Il corpo e il mercato

Frontiere della Vita (1999)

Il corpo e il mercato

Gilbert Hottois
(Université Libre de Bruxelles - CRIB Bruxelles, Belgio)

La bioetica oppone il rispetto della dignità del corpo umano alle tendenze che lo considerano un bene commerciabile. Discuteremo quest'opposizione analizzando le principali questioni che determinano il dibattito: il prelievo e il trapianto degli organi, le banche dei tessuti umani e i brevetti di invenzioni che impiegano componenti di origine umana. Ci sono due tendenze principali: da un lato, il modello del corpo fuori commercio, più europeo ed energicamente sostenuto in Francia, secondo cui ogni uso commerciale del corpo umano dovrebbe essere regolato e controllato dallo Stato; dall'altro, una tendenza più aperta al libero mercato, considerata in Europa tipicamente americana, che pone in rilievo le libertà individuali e che considera l'individuo proprietario del suo corpo. Una parte fondamentale del dibattito verte sulla finalità delle donazioni e degli scambi che hanno come oggetto il corpo umano. Questa finalità, che dovrebbe essere terapeutica, in realtà si rivela problematica poiché le tecniche, il denaro e quelle pratiche biomediche che rispondono alle esigenze e ai desideri individuali, rendono gli individui liberi di considerare il loro corpo plasticamente rimodellabile.

Dignità e mercato del corpo umano

La bioetica europea, e in particolare quella francese, lega indissolubilmente il principio della non commerciabilità del corpo al principio fondamentale della dignità dell 'uomo. Nella sezione di un rapporto del Comité Consultatif National d'Ethique (1994) leggiamo: "il denaro rei fica tutto ciò che compra e imprime un segno di uguaglianza a ciò che ha reificato, non per caso, ma in virtù della sua stessa natura. È questo il segreto del suo potere". Quest' osservazione coglie nei suoi tratti essenziali la problematica in questione. In effetti, se la nozione di dignità attribuisce un valore intrinseco alla cosa a cui viene riferita, allora ciò che riveste il carattere di dignità diviene in qualche modo sacro, inaccessibile, indisponibile. Il valore in sé di una cosa esclude che quest'ultima possa essere scambiata o cambiata, senza essere irrimediabilmente lesa.

La dinamica oggi designata col termine di mercato, nel quadro della globalizzazione dell'economia neoliberale, utilizza principalmente due operatori di trasformazione e di scambio, universali e di illimitata potenza: il denaro e la tecnica. Questa dinamica è inoltre incrementata dai desideri e dalle illusioni individuali e collettive.

In alcune celebri pagine del Capitale, K. Marx descrive il denaro come il medium universale, l'equivalente generale, che consente di scambiare ogni cosa. Grazie all'invenzione del denaro e alla sua applicazione a tutti gli aspetti dell'esistenza umana, non vi è più niente che non abbia il suo prezzo, incluso ciò che in alcuni contesti (cioè culturalmente e storicamente) è stato considerato ontologicamente ed essenzialmente sacro, vale a dire inviolabile e senza prezzo. In sé, la moneta non vale nulla, non permette nulla, e soprattutto non rende possibile la trasformazione fisica del reale. Affinché il suo potere divenga effettivo è indispensabile l'intervento dell'altro operatore di scambio: le tecniche, ovvero le tecnoscienze. Il mercato, come spazio in cui si manifestano e convergono in molteplici modi i due operatori di trasformazione e di potere, il denaro e la tecnica, è l'universale che dissolve ogni valore intrinseco, ogni assiologia ontologica. Inoltre, tra questo spazio di trasformazione dell'economia finanziaria e tecnica, all'interno del quale la ricerca e lo sviluppo tecnico, scientifico e biomedico (che qui indicheremo con la sigla RDTS, Recherche et Dévelopment Techno-Scientifiques) occupano una posizione molto importante, e l'ideologia neo liberale esiste una forte complementarietà: la dottrina neo liberale è in qualche modo la rappresentazione simbolica che deve consentire la crescita e la partecipazione alla dinamica desimbolizzante dello scambio universale e senza limiti. La dottrina neoliberale è ostile all'interventismo statale che organizza la società e l'economia dall'esterno e dall'alto: a partire da un piano, da un progetto, da un'etica, da una rappresentazione considerata vera e buona. Lo Stato neoliberale non avrebbe altra funzione che quella di consentire il libero gioco degli interessi, delle autonomie e dei desideri individuali o privati, tutelando e garantendo la proprietà, il valore della moneta, le convenzioni e le libertà. L'ipotesi di base è che l'individuo che persegue razionalmente la massimizzazione dei suoi interessi, e si presuppone che l'homo oeconomicus si comporti sempre effettivamente così, concorra necessariamente all'interesse generale. Il mercato è lo spazio in cui questo calcolo degli interessi è costantemente operato attraverso il confronto, mediato dal denaro, dell'offerta e della domanda. l prezzi sui quali gli interessati raggiungono un accordo, esprimono equilibri che sono, anche se provvisoriamente, i migliori possibili tra interessi divergenti che interagiscono in modo non violento. Tali equilibri ottimizzano gli interessi individuali e generali più di quanto potrebbe lo Stato. È questa l'essenza della dottrina del libero scambio e dellaisser fa ire secondo cui, una volta terminati gli effetti di alcuni suoi benefici transitori e apparenti, la regolazione statale degli scambi non fisicamente violenti (il protezionismo sociale) porta non a una riduzione, ma a un aumento della sofferenza umana.

Non possiamo in questa sede esaminare nei dettagli le critiche generali e di base rivolte alla tecnoeconomia monetaria neoliberale, e relative a due idealizzazioni di base: l'astrazione dell'homo oeconomicus, calcolatore informato e razionale, e l'astrazione del mercato, come spazio di negoziazione egualitario, privo di costrizioni e di opacità. Queste critiche tendono a dimostrare che la tecnoeconomia neo liberale è innanzitutto al servizio degli interessi di coloro che, in determinate circostanze, che possono essere molto effimere o perdurare per molte generazioni, risultano essere i più forti e i più scaltri.

Ma non è nostra intenzione entrare nella discussione dei vizi e delle virtù del mercato in generale. Intendiamo invece considerare se sia opportuno consentire che le trasformazioni e gli scambi che hanno in un modo o nell'altro come oggetto corpi o parti di corpi umani siano regolati dal mercato, in particolar modo in relazione all'RDTS. Questo campo d'indagine è estremamente esteso e vario (Rodotà, 1996). Noi affronteremo tre aspetti: i trasferimenti di organi; le banche dei tessuti; le richieste di brevetti.

I trapianti di organi

A seconda dell'organo trapiantato, il donatore può essere vivo o morto, ma la regola generale è che gli organi (fegato, reni, occhi, cuore, ecc.) sono fuori mercato e fuori commercio. È per questo che si parla di donazione, e quindi di un atto gratuito la cui finalità deve essere terapeutica. Per ciò che concerne la donazione post mortem, sono previsti due criteri: il primo è quello del consenso presunto (opting out), secondo cui ogni persona è considerata consenziente a meno che non esista una sua dichiarazione di dissenso in vita; in questo caso, de facto o de iure, vengono quasi sempre consultati anche i familiari e i parenti. Il secondo è quello del consenso esplicito (opting in), in base al quale la donazione richiede un assenso preliminare del donatore registrata su un documento. Il primo sistema è più diffuso in Europa, il secondo, invece, negli Stati Uniti.

Qualunque sia il criterio adottato, l'organizzazione 'fuori mercato' del trapianto di organi è ben lungi dall'aver risolto tutti i problemi, che sono rappresentati soprattutto da una persistente penuria e scarsità di risorse e liste d'attesa, da un mercato illegale parallelo, caratterizzato da un traffico clandestino, e da favoritismi. A causa di questi problemi, ma anche in base a considerazioni di fondo concernenti lo status del corpo umano, alcuni hanno proposto di optare per un mercato non del tutto privo di un regolamento specifico. Ci sembra dunque opportuno esporre gli argomenti avanzati a favore di questa tesi (Lemennicier, 1991; Andrews, 1995; Fagot, 1995; 1996; Radcliff e Richards, 1996):

1) l'esigenza di un maggior rispetto della libertà degli individui e dei loro diritti sul loro corpo (vivo o morto). Questo diritto personale sul proprio corpo non sarebbe chiaramente comprensibile se non come un diritto di proprietà e di piena disponibilità. Se un povero decide di vendere un rene, questa scelta deve essere considerata, dal suo punto di vista e in base alla situazione in cui egli vive, la scelta più libera possibile. Se gli si vieta di prendere questa decisione col pretesto che egli non è veramente libero, non si migliora la sua situazione e non si accresce la sua libertà, al contrario. Inoltre, il sistema del consenso presunto favorirebbe la tendenza all'appropriazione dissimulata dei corpi umani da parte dello Stato, che potrebbe disporre di questi ultimi in nome del bene pubblico e senza il dovuto rispetto dell'autonomia individuale.

