Il concilio Vaticano II e l'Italia

Cristiani d'Italia (2011)

Il concilio Vaticano II e l'Italia

Giovanni Turbanti

Nel giugno 1966, davanti all’assemblea dei vescovi italiani riuniti per la prima volta pochi mesi dopo la conclusione del concilio,Paolo VI rilevava come quell’incontro rappresentasse qualcosa di nuovo e d’importante in quanto segnava «l’unità, che si forma mediante la conferenza episcopale, nella chiesa italiana». Infatti durante il concilio i vescovi italiani erano giunti a darsi una forma di organizzazione più efficace e rappresentativa e questo costituiva una novità storica nella prospettiva secolare della storia della Chiesa italiana. Questa unità – osservava il pontefice sulla scorta di una considerazione del cardinale Giovanni Mercati – non si era mai verificata «in tutta la serie dei secoli a partire da san Pietro a noi», dato che l’Italia era sempre stata divisa «in distinti e spesso avversi settori politici, ostacoli tutti a fare d’una nazione, che pure professava la medesima fede cattolica, una sola circoscrizione canonica»1. Era una considerazione carica di sottintesi riguardo al significato della religione nel carattere nazionale dell’Italia, che volutamente tralasciava di considerare il ruolo della Chiesa in quelle divisioni e non spiegava perché una volta raggiunta l’unità nazionale nel corso del secolo XIX  l’unità ecclesiastica avesse dovuto attendere circa un secolo per essere realizzata. Un giudizio che lasciava implicito, evidentemente, il complesso sviluppo dei rapporti tra la Santa Sede e lo Stato italiano almeno sino alla prima guerra mondiale, taceva delle circostanze politiche che avevano alla fine condotto alla soluzione della questione romana sotto il regime fascista e non teneva conto di quella dimensione, oggettivamente anche se non consapevolmente, unitaria della Chiesa italiana che si era venuta costruendo nello Stato democratico.

Prima del concilio

In realtà già nei decenni precedenti al concilio forti elementi di aggregazione avevano contribuito a realizzare nella Chiesa italiana un tessuto omogeneo e sostanzialmente compatto, capace di definire una dimensione unitaria e una certa identità del cattolicesimo del paese. Mentre invece sarebbe stata proprio l’esperienza conciliare a convogliare all’interno della Chiesa le tensioni maturate nella società con il processo di modernizzazione e a innescare in essa profonde divisioni e spaccature tenute a stento sotto controllo dalla nuova Conferenza episcopale. Il concilio ha rappresentato per la Chiesa italiana un passaggio complesso a cui è giunta in larga misura impreparata, da cui ha attinto risorse per un profondo rinnovamento interno, ma che ha aperto nello stesso tempo significative contese circa il modello ecclesiale a cui riferirsi.

La dimensione unitaria maturata dalla Chiesa italiana, dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale, si fondava sulla sua forte presenza nel tessuto sociale e sul presupposto che l’Italia, per la sua storia e per essere sede del papato, fosse un paese profondamente e necessariamente cattolico. Si trattava di un giudizio aprioristico, dovuto in parte alla scarsa attenzione verso le rapide trasformazioni sociali e culturali del paese, ma anche a evidenti motivi ideologici. A caratterizzare in modo unitario il tessuto ecclesiale di quegli anni erano fondamentalmente la sottomissione verso il pontefice e il timore ossessivo del comunismo, che si traduceva in una battaglia serrata contro i nemici della Chiesa, combattuta senza remore politiche o morali di sorta, e nel massiccio appoggio al partito cattolico. La dimensione politica prevaleva di gran lunga su quella pastorale e l’unità intorno al partito definiva anche l’unità ecclesiale. A fronte della fede e dei riti della religiosità popolare, fortemente radicati nel tessuto sociale, c’erano le campagne missionarie, i pellegrinaggi nazionali, le processioni, le adunanze oceaniche organizzate dall’Azione cattolica intorno a poche parole d’ordine e alla figura del papa, iniziative esemplari di come Pio XII pensasse la mobilitazione dei fedeli nella temperie di quei tempi2.

Di fatto l’unità della Chiesa italiana non era costruita sulla struttura diocesana e sulla figura dei vescovi. Era l’Ac, piuttosto, la vera organizzazione capace di rappresentare un’istanza unitaria. Non si trattava solo dei numeri, pur impressionanti, che riusciva a organizzare, ma della sua struttura gerarchica autonoma, che prescindeva dall’autorità diocesana dell’ordinario, sicché i vescovi non potevano interferire sui programmi e le iniziative che provenivano dal centro nazionale o regionale e dovevano adeguarsi a essi nella loro pastorale3. Nella forte consapevolezza del loro ministero, i vescovi si sentivano profondamente legati da un lato alla loro diocesi, dall’altro a Roma da cui erano stati inviati. Ben scarsa era invece la coscienza unitaria tra di loro. Occorre tenerlo presente per comprendere il senso della loro partecipazione al concilio e lo spaesamento che li colse all’inizio. Molto dipendeva dalla loro idea di Chiesa e dal loro rapporto con la Santa Sede, che si era assunta direttamente una funzione di tutela e di servizio nei loro confronti, svolgendo quei compiti che in altri paesi erano ormai propri delle sedi primaziali o delle conferenze episcopali. I vescovi dal canto loro si sentivano investiti di una funzione di salvaguardia del pontefice contro le provocazioni che potevano giungere dal potere civile, ma anche dalle tendenze gallicane o nazionaliste di altri episcopati. Si consideravano come una scolta difensiva a tutela dell’autorità suprema del pontefice, come un baluardo a difesa dell’ortodossia e della saldezza della tradizione.

La Cei, che era sorta nel 1952 su iniziativa del cardinale Ruffini, arcivescovo di Palermo, con il beneplacito della Santa Sede, e raccoglieva i cardinali residenziali e i presidenti delle conferenze episcopali regionali, appariva un istituto debole e non era in grado di rappresentare un’istanza unitaria4. Per tutti gli anni Cinquanta la sua attività fu piuttosto ristretta e la sua preoccupazione dominante fu quella di stigmatizzare e condannare le dottrine che mettevano a repentaglio la tenuta della religione e diffondevano opinioni sbagliate nella società. Negli ultimi anni del pontificato di Pio XII, che avevano visto il progressivo deteriorarsi della situazione ecclesiale e il rafforzamento a Roma del blocco conservatore dei cardinali di curia ostili a ogni fermento di novità, ciò che impensieriva di più la Cei era la deriva affermatasi nella Democrazia cristiana verso un accordo politico con ilPartito socialista, che veniva considerata come un clamoroso cedimento ai nemici della religione.

Scarsa attenzione la Cei mostrò invece rispetto alle mutazioni pure impressionanti che la società italiana stava vivendo con la modernizzazione tecnologica, il boom economico, il diffondersi del consumismo e con i riflessi negativi che essi comportavano nelle stesse strutture tradizionali della società e negli stili di vita. Eppure proprio questi cambiamenti avevano generato alla base della Chiesa italiana qualche insoddisfazione. Gli stessi vescovi si rendevano conto che il paese non era più quello di una volta e che richiedeva uno sforzo pastorale di tipo nuovo. I movimenti che in altre nazioni si erano andati diffondendo per un rinnovamento nel campo delle scienze bibliche e patristiche, nella liturgia, nell’apostolato laicale, nell’ecumenismo, avevano trovato in Italia minore risonanza, ma anche qui si erano registrati alcuni segnali significativi di insoddisfazione rispetto al modello pastorale prevalente, alla troppo netta compromissione della Chiesa con la politica della Dc, alla ristrettezza della prospettiva ecclesiale: alcune figure sacerdotali come quelle di don Facibeni, di don Mazzolari, di don Calabria; alcune riviste che uscivano decisamente dal coro della consueta stampa cattolica, come «Il Gallo» di Genova o «Testimonianze» di Firenze, facevano circolare le idee e costituivano un punto di riferimento per chi cercava qualcosa di nuovo. Don Milani a Firenze, con le sue Esperienze pastorali (1957), era diventato ben presto l’esempio più incisivo delle insoddisfazioni che si muovevano alla base della Chiesa italiana. La risposta ufficiale della Santa Sede e della Cei era stata di netta chiusura e di condanna, ma in una certa misura essi avevano lasciato un segno e alimentato la speranza nascosta di un qualche rinnovamento.

La preparazione e le sue attese

Fu in questo contesto che nell’ottobre 1958 avvenne il passaggio di pontificato da Pio XII a Giovanni XXIII. Inizialmente esso non sembrò portare novità sostanziali nella vita ecclesiale. Anche i segni del diverso stile secondo cui il nuovo pontefice interpretò il suo ministero vennero colti come semplice espressione della sua indole bonaria. Eppure l’importanza che egli attribuiva alla sua funzione di vescovo di Roma, intesa in un certo senso come più originaria di quella di pontefice, costituiva una rivalutazione significativa della figura episcopale che valeva per tutte le sedi5.

Anche l’annuncio della convocazione di un concilio ecumenico non suscitò tra i vescovi italiani particolare entusiasmo. Al di là dell’incertezza che per lungo tempo avvolse l’iniziativa riguardo alle ragioni, agli scopi e alle stesse forme che essa avrebbe assunto, le reazioni furono in maggioranza improntate a una certa freddezza e a volte anche a fastidio. Le lettere inviate a Roma tra il 1959 e il 1960 in risposta alla richiesta del cardinale Tardini di formulare «vota et consilia» in ordine alla sua preparazione esprimevano complessivamente questa incertezza e restituivano, come un sondaggio a larga scala, i tratti caratteristici della Chiesa italiana di quegli anni6.

Furono in tutto 311 lettere, di cui 245 di vescovi residenziali e 66 di altri vescovi (curiali, coadiutori, ausiliari, abati, prelati nullius, ecc). C’era un tema di fondo riconoscibile in filigrana nella maggior parte di esse, quello delle difficoltà che nella cura pastorale i vescovi incontravano nei confronti del mondo moderno, dei cambiamenti che la società italiana stava vivendo, dei nuovi stili di vita che si andavano affermando. I vescovi percepivano che la società si andava progressivamente secolarizzando e si allontanava dalla fede tradizionale, che stava venendo meno il «senso di Cristo» e andavano sovvertendosi i principi e i valori cristiani. Questi cambiamenti venivano letti ideologicamente come frutto dello spirito antireligioso della modernità e la risposta che in genere i vescovi proponevano era quella tradizionale di una riaffermazione della verità cristiana secondo i principi della giusta dottrina e con ferme condanne contro tutti gli errori che minacciavano la saldezza dell’ordine cristiano. Si chiedeva di condannare il comunismo, il marxismo, il laicismo, l’esistenzialismo ateo, il relativismo morale, il neomodernismo, il materialismo. E si chiedevano nuove definizioni dogmatiche, in primo luogo quelle mariologiche, che corrispondevano a un’esaltazione trionfalistica della pietà popolare, e poi quella della regalità di Cristo, tema caratteristico della cultura intransigente.

