Il clero novatore

Cristiani d'Italia (2011)

Il clero novatore

Bruna Bocchini

Il termine ‘novatore’ si trova utilizzato prevalentemente in relazione alla crisi modernista, per indicare sacerdoti, religiosi e laici che partecipavano alle istanze di rinnovamento che hanno caratterizzato quel momento. È una crisi ampia, come è ben noto, sorta all’interno della Chiesa, per le proposte di chi voleva provocare riflessioni e riforme nel confronto con le scienze moderne, senza porsi in un atteggiamento di rottura, almeno inizialmente; di fatto una gran parte di coloro che furono accusati di modernismo, pur subendo censure e costretti al silenzio, rimase fedele alla Chiesa romana. In realtà il termine novatori compare già nel volume del monaco camaldolese Mauro Cappellari, poi Gregorio XVI, del 1799, Trionfo della Santa Sede e della Chiesa contro gli assalti dei novatori combattuti e respinti colle loro stesse armi1. Cappellari si riferiva polemicamente ai riformatori di fine Settecento e in particolare ai ‘pistoiesi’ e alle riforme di Scipione de’ Ricci e dei suoi collaboratori nel sinodo di Pistoia; quel rimettere in discussione il primato romano, che era stata una caratteristica di quei movimenti riformatori che avevano caratterizzato la stagione riformistica in tutta Europa, veniva ora interpretato come un anticipo della rivoluzione francese, anzi una delle cause stesse della rivoluzione, riprendendo l’equazione giansenisti-giacobini già usata polemicamente da Bolgeni e dai polemisti romani del «Giornale ecclesiastico di Roma»2 dei primi anni Novanta del Settecento, secondo uno schema che poi avrebbe avuto una grande diffusione, coniugato al tema del complotto diffuso dagli scritti di Augustin Barruel.

In realtà questo termine, molto usato nella polemica politico-religiosa dalla fine del Settecento fino al Novecento, evidenzia il tema centrale attorno al quale si sarebbe svolto il confronto tra la Chiesa romana e la società contemporanea, così come si era rivelato durante la rivoluzione francese, attorno al tema della libertà, dei diritti e di una possibile riforma della Chiesa nell’accettazione di queste esigenze. La risposta del magistero e di gran parte della Chiesa cattolica sta nella riproposizione del modello della società cristiana medievale e nel rifiuto intransigente di ogni richiesta di libertà. Il pontificato di Pio IX poi segna un punto di non ritorno. Ma non sono mai venute meno, pur sconfitte ed emarginate, proposte ed esigenze, sul piano spirituale, pastorale e della riflessione religiosa, che esprimevano richieste e prospettive diverse. Sono posizioni indubbiamente minoritarie; ben diversa è la linea della maggioranza del mondo cattolico e della gerarchia. Ma è importante mantenere una visione complessa della realtà della Chiesa, nella quale convivono esperienze, sensibilità, religiosità anche profondamente diverse, pur se emarginate e ridotte al silenzio. In alcuni casi, in particolare dalla fine dell’Ottocento con le prime organizzazioni del movimento cattolico, alcuni di questi personaggi sono stati capaci di cogliere attese e bisogni nella società, che all’interno del mondo ecclesiastico non si era in grado di raccogliere, anche per una certa autoreferenzialità. Inoltre nel caso di queste figure di novatori non si deve pensare a proposte radicalmente alternative; talvolta si possono trovare momenti di contiguità insieme a differenze significative.