2) Adottando la soluzione presentata nel punto precedente, ognuno vedrebbe riconosciuti i suoi interessi: il malato ricco potrebbe curarsi, e il povero migliorare la sua situazione. Uno scambio reciprocamente vantaggioso non può essere nocivo per la società. Vietando lo si abbandonano gli interessati alla loro rispettiva miseria, per compiacere la buona coscienza di coloro che non devono affrontare questo problema, dal momento che non sono né poveri né malati. Così, infatti, ci si limita a proteggere la buona coscienza morale, rappresentata da certi principi e valori, di una frazione della società: la proibizione non modifica in alcun modo l'ingiustizia e la disparità reale delle condizioni.

3) il valore intrinseco ovvero la dignità del corpo umano, che giustifica la proibizione in base a un certo status del corpo umano, è una nozione molto confusa dal punto di vista filosofico ed etico. Se si pensa al corpo in termini di possesso, di proprietà personale, le cose appaiono molto più chiare. l fondamenti su cui si basa la proibizione sono in realtà oscuri e irrazionali; essi appartengono al dominio dell'emozione, della tradizione (le credenze) o dell'intuizione (prova ontologica del valore). Questo genere di giustificazioni sono limitate e non universalizzabili e sfuggono alla discussione razionale.

4) il fatto di poter disporre del nostro corpo come se ne fossimo i proprietari non lede i diritti degli altri (al contrario, nel caso specifico). Si tollera, del resto, un gran numero di utilizzazioni abusive del corpo, come, per esempio, certi sport e lavori ad alto rischio o la prostituzione, o più in generale comportamenti nocivi per la salute.

5) il rapporto col proprio corpo è una questione privata che rientra nel campo della morale personale, e non in quello del diritto pubblico, poiché riguarda esclusivamente l'individuo. Questa proibizione discende da una confusione indebita tra la morale e il diritto. Attraverso la legge, una tendenza sociale vuole imporre a tutti la sua concezione del corpo, i suoi valori, la sua morale. L'idea secondo cui l'individuo è proprietario del proprio corpo è, al contrario, moralmente neutra, poiché essa non impone di utilizzare il proprio corpo per questo o quel fine; quest'idea, elevata a norma giuridica, non condiziona le libere scelte morali degli individui. Essa non vieta, per esempio, la donazione gratuita di organi da parte di persone disposte a questo genere di beneficenza e di filantropia. l due criteri, quello della donazione e quello della vendita, possono perfettamente coesistere.

6) La scarsità di organi sarebbe, se non superata, almeno ridotta, e con essa la tentazione di ricorrere al traffico clandestino e al mercato nero parallelo; la qualità degli organi e dell'assistenza sarebbe superiore perché gli operatori inefficienti sarebbero rapidamente espulsi dal mercato.

7) Riconoscere un diritto di proprietà individuale sul corpo e consentime l'accesso al mercato non significa dover rinunciare a ogni forma di regolazione pubblica e specifica di un tale mercato, nel senso della tutela della salute e della giustizia sociale. Il controllo dei prezzi, dell'idoneità degli operatori e degli intermediari, e un sistema di intervento e di rimborso per i più indigenti sono perfettamente configurabili e certamente necessari.

Queste argomentazioni hanno suscitato alcune obiezioni che sono, allo stesso tempo, giustificazioni del principio della non commercializzazione. Le menzioniamo molto concisamente poiché sono facilmente desumibili da quanto abbiamo già detto:

1) lo status e la dignità ontologica del corpo vietano che esso venga trattato in tutto o in parte come un bene commerciale impersonale. La commercializzazione dei corpi umani è la più indegna delle abiezioni morali.

2) La libertà offerta dal mercato è una caricatura dell'autonomia personale: l'individuo vivo che vende un organo del suo corpo è tutt'altro che libero.

3) La disgregazione commerciale dei corpi individuali produrrà un effetto di dissociazione sul corpo sociale, poiché essa distrugge simboli e sentimenti comunitari a un livello fondamentale, quello della solidarietà di base, dell'altruismo e della generosità, della considerazione del corpo degli altri e quindi della relazione con le altre persone. Nessuna società umana può fondarsi su una tale disgregazione dei suoi membri. Il sistema dei simboli relativo al dono come relazione trasparente e disinteressata, è quindi socialmente indispensabile per compensare gli effetti dissocianti del mercato, che prende in considerazione le relazioni umane solo attraverso il calcolo degli interessi.

4) Oltre a questi importanti rischi simbolici, vi sono rischi fisici per i donatori e per i riceventi. Vi è ragione di credere che non saranno gli individui che godono di un miglior stato di salute quelli che decideranno di vendere i loro organi. La cattiva qualità, quindi, prevarrà sulla buona.

5) Nulla garantisce che il mercato risolverà effettivamente i problemi lasciati parzialmente irrisolti dai sistemi della gratuità, come, per esempio, il problema della scarsità di organi, tanto più che la logica mercantile rischia di scoraggiare ogni dono altruista.

In conclusione, se il principio del dono non mercantile rimane quasi universalmente dominante sul piano etico e giuridico, la discussione, alimentata da argomenti realisti, utilitaristi e consequenzialisti, ha seguitato a svilupparsi nel corso di questi ultimi anni.

Le banche dei tessuti

Le cosiddette banche dei tessuti occupano una posizione centrale nella problematica generale dei rapporti tra corpo umano e mercato. Ma, come tutte le questioni di bioetica, la realtà indicata da quest' espressione, sottoposta a un esame più approfondito, si rivela molto varia e complessa. Essa comprende, inoltre, attività in fase di sviluppo, strettamente associate all'RDTS, e quindi ancora inadeguatamente definite e scarsamente regolamentate.

Negli Stati Uniti, la defrnizione di tessuto è molto ampia; essa comprende, infatti, ogni aggregato funzionale di cellule. Nel vecchio continente invece, in base alle direttive del Consiglio d'Europa, si preferisce impiegare una definizione più differenziata, che prende in considerazione uno per uno i diversi tessuti e in cui le considerazioni di ordine etico e giuridico emergono immediatamente. l tessuti comprendono tutte le parti del corpo, inclusi i prelievi chirurgici, le placente e i tessuti embrionali, ma si assegna una collocazione a parte al sangue e ai suoi derivati, ai gameti, agli embrioni (banche degli embrioni), o ancora ai capelli, alle unghie. Si tratta non solo di elementi di natura molto eterogenea, che è forse discutibile raggruppare sotto la denominazione omogenea di tessuti, ma per la maggior parte già oggetto di una regolamentazione ben definita. Benché sia escluso dalla problematica delle banche dei tessuti, il sangue costituisce egualmente un punto di riferimento, dal momento che la maggior parte delle questioni a esso connesse è stata da tempo sollevata, in particolar modo quelle relative alla commercializzazione. Inoltre, seguita a essere molto dibattuta la questione relativa agli organi, che sono un insieme di tessuti. Tuttavia, le problematiche relative ai tessuti e agli organi si distinguono nettamente.

l tessuti sono caratterizzati dalla possibilità di conservazione e di crescita continua (linea cellulare), in genere dalla minore urgenza degli interventi, da minore difficoltà di reperimento, dalla possibilità di trasformazioni molteplici, da interessi economico-finanziari, effettivi e potenziali, molto più rilevanti. Le possibili utilizzazioni dei tessuti sono terapeutiche (trapianti, ricostruzioni, trasfusioni), diagnostiche, didattiche, di ricerca, di archivio e collezione e, infine di produzione industriale di dispositivi medici, di medicamenti, o di cosmetici. Questa varietà determina la diversità delle banche più o meno specializzate sia come fonti di materiali per la terapia o per l'industria sia come fonti di ricerca, di archivio o di collezione. Tra le funzioni svolte dalle banche le principali sono la raccolta, che implica la selezione e lo screening dei donatori, la caratterizzazione, la purificazione e il trattamento necessari alla conservazione, la conservazione e la distribuzione. Queste funzioni fondamentali non sono dunque esclusivamente passive e possono estendersi a trattamenti particolari come la preparazione e la trasformazione dei tessuti in vista di una loro utilizzazione industriale. Ciò che viene definito processing è un insieme complesso di processi di trasformazione che comportano modificazioni più o meno sostanziali. Il Nuffield Council ha stabilito nel 1995 un elenco non esaustivo di circa cento prodotti terapeutici o di ricerca derivati dai tessuti umani.

Un tipo di banche in pieno sviluppo e di sicuro avvenire è rappresentato dalle banche del DNA, talvolta chiamate biobanche. Esse sono praticamente analoghe alle banche dei tessuti, nella misura in cui conservano effettivamente tessuti. Ma la loro peculiare finalità è rappresentata dalla preservazione e dalla utilizzazione dell'informazione genetica contenuta in questi tessuti, e non dal loro impiego diretto. Le biobanche sono oggetto di questioni specifiche relative alla protezione dei dati personali, data l'immensa importanza delle informazioni genetiche per l'individuo, e allo sfruttamento di persone e di gruppi geneticamente interessanti. La loro importanza scientifica, tecnica ed economica è destinata a divenire strategica, in relazione all'inventario, ancora in corso di compilazione, della biodiversità genetica umana e non umana.

