1586).

La statualizzazione si realizzò attraverso l’interpretatio e segnatamente attraverso l’intreccio tra la legislazione nuova di cui si è parlato (frammentaria e parziale) e il diritto dotto; ne furono protagonisti i 'grandi tribunali'. Si pensi a tanti istituti raggruppabili entro la categoria degli usi civici, la cui disciplina si andò delineando, con caratterizzazioni diverse nei vari ordinamenti, in base alla prassi consuetudinaria, alla normativa specifica e, appunto, alle interpretazioni giurisprudenziali.

Nella medesima direzione agiva la regionalizzazione dei formulari notarili, che promosse la particolarizzazione del diritto nei vari ordinamenti, imprimendo però anche una spinta unitaria derivante dalla funzione stessa dei formulari; e questo attraverso: 1) le traduzioni in volgare dei calchi classici del notariato medievali (in primo luogo la Summa totius artis notariae di Rolandino de' Passeggeri, 1255, detta Rolandina); 2) le annotazioni e aggiunte operate dai compilatori, in funzione di aggiornamento; 3) i riferimenti alla normativa locale e a quella regia, da sempre abbondanti nelle opere dei notai.

Indirettamente, in questo lavorio di trasformazione entrò in gioco anche la scienza di scuola allorché, per es., nei manuali istituzionali individuava le sottigliezze o le parti del Corpus iuris che erano da considerarsi 'obsolete' in una certa regione, e indicava i cambiamenti indotti dai mores hodierni e dagli usi forensi. Così la schiavitù, tanto dettagliatamente ordinata da Luigi XIV nel citato code noir del 1685, era un istituto che veniva saltato a piè pari nel manuale di Giovanni Battista De Luca (Istituta civile), benché questo fosse stato scritto pochi anni prima (venne stampato, postumo, nel 1733).

e) Un discorso speciale merita la materia commerciale, la cui disciplina, a partire dalla sua formazione tardomedievale, se da un lato era tradizionalmente affidata alla normativa statutario-consuetudinaria e alla dottrina, dall’altro aveva una vocazione internazionale che trascendeva la visione del singolo operatore. Ma presto diventò impensabile che i problemi legati al credito pubblico, ai registri dei mercanti e dei banchieri, alle società dei negozianti e al fallimento potessero essere lasciati all’autodisciplina dei privati: tutti aspetti che avevano necessità di essere regolati, magari controllati o addirittura stimolati da parte dello Stato. La stessa libertà di commercio andava regolamentata, come esortava Montesquieu, non certo sospettabile di simpatie dirigistiche.

Si comprende allora come in età moderna alle tradizioni interne alla corporazione mercantile si aggiunse, specialmente con l’affermarsi di politiche mercantilistiche, la legislazione dello Stato.

Certo in Italia non si aprirono quei nuovi spazi di intervento che altrove videro la promulgazione della legislazione sulle grandi compagnie operanti nelle Indie (orientali e occidentali). Né si ebbero interventi paragonabili a quelli espressi nelle tre ordonnances sulle corporazioni (1673), il commercio (pure 1673) e la marina (1681) da parte di Luigi XIV, che riorganizzavano la materia dell’esercizio del commercio interno (veniva imposta, tra l’altro, l’immatricolazione obbligatoria per i mercanti) ed esterno.

E tuttavia, specialmente negli ordinamenti tendenzialmente più accentrati, la materia commerciale tese a essere annoverata entro il diritto pubblico, per le funzioni rivolte al bonum commune, e ricevette una regolamentazione più o meno coesa, sia su istituti particolarmente pregnanti, sia sulla giurisdizione mercantile. Ne è forse l’esempio più chiaro la normativa raccolta nelle Leggi e costituzioni (1723 e 1729) di Vittorio Amedeo II di Savoia, re di Sardegna e di Sicilia.

Ius hodiernum, ius patrium

Le linee illustrate nei paragrafi precedenti accreditano un panorama di graduale differenziazione degli ordinamenti. I testi vi alludono sin dal Cinquecento con le espressioni mores o usus hodierni, ma in progresso di tempo si parlò di ius hodiernum, a indicare che tale diversificazione aveva assunto consistenza attraverso politiche che svolgevano un effetto generale di coesione.