È il caso di Carlo Passaglia, gesuita, ma lontano dal ‘partito neotomista’ romano, fortemente contrario alla rivoluzione liberale e teologo del papa in occasione della proclamazione del dogma della Immacolata concezione negli anni Cinquanta dell’Ottocento; alla fine degli anni Cinquanta si avvicina ai gruppi liberali romani favorevoli al processo di unificazione, così come anche sul piano teologico cerca di mantenere un certo pluralismo nella ricerca teologico-filosofica, ostacolando la sovrapposizione dei piani tra difesa del dogma e scelte politiche, contrariamente al ‘partito gesuitico’ che stava assumendo maggior forza a Roma. Assume posizioni conciliatoriste e inizia sondaggi e trattative presso la curia per il governo di Torino3. Condannato nel 1861, anche se difeso dal cardinale D’Andrea del Sant’Uffizio, si trasferisce a Torino, dove nel 1862 lancia una famosa petizione a Pio IX4, perché rinunci al potere temporale, che raccoglie novemila firme. L’iniziativa sarebbe stata repressa e ai firmatari richiesto di sconfessare quella adesione. Passaglia avrebbe parlato di «scisma silenzioso»5 a proposito dell’allontanamento dei ceti urbani e della classe dirigente italiana dalla Chiesa, così come del clero favorevole alla causa nazionale e colpito da censure; una espressione che sarebbe ritornata più volte anche in altre situazioni. La vicenda è significativa perché indica la difficile sopravvivenza delle posizioni conciliatoriste. Molte analogie si possono individuare anche con l’itinerario di Carlo Maria Curci. Gesuita, uno dei fondatori de «La Civiltà cattolica», che negli anni Sessanta dirada la sua collaborazione alla rivista e nel 1863 formula quella distinzione tra tesi e ipotesi che avrebbe avuto grande diffusione tra le correnti cattoliche moderate, in occasione del Sillabo, perché prefigurava la via di una possibile conciliazione tra cattolicesimo e sistemi liberali. Dopo il 1870 la sua posizione conciliatorista si rafforza, sottolinea il fatto compiuto dell’unità nazionale e prospetta una partecipazione dei cattolici alla vita politica. Le sue posizioni, sia per l’antitemporalismo, sia per alcune denuncie delle situazioni di povertà, provocano molte diffidenze interne all’ordine gesuitico che nel 1877 lo spingono alle dimissioni. Fin dai primi anni Ottanta, con una serie di opere, rifiuta di addebitare tutte le difficoltà della Chiesa alla rivoluzione, mentre sottolinea che le cause erano da ricercare nell’arroccamento sulle posizioni temporaliste, nel ritardo della cultura ecclesiastica e degli studi biblici. Nel 1884 alcune sue opere vengono messe all’Indice e Curci sospeso a divinis fino alla ritrattazione, nello stesso anno6. Egli si distingue da altri conciliatoristi per le posizioni più aperte sul piano sociale. Un suo scritto, sul Socialismo cristiano, era pervaso di spunti socialisti, criticava l’idea del lavoro come merce, difendeva lo sciopero, appoggiava la richiesta di salari adeguati e la necessità che lo Stato assumesse misure in difesa degli operai. Poco prima di morire sarebbe stato riaccolto all’interno del suo ordine.

Il nodo problematico principale rimaneva quello del confronto con le libertà moderne. La riflessione dei cattolici liberali rimane in questo senso centrale. Respinta e accantonata sia nell’Ottocento sia nelle varie forme che poi ha assunto, questa tradizione è riaffiorata con varie modalità, come una realtà sotterranea in un paesaggio carsico, continuando a riproporsi di fronte ad una società che non si modellava secondo i progetti cattolici. Si è scritto più volte di una fecondità di quella tradizione che avrebbe trovato una qualche recezione anche nei dibattiti del concilio Vaticano II; può essere di un certo interesse indicare alcune figure, come in una mappa, che hanno posto dei problemi, magari timidamente o anche in scritti non resi pubblici per le difficoltà incontrate nella società ecclesiastica, ma che hanno continuato a offrire piste di riflessione e modelli diversi. L’elenco dei sacerdoti novatori dovrebbe essere molto più ampio, ma se ne sono scelti alcuni perché la loro vicenda e la loro riflessione hanno un carattere esemplare, espressione di realtà diffuse più ampiamente.