La separazione tra le rispettive sfere di competenza della banca e dell'industria è fondamentale. Questa distinzione deriva dalla definizione delle operazioni a cui vengono sottoposti i tessuti. Le operazioni di raccolta, di purificazione, di conservazione, di preparazione e di distribuzione sono funzioni che spettano alle banche. Ciò che invece riguarda la trasformazione dei tessuti a fini di produzione industriale, esula dalle loro competenze. Tuttavia, le operazioni svolte dalle banche presuppongono alcune attività di trasformazione e di elaborazione, e un gruppo industriale può legittimamente disporre di banche proprie. Inoltre, la ricerca può condurre a un'invenzione brevettabile e commercializzabile. È molto difficile tracciare una netta linea di demarcazione tra attività eclusivamente conservative e attività industriali, in particolare tra trattamento conservativo e trattamento sostanzialmente modificatore. Il nodo del problema è da ricercarsi nella distinzione tra attività e funzioni che non possono essere in alcun modo economicamente vantaggiose e altre che, almeno in una certa misura, potrebbero rivelarsi tali.

La difficoltà consiste nell'articolare, a partire da attività che si vogliono mantenere al di fuori della sfera del mercato generatore di profitti, altre attività condizionate dalle precedenti e in grado di produrre considerevoli profitti. Ai due estremi vi è, da un lato, la donazione gratuita e personale e, dall'altro, la bio industria transnazionale. Le banche dei tessuti si collocano tra questi due estremi.

Il caso Moore versus Regents dell'Università della Califomia (giudicato dalla Corte Suprema della California nel 1990) è divenuto paradigmatico. Nel corso di un trattamento medico, i campioni di tessuto prelevati da J. Moore si rivelarono inaspettatamente di un interesse scientifico e commerciale rilevante, e ciò condusse a un brevetto e a un'applicazione industriale. Moore richiese allora una partecipazione ai profitti conseguiti. La Corte respinse la sua domanda in base al principio secondo cui l'individuo non è titolare di un diritto di proprietà sulle sue cellule, ma condannò la circostanza per cui Moore non era stato, in nessuna occasione, informato dell'utilizzazione a cui erano stati destinati i tessuti ripetutamente prelevati dal suo corpo.

Questa sentenza illustra lo status di 'fuori mercato' del corpo umano come tale nel caso dei tessuti. I principali argomenti a favore e contrari a questo status non differiscono sostanzialmente se riferiti agli organi o ai tessuti. Una posizione morale più idealista e deontologica, che sostiene senza riserve il principio della gratuità, si contrappone a una tendenza utilitari sta più variegata e divisa che pone in rilievo i problemi irrisolti e suggerisce che una certa commercializzazione potrebbe forse concorrere a risolverli. Entrambe queste tendenze si richiamano ai diritti dell'uomo: la prima per sottolineare la dignità dell'essere umano, l'altra per porre l'accento sui diritti e sulle libertà individuali.

Confrontato alla questione degli organi, il dibattito sui tessuti è allo stesso tempo più moderato e più vivace. Più moderato, perché la percezione del sacro, della dignità, del valore intrinseco è più debole per la maggior parte dei tessuti che non per gli organi. Più vivace, perché gli interessi commerciali e finanziari, attuali e potenziali, sono molto più rilevanti. Il dibattito è inoltre molto più complesso a causa della diversità degli usi e dei trattamenti a cui i tessuti sono destinati e della molteplicità dei soggetti che intervengono in questi processi. La posizione predominante è quella della gratuità del dono, che non esclude un compenso per le spese e gli inconvenienti a cui va incontro il donatore, e del carattere non lucrativo delle operazioni svolte dalle banche (raccolta, preparazione, conservazione, distribuzione). Ciò significa sia che esse non possono trame guadagni sia che i guadagni eventualmente ricavati devono essere reinvestiti in attività di ricerca e di sviluppo in grado di migliorare i servizi svolti dalla banca stessa, la quale non può, per esempio, distribuire dividendi o investire in borsa o in altre attività economiche. La giustificazione più frequentemente addotta è che la banca non trasforma, non inventa, non produce: essa sarebbe un intermediario sostanzialmente passivo. Al contrario, la bio industria trasforma e produce, e quest'attività produttiva e tutto sommato creativa può produrre profitti legittimi. Inoltre, sarebbe sconveniente che una banca ricevendo gratuitamente i tessuti traesse un guadagno da doni che deve invece limitarsi ad amministrare nel miglior modo possibile, vale a dire nell'interesse della medicina terapeutica. La finalità terapeutica generale dell'insieme delle operazioni svolge infatti un ruolo determinante, anche rispetto all'attività bio industriale lucrativa che, idealmente, dovrebbe condurre esclusivamente alla produzione di medicinali o di dispositivi medici.

Se i prodotti che derivano da tessuti umani originariamente ricevuti in dono entrano in un mercato che non ha più alcun rapporto con la finalità terapeutica, la logica etica su cui si basa il dono, che è quella della solidarietà, dell'altruismo, del soccorso a chi soffre, va incontro a problemi. Diversi autori hanno proposto di imporre a tutte le bio industrie che utilizzano tessuti umani un sistema pubblico di tassazione speciale o l'obbligo di reinvestire una parte dei loro guadagni nella ricerca medica, in modo da rendere moralmente accettabile la loro attività. Il ricavato delle tasse verrebbe versato sul bilancio dell'assistenza sociosanitaria per essere impiegato a favore dei più indigenti. Il quadro così delineato con le sue esigenze e i suoi postulati, solleva certamente molte questioni. Esso acquisisce un significato solo nella misura in cui le attività delle banche sono effettivamente ben distinte dalle altre attività e se la finalità ultima, quella terapeutica, è rigidamente rispettata. In realtà non è sempre così, e l'esigenza oggi impellente di una regolamentazione dell'attività delle banche dei tessuti umani è un indizio della frattura esistente tra l'ideale e il reale. Quest'esigenza è indubbiamente imposta in misura ancora maggiore da questioni di qualità, di sicurezza e di salute. Detto in altri termini, si tratta di responsabilizzare esplicitamente le banche dei tessuti su due insiemi di esigenze etiche: il rispetto della persona e la tutela della salute.

Per ciò che concerne il rispetto delle persone, il primo principio imperativo è il consenso del donatore. È necessario che il donatore sia informato nel modo più esauriente possibile degli usi a cui la sua donazione gratuita è destinata. Se in seguito si prospetta un uso non previsto è opportuno che il donatore venga di nuovo informato e consultato. Un secondo gruppo di problemi concerne il rispetto della vita privata, della riservatezza, dell'anonimato del donatore, della non divulgazione delle informazioni (in particolare, genetiche) effettive o potenziali implicati dal possesso dei tessuti di una persona. Tale questione può certamente entrare in conflitto con un'altra esigenza, quella della qualità e della sicurezza che ora affronteremo. Per ciò che concerne la salute, è fondamentale non utilizzare sugli individui tessuti o prodotti derivati da tessuti che non siano assolutamente sicuri. È un problema molto importante, se si considera la straordinaria diversità delle possibili fonti di tessuti e dei contesti in cui essi possono essere prelevati o raccolti. A questo riguardo, l'identificazione della fonte e la possibilità di rintracciarla e quindi l'obbligo di conservare tutte le informazioni relative a tale fonte (sia essa persona deceduta o viva) sono di importanza fondamentale. Si dovrebbe conoscere la storia clinica dei donatori ed eseguire tutti i test necessari a precisare e a valutare l'innocuità del prelievo e archiviare i loro risultati.

La libera circolazione dei beni e delle persone, l'internazionalizzazione, cioè la globalizzazione degli scambi, e il ruolo svolto dalle società multinazionali, rendono questo genere di controllo sempre più difficile e allo stesso tempo sempre più indispensabile. Secondo molti osservatori, abbandonare sconsideratamente allo spazio del libero scambio e del laisser fa ire beni e prodotti tissutali comporta rischi fisici per gli individui e per le collettività più inquietanti dei rischi simbolici e morali. La crescita mondiale dell'economia biomedica, all'interno di un ambiente planetario molto eterogeneo (in particolar modo, per quanto riguarda la saIute) e mutevole, induce a supporre che questi rischi non diminuiranno in un futuro prossimo.

In conclusione, la necessità di una chiara definizione delle funzioni, dei diritti e delle responsabilità delle banche dei tessuti, è ormai improrogabile. Pubbliche o private, le banche dovrebbero ricevere l'approvazione di un organismo di controllo. In tal modo potrebbe essere definita la loro relazione con le attività commerciali.