Dietro la richiesta di fermezza si nascondevano tuttavia le molte difficoltà che i vescovi incontravano a livello pastorale e i numerosi limiti con cui si trovavano ad affrontarle. La maggior parte delle lettere aveva una visione assai chiusa, un respiro corto sulle questioni che riguardavano le singole diocesi, con una prospettiva ristretta al diritto canonico e all’azione pastorale. Una ristrettezza che non era caratteristica esclusiva delle lettere italiane, ma che le differenziava comunque da quelle francesi, tedesche, dell’Europa settentrionale, dove prevaleva un’attesa del concilio molto più aperta al rinnovamento che ne poteva derivare7. Si è parlato al riguardo di una sorta di handicap culturale, di provincialismo, di disinteresse per la dimensione universale della Chiesa. Ma questa miopia dipendeva anche dall’atteggiamento, dall’approccio burocratico alla risposta, quasi mero adempimento di un atto dovuto, che corrispondeva a una concezione del ministero episcopale come funzione dell’autorità romana8.

Allo stesso modello episcopale si riconduceva del resto l’esigenza di chiarezza e certezza nella definizione delle norme da applicare, sia in ambito dottrinale che in quello disciplinare, sino alle questioni più minute. Si chiedeva un rafforzamento dell’autorità dei vescovi nelle loro diocesi, non per un’auspicata maggiore autonomia da Roma a cui difficilmente si sarebbe potuto pensare, ma per far fronte alla selva di regolamenti, eccezioni ed esenzioni con cui i vescovi avevano a che fare nel quotidiano svolgimento del loro ministero. Le questioni di gran lunga più diffuse erano quelle relative al clero, dal problema della formazione seminarile a quello spinoso del celibato ecclesiastico. Ma largo rilievo avevano anche le richieste di una revisione delle norme sulla inamovibilità dei parroci, sui diritti canonicali e sui benefici, così come generalmente diffusa era la richiesta di una revisione delle norme sull’esenzione dei religiosi e di una maggiore estensione delle facoltà episcopali.

L’attenzione per il clero corrispondeva anche alla consapevolezza che proprio su di esso poggiasse il maggior peso pastorale delle diocesi e il rapporto con la società. Di fronte alla percezione dei mutamenti in atto nel paese l’unica soluzione che si riusciva a proporre era quella di un rafforzamento del ruolo del clero e della sua azione, anche come ruota di trasmissione per organizzare il laicato. Mancavano però adeguate riflessioni critiche sui cambiamenti della figura dei sacerdoti. Per venire incontro ai problemi che essi incontravano si pensava semmai a una sistemazione più adeguata del tessuto parrocchiale e a un coordinamento più efficiente della loro azione. Ai laici e all’Ac era riconosciuto un ruolo specifico importante nella pastorale, soprattutto nella società moderna, e si raccomandava di incrementarne le attività, ma anche nei loro riguardi non si riusciva a proporre modelli nuovi di organizzazione e di azione.

Occorrerebbe certo dar conto con più precisione delle sfumature comunque presenti in un panorama tratteggiato qui in termini necessariamente generali e schematici, considerare le significative eccezioni che rendono indubbiamente più mosso il quadro delle lettere. Non si possono ignorare alcune di esse per nulla chiuse nella prospettiva ristretta della diocesi, ma capaci di guardare più lontano ai problemi generali del mondo moderno e della Chiesa. Valga come esempio la lettera del vescovo di Trieste monsignor Santin, una delle pochissime che proponesse all’attenzione del concilio il problema della pace. O la lettera del cardinale Lercaro, che esplicitamente affermava l’inutilità di nuove condanne del comunismo, dopo quelle già comminate. Ma erano appunto delle eccezioni in un contesto tutto sommato omogeneo9. L’immagine prevalente era infatti quella di un episcopato in linea con i caratteri della Chiesa pacelliana, con molte certezze ideologiche e assai minori convinzioni circa gli strumenti pastorali adatti per confrontarsi con un mondo dichiaratamente ostile alla Chiesa.

La preparazione del concilio si svolse al margine della vita ecclesiale italiana, protetta da un vincolo di segretezza che lasciava trapelare ben poco di quanto si stava elaborando. Eppure la presenza degli italiani nelle commissioni fu significativa, anzi per molti aspetti questa fase fu un fatto italiano: si svolse a Roma sotto l’ala protettrice della Curia e con il concorso massiccio dei teologi delle più importanti università pontificie di Roma. Dei 130 componenti della commissione centrale, tra membri e consultori, gli italiani erano poco meno di un quarto. La segreteria, guidata da monsignor Pericle Felici, era composta tutta da italiani. Delle altre dieci commissioni preparatorie, otto su dieci erano presiedute da italiani e avevano tra i membri una forte componente di italiani. Né le cifre danno pienamente conto dell’effettiva responsabilità di lavoro che in gran parte ricadeva su chi stava a Roma o in Italia. Solo nell’elaborazione dei testi del Segretariato per l’unione dei cristiani che, caso unico tra gli organismi preparatori, si riuniva fuori Roma, il ruolo degli italiani fu del tutto marginale10.

Tuttavia il fatto che gran parte degli italiani appartenessero alla Curia romana o fossero docenti delle università pontificie di Roma ridimensiona sensibilmente il peso che si può attribuire alla Chiesa italiana come tale nella preparazione del concilio. Inoltre il vincolo del segreto imposto a membri e consultori ebbe come effetto di coprire con un’ombra di mistero il lavoro preparatorio. Questo non toglie che in Italia andassero maturando una certa attesa e una qualche preparazione al concilio. Se ne ha traccia in alcune lettere pastorali dei mesi precedenti all’apertura che testimoniano però il permanere di un’attesa dai contenuti ancora vaghi, con una caratterizzazione soprattutto spirituale fatta di intenzioni di preghiera, di veglie, di speciali liturgie.

In ogni caso, se si confrontano gli schemi elaborati dalle commissioni preparatorie con i «vota et consilia» dei vescovi italiani si può affermare che essi corrispondessero, almeno in linea di massima, a quelle che erano le loro aspettative11. Si trattava certo di testi con una prospettiva più ampia, ma si muovevano in gran parte lungo le direzioni affermatesi durante il pontificato di Pio XII, quelle stesse che avevano improntato profondamente di sé anche la Chiesa italiana. Questo era particolarmente evidente negli schemi dottrinali, che affrontavano ambiti tematici rilevanti come quello della Chiesa, della rivelazione, del deposito dottrinale, della morale, della dottrina sociale, sistematizzando l’insegnamento del magistero pontificio e le opinioni comuni nelle università pontificie. A essi era riconosciuta un’importanza preminente rispetto agli altri schemi, nei quali tuttavia i vescovi italiani potevano ritrovare molti riferimenti ai problemi e ai temi che essi avevano suggerito.

Quando, poco prima del concilio, venne loro inviata una prima limitata serie di schemi da discutere, non ebbero probabilmente troppe sorprese nel leggerne il contenuto. Corrispondeva allo spirito con cui essi si accingevano ad andare a Roma. Per molti di loro il concilio era prima di tutto un atto dovuto, inerente alla loro funzione, c’era sicuramente consapevolezza della sua importanza, tenuto conto del rilievo che tutti i concili ecumenici avevano avuto nella storia della Chiesa, c’era probabilmente molta curiosità su come esso si sarebbe svolto e su cosa sarebbe accaduto, ma in generale non c’era troppa attesa riguardo alla possibilità di qualche cambiamento, perché si pensava che la Chiesa non potesse e non dovesse cambiare. Essi arrivarono a Roma con la convinzione che il loro compito sarebbe stato comunque difenderla dalle minacce provenienti dal mondo moderno, ma anche dalle infiltrazioni pericolose che specialmente Oltralpe l’avevano intaccata. Solo tra le intenzioni recondite poteva esserci in qualcuno la speranza che qualcosa potesse migliorare nella propria condizione e nel lavoro pastorale.

In ogni caso si trattava di attese e di auspici del tutto individuali, essendo mancato qualsiasi confronto comune durante tutta la fase di preparazione. Il 4 ottobre 1962, una settimana prima dell’apertura dell’assise, Giovanni XXIII compì un pellegrinaggio propiziatorio ad Assisi e a Loreto. Sul suo esempio anche la Cei organizzò tre giorni dopo un pellegrinaggio nazionale a Loreto, con la rappresentanza di tutte le diocesi. Fu questa dimensione spirituale l’unica che l’episcopato italiano seppe esprimere in modo unitario in vista dell’apertura del concilio. Per il resto i vescovi italiani si presentarono al concilio senza una precisa preparazione, senza organizzazione, senza chiare prospettive. La sensazione dominante al loro arrivo a Roma fu di grande spaesamento di fronte a un evento di cui non riuscivano a capire bene né le dimensioni né la portata.

L’Italia al concilio

Il diario conciliare di monsignor Marino Bergonzini, vescovo di Volterra, iniziava il 9 ottobre 1962 con il racconto della sua partenza, svoltasi secondo una precisa ritualità:

«la città m’ha dato il saluto ufficiale prima della partenza per Roma. A S. Francesco erano presenti i sacerdoti della città, i seminaristi e molti fedeli. Recitato il rosario, ha parlato mons. vicario, cui ho risposto lasciando parlare il cuore. Dopo la benedizione eucaristica mi hanno accompagnato processionalmente in piazza dei Priori. Quivi con una cordiale manifestazione di devozione e d’affetto, m’hanno rinnovato i saluti e gli auguri. Li ho benedetti. È stata una cosa bellissima, m’ha confortato e commosso. Ne sia lode al Signore»12.

Il viaggio da Volterra non era impegnativo e l’assenza non sarebbe stata troppo lunga, tuttavia il concilio veniva a segnare una sospensione nel corso della vita diocesana e non fu raro, anche in altre città, che la partenza del vescovo venisse accompagnata da celebrazioni e preghiere. In questa ritualità era implicita l’idea di una certa rappresentatività del vescovo nei confronti della sua città. Partendo da Bologna il cardinale Lercaro disse che al concilio avrebbe portato le voci e le esperienze dei suoi fedeli e del suo clero: «non sono ricco di cose mie, ma di cose vissute insieme [...]. Io sono la vostra guida, ma raccolgo il lavoro e le esperienze di tutti, sacerdoti e fedeli»13. Si trattava di una rappresentatività che faceva perno sulla funzione pastorale del vescovo, sul suo rapporto particolare con la diocesi, ma anche sul suo ruolo di intermediario nei confronti dell’autorità romana.

La partecipazione italiana al Vaticano II si realizzò per lo più attraverso i vescovi e i teologi che li coadiuvavano. Sebbene l’impatto del concilio sulla Chiesa non possa essere valutato solo attraverso questa partecipazione, perché un ruolo importante ebbero anche i mezzi di informazione e l’opinione pubblica, furono i vescovi i veri responsabili della trasmissione al paese di quanto si andava maturando nell’assise. Con loro si presentava in concilio la Chiesa italiana, con i suoi caratteri ancora legati alla stagione pacelliana, ferma sulle sue certezze dottrinali, ma anche percorsa da dubbi e timori, da insoddisfazioni e preoccupazioni che covavano sotto un’immagine di sostanziale stabilità.