Raffaele Lambruschini

Lambruschini è figura molto significativa del cattolicesimo liberale italiano per l’ideale al quale si ispira di una ‘religione interiore’, in analogia con le proposte dei protestanti ginevrini Jean Claude Simonde de Sismondi e Alexandre Vinet, ai quali i cattolici liberali toscani spesso si riferiscono. Uno dei tramiti con il mondo protestante era Gian Pietro Vieusseux; è noto il suo rilievo nella cultura italiana e fiorentina degli anni Trenta dell’Ottocento; egli promuove l’«Antologia» ed è uno dei sostenitori de la «Guida dell’educatore» nella quale, scriveva Lambruschini nel 1853, «io cattolico e Mayer protestante potemmo scrivere insieme […] senza che rinunziassimo ciascuno alle nostre credenze, e senza che ne apparisse la diversità»7. A questo nucleo, di una religiosità interiore e non ‘politica’, della loro ispirazione si deve anche un atteggiamento di parziale critica dei cattolici liberali italiani, e toscani in particolare, verso La Mennais e i cattolici liberali francesi e belgi per le prospettive da questi proposte di un’azione sociale rinnovata della Chiesa, nella quale leggevano implicite ambizioni o tentazioni neo-temporalistiche8. Come è noto, per il cattolicesimo liberale non si può parlare di un movimento, ma di atteggiamenti individuali e di orientamenti diversi, espressione di una minoranza nel clima di contrapposizione che si determina in particolare nella seconda metà dell’Ottocento. Ma va anche sottolineato che quei dialoghi e quelle riflessioni personali hanno avuto una eco significativa in un tempo lungo attraverso percorsi sotterranei, che poi sono in qualche modo riemersi, anche se con diverse sensibilità e prospettive. L’adesione di Lambruschini ai temi propri della riflessione cattolico-liberale si caratterizza per una preoccupazione prevalente per la riforma della Chiesa e il ripensamento della tradizione dottrinale che ponesse al centro del proprio messaggio la libertà, anche all’interno della Chiesa. Ci sono molte affinità con il pensiero di Rosmini, come egli stesso dichiarava9. Le proposte o le adesioni ad alcune ipotesi di riforme politiche hanno questo atteggiamento come premessa e origine. C’è una tradizione toscana che sul piano religioso si richiama all’opera di Pietro Leopoldo, ai tentativi di riforma religiosa ed ecclesiale di Scipione de’ Ricci, ma anche alla figura diAntonio Martini, l’arcivescovo di Firenze che si era contrapposto al Ricci, autore di una traduzione della Bibbia che ha una grande fortuna per tutto l’Ottocento; una tradizione che ha fatto parlare di un mito di Pietro Leopoldo. Rispetto alle linee del riformismo giurisdizionalista di fine Settecento quelle indicate daLambruschini e da gran parte del cattolicesimo liberale si pongono in una prospettiva di «separazione istituzionale (ma collaborativa e possibilmente consensuale) tra Stato e Chiesa»10. Per Lambruschini una cesura significativa con l’età settecentesca e rivoluzionaria è data dal suo esilio a Bastia, tra il 1813 e il 1814, per essersi opposto alla politica ecclesiastica di Napoleone, quando a Orvieto reggeva segretamente la diocesi, rimasta vacante per il rifiuto di suo zioGiovanni Battista Lambruschini a giurare fedeltà al regime napoleonico e per questo deportato in Francia nel 1810. A partire da quella esperienzaRaffaele Lambruschini prende le distanze dal mondo ecclesiastico romano interrompendo una promettente carriera ecclesiastica. Non crede al mito della Chiesa delle origini, che pur era stato molto presente nei riformatori di fine Settecento. Egli mostra un più acuto senso della storia. Il rimprovero rivolto alla gerarchia ecclesiastica è «quello di non volersi allontanare egualmente dai tempi posteriori all’età apostolica, dai tempi più barbari e meno illuminati […], in secoli in cui brillava tutta la potestà del sacerdozio mentre si oscurava la religione evangelica»11.

Negli anni tra il 1830 e il 1847 si verifica una certa influenza delle idee cattolico-liberali sul liberalismo moderato. Negli anni Trenta Lambruschini si schiera con Ferrante Aporti per gli asili d’infanzia e per le scuole professionali festive. Per questo impegno tra il 1836 e il 1838 è costretto a difendersi dagli attacchi del periodico cattolico reazionario modenese «La voce della Verità» e da Monaldo Leopardi e nel 1850, sugli stessi temi, da «La Civiltà cattolica»12. Negli stessi anni l’abate di S. Cerbone mostra interesse per le teorie di Saint-Simon o almeno per «la parte più lusinghiera del sansimonismo», convinto che «esso è il complemento del cristianesimo ben inteso, o lo sviluppo dei germi che sono nel vangelo»13. Sono molto presenti questi temi negli appunti poi pubblicati da Gambaro come Dell’autorità e della libertà all’interno di una più ampia riflessione sulla riforma della religione: «Questa secondo me è la rigenerazione del popolo; e quel che si chiama oggi la causa dei proletarj […] si rannesta [sic] alle dottrine evangeliche in modo che ne è una conseguenza, un’ulteriore applicazione, come fu prima l’abolizione della schiavitù»14.

Noti sono i suoi articoli pubblicati su «La Patria», l’autorevole giornale liberale diretto da Ricasoli e Salvagnoli nel 1847 e 1848. Si possono ricordare: Per la libertà religiosa negli Statuti e Contro la religione di Stato e gli articoli per il riconoscimento dei diritti civili e politici degli ebrei. La libertà religiosa richiesta dai non cattolici veniva difesa come momento costitutivo per la stessa fede cristiana, perché la religione può vivere solo nella libertà, mentre il giudizio negativo sulla religione di Stato nasceva dalla convinzione dei danni arrecati da un regime concordatario, che garantiva una religione protetta e dominante, ma anche una Chiesa meno libera, asservita. Ma non accettava uno Stato e una società nella quale non fosse presente un’ispirazione religiosa, rifiutando una totale laicizzazione. Nel 1866 scriveva a Ricasoli, allora presidente del Consiglio: «Lo Stato non può essere indifferente e non curante che vi sia o no una religione. Egli ne ha bisogno per fondamento e guida della morale, senza di cui nessuno Stato può reggere»15.