Brevettabilità di invenzioni che presuppongono l'impiego di elementi corporei di origine umana

Indubbiamente, la questione della 'brevettabilità di esseri umani viventi' ha provocato i maggiori conflitti tra concezioni di carattere morale (oltre che politico) e logiche tecnoeconomiche (ugualmente politiche). Questo dibattito, che prosegue ancora in modo animato, ha raggiunto il culmine in occasione di alcune richieste di brevetti aventi come oggetto invenzioni che presuppongono l'impiego di elementi di origine umana, in particolar modo di sequenze nucleotidiche. L'accordo raggiunto nella primavera del 1998, dopo circa dodici anni di discussioni, tra la Commissione, il Consiglio e il Parlamento europei a proposito della Direttiva sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, ha segnato una svolta decisiva.

Risulta che l'intera controversia abbia avuto origine nel 1980, con il caso Diamond versus Chakrabarty in cui venne dibattuta la questione della brevettabilità di un microrganismo dal genoma ricombinato in grado di degradare alcuni idrocarburi. La Corte Suprema degli Stati Uniti stabilisce che deve considerarsi brevettabile "tutto ciò che è stato fatto dall'uomo" e che l'opposizione vivente/non vivente sia irrilevante. Questa posizione non è certo rivoluzionaria: già nel 1873 L. Pasteur aveva ottenuto un brevetto per un lievito. La naturalizzazione dell'essere umano, considerato come una tra le specie viventi, e lo sviluppo delle tecnoscienze genetiche, che rafforza questa naturalizzazione, condussero in breve a sollevare la questione della brevettabilità di elementi di origine umana. Anche in questo caso, la risposta frnÌ per orientarsi nel senso della continuità, poiché un brevetto per alcuni elementi di origine umana (per esempio, il fattore VIII della coagulazione del sangue) era già stato concesso da molto tempo. Nonostante ciò, il dibattito su questioni etiche di grande importanza concernenti non solo i diritti dell'individuo sul suo corpo, ma anche i principi della società occidentale contemporanea basata sulla competizione economica e sull'RDTS, è stato e seguita a essere aperto. Questo dibattito è stato alimentato dal fatto che, nella normativa giuridica relativa ai brevetti, interviene ciò che viene talvolta chiamato la clausola morale, secondo cui un'invenzione contraria all'ordine pubblico o al buon costume non è brevettabile. L'esigenza del rispetto del giusto ordine morale non poteva che incoraggiare a chiamare in causa, tra le altre, la nozione di dignità del corpo umano.

L'essenza del dibattito può essere compresa solo a partire dai fondamenti della definizione dei criteri tecnici e giuridici della brevettabilità. Quest'ultima presuppone: la novità, ovvero l'essere nuovo nel senso della normativa relativa ai brevetti, vale a dire ciò che fino a quel momento non era accessibile; l'attività inventiva (il lavoro di ricerca); l'applicabilità industriale, ovvero la possibilità di una produzione utile ed economicamente congrua. È inoltre necessario che la richiesta sia accompagnata da una descrizione dettagliata dell'invenzione, in modo tale che persone competenti possano riprodurla. In altri termini, la richiesta di un brevetto introduce un'informazione nuova che può condurre ad altre invenzioni disponibili per la società. Ciò è possibile perché la presunta invenzione inizia a essere giuridicamente protetta dal momento in cui viene formulata la richiesta. La finalità del brevetto, che in genere viene concesso per una durata di venti anni, è dunque duplice: incoraggiare la divulgazione e la circolazione delle informazioni socialmente e scientificamente utili, e proteggere il lavoro svolto dall'inventore, tramite la garanzia che la sua invenzione non potrà essere sfruttata da nessuno senza il suo consenso. Il brevetto in sé non si identifica con il diritto di sfruttamento dell'invenzione, poiché la produzione industriale e l'introduzione nel mercato richiedono il rispetto di condizioni specifiche, ma solo con il diritto di impedirne lo sfruttamento da parte di altri: esso offre all'inventore la possibilità di introdursi nel mercato col vantaggio di detenere un monopolio.

L'inventore è raramente un individuo isolato, perché come tale, incontrerebbe grandi difficoltà a imporsi nel mercato. Gli interessi relativi alle invenzioni biotecnologiche concernono le grandi bio industrie (farmaceutiche, di tecnologie biomediche, agroalimentari). Questi interessi sono internazionali, e quindi anche politici. La bioindustria svolge un ruolo cruciale nella competizione economica tra gli stati e le grandi regioni del mondo, come, per esempio, il Giappone e il sud-est asiatico, gli Stati Uniti, l'Unione Europea. Nel corso degli anni Novanta, il 75% dei brevetti in campo biomedico è stato concesso negli Stati Uniti e in Giappone, e meno del 25% in Europa. Il legame tra lo sviluppo della bio industria e la ricerca tecnoscientifica è molto stretto, e implica rilevanti e costanti investimenti nel campo della ricerca che devono essere compensati e ricompensati dalla commercializzazione. È ridicolo limitarsi a opporre la competizione economica e tecnico-scientifica, da un lato, e le esigenze etiche, dall'altro. l progressi conseguiti dall'RDTS biomedica sono entusiasticamente seguiti e attesi da un numero immenso di persone in cattive condizioni di salute, e quasi tutte le associazioni dei malati sostengono ciò che contribuisce a questo progresso. Per questo motivo il sistema dei brevetti si rivela essenziale: laddove questo sistema non viene applicato o funziona male, l 'RDTS decade o scompare. In Europa, in nome della dignità dell'essere umano, si è evitato di introdurre una regolamentazione chiara e comune che autorizzi i brevetti che hanno come oggetto ciò che è proprio degli esseri viventi, in particolare dell'essere umano, determinando un cattivo funzionamento di questo sistema. Questa situazione ha dato luogo a decisioni contraddittorie e a ricorsi contro le richieste di brevetti. L'incertezza giuridica così creata e mantenuta non è favorevole né all'economia né all'RDTS. La Direttiva europea del 1998 tenta di regolamentare questo problema.

Quali sono, secondo la Direttiva, gli elementi di origine umana brevettabili? L'articolo 5 ( della Direttiva) risponde a questa domanda stabilendo che: "un elemento isolato dal corpo umano o diversamente prodotto attraverso un processo tecnico, compresa la sequenza completa o parziale di un gene, può essere considerato un'invenzione brevettabile, anche se la struttura di questo elemento è identica all'elemento naturale". Bisogna precisare che queste disposizioni si riferiscono in modo particolare alle sequenze geniche. Tuttavia, la loro formulazione è molto più ampia e può essere applicata, in via di principio, a qualsiasi parte del corpo umano, per esempio ai tessuti, che risponda alle condizioni della brevettabilità e non sia esclusa da disposizioni giuridiche specifiche. Ciò che certamente non è brevettabile, è il corpo dell'individuo nella sua integrità, né alcuna parte che sia effettivamente una componente costitutiva del corpo dell'individuo.

Un aspetto importante del dibattito che può sembrare trascurato nella precedente citazione verte sulla distinzione tra scoperta e invenzione, poiché l'elemento brevettato non deve essere strutturalmente diverso dall'elemento naturale. Questa problematica è molto complessa poiché riguarda considerazioni epistemologiche generali relative alla natura della scienza contemporanea che, come tecnoscienza, inventa o produce i suoi oggetti più che scoprirli; e dipende da precisazioni molto tecniche a proposito di ciò che viene effettivamente brevettato e che non è identico all'elemento originale, né in un contesto identico a quello dell'elemento originale, anche se l'informazione che si trova nell'uno e nell'altro è la stessa.

La questione concreta, nella sua portata economica, è la seguente: più a monte si concede il brevetto, vale a dire a un gene isolato di cui si conosce la funzione codificante e che viene indicato come suscettibile, per esempio, di un'utilizzazione terapeutica - nonostante che il richiedente del brevetto sia ancora lontano dalla messa a punto del prodotto terapeutico stesso - più ampio e indeterminato in futuro sarà il monopolio che si concederà al detentore del brevetto, che diviene in qualche modo padrone del settore dell'RDTS relativo alla sequenza genica brevettata. È per questo che alcuni hanno ripetutamente sostenuto che è necessario concedere i brevetti più a valle possibile, idealmente solo ai processi di produzione e ai medicinali destinati a essere introdotti nel mercato. Una delle giustificazioni etiche di quest'ultima posizione è che l'informazione contenuta nel genoma umano e da esso acquisita non dovrebbe essere oggetto di appropriazione e di sfruttamento da parte di interessi particolari (nazionali o privati), ma rimanere disponibile e liberamente accessibile a tutta l'umanità, come suo patrimonio comune. Alla base di questo principio imperativo di non appropriabilità vi sono considerazioni ontologiche sulla dignità e sul valore intrinseco, sacro, del genoma e del corpo umano in generale, e considerazioni di giustizia internazionale. Le prime sono difficili da precisare, come ammettono talvolta anche alcuni dei loro sostenitori: "la defrnizione stessa di ciò che ci inquieta è soggettiva, incerta, o meglio indicibile" (Edelman e Hermitte, 1988). Si tratta dunque di un pericolo simbolico anche se il nemico è noto: "è la logica del mercato che desacralizza a poco a poco tutto ciò che rientra nella sfera dell'uomo, compreso l'uomo stesso" (Edelman e Hermitte, 1988). Il genoma viene qui assimilato in modo confuso all'essenza umana in uno strano amalgama ontologico, teologico e biologico.