Il concilio sarebbe stato l’occasione perché i vescovi prendessero coscienza della loro dimensione collettiva, a cui li avrebbero condotti il confronto con gli altri episcopati, i rapporti quotidiani, la discussione sui problemi pastorali e dottrinali, una migliore organizzazione. Ma all’inizio essi faticarono non poco a trovare una coordinazione e un proprio modo di presenza. Incontrarsi era paradossalmente più difficile per loro che per gli altri episcopati: «gli esteri si riuniscono facilmente alloggiando il più delle volte nello stesso albergo quelli di una stessa nazione – osservava Lercaro in una delle prime lettere ai suoi ragazzi; – noi italiani già più numerosi e meno affiatati, siamo invece dispersi in alloggi svariatissimi»14. Tuttavia questo senso di spaesamento non dipendeva solo dai difetti di organizzazione, ma da un’evidente incertezza rispetto alla responsabilità cui ciascuno era chiamato e da una scarsa abitudine al lavoro comune. La Curia romana non era più come di consueto un punto di riferimento e la stessa Cei si trovava in difficoltà di fronte a tematiche teologiche e pastorali che non aveva mai affrontato.

Sotto la rigida direzione dell’arcivescovo di Genova, cardinale Giuseppe Siri, la Cei cercò di venire incontro all’esigenza di organizzazione, ritenendo con ciò di poter controllare direttamente la partecipazione dei vescovi italiani15. Lo si vide chiaramente quando si trattò di elaborare una lista per l’elezione dei membri delle commissioni e tutti i vescovi vennero convocati, la mattina del 14 ottobre 1962, alla Domus Mariae in un incontro che segnava davvero una novità assoluta rispetto al passato16. Lo scopo tuttavia non era quello di coinvolgerli nella scelta dei candidati, ma di aggregarli intorno a una lista già più o meno definita, che aveva bisogno dei voti di tutti per poter prevalere sulle altre. Al termine dell’assemblea alcuni vescovi non poterono nascondersi la sensazione che tutto fosse stato deciso dall’alto e che, come annotava il vescovo di Pesaro monsignor Borromeo nel suo diario, fossero stati «burlati un’altra volta»17.

Sin da queste prime vicende la Cei mostrava insieme al suo volto autoritario anche la sua scarsa efficienza. La lista preparata con tanta attenzione da Siri fu infatti un palese insuccesso e non raccolse neppure il consenso di tutti gli italiani. La sede in cui i vescovi potevano confrontarsi direttamente tra di loro fu quella del martedì pomeriggio alla Domus Mariae, agli incontri organizzati dalla Cei per indirizzarli a un’azione comune. In questo contesto le voci più indipendenti come quella del cardinale Montini o di monsignor Guano, anche se autorevoli, apparivano isolate e poco seguite. Siri non aveva scrupoli nell’usare tutti i mezzi per indirizzare l’assemblea nella giusta direzione. Così per esempio quando venne deciso di affidare ad alcuni esperti il compito di studiare lo schema sulla liturgia, scelse personalmente i nomi indicando loro in anticipo i punti da criticare, volle correggere preventivamente la loro relazione e rispose personalmente alle questioni sollevate nella discussione18. Questa gestione autoritaria, la radicalità con cui la presidenza sosteneva le sue posizioni, l’acrimonia mostrata nei confronti degli altri episcopati non mancarono di generare qualche malcontento, ma almeno durante tutto il primo periodo la direzione della Cei riuscì a mantenere compatto l’episcopato italiano.

Questa era l’immagine che emerse dagli interventi in aula, tutti concordi a sostegno delle posizioni più conservatrici, salvo poche e isolate voci contrarie. Anche sui temi che potevano avere un valore più pastorale finì per prevalere la linea di opposizione a ogni novità che potesse indebolire la dottrina tradizionale o la compagine ecclesiale. Quasi tutti i vescovi si dissero contrari all’uso della lingua nazionale nella liturgia, temendo che potesse favorire un pericoloso particolarismo. Rivelavano nei loro interventi una concezione fortemente sacrale della liturgia e del sacerdozio, ben poco sensibile alla richiesta di una più larga partecipazione dei fedeli. La si riconosceva anche riguardo alla questione della comunione sotto le due specie e a quella della concelebrazione, che suscitarono da parte loro molte reazioni negative19.

Quanto al tema più dottrinale della rivelazione divina, praticamente tutti si espressero a favore dello schema in discussione, con diversi argomenti tra i quali prevaleva il rispetto dell’autorità delle commissioni preparatorie che l’avevano proposto e del pontefice che l’aveva approvato20. In effetti quando Siri nell’assemblea settimanale alla Domus Mariae ventilò la notizia che altri episcopati avevano preparato uno schema alternativo ci furono reazioni assai scandalizzate: «è cosa che ha dell’incredibile» annotava monsignor Borromeo nel suo diario, «il diritto di presentare schemi da discutere al Concilio ecumenico è, secondo il codice di diritto canonico, esclusivo del Papa. Costoro dunque sono disposti ad andare contro la volontà del Papa»21. Lo schema preparatorio veniva difeso anche perché il suo contenuto corrispondeva alla teologia tradizionale e soprattutto perché una sopravvalutazione della Scrittura sulla tradizione risuscitava nei vescovi italiani i vecchi fantasmi della crisi modernista e sembrava un segno rischioso di cedimento al protestantesimo.

In questo contesto si comprende lo sconcerto che colse molti di loro quando Giovanni XXIII, con una decisione cruciale per le sorti del concilio, stabilì che lo schema sulla rivelazione venisse ritirato dalla discussione, anche se nella votazione i padri che avevano chiesto il ritiro, per quanto largamente maggioritari, non avevano raggiunto il numero necessario. Molti italiani ne rimasero sgomenti, molti rilevarono l’ambiguità di tutta la procedura e alcuni cominciarono a dubitare della libertà e legittimità del concilio22. Si trattò di un momento decisivo anche per le dinamiche interne all’episcopato italiano, che si trovò assolutamente disorientato di fronte alla decisione di Giovanni XXIII. Alla fine la maggior parte dei vescovi assecondò la volontà del pontefice, secondo una prassi per loro abituale, a cui ricorrevano sempre nel dubbio23. La decisione di Giovanni XXIII rappresentava qualcosa di inusitato perché smentiva clamorosamente la tendenza conservatrice e spiazzava la linea conciliare assunta dalla direzione della Cei. Contrariamente al passato la fedeltà al pontefice costringeva ora i vescovi a una scelta difficile e poneva i presupposti per una qualche divisione tra di loro.

Nella discussione dello schema sulla Chiesa gli italiani intervennero ancora in gran parte a difesa dello schema preparatorio, che proponeva un’ecclesiologia tradizionale basata su un rigido principio gerarchico che faceva capo al primato e all’infallibilità del pontefice. Tuttavia in questa discussione parlarono con autorevolezza anche il cardinale Montini e il cardinale Lercaro, che si espressero per un sostanziale rifacimento dello schema a partire da principi del tutto diversi proponendo di incentrarlo rispettivamente sull’aspetto mistico della Chiesa e sul mistero della povertà presente in essa. Questi due interventi misero in luce come all’interno dell’episcopato italiano fossero presenti posizioni diverse da quelle accreditate dalla direzione della Cei e che godevano di notevole ascolto in concilio. Il cardinale Montini era membro, insieme a Siri e Confalonieri, del ristretto Segretariato per gli affari straordinari che durante tutto il primo periodo fu il vero organo direzionale. Lercaro da parte sua aveva giocato un ruolo importante nella commissione liturgica ed era entrato a far parte del gruppo informale della ‘chiesa dei poveri’, che raccoglieva molti vescovi soprattutto dei paesi del terzo mondo, facendosene espressione con il suo intervento24. Di lì a qualche mese l’autorevolezza di Montini fu evidentemente confermata quando alla morte di Giovanni XXIII il collegio cardinalizio lo chiamò sulla cattedra di s. Pietro. Poco dopo egli nominò il cardinale Lercaro tra i quattro ‘moderatori’ che avrebbero dovuto guidare il concilio alla sua ripresa.

Un elemento importante nel creare tra i vescovi italiani una diversa consapevolezza del loro ruolo e una maggiore apertura nel loro orizzonte culturale furono i contatti che poterono stringere già durante il primo periodo con gli altri episcopati. La stessa Cei nel gennaio 1963 avviò un vasto programma di contatti designando due o tre vescovi come collegamento con ogni conferenza episcopale25. Vescovi italiani partecipavano inoltre al gruppo coordinato da monsignor Roger Etchegaray tra i rappresentanti delle varie conferenze episcopali. Contatti e collegamenti venivano però attivati anche individualmente e marcavano allora le diverse tendenze e strategie dei vescovi italiani: Siri cercò sin dall’inizio di stringere contatti e alleanze con vescovi americani o spagnoli per arginare insieme ogni spirito innovatore; monsignor Carli divenne presto uno degli esponenti di spicco del Coetus internationalis patrum, che raccoglieva i vescovi più conservatori; il cardinale Lercaro era legato invece al gruppo della ‘chiesa dei poveri’. C’erano poi contatti ancora più informali ma altrettanto importanti, come quelli attivati dai monaci di Taizé, o che nascevano da occasioni particolari, come fu per monsignor Parodi un pellegrinaggio a Lourdes26. In ogni caso anche agli occhi degli episcopati stranieri dopo il primo periodo conciliare cominciavano a emergere distinzioni significative nelle posizioni degli italiani. È vero che in alcune commissioni, come in quelle per la dottrina, per i vescovi, per i religiosi, per le missioni, gli italiani continuavano ad avere un ruolo attivo di conservazione, difendendo a ogni costo gli schemi della fase preparatoria27; ma in altre, come in quella per la liturgia o anche in quella per l’apostolato dei laici, ebbero un ruolo dinamico importante.

Alla ripresa del settembre 1963 il ruolo degli italiani si trovò rafforzato non solo per la presenza di Urbani e Confalonieri nella commissione di coordinamento, ma soprattutto per la nomina di Lercaro tra i moderatori. Convinto che l’episcopato italiano avesse bisogno di una spinta rinnovatrice e aspettandosi da esso una partecipazione più attiva, Paolo VI inviò una lettera al presidente Siri, in occasione della riunione straordinaria della Cei di fine agosto, indicando le linee di azione da seguire28. La direzione della Cei non sembrò tuttavia capace di significativi ripensamenti e durante il secondo periodo del concilio continuò a manovrare i vescovi italiani a sostegno delle posizioni più conservatrici, contro le nuove redazioni degli schemi «pervasi e contaminati di “nuova teologia”»29.