Le posizioni cattoliche liberali si erano alimentate delle speranze, illusorie, poste su un’azione riformatrice di Pio IX. La radicale svolta del 1848 significava una rottura definitiva con ogni ipotesi di riforma sia ecclesiale che politica, anche se moderata, propria di alcune istanze del movimento nazionale e costituzionale. L’enciclica Nostis et Nobiscum, inviata all’episcopato da Gaeta, chiamava a raccolta tutti i vescovi perché si impegnassero contro l’azione nefasta della ‘Rivoluzione’ imponendo un modello di mobilitazione che avrebbe portato ad una più forte centralizzazione del governo ecclesiale. Lambruschini prendeva atto di quelle speranze e si diceva convinto che «la vecchia Roma»16, quella di un cauto riformismo nel quale aveva sperato, non esisteva più; manteneva un certo antitemporalismo, ma diventava più prudente nel prendere posizioni pubbliche. Rimane di grande interesse seguire il Lambruschini inedito, che conosciamo grazie alle pubblicazioni dei carteggi curati da Angiolo Gambaro. Infatti in queste lettere, e negli appunti e schemi di un lavoro che pensava di pubblicare, si evidenzia una profonda esigenza di ripensamento radicale delle modalità di espressione della fede, della immagine della Chiesa, della tradizione dottrinale, del dogma, a partire dalla riaffermazione della libertà evangelica come momento costitutivo dell’atto di fede e del rispetto della coscienza come criterio ispiratore. Anche il suo impegno educativo si collocava in primo luogo all’interno di questa prospettiva di una esperienza personale e libera del sentire religioso. Egli è consapevole che il conflitto del 1848 aveva portato a una più netta distinzione tra società civile e religiosa e nelle espressioni contro le tesi de «La Civiltà cattolica» e il «cattolicesimo romano», tende a rimettere in discussione il principio di identificazione della Chiesa con le istituzioni ecclesiastiche e soprattutto con il ‘clero romano’. È un fenomeno ampio, come ha notato Traniello, che ha ricordato la «limitatissima efficacia delle censure canoniche in tutto l’ambito ormai definito come politico»17.

In uno schema elaborato nel 1865 Lambruschini illustrava un progetto di «Riforma cattolica» con l’intento di evidenziarne «la irresistibile e incalzante necessità»18. Una prima causa di decadenza era dovuta a un modello monacale che aveva imposto il suo rigore ascetico a tutta la vita cristiana, con una valutazione fortemente negativa della vita ‘terrena’ e della ‘natura’, mentre queste realtà andavano valorizzate e la religione doveva essere vista come un completamento della vita naturale. In questo senso si era già espresso ampiamente anche in una lettera del 1832 indirizzata probabilmente al Tommaseo, dove polemizzava contro i ‘precetti’ e in particolare contro le ‘astinenze’, che paragonava alle «prescrizioni giudaiche ai tempi di Gesù» e contro il celibato ecclesiastico che non era stato imposto da Gesù Cristo e rispondeva ad «un bisogno della natura a cui la Religione non dee contraddire» perché il «matrimonio è la situazione naturale dell’uomo»19. Negli stessi anni scriveva: «Coi princìpi generali che sono nel Vangelo, staccati qua e là e riuniti in un insieme del tutto nuovo, si è formato un corpo di dottrine più differente dal Vangelo che non l’Alcorano. Basta dire che si è potuto trovare l’obbligo della confessione auricolare e minuta, e la legittimità e l’opportunità del Sant’Uffizio»20. Le sue critiche si rivolgevano alla struttura ecclesiastica: «l’uomo […] non si è lasciato in comunicazione diretta con Dio. Il sacerdozio si è frapposto tra Dio e i fedeli […]. Di qui nasce una concezione servile da un lato, una signoria assoluta dall’altro». Scriveva: «La Chiesa non si contenta più di proclamare i princìpi, detta il modo di attuarli. Considera sempre gli uomini come bambini»21. La sua impostazione antimetafisica lo portava a ridiscutere ampiamente sul significato dei dogmi nella tradizione dottrinale; egli ne sottolineava l’origine storica, dovuta alla necessità di rispondere alle eresie, ma criticava fortemente la pretesa di dare spiegazioni razionali e filosofiche al mistero: «Questi misteri devono essere oscuri, perciò esposti in termini lati; devono essere pochi. L’autorità ecclesiastica […] non deve e non può svilupparli e spiegarli: in tal caso essa si svia dal suo istituto; essa allora teologizza, entra in una discussione scientifica, nella quale può errare»22. Le sue sono riflessioni articolate espresse con libertà, senza la pretesa di una sistemazione definitiva. Lambruschini era consapevole della non conciliabilità di queste riflessioni con le linee prevalenti nel cattolicesimo del suo tempo. Molti hanno parlato di Lambruschini ponendolo in relazione con il modernismo, del quale avrebbe anticipato non poche tematiche. Gambaro, che aveva preso parte alla crisi modernista, è stato il maggior studioso di Lambruschini e Fogazzaro ne Il santo tesseva un grande elogio dei Pensieri di un solitario, editi da pochi anni da Tabarrini23. Recentemente Verucci24 ha pubblicato le carte del Sant’Uffizio che negli anni Venti esprimeva una serie di giudizi molto severi sia verso Gambaro che verso Lambruschini, tacciandoli di eresia. Ciò che forse può essere sottolineato, al di là delle reiterate condanne, è il fatto che la necessità di un confronto tra la Chiesa e le libertà moderne, sulla base delle premesse evangeliche e con un ripensamento critico della tradizione è rimasto all’ordine del giorno come problema centrale in tutto il corso del Novecento.