Viene in mente, innanzi tutto, la normativa che i regni o le repubbliche si davano sulle fonti applicabili. Si tratta di disposizioni che noi diremmo di natura 'costituzionale', di cui è facile rilevare il velleitarismo nell’indicare la gerarchia delle fonti: ma mentre giustamente è stata fatta la critica alla storiografia novecentesca che ha preteso di applicare i canoni positivisti a tali disposizioni, queste appaiono tuttavia come uno sforzo teso a precisare i confini del diritto vigente nell’ordinamento dato e a indicare su quali elementi costitutivi si fondasse.

Si pensi, poi, all’impulso dato alla formazione del diritto nazionale dalle norme sull’uso della lingua volgare negli atti giudiziari e notarili. Anche qui a trainare il processo fu il mondo della prassi, che peraltro era permeato da una cultura forte come quella umanistica. Ne sono esempi i provvedimenti contenuti in diverse legislazioni sovrane, in Germania (1512) come in Francia (1539) o nel ducato sabaudo (1561). Con il che, il magistrato era destinato ad assumere una veste particolare rispetto al giurista di scuola, con una formazione ad hoc: lo prospettava esplicitamente la disposizione dei re di Spagna che per la formazione del giurista imponeva di studiare per dieci anni anche il diritto regio (pragmatica del 6 luglio 1493 e legge 2 de Toro).

Si pensi ancora all’ordine di raccogliere certe fonti particolari (consuetudini, capitoli parlamentari, ecc.) che, rendendo facilmente disponibile il testo, suscitava un interesse per il suo studio e la comparazione, con il risultato di un lavorio identitario verso l’insieme delle norme vigenti.

In generale, come detto in premessa, nella valutazione del processo di diversificazione del diritto la storiografia italiana è stata propensa a considerarlo marginale e frutto più che altro delle declamazioni dei critici del diritto romano; in ciò ha utilizzato prevalentemente la visuale della scienza ufficiale di scuola, che peraltro, ancora molto autorevole e talora originale per tutto il Cinquecento, entrò poi in crisi, per lo più chiusa nel suo provincialismo: pericoloso affidarsi a essa come testimonianza probante.

Alla fine del Seicento, De Luca, giurista certo non incline alle declamazioni, ricordava «la diversità delle leggi e de’ stili, che risulta da tanto diversi principati, i quali per lo più si governano diversamente», e subito dopo attaccava la dottrina che astraeva da questa realtà:

In ciò consiste il più volte accennato inganno de’ puri legisti nel camminare generalmente in tutti i paesi o principati con le regole generali delle leggi civili de’ romani, non riflettendo che quelle furono fatte col presupposto di un solo imperio e di un solo principe, e per conseguenza che la legge fosse da per tutto comune ed uniforme (Il dottor volgare, 1673, lib. II, cap. XXI, n. 6).

Egli addirittura quantificava la parte del diritto romano allora in uso – non più del dieci per cento (Difesa della lingua italiana, 1675, n. 33) –, sicché, coerentemente, dichiarava che nella propria opera intendeva riferirsi ai soli due ordinamenti che conosceva per diretta esperienza (quello napoletano e quello pontificio).

Simili riflessioni, espresse in tempi diversi da François Hotman o da Christian Thomas (Christianus Thomasius), hanno fatto pensare a intemperanze antiromaniste di questi due giuristi, noti per la radicalità delle posizioni, comunque estranei alla cultura italiana e per di più protestanti. Ma De Luca si limitava a rendere incisive e a munire della propria autorevolezza affermazioni che si ritrovano nel pensiero critico di un Francesco Guicciardini e di un Pietro Giannone, per citare esponenti dei diversi secoli dell’età moderna.

Certo, avanzavano nuovi iura communia, diversificati nei vari ordinamenti.