Gli interventi degli italiani dettero ancora l’immagine di un corpo sostanzialmente omogeneo. Le posizioni di chiusura emersero soprattutto in relazione allo schema sulla Chiesa, in particolare sul tema della collegialità, rispetto al quale si faceva più urgente il compito di difendere il primato del pontefice per il timore che venisse rimessa in discussione la dottrina del Vaticano I. In favore della collegialità si espresse solo il neoconsacrato monsignor Bettazzi e non a caso il suo intervento provocò molte polemiche tra i confratelli30. Erano temi teologici inconsueti per i vescovi italiani, più abituati a confrontarsi con la situazione politica del paese che con tali argomenti. L’ecclesiologia prevalente era di tipo clericale e gerarchico, come mostravano le numerose obiezioni al ripristino del diaconato permanente, i timori di fronte al concetto di «popolo di Dio», le precisazioni circa il ruolo dei laici nella Chiesa, la richiesta insistente di sottolineare la santità come nota più luminosa della Chiesa cattolica. Però queste posizioni conservatrici non trovavano più un consenso così ampio tra gli altri italiani. Nella zona grigia di chi non trovò modo di esprimersi pubblicamente, fermentava ormai una qualche dialettica e si cominciavano a sentire più frequenti delle voci diverse.

Il momento culminante del secondo periodo, decisivo per stabilire la direzione in cui si sarebbe mosso il concilio, fu la votazione del 30 ottobre 1963 su cinque punti ecclesiologici qualificanti, fortemente voluta dai moderatori. Essa ebbe un effetto assai rilevante anche sui vescovi italiani, perché molti di loro votarono in favore della collegialità e dell’origine sacramentale dei poteri episcopali, allineandosi con quello che oramai si andava evidenziando come l’indirizzo della maggioranza conciliare. In questo modo però andarono contro le intenzioni della direzione della Cei, che si trovò isolata con la minoranza. Si realizzò così un progressivo distacco, all’interno della Conferenza, di quei vescovi che non erano più disposti a sostenere a oltranza le posizioni minoritarie. Non si deve del resto sopravvalutare il senso di questo passaggio, perché quei vescovi che votarono a favore della collegialità rimasero comunque su posizioni moderate e accettarono gli altri schemi nella convinzione che fossero il migliore risultato ottenibile.

Da parte loro,Siri, Ruffini, Carli e gli altri vescovi più conservatori della Cei, trovandosi isolati, finirono per radicalizzare le loro posizioni e per stringere contatti sempre più intensi con gli altri ambienti conservatori del concilio, divenendone punti di riferimento significativi. Nella discussione dello schema sul ministero episcopale, essi tornarono a contestare il carattere definitivo della votazione del 30 ottobre e criticarono gli istituti in cui la collegialità doveva esprimersi. In quella sull’ecumenismo, criticarono aspramente lo schema che a loro avviso non garantiva la tenuta della dottrina sul primato del pontefice metteva in gioco l’integrità della fede nel confronto con le altre confessioni31.

Che tra i vescovi italiani ci fossero ormai posizioni diversificate fu confermato dall’assemblea plenaria svoltasi a Roma nell’aprile 1964, la prima riunita al di fuori del contesto propriamente conciliare32. In quell’occasione Paolo VI attribuì grande credito alla Cei di cui – disse – l’episcopato italiano non avrebbe più potuto fare a meno, ma esortò anche i vescovi a un maggiore impegno: non si poteva continuare ad aspettare che i problemi venissero «risolti da quel vecchio medico che in altre circostanze [era stato] il tempo». Le parole del pontefice si scontravano con la realtà di un’organizzazione ancora impastoiata in preoccupazioni politiche, in timori dottrinali e prudenze pastorali. Eppure proprio quell’incontro, convocato per discutere dell’applicazione dei documenti conciliari, mostrò qualcosa di nuovo. Padre Balducci, raccogliendo una testimonianza di monsignor Bartoletti, annotava nel suo diario come il discorso del papa avesse avuto il suo effetto e come dietro la facciata conservatrice l’assemblea si fosse mostrata «ormai scissa e dominata da un timore reverenziale che appariva non appena prendevano la parola vescovi come Guano, Costa e lui stesso [Bartoletti]». Quando Ruffini presentò una bozza del documento finale redatta nei termini del tradizionale anticomunismo, suscitò la viva reazione di molti vescovi, a cominciare da quella del cardinale Urbani33.

Qualcosa cominciava dunque a muoversi: «fu una assemblea più libera e più mossa del solito», annotava monsignor Parodi nel suo diario; e anche Congar, dal suo punto di vista, osservava sulla base di quanto era venuto a sapere: «on sort lentement du tunnel»34. Da tutt’altra prospettiva all’inizio del terzo periodo conciliare il cardinale Siri osservava con preoccupazione il crescere delle divisioni: «l’episcopato italiano non è unito come lo scorso anno: alcuni sono entrati nei punti di vista dei transalpini e non ne fanno mistero». Tormentato da crisi di labirintite e da altri disturbi di origine nervosa, Siri visse sempre più marginalmente le vicende conciliari, ma non mancò di registrare con toni apocalittici ciò che andava accadendo. Il caso più clamoroso fu quello di monsignor Parente, che da accanito oppositore della collegialità, se ne mostrava ora convinto assertore, suscitando il rammarico di Siri che osservava come «molti ne sono veramente stupiti, persino sgomenti»35.

Gli spostamenti che ci furono riguardarono una parte poco visibile di vescovi, che non ebbero modo o non vollero esprimersi pubblicamente. Di fatto anche durante il terzo periodo conciliare, nell’autunno 1964, gli interventi degli italiani furono caratterizzati da una prevalenza delle posizioni conservatrici. Nella discussione sugli ultimi capitoli del De Ecclesia, gli italiani si caratterizzarono per l’insistente richiesta di menzionare il purgatorio e l’inferno, e per quella di definire solennemente la Madonna «madre della chiesa» e «corendentrice». A proposito dello schema sui vescovi, monsignor Carli tornò sulla questione dell’origine dei poteri episcopali per lanciare un nuovo duro attacco alla dottrina della collegialità. Nella discussione sulla libertà religiosa pressoché unanimi furono le posizioni critiche degli italiani, preoccupati che venissero salvaguardati i diritti propri della verità, che non si rinunciasse assolutamente ai diritti di cui la Chiesa godeva in alcuni Stati, che si fuggisse qualsiasi impressione di irenismo o di indifferentismo. Solo monsignor Giovanni Colombo, vescovo di Milano, pronunciò un intervento assai autorevole e in controtendenza rispetto agli italiani36.

Dietro l’atteggiamento chiuso di questi interventi si riconosceva la forte connotazione della fede come contenuto dottrinale, come deposito di verità rivelata. Questo carattere emerse in modo chiaro nella discussione dello schema sulla rivelazione, in particolare riguardo al valore storico dei testi sacri, alla dottrina dell’inerranza della scrittura, ai rischi presenti nelle più recenti correnti esegetiche. Gli interventi sui seminari si caratterizzarono invece per una ferma difesa del tomismo come dottrina filosofica ufficiale della chiesa, dalla quale non si doveva deviare. Ma preoccupazioni analoghe si riconoscevano anche nella discussione dello schema sulla Chiesa nel mondo moderno, in particolare riguardo al cosiddetto dialogo, di cui molti sottolinearono i pericoli e i rischi e che comunque – si sosteneva – doveva partire da una chiara affermazione delle verità soprannaturali, evitando qualsiasi cedimento alle nuove dottrine. Il mondo moderno appariva gravido di pericoli, caratterizzato da diffuse tendenze ateistiche e dal tecnicismo materialista, pervaso dalle nuove dottrine evoluzionistiche che si affacciavano pericolosamente anche nella teologia cattolica. In questo panorama, spiccavano ancora alcuni interventi che si schieravano apertamente con la maggioranza conciliare, quelli del cardinale Lercaro, di monsignor Guano, di monsignor Baldassarri, di monsignor Quadri. Ma significativo fu in questa sessione conciliare anche il numero di coloro che, senza schierarsi in modo deciso sui temi più dibattuti, proponevano un atteggiamento più positivo sui concreti problemi della vita pastorale, avanzando proposte precise su temi quali l’apostolato dei laici, il clero, i religiosi, le missioni, l’educazione37.

Non sempre è facile comprendere gli sviluppi che maturavano all’interno dell’episcopato italiano nel contesto di sostanziale continuità con cui la Cei interpretava il suo ruolo all’interno del paese. Le novità conciliari cominciarono a farsi concrete quando la domenica 7 marzo 1965 venne introdotta anche in Italia la lingua vernacolare nella liturgia della messa. Una relazione che monsignor Manziana tenne all’assemblea della Cei qualche mese dopo metteva in luce i significati positivi e il favore con cui l’innovazione era stata accolta un po’ in tutto il paese, ma non tralasciava di notare anche i punti di resistenza e le difficoltà che aveva incontrato. Differenze di vedute che riguardavano anche altri aspetti del rinnovamento voluto dal concilio, come l’introduzione dell’uso del clergyman, che rappresentò una innovazione di profondo significato psicologico38.

Le resistenze che incontrarono questi provvedimenti facevano capire come sarebbe stata difficile la strada del rinnovamento ecclesiale dopo il concilio. Il quarto periodo cominciò nel settembre 1965 con qualche stanchezza e delusione da parte della maggioranza. Anche Lercaro vedeva ormai concluse le battaglie decisive e minori possibilità innovative negli schemi rimasti da discutere. Da parte dei vescovi italiani prevalsero ancora gli interventi del gruppo dei più conservatori. Per quanto riguarda la libertà religiosa, essi riproposero gli argomenti consueti, criticando lo schema perché trascurava i diritti propri del cristianesimo in quanto religione vera39. Riguardo allo schema sulla Chiesa nel mondo, criticarono il giudizio troppo positivo nei confronti del mondo moderno e il poco rilievo dato agli aspetti negativi, alle colpe e ai peccati che vi si diffondevano, contro i quali la Chiesa avrebbe dovuto pronunciare giudizi chiari e severi. Numerose furono per esempio le richieste di una più chiara condanna dell’ateismo marxista, secondo una prospettiva perfettamente in linea con le posizioni e i pronunciamenti caratteristici degli anni precedenti. Ma furono significativi anche interventi che andavano in direzione diversa. Sul tema assai delicato del matrimonio si confrontarono due autorevoli cardinali, da una parte il cardinale Ruffini, che chiese di non distaccarsi dalla dottrina tradizionale sui fini del matrimonio per non dare adito a interpretazioni lassiste, dall’altra il cardinale Colombo, a nome di altri 32 vescovi italiani, favorevole alla rivalutazione dell’amore tra i fini del matrimonio e a una considerazione più ampia della moralità degli atti coniugali, fermo restando il principio della loro necessaria integrità fisica. Molto seguìto fu l’intervento di monsignor Pellegrino, nuovo vescovo di Torino, sul tema della cultura, assai polemico verso ogni forma di restrizione della ricerca teologica o storica all’interno della Chiesa. Sempre sulla cultura intervenne anche monsignor Bettazzi, che risollevò la questione del tomismo mettendo in guardia dal pericolo che esso si riducesse a una forma acritica e dottrinaria di pensiero, contraria a ogni innovazione. Riguardo alla spinosa questione della guerra intervenne dapprima il cardinale Ottaviani, assai applaudito quando affermò il dovere di condannare in modo assoluto la guerra, anche se poi la sua posizione si rivelò più sfumata parlando del diritto di legittima difesa. Monsignor Carli invece parlò criticamente del principio dell’obiezione di coscienza, tema assai vivo nell’opinione pubblica italiana, dopo i processi a padre Balducci e a don Milani che avevano difeso pubblicamente gli obiettori40.