Accanto al cattolicesimo liberale, di cui qui si è evidenziata solo la figura di Lambruschini, va sottolineata anche l’attenzione rinnovata alla povertà e alle sue cause sociali, anche se spesso coniugata con posizioni ideologiche intransigenti e integralistiche, così come accade in Italia negli ultimi anni dell’Ottocento di fronte ai primi processi di industrializzazione. Le proposte e le vicende del movimento cattolico sono ben note; può essere utile invece porre l’attenzione alla rinnovata cura pastorale rivolta ai giovani che arrivavano in città come Torino e che vivevano in una situazione di grande emarginazione. La novità degli oratori didon Cocchi, Murialdo in particolare, e poi di don Bosco, per la gioventù ‘povera e abbandonata’ a Torino negli anni Quaranta dell’Ottocento è quella non solo di offrire un’accoglienza, ma di indirizzarli per una formazione professionale, di aiutarli a trovare una strada di autonomia, evidenziando un’acuta percezione della grave situazione sociale determinata dalla iniziale industrializzazione. Questo filone può essere considerato un elemento di novità nella vita pastorale ed ecclesiale, per l’attenzione ampia ai problemi sociali e per le soluzioni innovative che talvolta ha suggerito, pur in un contesto ideologico che prevalentemente era quello intransigente.

Don Cocchi, don Murialdo, don Bosco

Gli oratori possono essere considerati esemplari di una diffusa rete di iniziative sociali, prevalentemente nell’Italia settentrionale, in Lombardia, così come in Francia, volte all’educazione del popolo con istituzioni assistenziali e istruzione professionale. A Torino il primo oratorio per i giovani artigiani sbandati fu quello di donGiovanni Cocchi, dedicato all’Angelo custode, in un rione poverissimo e malfamato, il Moschino. Sia don Cocchi che poi don Bosco intuirono l’importanza di un ‘apostolato ambulante’ nei luoghi della periferia, uscendo dagli schemi parrocchiali tradizionali e creando i loro oratori, come centri di accoglienza, dove vivevano questi giovani senza futuro. L’impostazione di don Cocchi era diversa da quella didon Bosco; sul piano educativo riteneva che la formazione non potesse essere unicamente religioso-catechetica e aveva ad esempio introdotto la ginnastica, fatto nuovo che aveva creato un certo sconcerto, come uno strumento per superare certi modelli di violenza diffusi. Inoltre egli era un patriota convinto e partecipò con i suoi giovani nel 1849 alla guerra contro gli austriaci25. La disfatta della sua impresa patriottica comportò la chiusura dell’oratorio dell’Angelo custode, che sarebbe stato riaperto sotto la responsabilità di don Bosco. Questi, che pure aveva preso parte alle speranze neo-guelfe, dopo l’esito del 1848 si schierava con molta fermezza nella linea di una difesa intransigente di Pio IX, fatto che avrebbe provocato qualche difficoltà con i preti ‘patrioti’ come don Cocchi26, il quale non rinunciava alle sue iniziative; sempre nel 1849 apriva il collegio degli Artigianelli, che dal 1866 sarebbe passato sotto la guida di Leonardo Murialdo27, che aveva collaborato con don Bosco e aveva anche vissuto e studiato a Parigi, dove aveva conosciuto esperienze e figure significative del cattolicesimo sociale francese. L’azione di Murialdo è fortemente innovativa per la connessione tra l’apprendimento pratico del lavoro artigianale e lo studio teorico, con la creazione di centri assistenziali e istituzioni economico-sociali, con un modello pastorale e assistenziale nuovo. Da qui sarebbe nato il Circolo di studi sociali che dava vita al movimento della Democrazia cristiana; Murialdo è uno dei più tenaci divulgatori della idea di democrazia cristiana. Negli ultimi decenni del secolo Murialdo si impegnava per una legislazione per la tutela e la regolamentazione del lavoro dei fanciulli. Si orientava verso un sindacalismo di ispirazione cristiana, che proponeva un’azione non solo in favore del popolo, ma per mezzo del popolo, parlando di ‘diritto nativo’ dell’operaio. Obbediente alla Santa Sede e al non expedit, ma contrario alla formula margottiana di «né eletti né elettori», fino al 1871 si impegnava durante le campagne elettorali amministrative e politiche, poi in quelle amministrative, istituendo all’interno dell’Unione operaia cattolica i primi Comitati elettorali.