Quanto alle considerazioni sulla giustizia, esse riguardano innanzitutto il Terzo mondo in cui è individuabile una parte cospicua della biodiversità, e dunque delle variazioni dell'informazione genetica. Sono noti molti casi di popolazioni indigene (per esempio, i Guaymi di Panama o i Papua della Nuova Guinea) le cui cellule in coltura sono state oggetto di procedure di brevetti negli Stati Uniti in virtù del loro interesse genetico. Non è chiaro se queste pratiche diano luogo a questioni specifiche di giustizia economica e sociale, dal momento che al corpo umano e alle sue parti non viene riconosciuto uno statuto speciale. Si potrebbe, tuttavia, sostenere che la povertà giustifica un compenso pecuniario sostanzioso dal momento che i poveri detengono una ricchezza di informazioni che solo i ricchi potranno sfruttare, e che il principio della gratuità della donazione si rivela nel caso specifico particolarmente ingiusto. È innegabile che queste pratiche pongano anche serie questioni relative all'informazione e al consenso degli interessati.

La sentenza del caso Moore, precedentemente citata, diede torto a quest'ultimo, nella misura in cui egli pretendeva una partecipazione ai profitti conseguiti da un brevetto che presupponeva in origine l'uso delle sue cellule, perché Moore non partecipò in alcun modo al lavoro che portò all'invenzione e ai prodotti commercializzabili. La stessa sentenza, tuttavia, diede ragione a Moore nella misura in cui quest'ultimo non era stato informato della destinazione riservata alle cellule prelevate dal suo corpo.

Il rispetto del consenso informato è una condizione etica imprescindibile per le richieste di brevetti che hanno come oggetto invenzioni biotecnologiche che presuppongono elementi prelevati dal corpo umano. Quest'informazione deve essere la più esauriente possibile e quindi includere, se necessario, l'eventuale sviluppo industriale delle ricerche condotte sui prelievi. Se questo sviluppo e la richiesta del brevetto non sono in origine prevedibili e quindi non sono contemplati nel consenso iniziale, sarà opportuno rivolgersi di nuovo alla persona interessata per informarla degli sviluppi inattesi e prendere atto del suo parere. Nel contesto di un possibile sviluppo economico a partire dai prelievi che rivelano proprietà eccezionali e, per esempio, un grande interesse terapeutico, il principio comunemente accettato della gratuità della donazione sembra almeno problematico. È comprensibile che individui e popolazioni, a fortiori quando la loro sorte è miserevole, pretendano di negoziare il prezzo di questi prelievi.

Situata al punto d'intersezione tra esigenze etiche, giuridiche, tecniche e scientifiche, economiche e politiche, la problematica della brevettabilità di elementi provenienti dal corpo umano si rivela particolarmente complessa. Non bisogna, tuttavia, pretendere che la normativa giuridica relativa ai brevetti risolva tutti i problemi e, in particolar modo, i problemi etici che si pongono abitualmente a monte e a valle delle richieste di brevetti. Per quanto riguarda quelli a monte, è evidente che la ricerca che porta a una richiesta di brevetto deve essere condotta nel rispetto delle regole etiche concernenti, per esempio, la sperimentazione sugli esseri umani, sia che questa sperimentazione o il trattamento si risolvano o meno nella richiesta di un brevetto. Per quanto riguarda quelli a valle, la concessione di un brevetto non autorizza allo sfruttamento, alla produzione o all'introduzione nel mercato della scoperta brevettabile. Queste ultime sono tappe successive per le quali esistono condizioni etiche e regole giuridiche specifiche: prima di ricevere l'autorizzazione necessaria a essere introdotto nel mercato, un medicinale deve essere sottoposto a un processo lungo e complesso che comprende a sua volta alcuni imperativi etici. In ultima analisi, è la società che è responsabile dell'utilizzazione a cui destinerà l'invenzione e i nuovi prodotti alla cui scoperta ha contribuito. È ovvio che qualsiasi invenzione può essere utilizzata bene o male e in base a molteplici finalità.

Il modello euro·francese e la 'minaccia' americana globale

La contrapposizione delineata nel titolo di questo paragrafo è evidentemente schematica poiché le posizioni a cui fa riferimento non sono né semplici né omogenee. Tuttavia, essa corrisponde a grandi linee alle tendenze reali e alle rappresentazioni diffuse e alimentate dai loro stessi interpreti. È sufficiente esaminare la letteratura bioetica francese relativa al corpo e alle sue parti o ai suoi prodotti per convincersene. A questo proposito si possono consultare le disposizioni del Comité Consultatif National d'Ethique (CCNE), nonché gli studi di A. Fagot (1995; 1996), gli articoli di L. Sève (1994) e di S. Rameix (1998), e quello archetipico di B. Lemennicier (1991). La Francia, molto attiva anche nell'elaborazione delle disposizioni etiche del Consiglio d'Europa, svolge in questo campo un ruolo di vigilanza e non esita a denunciare le eventuali deviazioni mercantiliste dell'Unione Europea. A tal proposito si consideri la denuncia del CCNE della Direttiva europea del 1989 concernente i medicinali derivati dal sangue e dal plasma umani: "la nostra disapprovazione è innanzitutto rivolta all'uso di espressioni quali 'materia prima' per designare il sangue e il plasma e 'medicinale' per designare i prodotti preparati a partire dal sangue e dal plasma. Una tale terminologia, in sé di storta, apre la strada a una deformazione dei concetti, dei principi e delle pratiche".

La Francia, primo stato ad aver istituito un comitato nazionale di etica, ha inoltre promulgato nel 1994 una serie di leggi concernenti direttamente il corpo umano e uno statuto, in cui il principio secondo cui esso è fuori mercato e fuori commercio, svolge un ruolo determinante. Un'affermazione di identità simbolica, sia francese o europea, passa necessariamente per una 'controdefinizione' di quello che viene rappresentato come spauracchio e più o meno demonizzato, senza tener troppo conto delle sfumature. Inoltre, un'identità, in parti colar modo quando concerne direttamente le giuste norme e i veri valori, pretende naturalmente di essere universali sta. Così, e vi sono motivazioni storiche profonde che spingono in questa direzione, il modello francese sostiene di richiamarsi direttamente alla tradizione universalista dei diritti dell'uomo, molto viva anche nel Consiglio d'Europa che ha promulgato la Convenzione sui diritti dell'uomo e la biomedicina. Questo riferimento alla filosofia dei diritti dell'uomo è contestabile, perché per un gran numero di problemi bio etici, i diritti dell'uomo non hanno alcuna rilevanza o sono suscettibili di interpretazioni diverse, talvolta opposte (Hottois, 1996).

Se la nozione di dignità può essere invocata per sostenere il principio del corpo fuori mercato, le libertà e i diritti individuali di disporre liberamente di sé e di non subire imposizioni per quanto riguarda la vita privata, indicano direzioni contrarie. Se i diritti dell'uomo sono stati in origine dettati dall'esigenza di proteggere l'individuo dagli interventi abusivi dello Stato, allora le leggi dirette a stabilire ciò che l'individuo può o non può fare del suo corpo sembrano essere almeno discutibili e non discendere necessariamente dalla tradizione dei diritti dell'uomo.

Prima di esaminare con una maggiore attenzione le due tendenze che si fronteggiano in questo campo, ribadiamo che si tratta solo di tendenze di pensiero e che la realtà bioetica, biogiuridica e biopolitica sulle due sponde dell'Atlantico è molto più composita. Il modello euro-francese e i suoi critici La base filosofica ed etica del modello, che ho qui chiamato euro-francese, è di ispirazione rousseauiana e kantiana. Da J.-J. Rousseau, questo modello ha tratto l'idea che l'individuo accede alla libertà, cioè diviene un soggetto, solo in virtù della sua appartenenza al corpo sociale, della sua partecipazione alla formazione della volontà generale della nazione. È lo Stato (il diritto pubblico) che costituisce l'individuo-soggetto e lo rende cittadino. Nessuna libertà individuale può dunque prevalere sulla volontà generale o sul bene pubblico di cui lo Stato-nazione è espressione. Il corpo individuale è considerato un membro del corpo sociale e gli individui sono più gli usufruttuari che i proprietari dei loro corpi. Gli individui, come cittadini, sono figli dello Stato-nazione al quale devono essere disposti a sacrificare anche la vita. Siamo dunque in presenza di una filosofia politica paternalista in cui il principio del bene sociale tende a prevalere nettamente sul principio di autonomia, e ciò si accorda perfettamente con una certa tradizione paternalista della medicina. Lo Stato-nazione, la volontà generale, sa evidentemente meglio dell'individuo ciò che occorre fare nell'interesse del bene di tutti, che si identifica con il bene di ciascuno. Nella misura in cui questo Stato ha una pretesa universalista, il bene così definito deve anche essere compreso come razionale e universale.