Nelle ultime battute del concilio si fece più tenace la resistenza dei padri della minoranza contro quegli schemi che ritenevano in più punti essere contrari alla dottrina tradizionale. Monsignor Carli si impegnò sino alla fine per ottenere il rifiuto dello schema sulla libertà religiosa o quello sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Ma nelle votazioni finali anche questi schemi vennero approvati da una larga maggioranza e anche tra gli italiani i voti contrari furono assai pochi.

Negli ultimi giorni del concilio, prima che ritornassero alle loro diocesi, Paolo VI volle ricevere in udienza i vescovi italiani esortandoli a una fervida e convinta azione per l’applicazione del concilio. Rispetto a quattro anni prima essi erano certamente uniti da una maggiore coscienza del loro ruolo comune, maturata nel confronto con gli altri episcopati, nelle discussioni comuni, nel lavoro portato avanti insieme. Avevano imparato a conoscersi meglio tra di loro, a considerarsi di fronte agli altri come un corpo che aveva una sua consistenza e una sua fisionomia. Del resto era stato lo stesso concilio a stimolare e a dare consistenza giudirica alle conferenze episcopali. Avevano imparato anche a discutere, a scambiarsi opinioni, sicché era mutato il rapporto con la Santa Sede, non più improntato alla passività e alla semplice esecuzione della volontà superiore, sebbene il controllo romano pesasse ancora molto.

Non si può dire tuttavia che essi rappresentassero un corpo omogeneo, visto l’emergere di tante divergenze. Il fenomeno più rilevante era stato il progressivo spostarsi dei vescovi verso le posizioni della maggioranza, dovuto in una qualche misura a uno spontaneo adeguarsi alla linea vincente e alla volontà del pontefice, ma realizzatosi anche con un progressivo convincimento personale. Si cominciava a vedere nel rinnovamento conciliare possibilità pastorali prima percepite in modo confuso e recondito e si trovava nell’incontro con gli altri vescovi fiducia e forza per crederci. Erano emersi nuovi protagonisti, vescovi spesso più giovani che si confrontavano senza timore con i cardinali più autorevoli. Si erano fatte più profonde le tensioni che percorrevano l’episcopato. Nel divaricarsi degli schieramenti le posizioni di minoranza avevano finito per restare più isolate in concilio, ma la situazione non sarebbe stata necessariamente la stessa una volta tornati ciascuno nella propria diocesi. E d’altra parte anche tra i vescovi che si erano allineati alla maggioranza non mancavano dubbi nei confronti di aperture che apparivano audaci e si faceva inevitabilmente sentire la tendenza alle vecchie abitudini e alle vecchie certezze. Per tutti il concilio aveva rappresentato un’esperienza importante, erano pochi quelli che apertamente ne deploravano gli esiti, ma nel concreto compito di attuarne la lettera e lo spirito tutto rientrava nuovamente in gioco.

Il concilio in Italia

Il concilio coincise con un momento di particolare sviluppo sociale e culturale del paese e i cambiamenti che esso indusse nella vita della Chiesa ebbero ripercussioni complesse nei suoi rapporti con la società e con lo Stato. Qui si possono richiamare solo in termini assai schematici alcuni elementi e proporre alcune riflessioni riguardo al suo impatto nella vita del paese e al rinnovamento che portò nella Chiesa. Le prime applicazioni delle riforme conciliari provocarono una sorta di trauma che si prolungò sino alla metà degli anni Settanta. Solo successivamente il processo di recezione ha assunto connotati di maggiore stabilità, sebbene siano continuate tensioni rilevanti nella base ecclesiale. Un momento di verifica importante delle linee di recezione del concilio è stato il sinodo straordinario dei vescovi del 1985, che a distanza di due decenni dalla conclusione ha inteso celebrarne l’evento, facendo un bilancio di quanto era stato fatto negli anni precedenti e proponendo una precisa rilettura dei documenti conciliari41.

Con il concilio si aprì infatti un periodo di grande fermento, ma anche di forti tensioni all’interno della Chiesa, nonostante ne fosse uscita con un’immagine rinnovata e con un credito del tutto nuovo. Lo stile pastorale proposto da Giovanni XXIII aveva già innescato una nuova attenzione nei suoi riguardi. In confronto alla figura ieratica di Pio XII, egli aveva interpretato il suo ruolo secondo un’umanità inedita. Fu significativo l’editoriale che su «Rinascita» Palmiro Togliatti, alla morte di Giovanni XXIII, dedicò alle qualità storicamente nuove del suo pontificato42. Ancor più significativa fu la dedica che nel 1964 Pier Paolo Pasolini fece del suo film Vangelo secondo Matteo «alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII» e il fatto che all’uscita della pellicola venisse organizzata, con successo nonostante tutte le difficoltà, una speciale proiezione per i padri conciliari.

Ben presto ci si accorse che alcune affermazioni sancite dal concilio mettevano in discussione le stesse forme di presenza dei cattolici nella politica e incidevano sul legame tra cattolici e Dc. Il concilio aveva parlato di autonomia del laicato, aveva ammesso una certa pluralità delle scelte politiche, aveva proposto l’idea di una Chiesa povera, aveva affermato il diritto alla libertà religiosa: tutti temi che sembravano rimettere in discussione gli obiettivi e i modi caratteristici dell’impegno politico dei cattolici italiani negli anni precedenti. Non erano più solo le critiche ecclesiastiche verso il centro-sinistra a impensierire i vertici della Dc, ma il pericolo più profondo di uno scollamento della base, dovuto alla messa in discussione del principio dell’unità politica dei cattolici e all’affermazione che la Chiesa non dovesse occuparsi di cose temporali. Gli sviluppi all’interno dell’associazionismo cattolico mettevano chiaramente in luce il venir meno di quel collateralismo su cui il partito dei cattolici sino ad allora aveva ampiamente contato. L’Ac, rinnovata dallo stesso Paolo VI, assunse con il nuovo statuto del 1969 un volto decisamente improntato a quella «scelta religiosa» che ne fissava lo scopo nella sola collaborazione all’azione pastorale dei vescovi. Era l’esito di un faticoso ripensamento sulla natura dell’associazione, che sottraeva però il suo tradizionale supporto politico alla Dc. Nella Fuci questo ripensamento aveva condotto a esiti ancora più espliciti: nel congresso di Verona dell’agosto 1969, in un documento fortemente ispirato dalla lettura dei testi conciliari, la federazione si pronunciò per il superamento dell’ideologia della dottrina sociale e contro ogni «integralismo», chiedendo la fine del regime concordatario e il riconoscimento della pluralità di scelte politiche per i cristiani. E ancora più radicale fu il percorso delle Acli, che, a partire dalla ricerca di una maggiore partecipazione democratica dei lavoratori alla vita del paese, affermarono la legittimità di una scelta politica di sinistra, giungendo, anch’esse nel 1969, con il congresso di Torino, alla cosiddetta «scelta socialista».

La fine del collateralismo che si andò profilando e concretizzando nei primi anni del post-concilio sembrava segnare la fine di un’intera stagione politica. Era un pericolo ben chiaro agli esponenti del partito cattolico, che tuttavia, impastoiati nelle tensioni correntizie interne, non riuscirono a confrontarsi positivamente con la nuova situazione. Anche il convegno di Lucca del 1967, convocato dietro l’appello di alcuni intellettuali più o meno vicini al partito, e che rappresentò lo sforzo più significativo di riflettere sul concilio, portò a scarsi risultati. I dirigenti rivendicarono una coerenza ideale nella linea politica, si riallacciarono a una lontana eredità sturziana per sottolineare la dimensione di laicità e autonomia del partito, reclamarono il valore del loro impegno per la tenuta democratica del paese, ma in realtà non ci fu alcun ripensamento critico sulla natura della Dc e la sua politica non subì particolari contraccolpi43. Lo scollamento della base cattolica dal partito sembrò proseguire in misura preoccupante sino alla metà degli anni Settanta e l’esito negativo del referendum sul divorzio nel 1974 fu da più parti interpretato anche come conseguenza di tale processo.

Sul versante delle forze di opposizione, e in particolare del Pci, le ripercussioni del pontificato giovanneo e del concilio si poterono registrare nella nuova attenzione attribuita ai fermenti di rinnovamento che agitavano il mondo cattolico. Sia «L’Unità» che «Rinascita» avevano dedicato ampio spazio al concilio già durante il suo svolgimento44. Qualcosa stava cambiando nella Chiesa e una forza politica come ilPci non poteva disinteressarsene. Il volume curato da Mario Gozzini Il dialogo alla prova, era solo l’epifenomeno di un fervore di iniziative e di incontri che, stimolati dal clima conciliare, spingevano direttamente e in termini inediti il Pci al confronto con il mondo cattolico. In questa attenzione non mancavano certo motivi strumentali, considerate le chiusure culturali che ancora ne limitavano le strategie e i legami ancora forti con il partito sovietico. Tuttavia all’interno del Pci qualcosa si stava lentamente muovendo grazie anche al concilio che aveva reso possibili aperture significative, capaci di sviluppi importanti. A Bologna l’incontro tra il sindaco Giuseppe Dozza e il cardinale Lercaro al suo ritorno dal concilio inaugurò un nuovo clima, ricco di inedite prospettive politiche45.

All’interno della Chiesa, se da un lato il concilio aveva prodotto una consapevolezza unitaria dell’episcopato italiano, dall’altro finì per generare tensioni e divisioni profonde. Che il processo di recezione avrebbe potuto comportare rischi consistenti per l’unità ecclesiale era ben presente a Paolo VI che, soprattutto in Italia, intendeva guidarlo da vicino. Un ruolo primario, secondo il pontefice, sarebbe spettato alla Cei, ma essa era un organismo ancora troppo fragile e nei primi anni del post-concilio non riuscì a svolgere una funzione né organica né incisiva. La Cei era stata infatti sostanzialmente rinnovata tra la fine del 1965 e l’inizio del 1966 con l’approvazione del nuovo statuto e con le nomine del cardinale Urbani alla presidenza e di monsignor Pangrazio alla segreteria. Il suo nuovo volto dipendeva anche da un sensibile passaggio generazionale, dovuto alla norma conciliare sulla rinuncia dei vescovi a 75 anni e alle nomine episcopali di Paolo VI. Ma nonostante queste novità essa non riuscì a esprimere significativi progetti di rinnovamento. I suoi primi anni di attività furono impegnati nello sforzo per darsi un’efficace organizzazione di lavoro e nel coadiuvare i singoli vescovi. Vennero affrontati di volta in volta i temi pastorali che apparivano più urgenti, quelli del clero, del laicato, della cultura teologica, del rinnovamento della catechesi. Mancò tuttavia la capacità di programmare e di dettare linee pastorali per tutto il territorio. Secondo una vecchia abitudine i temi politici tornarono a occupare una parte consistente dell’ordine del giorno di assemblea e consiglio di presidenza46.