Diversa la prospettiva di don Bosco: rispetto alla impostazione di don Cocchi caratterizza i suoi oratori con una centralità dell’impostazione religiosa, valorizza le risorse del gioco e delle attività all’aria aperta coltivando l’istruzione e il lavoro come formazione alla vita; ma la differenza più significativa nel clima politico di quegli anni è data dalla scelta ferma di tenere l’oratorio «estraneo alle fazioni politiche», nella convinzione di contribuire in questo modo alla formazione di «buoni cittadini e al sicuro progresso della civiltà»28. La sua prospettiva, diversa in questo da Murialdo, è puramente caritativa, non recepisce le proposte di Ozanam o del Toniolo, invita i suoi giovani all’obbedienza e al rispetto, predica l’elemosina chiedendo aiuto ai ricchi. Gli oratori vengono pensati come luoghi separati, per preservare i giovani. Grandi sono le sue capacità organizzative e anche imprenditoriali29. Il suo intransigentismo, molto netto, si coniuga con una notevole duttilità pratica.

Don Murri

L’impegno pastorale e sociale e il cristianesimo sociale, che stava maturando all’interno della organizzazione del movimento cattolico, trovano momenti di verifica e di scontro con la dirigenza dell’Opera dei congressi e con le direttive della gerarchia, perché l’attivismo organizzativo e pastorale e l’impegno sociale non possono evitare scelte politiche più generali in relazione al rapporto della Chiesa con la società contemporanea.

Esemplare è allora la vicenda di Romolo Murri. Le sue analisi, le proposte e le censure subite, possono considerarsi emblematiche delle difficoltà incontrate dai cattolici italiani tra Otto e Novecento, in particolare nel confronto con la gerarchia ecclesiastica, nel tentativo di proporre risposte nuove e articolate alla complessità delle dinamiche sociali e al pluralismo della vita politica. Lo stesso Murri nelle Note autobiografiche30 suggerisce una suddivisione della sua esperienza in tre tappe. Una prima fase, dalla sua formazione al ben noto discorso di San Marino del 1902, è caratterizzata da una adesione al programma ‘guelfo’ di ricostruzione cristiana della società, con il rifiuto di ciò che i «figli della ragione» hanno prodotto contro la Chiesa. È un programma che ha matrici dichiaratamente integralistiche, proprie del movimento cattolico e che rivendica per la Chiesa e per il papa un ruolo di guida della società. Nella sua formazione, in particolare a Roma al collegio Capranica, quando frequenta i corsi teologici della Gregoriana, fondamentale è lo studio della filosofia scolastica e le lezioni di dogmatica del gesuita padreLouis Billot. Iscrittosi poi alla facoltà di Lettere segue le lezioni di Labriola sul materialismo storico, che avranno una notevole influenza sul suo pensiero nel riconoscere come veri alcuni temi dell’analisi marxista, come l’importanza dei condizionamenti sociali e delle forme di produzione.

Il progetto di costruzione di una nuova civiltà cristiana deve essere elaborato con strumenti nuovi, con una rinnovata cultura, in particolare nel clero, e poi, in prospettiva, con un partito nazionale. Da queste riflessioni derivava anche un’immagine storica del cristianesimo e del suo sviluppo, distinguendo tra «l’essenza medesima» del cattolicesimo e le «forme di adattamento che esso traversa, in quel lavoro secolare di assimilazione, di direzione concreta della civiltà»31. Il mito della cristianità medievale, così presente nella cattolicità italiana, viene visto come un modello da tradurre in modo nuovo. Da questa consapevolezza deriva il suo grande impegno per un rinnovamento della cultura del clero e dei cattolici fondando nuove riviste come «Vita nova» dal 1895, e dal 1898 «Critica sociale». Altro tema di analisi e di intervento è la situazione politica italiana; la cultura politica proposta è frutto di un’analisi concreta della situazione contemporanea, con la riflessione sui processi sociali prodotti dalle radicali trasformazioni dovute all’industrializzazione e con la ripresa di temi e metodi di organizzazione propri del partito socialista, che ha un gruppo dirigente eletto dalla base e non nominato dall’alto come avviene nel movimento cattolico. Esclude un partito cattolico conservatore che non abbia alla base questa nuova cultura politica democratica. Fonda molti gruppi democratici cristiani in tutta Italia, interviene su numerose riviste e propone un ruolo dei cattolici nella successione alla classe dirigente liberale; nel 1901 fonda il settimanale «Il Domani d’Italia» che ha una grande diffusione, ma nello stesso periodoLeone XIII ribadisce nella Graves de communi che per democrazia cristiana deve intendersi un’azione solo sociale e non politica. Molte sono le opposizioni che incontra nella dirigenza dell’Opera dei congressi e nella gerarchia cattolica.