Da I. Kant viene invece il divieto dell'oggettivazione e della strumentalizzazione dell'individuo in nome della dignità della persona: la persona umana è un'entità spirituale libera e razionale. Secondo Kant, l'esercizio della libertà individuale, correttamente intesa, non può entrare in conflitto con l'esercizio della ragione che è universale: consiste in questo il principio dell'autonomia della ragione. Certamente, per Kant la persona non si identifica col corpo, ma, attraverso la mediazione di diverse tradizioni e argomentazioni filosofico-religiose (il cattolicesimo e il dogma dell'incarnazione, l'aristotelismo e il concetto di sostanza, la fenomenologia del corpo), il suo modello sottolinea l'inseparabilità della persona dal corpo e trasferisce automaticamente a quest'ultimo il valore e la dignità associati alla persona. L'indivisibilità del corpo e della persona è anche il tema ricorrente degli studi preparatori alla formulazione delle leggi francesi sulla bioetica (Braibant, 1988). Ciò non impedisce a un filosofo come Sève (1994), anche se convinto sostenitore di queste posizioni, di esprimere una perplessità: "il corpo è e non è, al tempo stesso, la persona" e di aggiungere che il problema consiste nel fatto che "partendo da una preoccupazione etica, quella di evitare la disumanizzazione della biomedicina rifiutando la spersonalizzazione del corpo, si crede opportuno sostenerla con una tesi ontologica".

Introdurre nel mercato, dominato dal denaro, dalla tecnica e dai desideri (o pseudolibertà) individuali, il corpo e le parti del corpo, equivale a distruggere queste sintesi simboliche: il corpo è separato dalla persona che ne dispone, la sua integrità è atomizzata in un numero infinito di parti, esso diviene un'entità modificabile, che può essere trasformata e scambiata a seconda dei capricci personali irrazionali. Queste deviazioni sono percepite come letteralmente diaboliche, vale a dire antisimboliche, distruttrici della dignità delle persone e soprattutto della solidarietà, dei legami che costituiscono la base della società, i cui membri percepirebbero se stessi e gli altri come arbitrariamente smembrabili. Il frazionamento del corpo individuale provoca il frazionamento del corpo sociale e dunque l'annientamento della nazione che si lasciasse trascinare in questa impasse. Introdurre i corpi individuali nel libero mercato degli scambi rappresenta il più grave rischio simbolico. Bisogna quindi preservare a tutti i costi, attraverso il discorso etico e soprattutto attraverso la legge, i simboli costitutivi della società, anche se la realtà delle pratiche e delle situazioni è molto lontana dall'ideale della solidarietà, della fratellanza, dell'uguaglianza e della gratuità. A tal proposito Fagot (1996) dice: "è chiaro che per il Comitato nazionale, il rischio individuale per gli emofiliaci di contrarre l'AIDS [ ... ] non è niente rispetto al rischio sociale implicito nel riconoscimento che componenti antiemofiliache estratte dal sangue umano siano un oggetto commerciabile".

Riassumendo, il modello euro-francese del corpo fuori mercato sancisce idealmente che il corpo individuale è inviolabile, indisponibile, inaccessibile, che non è patrimonio o proprietà dell'individuo e che quindi che non è in alcun modo commerciabile e convertibile in moneta, neppure nelle sue parti più piccole. Alcuni di questi divieti possono essere infranti solo col consenso esplicito dell'individuo e per un fine terapeutico (eventualmente cognitivo), o con il suo consenso presunto, in caso di impedimento o dopo la sua morte. All'origine di ogni utilizzazione del corpo umano o di una parte del corpo umano, vi è dunque sempre e necessariamente una donazione, un atto gratuito e di solidarietà, che il potere pubblico deve severamente controllare, soprattutto quando la donazione è il primo stadio di un processo che conduce a un prodotto finale commercializzabile. Questo controllo, che garantisce del suo carattere etico, deve vigilare affinché l'utilizzazione fmale delle donazioni sia buona, vale a dire essenzialmente medica, e che gli eventuali profitti siano correttamente utilizzati (per esempio, reinvestiti nell'RDTS biomedica) o comunque limitati (per esempio, attraverso l'imposizione di tasse). In breve, per ciò che concerne il corpo umano, lo Stato, e non prioritariamente la tecnica o il denaro attraverso il mercato, dovrebbe assolutamente mediare ogni trasformazione o scambio, perché solo la mediazione pubblica può garantire la moralità delle trasformazioni, vale a dire il loro carattere non lesivo del socius, della solidarietà costitutiva della società e del bene pubblico nazionale, ma idealmente universale. Ogni altro modo di procedere fmisce nell'irrazionalità distruttrice della società e, presumibilmente, dell'umanità.

Tra le possibili critiche figurano sicuramente la natura confusa dei fondamenti filosofici di questo modello, e altre osservazioni che qui brevemente elenchiamo:

1) la constatazione (per esempio, a proposito della vicenda del sangue contaminato) che l'organizzazione pubblica non offre una garanzia di qualità e di sicurezza fisica delle trasformazioni e degli scambi; il volontarismo, la morale delle buone intenzioni, possono, per diverse ragioni, condurre a una diminuzione del senso di responsabilità.

2) Le riserve sulla qualità morale dello stesso Stato e di coloro che lo servono. L'assenza di controllo, più grave che nel caso degli operatori privati i quali possono essere sorvegliati dall'autorità pubblica ed essere sanzionati dal mercato.

3) La gestione poco trasparente e poco efficace degli organismi pubblici, responsabile, per esempio, del fatto che le imprese che raccolgono tessuti umani pagandoli riescono a introdurre nel mercato prodotti a un prezzo inferiore di quello imposto dagli organismi pubblici che raccolgono sangue e tessuti senza doverli pagare.

4) La sensazione di non appartenersi, di non essere proprietario del proprio corpo, mentre lo Stato sarebbe il vero proprietario che dispone delle donazioni dei vivi e dei corpi dei morti; una sensazione profonda di inaccettabile affronto alle libertà e ai diritti fondamentali della persona.

5) La convinzione che gli individui si trovino, in generale, in una posizione più adatta per difendere gli interessi del loro corpo di quella dello Stato; nel modello euro-francese, lo Stato negozia da solo con i ricercatori e gli imprenditori lo sfruttamento del corpo e dei suoi prodotti, esente dal controllo delle persone che in materia sono prive di ogni potere di negoziazione (Fagot, 1996).

L'opposizione tra le due tendenze qui trattata è stata talvolta suggestivamente schematizzata affermando che se il cittadino americano è proprietario del suo corpo, il cittadino francese non è che l'occupante di un corpo che appartiene in realtà allo Stato.

La 'minaccia' americana

Non bisogna dimenticare che tutto quel che si dice a proposito del corpo e del mercato deve essere posto in relazione alla guerra economica in cui i paesi e le grandi regioni del mondo si affrontano materialmente e ideologicamente. In questo quadro in cui l'Europa e gli Stati Uniti appaiono di solito in competizione e in cui ogni paese gioca le proprie carte, la questione del corpo, delle sue parti e dei suoi prodotti, acquista un particolare valore simbolico. Si ritiene di solito che gli Stati Uniti siano fautori dell'introduzione di ogni cosa nel libero mercato globalizzato, compresa l'ultima roccaforte tradizionale dell'umanità naturale: il corpo (Kuttner, 1997). Salvare il corpo dal mercato e dal denaro diviene così un obiettivo ideologico di capitale importanza. Esaminando la letteratura bioetica americana, ci si rende immediatamente conto che la realtà è invece molto più complessa e variegata, e che il dibattito non si svolge solo tra l'Europa e gli Stati Uniti, ma anche, e animatamente, all'interno di questi ultimi. D'altra parte, come abbiamo già detto, anche l'Europa è ben lungi dall'avere una posizione omogenea, e i diversi organismi (per esempio, il Consiglio d'Europa e la Commissione europea) o i diversi paesi europei affrontano questi problemi in modi che a volte si rivelano non convergenti. Come abbiamo già sottolineato, in questo campo si contrappongono in effetti due grandi tendenze, una maggiormente caratterizzata dal sostegno dell'Europa e l'altra da quello degli Stati Uniti. La semplificazione nel presentare le due opposte posizioni ha innanzitutto uno scopo didattico e serve a far comprendere e chiarire i termini del dibattito.