L’applicazione delle nuove norme procedette in tempi abbastanza brevi in ambito liturgico, con l’introduzione dell’italiano nella celebrazione della messa e con la nuova disposizione degli altari verso i fedeli. Abbastanza presto cominciarono a diffondersi traduzioni italiane del messale e dei vangeli. Si cercò poi, almeno in qualche diocesi, di ottemperare alle disposizioni conciliari riguardo alla costituzione di consigli pastorali e presbiterali in diocesi e parrocchie. Ma al di là di queste e di altre norme propriamente applicative il processo di recezione assunse in quegli anni caratteri di spontaneità che finirono per mettere in difficoltà gli stessi vescovi. I temi del rinnovamento conciliare infatti passavano anche attraverso un’opinione pubblica che si era fatta assai attenta e vivace. Il fermento delle idee era misurabile nella diffusione di alcune riviste italiane e internazionali, come «Testimonianze», «Il Gallo», «Questitalia», «Concilium», e nel successo di case editrici come Queriniana, Morcelliana, Paideia, che resero disponibili al pubblico italiano le opere dei teologi d’Oltralpe, considerati sino a qualche anno prima troppo pericolosi. In molti casi furono comunque le stesse norme applicative a innescare sviluppi inaspettati. Le innovazioni liturgiche suscitarono una forte presa di coscienza in una parte dei fedeli della dimensione comunitaria della Chiesa, inducendo cambiamenti consistenti nelle loro abitudini religiose e nella loro vita spirituale. I primi esperimenti di lettura comunitaria del vangelo aprirono spazi inediti di confronto e di riflessione sull’esperienza di fede, permettendo un approccio diverso ai suoi contenuti, meno dottrinale e più esperienziale. In qualche caso l’istituzione dei consigli pastorali e presbiterali provocò un coinvolgimento diretto dei fedeli nell’amministrazione delle parrocchie. La scoperta di alcuni temi propriamente conciliari, come quelli della Chiesa popolo di Dio, della comunità locale, della liturgia come nucleo originario dell’esperienza di fede, non significò solo il superamento della tradizionale immagine della Chiesa, ma permise anche di dare maggiore autenticità alle esperienze comunitarie di base, coinvolgendo non solo il tessuto parrocchiale, ma anche quello associativo, mettendo in gioco le vecchie formule e imponendo nuovi atteggiamenti. La diffusione dei cosiddetti «gruppi spontanei» tra il 1967 e il 1968, nelle parrocchie, nei quartieri, nelle scuole, come forme aggregative del tutto alternative a quelle tradizionali rappresentò il segno più evidente che soprattutto i giovani cercavano qualcosa di nuovo. Nei seminari e tra il clero, con il progressivo penetrare dei temi conciliari, si estese la richiesta di dare più spazio alla ricerca, si diffusero forme sperimentali di vita comunitaria che mettevano in discussione il tradizionale modello di sacerdote, ridefinendo in termini nuovi il rapporto tra la funzione sacrale e quella missionaria.

Il rinnovamento non poteva realizzarsi senza provocare vistosi contraccolpi e situazioni di crisi dai contorni inquietanti, di cui molti addossarono le responsabilità direttamente al concilio. Il dato percepito con più evidenza fu la crisi del clero, davvero drammatica in tutta Italia. Si registrarono un autentico tracollo delle presenze nei seminari e un aumento impressionante delle richieste di dispensa dal celibato e riduzione allo stato laicale. All’origine della crisi non furono solo i problemi relativi al celibato, ma la messa in discussione della stessa figura del sacerdote: quella separatezza sacrale che prima era considerata un valore e che attribuiva al prete un preciso ruolo nella società appariva ora del tutto svalutata e criticata47. Ancora più sconcertante fu la crisi dell’associazionismo cattolico: gli iscritti all’Ac che nel 1962 superavano i 3,5 milioni si ridussero nel 1974 a circa 600 mila. Furono soprattutto i giovani a non riconoscersi più nelle vecchie formule, tanto meno in quelle che erano state un supporto politico al partito cattolico. Il rinnovamento portato avanti dalla presidenza Bachelet provocò forti crisi d’identità innescando un conflitto che rivelò abbastanza presto i caratteri di una frattura generazionale, soprattutto a livello locale, dove spesso le vecchie dirigenze, ancora legate al modello tradizionale, subirono la dura contestazione dei più giovani, mal digerendo le innovazioni che venivano dalla direzione nazionale.

L’aspetto più esplicito della crisi fu tuttavia l’emergere di un fenomeno contestativo che anche in Italia fu elemento importante della prima recezione conciliare. Esso si espresse in forme e contenuti diversi, ma nello scontro con l’autorità ecclesiastica finì per apparire un fenomeno unitario e per assumere un significato di netta divisione all’interno della Chiesa. In molti casi la contestazione nasceva spontanea nella base ecclesiale non appena i laici prendevano la parola e discutevano in termini nuovi il contenuto della loro fede. In altri casi si legava a esperienze più mature e a personaggi che avevano già assunto posizioni critiche prima del concilio. Nascevano vere e proprie «comunità di base», a Firenze con le iniziative di don Mazzi all’Isolotto e di don Rosadoni nella parrocchia della Resurrezione, a Genova con la comunità dell’Oregina, a Torino con quella del Vandalino, a Roma con quella di S. Paolo, ma anche in centri più piccoli come a Lavello e a Conversano.

Un’oggettiva carica contestativa assunsero episodi chiave come l’occupazione dell’Università Cattolica di Milano nel novembre 1967, o il «controquaresimale» proposto nel marzo successivo nella cattedrale di Trento, o ancor più l’occupazione del duomo di Parma in settembre. Erano episodi ed esperienze che pur nati in ambito ecclesiale finivano per saldarsi all’onda contestativa e alla protesta del movimento studentesco che aveva preso le mosse in Italia nello stesso periodo. Nella connessione tra contestazione studentesca e dissenso ecclesiale ebbe un ruolo evidente il fattore generazionale. Allo stesso modo del movimento studentesco, anche la contestazione ecclesiale assumeva come principale obiettivo polemico la dimensione istituzionale della Chiesa, la sua struttura giuridica, l’organizzazione gerarchica, in quanto espressione di un potere che frenava l’originaria spontaneità dell’esperienza religiosa. Le spinte più radicali provenienti dal movimento studentesco si trasmisero in qualche caso anche ai gruppi ecclesiali, spingendoli a sposare l’ideologia marxista e a abbracciare soluzioni rivoluzionarie.

Tali esperienze, percepite da alcuni come fermenti di rinnovamento e da altri come sintomi di crisi, erano comunque causa di crescente tensione e divisione all’interno della Chiesa italiana. Accanto ai contrasti tra una certa base ecclesiale e una gerarchia che reagiva di volta in volta cercando il dialogo o con rigide chiusure, si manifestarono tensioni più o meno esplicite anche tra gli stessi fedeli, tra i promotori del rinnovamento e coloro che invece volevano restare legati alle proprie abitudini religiose e alla spiritualità tradizionale. Si tratta di un elemento importante per interpretare in modo corretto gli sviluppi della recezione conciliare. Il consenso al rinnovamento si scontrava spesso, sebbene in forma implicita, con le incomprensioni e le resistenze di chi si vedeva sottratte forme di spiritualità che rispondevano a profondi bisogni religiosi, considerati con troppa superficialità residui di un passato da cancellare.

Il disagio provocato dalle riforme e dagli esiti che si vedevano realizzarsi in certe esperienze di contestazione era nascosto ma piuttosto diffuso, anche se non ci furono in Italia esempi clamorosi di movimenti esplicitamente contrari al concilio. La nascita diCl (Comunione e liberazione) a Milano per opera di don Giussani come evoluzione dalle posizioni di «Gioventù studentesca», indicava la forza che potevano avere idee alternative a quelle che avevano segnato dopo il concilio lo sviluppo dell’associazionismo tradizionale o dei gruppi spontanei. Cl sosteneva la necessità di una riscoperta dello spirito cristiano da proporre con forza come la vera ed esclusiva risposta alle distorsioni della società moderna. Mentre l’Ac sotto la guida di Bachelet percorreva la strada tormentata della scelta religiosa,Cl affermava invece la necessità di rafforzare la presenza cristiana nella società anche attraverso una lotta politica contro le forze che la contrastavano, fossero esse di natura capitalistica o comunista. A essere messi in discussione erano il significato e le modalità della presenza dei cattolici nella società48. Tra i vescovi stessi permanevano dubbi e incertezze e molti di loro guardavano con sgomento la deriva che certi gruppi avevano ormai imboccato, la radicalità delle loro posizioni, le divisioni che si erano create nel tessuto ecclesiale. Nessuno era disposto in questa fase ad andare contro il concilio, ma nessuno era sicuro della strada da intraprendere.

Con l’inizio degli anni Settanta si realizzarono condizioni nuove nella Chiesa italiana tanto da poter parlare di una nuova fase nella recezione conciliare, in cui la Cei cominciò a giocare un ruolo decisamente più rilevante. Non fu tanto la nuova presidenza del cardinale Poma a dare dinamicità alla sua azione, quanto la raggiunta efficienza di organizzazione e di lavoro. Nel 1970 venne pubblicato il «documento base» per la catechesi, coronamento di un’impegnativa opera di studio, che doveva servire all’elaborazione dei nuovi catechismi per i fedeli. L’anno successivo venne costituito all’interno della Cei l’ufficio Caritas, che ereditava le attività della Pontificia opera assistenza, rinnovandone però profondamente l’impostazione. Ancora nel 1971 venne pubblicato il documento Vivere la fede oggi, preparato dalla Commissione dottrinale della Cei, sotto la guida di monsignor Carlo Colombo e con la collaborazione del vescovo di Lucca monsignor Enrico Bartoletti. A differenza dei documenti precedenti esso non aveva solo un intento dichiarativo, ma si proponeva come documento programmatico, delineando linee di azione pastorale che dovevano coinvolgere la Chiesa italiana in quanto tale49.