Nella rinnovata accezione, che si profilò sin dalle fonti quattrocentesche per poi diventare frequente, ius commune non si identificava con ius regium (semmai con ius regni, come per es. nel regno di Napoli) e invece designava un insieme di fonti normative, evidentemente operanti entro un sistema pluralistico. Talvolta si usava il nome antico di ius municipale; in Francia, per molti giuristi, da Charles Dumoulin in poi, le coutumes erano droit commun; sempre, nei regni o principati, la legislazione del sovrano era definita diritto comune, nella convinzione che ogni ordinamento dovesse avere una legge comune specifica a cui fare capo: come ebbe a dichiarare Andrea Alciato, «ius municipale dicitur ius commune loci» (cit. in Birocchi 2002, ad indicem). Qui lo ius municipale superava l’antico significato di statuto di un territorio o di una comunità ristretta, per assumerne uno più vasto, di diritto che legava i membri di una comunità politica.

Nel corso del Seicento, per lo ius commune territoriale si usò l’espressione ius patrium, che divenne generale nel secolo successivo. Questo diritto comune patrio ebbe forza espansiva – se ne ammetteva anche l’interpretazione analogica – e scontò l’intenso lavorio di riflessione giurisprudenziale e dottrinale sviluppato in precedenza sulle raccolte normative generali (addirittura imponente per le norme regie di Castiglia, le ordenações portoghesi, le coutumes francesi e il diritto territoriale di certi territori tedeschi come la Sassonia e il Württemberg): non fu solo affare della prassi, ma sempre più anche di scienza. E, come ovvio, l’emergere del diritto patrio fu un fenomeno culturale, irriducìbile alla mera apparizione di norme specificamente legate a un certo territorio; come tale, era espressione di ideologie e mentalità, influiva sugli assetti di potere, da cui a sua volta era connotato.

È in questo contesto che, pur nella terminologia ambigua rinvenibile nelle opere di dottrina, si scorge il passaggio dallo ius hodiernum – registrazione neutra del distacco del diritto vigente dalla matrice romano-canonica – allo ius patrium, che supponeva l’idea di una comunità politica caratterizzata da una propria storia e da un proprio diritto. In area europea – in Francia, nell’area germanica e nei Paesi Bassi – la spinta era stata impressa dall’Umanesimo e dalla cultura luterana, ma si era manifestata anche nel sentimento di comunità che presiedeva i compositi ordinamenti della monarchia spagnola. Attorno alla metà del Seicento, complice anche l’assestamento politico in atto con la chiusura della guerra dei Trent’anni, i fenomeni di 'giusnaturalizzazione' del diritto romano e di statualizzazione del diritto aprirono la strada a un ripensamento critico, che si espresse nelle opere pratiche come in quelle di scuola e riguardò anche la riforma dei corsi universitari. Ne furono manifestazione:

– le denunce sempre più aspre sul distacco tra prassi e teoria, come coscienza del distacco dello ius hodiernum dai calchi della compilazione giustinianea (v. Ahsmann 1997);

– il fiorire di opere sulle leges abrogatae o il rinnovato interesse per il genere delle differentiae;

– la diffusione di commentari istituzionali orientati a segnalare gli usi giurisprudenziali che si distaccavano dal diritto scritto romano;

– la proposta di occuparsi specificamente del diritto nazionale (punto di riferimento, e non solo per la Germania, fu il De origine iuris germanici, 1643, di Hermann Conring) e la comparsa di manuali patrii, non di rado fioriti per l’insegnamento privato e fuori del circuito ufficiale universitario (il più noto è l’Inleidinge tot de hollandsche rechts-geleertheyd, Introduzione alla giurisprudenza olandese, 1631, di Huig van Groot [Ugo Grozio]);

– l’introduzione di cattedre di ius hodiernum e poi patrium, in Germania e Svezia (nella prima metà del Seicento), e quindi in Francia (1679) e nei Paesi Bassi (1680).

In Italia, l’affermazione del diritto patrio avvenne un po’ più tardi, allorché la cultura neoumanista e una filosofia di buon senso – complessivamente il «buon gusto» evocato da Ludovico Antonio Muratori – spazzò il provincialismo prevalente e introdusse nuovi interessi storico-pratici. A Napoli, ovvero nel centro culturalmente più vivace della penisola, si ebbero le testimonianze più precoci e durevoli. Sotto il segno del giurisdizionalismo, che era un modo di coniugare l’autonomia del diritto patrio nel settore delicato dei rapporti con la Chiesa, si ebbero l'Istoria civile del Regno di Napoli (1723) di Giannone e l’introduzione, prima in Italia, di una cattedra di ius regni (1735): salutata favorevolmente sin dalla sua proposta dallo stesso Giannone – e del resto il riformatore dello Studio di Napoli, Celestino Galiani, pensava di assegnare il nuovo insegnamento al suo pupillo Francesco Rapolla – essa ricevette tangibili segni di dedizione con una sequenza di opere, che, a cominciare da quella di Rapolla (Commentaria de iure regni neapolitani, 4 voll., 1746-1747), furono edite nella seconda metà del secolo su buoni livelli e a copertura di tutte le branche del diritto.