Nel 1902 tiene un discorso ai democristiani romagnoli su Libertà e cristianesimo in cui afferma con nettezza che la libertà religiosa, la ricerca libera sono il fondamento ineludibile dell’esperienza cristiana, sia sul piano politico che su quello religioso ed ecclesiale. Una presa di posizione che, insieme ad altre polemiche interne all’Opera dei congressi, gli procura la prima censura ufficiale da parte del cardinale vicario di Roma, alla quale si sottomette. Dal 1902 alla scomunica del 1909 si accentua il tema dell’importanza di una coscienza critica e della rivendicazione di una autonomia dell’azione sociale e politica. Questa richiesta nel discorso di San Marino diviene anche un appello alla coscienza cristiana per una riforma religiosa, ecclesiale ed evangelica:

«Eredi di diciotto secoli di storia or buona or cattiva, noi chiediamo pel cattolicesimo e per la Chiesa una grande liberazione. Cose divine, il vangelo e la società dei credenti, esse non hanno tuttavia potuto attraversare impunemente un così lungo corso […]; esse soffrono […] di quello che noi abbiamo aggiunto o sostituito in parte ad esse e poi adorato e venerato quasi fosse uno con esse: costumanze semi pagane riverniciate, concezioni giuridiche attinte al diritto romano, idee filosofiche e teologiche elaborate nelle nostre scuole […]. Torniamo al vangelo. Liberiamo il cristianesimo, nascosto e quasi coperto nella vita del popolo nostro, restituiamolo a se stesso ed a noi»32.

La sua visione critica si estende alla «alleanza della Chiesa con gli interessi conservatori delle classi politiche governanti, la quale contrassegna la storia politica del cattolicismo del secolo scorso» mentre, con un entusiasmo e un ottimismo che non corrispondono pienamente alla realtà ecclesiale, vede nelle «nostre scuole di teologia un lavoro di critica interna sulle fonti della rivelazione […], una revisione accurata di tutte le nostre dottrine». Tale riforma è premessa a una presenza rinnovata dei cristiani nella vita civile, nell’accettazione netta di un regime di libertà e democrazia:

«Noi cattolici invochiamo quindi oggi dallo Stato la libertà: e siamo anche pronti a cedere il primo articolo dello Statuto, che è un articolo abrogato ed abolito di fatto, per un altro che dicesse: i cattolici possono, senza altre restrizioni che quelle del diritto comune, esercitare il loro culto, riunirsi in associazioni, possedere, fare dimostrazioni religiose, educare cristianamente i loro figliuoli, amministrare i propri beni e le proprie cose, diffondere ed insegnare le loro dottrine, lottare come cittadini pel trionfo delle loro idee»33.

Essenziale diviene il riferimento al rapporto autorità-obbedienza e alla riforma della Chiesa. Infatti, pur ribadendo il rispetto e l’obbedienza all’autorità ecclesiastica, Murri cerca di limitarne gli ambiti di intervento. Il nuovo pontefice nel 1904 scioglieva l’Opera dei congressi e nello stesso anno venivano stipulati quegli accordi clerico-moderati in funzione elettorale, fortemente criticati da Murri e anche da Sturzo. Viene allora costituita, nel 1905, la Lega democratica nazionale, come partito cattolico, nuovo e tendenzialmente aconfessionale; «di guelfi farsi ghibellini»34, scriveva su «Cultura sociale». Murri invocava allora l’autorità di s. Tommaso per affermare in un noto articolo, sempre su «Cultura sociale», del 1906, che «il suddito quindi è tenuto ad uniformarsi al comando del superiore se ed in quanto il comando è nell’ambito dell’autorità del superiore stesso»35. Ma proprio questa interpretazione veniva fortemente censurata su «La Civiltà cattolica»36, che la considerava come una proposta di una inaccettabile riforma della Chiesa; questa sarebbe stata una delle accuse anche al momento della sospensione a divinis, comminata dal vescovo di Fermo su richiesta di Pio X, e della scomunica nel 1909 in seguito alla decisione di presentarsi candidato in Parlamento sostenuto dalla Lega, dai radicali e dai socialisti. È proprio sul nodo autorità-obbedienza che più radicale è lo scontro e più nette e irreversibili le censure. Pio X, come è noto, aveva fatto dell’obbedienza totale e indiscussa uno dei pilastri e criteri della ortodossia e dell’appartenenza ecclesiale.

Con la scomunica aMurri veniva di fatto precluso ogni rapporto con il mondo cattolico che era il suo più vero interlocutore; nella sua risposta si diceva convinto «di essere col Cristo e nella grande anima della sua Chiesa»37; la sua è una profonda religiosità extraecclesiale, che si appella ad una religione della coscienza, necessaria per ottenere la trasformazione profonda dell’individuo. Ma quella riforma della vita politico-religiosa della Chiesa, che non era riuscito a realizzare dall’interno cerca ora di ottenerla con la forza dello Stato. Significative sono le sue iniziative parlamentari sulla riforma dei seminari, per l’introduzione nelle università di cattedre di storia delle religioni. Poco studiata è la sua evoluzione successiva che vede negli anni Venti l’adesione al fascismo. Del 1943 è il suo ritorno nella Chiesa romana, dopo un intenso periodo di trattative, senza quella ritrattazione che il Vaticano aveva richiesto in un primo momento.