Sollecitata dall’azione della Cei, dal procedere delle traduzioni dei libri liturgici e sacramentali, dall’elaborazione dei nuovi catechismi, stimolata dai programmi formativi dell’Ac, dalla diffusione di nuove riviste, la recezione del concilio conobbe negli anni Settanta una fase particolarmente incisiva nel tessuto parrocchiale e associativo. I temi e le pratiche inaugurate con il concilio cominciavano ormai a rappresentare la base di nuove abitudini che si stavano costruendo tra i fedeli e che davano il senso di una nuova religiosità, intorno alla quale si poteva percepire ormai un consenso diffuso. Questo processo più profondo di recezione si realizzava però mentre forti tensioni continuavano ad agitare la Chiesa. Se da un lato continuò a soffiare impetuoso, almeno per alcuni anni, il vento della contestazione, dall’altro cominciarono a farsi più evidenti le differenze all’interno stesso dell’episcopato circa le linee pastorali più opportune. All’inizio degli anni Settanta nessuno più dubitava del carattere secolarizzato della società italiana. Ma di fronte agli scenari aperti da questa prospettiva la Cei e i vescovi italiani proposero diversi tipi di risposte, tra loro divergenti, che corrispondevano all’incertezza con cui essi guardavano a questa nuova stagione. Da un lato essi tentarono di difendere per quanto possibile il carattere cattolico del paese e, individuando nell’introduzione della legge sul divorzio il punto critico del nuovo corso politico, chiamarono i fedeli a una decisa lotta per la salvaguardia del valore cristiano della famiglia. La campagna sul divorzio fu una battaglia di forte sapore ideologico che per tanti aspetti richiamava, sia nel contenuto che nella forma, i toni e i modi dell’azione politica della Cei degli anni Cinquanta. Non a caso essa incontrò una vivace opposizione da parte dei gruppi del dissenso e di alcuni settori del cattolicesimo democratico, che si richiamarono agli insegnamenti del concilio per rivendicare l’autonomia della politica e il valore della laicità dello Stato. L’esito referendario fu per molti un’ennesima conferma non solo della natura secolarizzata della società italiana, ma anche delle profonde spaccature che dividevano la Chiesa.

Dall’altro lato, sulla scorta del documento Vivere la fede oggi, i vescovi intrapresero la strada più lenta, che intendeva rispondere alla secolarizzazione attraverso un rinnovato sforzo di evangelizzazione e un vasto programma di rieducazione catechetica secondo i nuovi contenuti conciliari. Nel 1971 Bartoletti venne nominato segretario della Cei e la sua segreteria segnò profondamente questa stagione di attività sino al convegno romano su «Evangelizzazione e promozione umana» del 1976. Tenendo conto anche delle suggestioni che provenivano dall’America latina, avallate in parte da alcuni documenti del magistero, anche in Italia il tema dell’evangelizzazione venne a coniugarsi con quello della giustizia sociale, quale premessa necessaria di ogni annuncio evangelico.

Il processo di recezione del concilio nel corso degli anni Settanta e nella prima metà del decennio successivo deve essere interpretato alla luce di questi sviluppi programmatici. Il convegno romano del 1976 fu un momento importante nella vita della Chiesa italiana, come dimostrarono i numerosi convegni ripetuti negli anni successivi sullo stesso tema in molte diocesi. Nelle intenzioni di una parte degli organizzatori esso avrebbe dovuto anche promuovere il superamento delle divisioni e delle tensioni ancora aperte, giungendo a quella «ricomposizione dell’area cattolica» che soprattutto dopo l’esito referendario sembrava sempre più urgente. Ma le forme stesse del convegno, l’esclusione di alcuni rappresentanti delle comunità di base o dei gruppi del dissenso sembravano non ammettere un esito di questo genere. Del resto la stessa ipotesi di una «ricomposizione» sembrava carica di ambiguità agli occhi di coloro che proprio dalla contestazione del principio di unità dei cattolici avevano avviato negli anni precedenti un esplicito cammino di «diaspora» nelle diverse forze politiche50.

Negli anni successivi le tensioni più rilevanti non riguardarono più l’ala del dissenso, che divenne progressivamente più marginale, ma le diverse posizioni e strategie pastorali da assumere nei confronti del mondo secolarizzato. Era una tensione che si sarebbe espressa in modo emblematico nel confronto traCl e Ac, tra la «cultura della presenza» e quella della «mediazione». Il confronto non riguardava tuttavia solo le due associazioni, ma due diversi modi di intendere la missione della Chiesa e il rinnovamento proposto dal concilio. L’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II ha rappresentato certamente una svolta in questo processo, anche per il solo fatto che la sua personale esperienza del concilio non era la stessa di Paolo VI. Egli ridisegnò in modo significativo alcune linee di intervento magisteriale, innestando anche nella Chiesa italiana un nuovo spirito di presenza e di azione.

Nel 1985 il nuovo convegno ecclesiale italiano a Loreto e il sinodo episcopale voluto da Giovanni Paolo II per celebrare i venti anni dalla chiusura del concilio rappresentarono un punto di svolta nel processo di recezione mettendo esplicitamente in discussione i modi in cui il concilio era stato sino ad allora interpretato e si era cercato di attuarlo51. La contesa sull’applicazione del concilio sarebbe divenuta da allora contesa per la sua corretta interpretazione. Una stagione sembrava tuttavia chiudersi definitivamente lasciandosi alle spalle quelle tensioni che avevano caratterizzato il primo processo di recezione, ma anche il fervore che l’aveva accompagnato e il fermento di rinnovamento che l’aveva segnato.

Note

1 Paolo VI, Discorsi alla Cei, I, 1964-1973, Roma 1973, p. 35, cit. in A. Acerbi, La chiesa italiana dalla conclusione del Concilio alla fine della Democrazia Cristiana, in La chiesa e l’Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, a cura di A. Acerbi, Milano 2003, p. 463.

2 Sulla Chiesa italiana durante il pontificato di Pio XII, cfr. G. Martina, La chiesa in Italia negli ultimi trent’anni, Roma 1977; G. Alberigo, Santa Sede e vescovi nello Stato unitario, in St.It.Annali, IX, pp. 857-879; Chiese italiane e concilio. Esperienze pastorali nella chiesa italiana tra Pio XII e Paolo VI, a cura di G. Alberigo, Genova 1988; G. Miccoli, La chiesa di Pio XII, in Storia dell’Italia repubblicana, I, La costruzione della democrazia, Torino 1994, pp. 535-613; A. Riccardi, Il cattolicesimo della Repubblica, in Storia d’Italia, a cura di G. Sabbatucci, V. Vidotto, VI, L’Italia contemporanea dal 1965 a oggi, Roma-Bari 1999, pp. 233-319; V. De Marco, Le barricate invisibili. La chiesa in Italia tra politica e società (1945-1978), Galatina 1994.

3 Sull’Ac, cfr. E. Preziosi, Obbedienti in piedi: la vicenda dell’Azione cattolica in Italia, Torino 1996; M. Casella, L’Azione cattolica nell’Italia contemporanea:1919-1969, Roma 1992; L. Ferrari, L’Azione cattolica in Italia dalle origini al pontificato di Paolo VI, Brescia 1983; G. Poggi, Il clero di riserva: studio sociologico sull’Azione Cattolica Italiana durante la presidenza Gedda, Milano 1963.

4 F. Sportelli, La Conferenza episcopale italiana (1952-1972), Galatina 1994; A. Riccardi, La Conferenza episcopale italiana dalle origini al 1978, in La chiesa in Italia. Dall’unità ai nostri giorni, a cura di G. Guerriero, Cinisello Balsamo 1996, pp. 702-743.

5 Cfr. G. Alberigo, La chiesa italiana tra Pio XII e Paolo VI, in Chiese italiane e concilio, a cura di G. Alberigo, cit., p. 27. Su Giovanni XXIII e la Chiesa italiana, cfr. G. Miccoli, Sul ruolo di Roncalli nella chiesa italiana, in Papa Giovanni, a cura di G. Alberigo, Roma-Bari 1987, pp.175-209; sul concilio: G. Alberigo, Giovanni XXIII e il Vaticano II, ibidem, pp. 211-243. Più in generale A. Melloni, Papa Giovanni: un cristiano e il suo concilio, Torino 2009.

6 Le lettere sono pubblicate in Acta et documenta Concilio Oecumenico Vaticano II apparando, series I, Città del Vaticano, II, 3, 1960. Per quanto segue vedi in particolare gli studi di R. Morozzo della Rocca, I «voti», dei vescovi italiani per il concilio, in Le deuxième concile du Vatican (1959-1965), Actes du Colloque organisé par l’École française de Rome (Roma 1986), Rome 1989, pp. 119-137; M. Velati, I «consilia et vota» dei vescovi italiani, in A la veille du Concile Vatican II. Vota et réactions en Europe et dans le catholicisme oriental, éd. par M. Lamberigts, Cl. Soetens, Leuven 1992, pp. 83-97.

7 Cfr. É. Fouilloux, La fase ante-preparatoria (1959-1960). Il lento avvio della uscita dall’inerzia, in Storia del concilio Vaticano II, I, diretta da G. Alberigo, Leuven-Bologna 1995, pp. 111-144.

8 Cfr. R. Morozzo della Rocca, I «voti», cit., p. 135; A. Melloni, Per un approccio storico-critico ai consilia et vota della fase antepreparatoria del Vaticano II, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 26, 1990, pp. 556-576.

9 La lettera di monsignor Santin in Acta et documenta, cit., pp. 694-698; quella del cardinale Lercaro, ibidem, pp. 114-118; e anche in edizione critica, in G. Lercaro, Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del card. Giacomo Lercaro, Bologna 1984, pp. 65-70.

10 Ricavo i dati da Pontificie commissioni preparatorie del concilio ecumenico Vaticano II, a cura della Segreteria della Pontificia Commissione Centrale, Roma 1961; cfr. anche A. Indelicato, La preparazione del Vaticano II, «Cristianesimo nella storia», 8, 1987, 2, pp. 119-133; R. Caporale, Les hommes du Concile. Étude sociologique sur Vatican II, Paris 1965. Sulla preparazione del concilio vedi J. Komonchak, La lotta per il concilio durante la preparazione, in Storia del concilio, diretta da G. Alberigo, cit., I, pp. 177-379; Verso il concilio Vaticano II, 1960-1962: passaggi e problemi della preparazione conciliare, a cura di G. Alberigo, A. Melloni, Genova 1993.

11 Gli schemi elaborati dalle commissioni preparatorie sono pubblicati in Acta et documenta Concilio Oecumenico Vaticano II apparando, series II, III, Città del Vaticano 1969.

12 M. Bergonzini, Diario del concilio, Modena 1993 (d’ora in poi Diario Bergonzini), p. 3.

13 Giornata del clero in preparazione al concilio ecumenico, «Bollettino dell’archidiocesi di Bologna», 53, 1962, pp. 281-283.

14 G. Lercaro, Lettere dal concilio (1962-1965), a cura di G. Battelli, Bologna 1980, p. 65.

15 Sulla Cei durante il concilio vedi in particolare F. Sportelli, I vescovi italiani al Vaticano II: il ruolo della Conferenza Episcopale Italiana, «Rivista di scienze religiose», 12, 1998, pp. 37-90. Si veda anche G. Battelli, Alcune considerazioni introduttive per uno studio sui vescovi italiani al concilio Vaticano II, in Le deuxième concile, cit., pp. 267-272. Riguardo alla partecipazione degli italiani al concilio ci sono solo studi particolari su singoli o gruppi episcopali, cfr. A. D’Angelo, Vescovi, mezzogiorno e Vaticano II: l’episcopato meridionale da Pio XII a Paolo VI, Roma 1998.

16 Cfr. il diario del cardinale G. Siri, pubblicato in B. Lay, Il Papa non eletto. Giuseppe Siri cardinale di Santa Romana Chiesa, Bari 1993 (d’ora in poi Diario Siri), in partic. pp. 356-363.