La base filosofica del modello americano è, questa volta, da ricercarsi in T. Hobbes e, soprattutto, in J. Locke. Esso presuppone che gli individui godano di alcuni diritti naturali inalienabili, tra i quali figura il diritto di proprietà, che è più precisamente un diritto di appropriazione. Le cose naturali appartengono a tutti e a nessuno. Tuttavia, una cosa diviene proprietà legittima di una persona dal momento che è stata oggetto dell'attività esercitata da questa persona. In linea generale, è attraverso il lavoro, le cui forme sono molteplici, che la cosa di nessuno trova il suo proprietario. La cosa di cui ci si è appropriati diviene così un bene suscettibile di essere liberamente scambiato e venduto. Questo approccio consente di risolvere abbastanza agevolmente molte questioni che concernono la ricerca, la brevettabilità e la produzione, all'origine delle quali vi sia un elemento del corpo umano. Esso si rivela invece meno risolutivo per quanto riguarda la questione relativa al punto di partenza, benché si possa sostenere che il corpo di una persona sia anche, e in ogni caso in parte, il prodotto dell'attività, del lavoro di questa persona, e che essa possa disporne liberamente, allo stesso modo in cui dispone di altri beni più esteriori che ha acquisito, mantenuto e modificato con il lavoro.

Molte altre correnti della tradizione filosofico-religiosa anglosassone sono più o meno decisamente favorevoli al riconoscimento di un rapporto di proprietà e di piena disponibilità tra l'individuo e il suo corpo. Tra queste dobbiamo citare la grande tradizione del liberalismo individualista, economico e politico, l'empirismo nominali sta estraneo ai valori ontologici, o ancora, il protestantesimo e una pratica più contrattuali sta della medicina e delle relazioni umane in generale. Va segnalata, inoltre, una maggiore risolutezza, rispetto all'Europa, a mantenere separati lo Stato e le Chiese, lo spazio pubblico (retto dal diritto e dallo Stato) e la sfera privata o comunitaria, che rientrano integralmente nel dominio delle morali e delle religioni. Bisogna inoltre tener conto di una concezione della medicina meno legata all'idea dell'integrità naturale che tende a giustificare solo interventi di carattere rigorosamente terapeutico. La medicina americana, che si propone di contribuire all'agio e al benessere, sembra più aperta alle esigenze che originano dai desideri individuali e che, se confrontati ai bisogni definiti dalla natura, possono apparire molto artificiali. È, tuttavia, la stessa immagine della natura, evoluzionista, neodarwiniana, a essere differente.

l critici di questo modello denunciano in particolare la confusione fondamentale da esso generata tra libertà individuale (cioè l'autonomia, nel rigoroso significato del termine) e desideri individuali irrazionali e profondamente condizionati (limitati, orientati) dalla situazione (economica, culturale, sociale, psicologica) degli individui. Inoltre, la critica al modello mette in rilievo il dominio neodarwiniano della ragione del più forte che si manifesterebbe nel sistema dell'ideologia neoliberalista nonché la disgregazione della società attraverso la distruzione di tutte le forme di solidarietà e di tutti i legami sociali simbolici con il conseguente affidamento della coesione sociale a tecnostrutture manipolate da interessi privati. Infine, il modello porterebbe all'accrescimento globale dell'ingiustizia, dello sfruttamento, della disuguaglianza e della sofferenza, che sono diametralmente opposti alle illusioni dell'ideologia utilitari sta. Alla fine, si avrebbe la dissoluzione del welfare state di vocazione universale, il solo in grado di contenere gli effetti distruttivi della guerra tra interessi particolari ed egoistici.

AI di là dell'orizzonte terapeutico

La dignità, invocata come fondamento del rispetto della gratuità e del carattere liberale di ogni cessione di un elemento del corpo umano, è compatibile in via di principio solo con la finalità terapeutica dell'uso immediato o derivato (cioè successivo a una trasformazione industriale) dei prelievi. Quando questa finalità non è terapeutica ma, per esempio, cosmetica o quando dà origine a un commercio lucrativo, si richiede una sorta di moralizzazione del processo attraverso l'obbligo di reinvestire una parte sostanziale dei profitti nell'RDTS o anche attraverso una tassazione destinata a essere devoluta all'assistenza medica e sociale. Quest'impostazione suscita numerose obiezioni.

Esistono da molto tempo pratiche mediche di carattere voluttuario o destinate al soddisfacimento di esigenze di benessere, e queste pratiche, il cui archetipo è la chirurgia plastica, hanno seguitato e seguiteranno in futuro a svilupparsi e a diversificarsi. Il denaro e le tecniche più avanzate sono fondamentali per queste pratiche. Dal momento che esse vengono impiegate in una grande varietà di situazioni, è molto difficile tracciare la linea di confine che separa l'intervento terapeutico da quello che non può essere definito tale. Ciò porta a considerare la seconda obiezione: cosa significa terapeutico? Qual è il criterio che consente di distinguere con certezza una pratica terapeutica da un impiego non terapeutico della biomedicina?

Secondo l'ideale medico tradizionale, che è anche un'ideologia, si definisce terapeutico un intervento diretto a ripristinare l'integrità naturale accidentalmente lesa. Ma cos'è l'integrità naturale in un mondo in cui la natura è concepita come un insieme di processi evolutivi imprevedibili, contingenti, e in cui la cultura, che defrnisce ciò che è naturale e ciò che deve essere rispettato nella natura, è irriducibilmente multiforme? In questo mondo, che è il nostro mondo, non vi è più una forma giusta universalizzabile e applicabile a ogni individuo, come espressione della natura e segno di salute. Il confine che separa il normale dal patologico è divenuto relativo, contestuale, multiforme, a seconda delle comunità e degli individui.

Vi sono, diceva F.W. Nietzsche "innumerevoli stati di salute", poiché l'uomo è "di gran lunga, tra tutte le bestie malate, quella che si ammala più a lungo e in modo più profondo". Perché, aggiungeva, l'uomo è "la bestia non ancora fissata" e noi dobbiamo essere "animali da sperimentazione". La definizione del concetto di salute, stabilita dall'OMS (Organizzazione Mondiale della Salute), che designa uno stato di completo benessere fisico e psichico, è così ampia e utopica da non escludere a priori che l'individuo possa ricorrere alla medicina per qualsiasi genere di intervento. E quando la giurisprudenza francese sulla bioetica, 1. n. 94-653 e 1. n. 94-654 del 1994, così sensibile per quanto riguarda il rispetto della dignità del corpo umano, enuncia imprudentemente all'art. 3: "l'integrità del corpo umano può essere lesa solo in caso di necessità terapeutica della persona" sembra ammettere una dissociazione tra lo stato del corpo e i bisogni o i desideri della persona, che può giustificare, in via di principio, ogni intervento e fa pensare alle espressioni più liberalmente postmoderne di H.T. Engelhardt (1996): "in quanto persone possiamo rendere i nostri corpi oggetti del nostro giudizio e manipolazione. Possiamo trovare modi in cui avremmo potuto essere più attraenti".

Chi più della persona è atto a valutare la necessità terapeutica (che non vuoI dire i mezzi più appropriati) che giustifica un intervento sul suo corpo? L'esempio del transessualismo (Salas, 1994) in cui l'indicazione medica è in particolar modo incerta e in cui la componente di desiderio è intensa, è a questo riguardo molto istruttivo. Alla base delle richieste di soddisfacimento dei desideri e delle esigenze di benessere individuali, vi sono sempre una mancanza e una forma di sofferenza. Indubbiamente, la questione è sapere se una determinata risposta medica sia quella più adeguata e, senza alcun dubbio, il medico è, nella maggior parte dei casi, colui che si trova nella posizione più indicata per chiarirla attraverso il dialogo con il paziente. Ma questo aiuto ha alcuni limiti e varia in modo considerevole a seconda dei casi, soprattutto quando si tratta di esigenze e desideri che trascendono l'individuo e concernono la condizione umana stessa e il modo in cui ciascun individuo si pone in relazione a essa. Bisogna accettare l'invecchiamento o essere disposti a fare qualsiasi cosa per ostacolarlo e ritardarlo, in particolare quando si dispone del denaro necessario a intraprendere questi tentativi? Bisogna rassegnarsi alla sterilità o cercare di porvi rimedio? Bisogna accettare gli handicap ereditari o tentare di annullarli? Bisogna sviluppare la tecnologia delle protesi che consentono di superare o di porre rimedio a tanti handicap fisici, benché si sappia perfettamente che questo genere di creatività tecno scientifica porterà inevitabilmente alla creazione dell'organismo cibernetico, delle protesi sensoriali (e di altri generi) di carattere migliorativo e non solo palliativo? Lo stesso accade per quanto riguarda le ricerche di terapia genica indirizzate verso l' eugenetica. La sofferenza è illaboratorio in cui si inventano i volti del futuro. Il medico non deve essere un sacerdote; egli non ha la risposta giusta. È semplicemente un individuo che, grazie alla posizione che occupa professionalmente nella società, ha la possibilità di agire sugli altri individui a loro richiesta. Certamente, la società può e deve delimitare l'uso di questi poteri. Ma la società è ben lungi dall'essere filosoficamente, moralmente e religiosamente omogenea e stabile.