Era quel retroterra che fece dire a Nicola Nicolini, uno degli artefici della parte penale del codice del Regno delle Due Sicilie (1819), che questo era espressione della civiltà giuridica patria e non era merce di importazione dalla Francia: a prescindere da quanto di ideologico ci fosse in questa affermazione, è certo che la cultura del diritto patrio si dispiegò compiutamente in Italia e, nelle sue trasformazioni, attraversò il Neoumanesimo, l’Illuminismo e poi la cultura romantica. Ne è un segno la diffusione di cattedre autonome nel secondo Settecento: dappertutto, tranne che nei domini sabaudi, per quella forte commistione tra diritto patrio, diritto pubblico e scienza della politica che, agli occhi del re, rendeva pericoloso l’insegnamento della materia nelle aule universitarie. E fiorì un filone di opere dedicate al sorgere e al progresso di ciascun diritto, in Toscana come in Sicilia, nel milanese come in Sardegna, spesso intitolate De ortu et progressu juris...; per es. la ...mediolanensis (1747, la più nota) di Gabriele Verri, o la ...siculi (1741) di Francesco Testa.

Opere

H. de [van] Groot, Inleidinge tot de hollandsche rechts-geleertheyd  (Introduzione alla giurisprudenza olandese), Graven-Hage 1631 (trad. ingl. The jurisprudence of Holland, ed. R.W. Lee, 2 voll., Oxford 1926-1936, 19532 [rist. anast. dell'ed. 1953, Aalen 1977]; trad. lat. Institutiones juris hollandici, ed. H.F.W.D. Fischer, Haarlem 1962).

H. Conring, De origine iuris germanici, Helmestadii 1643; rist. in Id., Opera, 6° vol., Scripta miscellanea, Brunsvigae 1730, pp. 77-188; rist. anast. Aalen 1973.

G.B. De Luca, Il dottor volgare, overo il compendio di tutta la legge civile, canonica, feudale e municipale nelle cose più ricevute in pratica, 6 voll., Roma 1673, rist. in 4 voll. Firenze 1839-1843.

G.B. De Luca, Difesa della lingua italiana, overo discorso in forma di risposta a lettera d’un virtuoso amico, che sia lodevole il trattare la legge, e le altre facoltà nella lingua volgare in occasione dell’opera del Dottor volgare, Roma 1675.

P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, Napoli 1723; rist. in 2 voll. Milano 1833.

G.B. De Luca, Istituta civile divisa in quattro libri con l’ordine de’ titoli di quella di Giustiniano, Pesaro 1733, Colonia 1743.

F. Testa, De ortu et progressu juris siculi, in Capitula Regni Siciliae, 1° vol., Panormi 1741, pp. IX-XVII; rist. anast. a cura di A. Romano, Soveria Mannelli 1999.

G. Verri, De ortu et progressu juris mediolanensis prodromus seu apparatus ad historiam juris mediolanensis antiqui et novi, Mediolani 1747.

Bibliografia

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F. Wieacker, Privatrechtsgeschichte der Neuzeit: unter besonderer Berücksichtigung der deutschen Entwicklung, Göttingen 1952, 19672 (trad. ital. dell'ed. 1967, Storia del diritto privato moderno: con particolare riguardo alla Germania, 2 voll., Milano 1980).

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H. Coing, Die juristische Fakultät und ihr Lehrprogramm, in Handbuch der Quellen und Literatur der neueren europäischen Privatrechtsgeschichte, 2° vol., 1a pt., hrsg. H. Coing, München 1977, pp. 3-102, spec. pp. 44-46.

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