17 L.C. Borromeo, Il concilio Vaticano II attraverso le pagine del diario di Luigi Carlo Borromeo, vescovo di Pesaro, a cura di N. Buonasorte, «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», 52, 1998, 1 (d’ora in poi Diario Borromeo), pp. 121-123; vedi anche Diario Bergonzini, p. 6.

18 Cfr. il diario del vescovo di Savona, monsignor G.B. Parodi, in G. Militello, Un vescovo al concilio: mons. G.B. Parodi, vescovo di Savona-Noli, 1948-1974, Roma 2001 (d’ora in avanti Diario Parodi), pp. 274-276; Diario Siri, pp. 368-369, 373.

19 La discussione dello schema sulla liturgia (22 ottobre-13 novembre 1962) in Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II, Città del Vaticano 1970-2001 (d’ora in poi solo Acta Synodalia), I, 1, p. 262; I, 2, p. 674; cfr. M. Lamberigts, Il dibattito sulla liturgia, in Storia del concilio, diretta da G. Alberigo, cit., II, 1996, pp. 129-192.

20 La discussione dello schema De fontibus revelationis (14-21 novembre 1962) in  Acta Synodalia, I, 3, pp. 14-297; cfr. G. Ruggieri, Il primo conflitto dottrinale, in Storia del concilio, diretta da G. Alberigo, cit., II, pp. 259-293.

21 Diario Borromeo, pp. 146-147.

22 Il Diario Siri del primo periodo si interrompe alla vigilia del voto con questa invocazione: «La faccenda è grave, se domani lo schema cade! Signore, aiutaci! Santa Vergine, San Giuseppe, pregate per noi! Voi potete ottenere: cunctos haereses sola interemisti in universo mondo!» [sic], p. 382. «Questo non è più un concilio! Non è più un concilio!» era la protesta sussurrata dietro le quinte dell’aula conciliare, raccolta da monsignor Borromeo sulle labbra di un vescovo marchigiano: Diario Borromeo, p. 156.

23 Cfr. Diario Bergonzini, p. 37: «Il Papa ha parlato e volonterosamente, con piena sottomissione, accettiamo la sua augusta decisione. Sarà certamente per il meglio. Tuttavia, se si lasciasse giudicare la passione e non la carità, si sarebbe tentati di dire che i nostri fratelli francesi e tedeschi non si sono comportati in tutta la faccenda con quella fraterna lealtà, che pure potevamo sperare. Ieri tutto è stato incerto e forse equivoco».

24 La discussione dello schema sulla Chiesa (1-7 dicembre 1962) in Acta Synodalia, I, 4, pp. 31-390; cfr. G. Ruggieri, Il difficile abbandono dell’ecclesiologia controversista, in Storia del concilio, diretta da G. Alberigo, cit., II, pp. 308-383. Su Montini cfr. Giovanni Battista Montini arcivescovo di Milano e il concilio ecumenico Vaticano II: preparazione e primo periodo, Atti del Colloquio internazionale (Milano 1983), Brescia-Roma 1985. Su Lercaro, cfr. G. Alberigo, L’esperienza conciliare di un vescovo, in G. Lercaro, Per la forza, cit., pp. 7-62.

25 Cfr., F. Sportelli, La conferenza episcopale, cit., pp. 173-174, nota 12.

26 Diario Siri, pp. 362, 367; Diario Parodi, p. 339; per gli incontri con i monaci di Taizé cfr. ibidem, pp. 295-296; cfr. il diario conciliare del padre R. Tucci, presso l’archivio de «La Civiltà cattolica», al 14 novembre 1962.

27 Cfr. J. Grootaers, Il concilio si gioca sull’intervallo. La «seconda preparazione», e i suoi avversari, in Storia del concilio, diretta da G. Alberigo, cit., II, pp. 385-558.

28 Pubblicata in parte in G. Caprile, Il concilio Vaticano II. Cronache del concilio Vaticano II edite da “La Civiltà Cattolica”, Roma, II, 1968, p. 534; cfr. F. Sportelli, La conferenza, cit., pp. 179-181.

29 Era il giudizio espresso da monsignor Carli in una relazione alla riunione della Cei di fine agosto: cfr. Diario Parodi, pp. 323-324; Diario Bergonzini, pp. 65-66.

30 Diario Bergonzini, pp. 68-69.

31 La discussione dello schema sui vescovi (5-15 novembre 1963) in Acta Synodalia, II, 4. p. 361; II, 5 p. 267; quella sull’ecumenismo (18 novembre-2 dicembre 1963), ibidem, II, 5, p. 412; II, 6, p. 367.

32 Cfr. F. Sportelli, La conferenza episcopale, cit., pp. 193-206.

33 E. Balducci, Diari (1945-1978), a cura di M. Paiano, Brescia 2009, pp. 521-522, 527-528.

34 Diario Parodi, pp. 336-337; Y. Congar, Mon journal du concile, II, a cura di E. Mahieu, Paris 2002, p. 62.

35 Diario Siri, pp. 384-385.

36 La discussione sullo schema De Ecclesia (15-18 settembre 1964) in Acta Synodalia, III, 1, p. 377; III, 2, p. 21; quella sulla libertà religiosa (23-29 settembre), III, 2, p. 296; III, 3, p. 55; cfr. J. Komonchak, L’ecclesiologia di comunione, in Storia del concilio, diretta da G. Alberigo, cit., IV, 1999, pp. 19-118; G. Miccoli, Due nodi: la libertà religiosa e le relazioni con gli ebrei, ibidem, pp. 119-219.

37 La discussione sulla rivelazione (30 settembre-6 ottobre), in Acta Synodalia, III, 3, pp. 69-366; quella sui seminari (14-17 novembre), ibidem, III, 7, p. 498; III, 8 p. 181; sul mondo moderno (20 ottobre- 5 novembre), ibidem, III, 5, p. 116; 3,6 p. 319; cfr. H. Sauer, I problemi della dottrina sono i problemi della pastorale, in Storia del concilio, diretta da G. Alberigo, cit., IV, pp. 221-258; N. Tanner, La chiesa nella società: ecclesia ad extra, ibidem, pp. 293-415.

38 Vedi a proposito del clergyman la consultazione tra i vescovi voluta dalla Cei tra il 1964 e il 1965, che mise in luce forti differenze di opinione e contrasti: F. Sportelli, La conferenza, cit., pp. 220-221.

39 La discussione sulla libertà religiosa (15-21 settembre 1965) in Acta Synodalia, IV, 1, pp. 146-433; cfr. G. Routhier, Portare a termine l’opera iniziata: la faticosa esperienza del quarto periodo, in Storia del concilio, diretta da G. Alberigo, cit., V, 2001, pp. 87-142.

40 La discussione sulla Chiesa nel mondo moderno (22 settembre-7 ottobre 1965) in Acta Synodalia, IV, 1, p. 435; IV, 3, p. 662; cfr. G. Routhier, Portare a termine, cit., pp. 142-193.

41 Sulla Chiesa italiana dopo il concilio si possono vedere: A. Acerbi, La chiesa italiana dalla conclusione del concilio, cit.; F. Bolgiani, Chiesa e società nel post-concilio, in Il Vaticano II nella chiesa italiana. Memoria e profezia, Assisi 1985; P. Scoppola, La “nuova cristianità perduta”, Roma 1985; A. Melloni, Da Giovanni XXIII alle chiese italiane del Vaticano II, in Storia dell’Italia religiosa, a cura di G. De Rosa, T. Gregory, A. Vauchez, Roma-Bari 1995, III, pp. 361-403; G. Verucci, La chiesa postconciliare, in Storia dell’Italia repubblicana, Torino 1995,  II/2, pp. 297-382; Id., Chiesa in Italia. 1975-1978, Brescia 1978; G. Tassani, Fermenti e associazionismo nel mondo cattolico dopo il concilio Vaticano II, in  Storia del movimento cattolico in Italia, a cura di G. Malgeri, VII, Roma 1981, pp. 425-548; M. Cuminetti, Il dissenso cattolico in Italia, Milano 1983; A. Riccardi, La S. Sede e la chiesa in Italia (1963-1978), in Paul VI et la modernité dans l’Eglise, Actes du Colloque organisé par l’Ecole française de Rome (Roma 1983), Rome 1984, pp. 647-670; Id., Paolo VI e la chiesa italiana: la costruzione di un episcopato nazionale in una società secolare, «Analisi storica», 2, 1984, pp. 195-222; C.F. Casula, G. Tassani, La chiesa e i cattolici in Italia nel periodo postconciliare, in Storia della società italiana, a cura di G. Cherubini, Milano 1990, XXV, pp. 99-135.

42 Cfr. su Togliatti R. Moro, Togliatti nel giudizio del mondo cattolico, in Togliatti nel suo tempo, a cura di R. Gualtieri, E. Taviani, C. Stagnolo, Roma 2007.

43 Cfr., I cattolici italiani nei tempi nuovi della cristianità, Atti del Convegno di studio della Democrazia cristiana (Lucca, 1967), a cura di G. Rossini, Roma 1967.

44 Cfr. P. Bresso, F. Traniello, Il concilio Vaticano II nella stampa comunista italiana, in Le deuxième concile du Vatican (1959-1965), cit., pp. 405-441; R. Burigana, Il Pci e il Vaticano II, in Vatican II in Moscow (1959-1965), Acts of the Colloquium on the History of Vatican II (Moscow 1995), ed. by A. Melloni, Leuven 1997.

45 Cfr. G. Fanti, G.C. Ferri, Cronache dall’Emilia Rossa: l’impossibile riformismo del Pci, Bologna 2001.

46 F. Sportelli, La conferenza, cit., pp. 227-250.

47 Cfr. M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’ottocento ad oggi, Roma-Bari 1997, p. 275; A. D’Urso, Le vocazioni sacerdotali in Italia. Studio teologico e pastorale con documentazione statistica (1946-1974), Bologna 1975.

48 Su Cl, vedi Comunione e liberazione. Interviste a don Giussani, a cura di R. Ronza, Milano 1976; S. Abbruzzese, Comunione e liberazione, Bologna 2001; M. Camisasca, Comunione e liberazione, 3 voll., Cinisello Balsamo 2001-2006.

49 In Enchiridion della Cei, I, Bologna 1985, pp. 1039-1068. Su Bartoletti vedi L. Lenzi, Concilio e post-concilio in Italia: mons. E. Bartoletti arcivescovo di Lucca 1958-1973, Bologna 2004.

50 Evangelizzazione e promozione umana, Atti del Convegno ecclesiale promosso dalla C.E.I. (Roma, 1976), Roma 1977; B. Sorge, La “ricomposizione” dell’area cattolica in Italia, Assisi 1979.

51 Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini, Atti del II Convegno ecclesiale promosso dalla Cei (Loreto 1985), Roma 1985; sul sinodo dei vescovi del 1985, vedi A. Indelicato, Il sinodo dei vescovi. Collegialità sospesa 1965-1985, Bologna 2008, pp. 297-344.

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