Dove si situa il confine tra sofferenza naturale, desiderio mutevole e ribellione contro la limitatezza umana? Dove si trova il confine tra ribellione feconda, che è condizione di progresso, e ribellione auto distruttiva, e chi lo traccerà? Nella maggior parte delle società considerate tradizionali e primitive, ritenute vicine alla natura, il corpo è stato un oggetto plasmabile a seconda delle fantasie individuali e collettive, e i paramenti dei culti non hanno nulla da invidiare agli eccessi contemporanei della moda per quanto riguarda le metamorfosi dell'apparenza fisica.

Passato, presente o futuro, naturale o culturale, individuale o specifico, il corpo non può essere considerato intangibile e immutabile. Esso è fondamentalmente plastico, evolutivo, polimorfo e abitato dal desiderio di essere abbandonato. Il corpo della specie umana si è lentamente modellato a partire da quello degli ominidi per consentire lo sviluppo del cervello e l'uso della mano. Il grande paleoantropologo francese A. Leroi-Gourhan (1964), che ha dimostrato l'importanza determinante di quest' evoluzione anatomica per l'espansione del cervello e quindi per il pieno sviluppo di ciò che definiamo intelligenza, non esita a proiettare tale evoluzione nel futuro predicendo una progressiva desuetudine del corpo a favore del cervello collegato ai suoi prolungamenti tecnici. Dopo un'iniziale reazione di repulsione emozionale e quasi fisica, la riflessione ci induce a domandarci: ciò è indegno per l'uomo? Che cos'è l'uomo?

L'immaginario contemporaneo, alimentato dallo sviluppo delle tecnologie della comunicazione, della virtualità e della simulazione è densamente popolato da fantasie di 'decorporizzazione' o di disincamazione. Così in un celebre libro degli anni Ottanta, W. Gibson (1984), l'inventore del termine cyberspazio, contrappone coloro che sono legati alla corporeità e che seguitano a vivere principalmente, se non esclusivamente, nel mondo materiale e corporeo, mangiando, bevendo e soprattutto muovendosi fisicamente ("viaggiare era un espediente di coloro che erano legati alla corporeità"), a coloro che vivono, pensano e agiscono quasi esclusivamente nel cyberspazio, e sono sul punto di divenire una specie di protesi-corpo-universo totale per il cervello. Indipendentemente dal futuro della specie, il corpo di ciascuno non è forse innanzitutto processo ed esperienza di metamorfosi, dallo zigote alla senescenza, passando per l'adolescenza? il programma di questa meravigliosa e terribile plasticità ci viene imposto, con i suoi numerosi rischi, e con i limiti e gli obblighi che comporta. In nome di che cosa bisognerebbe rinunciare a cambiare questo programma o a diversificarlo nella misura in cui acquisiamo la capacità di farlo?

Le tecnoculture e le cyberculture postmodeme (Aronowitz et al., 1996) che si sviluppano nelle maglie delle conurbazioni e nelle reti mondiali della comunicazione, combinano scienze, tecniche, mercati, simboli, in spazi in cui si svolgono incessanti processi di trasformazione e di scambio. Esse non si situano più in alcun modo in un mondo materiale. È per questo che la concezione dualista corpo/ persona ancora diffusa e che serve spesso a giustificare in modo filosoficamente maldestro la piena disponibilità di cui la persona gode nei confronti del suo corpo, è inappropriata e sorpassata. La persona non è una sostanza (spirito), è una fiction della libertà, un modo di significare che i membri della specie umana e questa stessa specie sono processi nonfiniti, aperti, indeterminati, e che essi possono, per creare questo futuro, impiegare materiali e prodotti del passato. La trascendenza associata ai dualismi metafisico-religiosi è verticale e statica; essa supera la condizione corporale e limitata dell'essere umano solo sul piano simbolico, sublimando la. Le tecnoscienze aprono invece la strada a una trascendenza operativa della specie: esse consentono di superare effettivamente i limiti naturali associati alla condizione e al corpo umani. Esse permettono inoltre agli individui e alla collettività di superare questi limiti e queste configurazioni naturali e tradizionali in un modo diverso.

In uno straordinario romanzo intitolato A miracle of rare design, il cui sottotitolo recita Una tragedia della trascendenza, M. Resnick (1994) racconta la storia tra ricerca e metamorfosi, in cui uno scrittore, grazie alle tecnoscienze biomediche, assume successivamente la morfologia e la sensibilità di molteplici forme di vita, diversamente intelligenti e senzienti, che vivono in pianeti a loro volta molto diversi dalla Terra. Dal momento che queste esperienze non sono assolutamente esprimibili nel linguaggio degli uomini, egli decide di abbandonare la scrittura per dedicarsi totalmente a questa alchimia tecnobiologica che rischia, a poco a poco, di distruggerlo. Finisce così per scegliere un'ultima metamorfosi: una forma di vita che non ha una propria esistenza ma che riunisce in sé le particolarità di tutte quelle che ha conosciuto.

Siamo dunque molto lontani dal corpo ontologico o fenomenologico e dalla sua naturale dignità, ostile al cambiamento e allo scambio. Ci avviciniamo, in compenso, al corpo senza organi e alle macchine desideranti di G. Deleuze (Deleuze e Guattari, 1972); corpo del desiderio, del cambiamento e dello scambio a priori illimitato, che la società capitalista, le sue tecniche e i suoi mercati seguiterebbero allo stesso tempo a liberare e reprimere.

Trovare buone fiction

La seguente descrizione di A. Kroker (1996) rappresenta in modo brutale ma efficace il problema: "il corpo organico sa che morirà prima di poter essere metamorfosato in uno stato virtuale, e così cerca disperatamente corpi schiavizzati, in particolare, quelli dei giovani, alla ricerca di un elisir di vita: reni, pancreas, occhi e cuori".

Viviamo in un mondo in cui l'ontologia, la metafisica, il fondamentalismo e tutte le nozioni guida che da questi derivano come, per esempio, quella di Dio, della verità, dell'essere, della natura, dell'essenza, del valore in sé, e così via, sono in crisi, e noi riteniamo che questa crisi non sia il male. Il nichilismo associato a questa crisi presenta molti aspetti positivi, emancipatori, divesificatori, di promettente creatività, di possibilità e di speranza. Viviamo in un mondo di fiction, nel significato più ampio del termine, che comprende le fiction simboliche (ideologiche, giuridiche, morali, istituzionali) e tecnofisiche (per esempio, le scoperte e le invenzioni tecnoscientifiche e le loro applicazioni), un mondo di fiction (naturali e tradizionali) ereditate e di fiction nuove (RDTS, forme culturali). Le fiction non sono mai pure: esse combinano il passato e il futuro, il materiale e l'immateriale, la natura e l'artificio, il diritto e la morale, il simbolico e il tecnico. Le specie viventi, i mercati, le monete, le protesi, la donazione liberale, i brevetti, le definizioni della morte, le macchine cellulari, le biobanche, troviamo ovunque fiction che funzionano in sinergia o in opposizione e di cui la natura stessa fa parte come prodotto o come produttrice, diversamente simbolizzata a seconda delle epoche e delle culture. In questo mondo di fiction, sono tuttavia le nuove fiction tecnofisiche dell'RDTS che svolgono il ruolo, distruttivo e creativo, di motore. È molto importante accompagnare questa dinamica tecnoscientifica instancabilmente inventiva con fiction simboliche (morali, giuridiche, politiche, istituzionali) in modo che l'insieme offra alle creature viventi, e a noi stessi le maggiori opportunità di realizzazione. Le sofferenze delle creature viventi non sono fiction, anche se possono essere aggravate e alleviate da fiction simboliche e fiction tecniche.

Quali sono le fiction simboliche buone? Non credo che esse vadano cercate tra le antifiction del passato quali, per esempio, le essenze, i valori in sé, le verità necessarie e indiscutibili. La dignità del corpo umano come valore intrinseco discende da queste ultime. Penso dunque che essa non possa essere invocata senza suscitare critiche. In questo senso, approvo gli effetti della deontologizzazione, della mobilitazione emancipatrice, del libero scambio e del libero cambiamento, operati dai mercati e dalle tecniche. Tuttavia, nella misura in cui questi mercati e queste tecniche vengono eccessivamente fuorviati a vantaggio di alcune frazioni dell'umanità, essi provocano maggiori sofferenze e non offrono quasi nessuna possibilità supplementare di realizzazione al resto dell 'umanità, forse la maggioranza. I mercati devono essere regolati in modo da non essere più esclusivamente asserviti agli interessi particolari dominanti. In questo senso, l'ideologia dell'economicismo neo liberale radicale, che è oggi una fiction particolarmente attiva, deve essere criticata, tanto più che pretende di sostenere la verità e di essere lo strumento che condurrà necessariamente, a medio termine, a una massimizzazione degli interessi di ciascuno, a un mondo più egualitario e più giusto. Non esiste una fiction definitivamente e assolutamente buona. Una tale fiction si identificherebbe con la verità. Richiamarsi alla verità è un modo particolarmente poco illuminato, immodesto e rischioso di sostenere la bontà della propria fiction.

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