Allora, di fronte alle ‘rovine’ della società contemporanea richiamava la sua esperienza per ricordare che «il rimedio va cercato in una rinnovazione religiosa delle coscienze» nella quale sperava potessero rifiorire «col nome, le speranze e i propositi della Dc di quaranta anni addietro»38.

Don Piastrelli

La vicenda di Luigi Piastrelli permette di ripercorrere un vasto moto di rinnovamento che ha attraversato anche la Chiesa italiana durante la crisi modernista, ben al di là dei protagonisti più noti. Di fronte alla violenta repressione di Pio X, l’obbedienza alla Chiesa, scelta anche se con sofferenza, comportò per Piastrelli, il silenzio sulle ipotesi e richieste di riforma e la dedizione unicamente all’attività pastorale. Ma l’esigenza del rinnovamento non veniva accantonata, né sconfessata, e sarebbe riemersa in molteplici occasioni, fino al concilio Vaticano II, vissuto con molta partecipazione, come una delle occasioni nelle quali riemergevano le antiche speranze soffocate perché rispondessero alle nuove esigenze dei tempi moderni per una teologia positiva39.

Si forma nel seminario di Perugia avendo come maestro Umberto Fracassini, poi a Roma, presso il collegio Capranica, segue i corsi di teologia della Gregoriana tenuti dal padreBillot, ma preferisce leggere i testi di Semeria e Lagrange; poi incontra Minocchi e approfondisce i testi di Loisy, Blondel, Boutroux, Tyrrel. Conosce Buonaiuti, padreGenocchi, padre Semeria, legge la «Critica sociale» e forte è il suo rapporto con Murri. Il suo impegno è per un «apostolato culturale» che permetta «una apologetica efficace nel mondo moderno […] onde tradurre le Verità fondamentali ed immutabili della fede cattolica in un linguaggio adatto alle esigenze del tempo»40. Sollecitato da Murri, Fracassini e Buonaiuti, nel 1907 immagina un programma di tematiche da trattare in un convegno che poi sarebbe stato quello di Molveno. Ma in aprile, dopo la sospensione a divinis di Murri, Piastrelli scrive di getto quella lettera al papa, A Pio X. Quello che vogliamo. Lettera aperta di un gruppo di sacerdoti, che conosce una grande diffusione e una traduzione in molte lingue, uno dei più noti tra gli opuscoli riformatori che precedono la Pascendi. Il testo denuncia le carenze del clero, che non è capace di cogliere le richieste di trasformazioni politiche necessarie, ponendosi dalla parte delle forze della conservazione.

Si delinea un parallelo tra il legame della Chiesa con le forze conservatrici sul piano sociale e quello tra il dogma cattolico e la filosofia scolastica.

Il testo concludeva con un appello a Pio X chiedendo «saggezza, calma, equità, clemenza». Il programma di Molveno riprende le tematiche che Piastrelli aveva ampiamente illustrato in lettere precedenti a Murri; per un reale rinnovamento religioso egli sottolinea l’importanza di rivolgersi alla massa del clero, a molti del clero giovane, perché «per la falsa educazione intellettuale ricevuta nei seminari, incapaci di comprendere la sostanza e la forma degli articoli sparsi nelle nostre riviste che già suppongono una certa formazione scientifica, non ci hanno compreso e son divenuti nostri avversari»41. Il progetto prevedeva quindi «una serie organica di opuscoli di volgarizzazione, ma compilati con metodo rigorosamente scientifico, per offrire alla gioventù studiosa un prospetto integro, facile e chiaro di tutto il problema apologetico che dovrebbe sostituire i quondam luoghi teologici». Il convegno di Molveno, alla fine di agosto, rivelava impostazioni diverse tra i partecipanti che non permettevano alcun progetto unitario. Comunque nel settembre veniva pubblicata la Pascendi che, scriveva Buonaiuti a Piastrelli, «è terribile». Piastrelli e Fracassini in Francia la leggono su un quotidiano «rimanendo allibiti». Maurilio Guasco ha osservato: «Nessuno si riconosceva in prima persona: poiché nessuno aveva elaborato un sistema»42. Piastrelli cerca ancora degli spazi di riforma, frequenta alcune riunioni in casa Buonaiuti, ma ne rimane deluso; un allontanamento che sarebbe divenuto ben presto definitivo; in quel periodo scrive a Murri: «Io credo che la prima fase del movimento modernista sia per ora tramontata». Prevede la necessità di «un nuovo indirizzo più concreto ed uniforme di pensiero e di azione religiosa […]. Per questo è bene non spingere a precipizio le cose e provocare palingenesi sociali e fondare nuove religioni»43. La sua preoccupazione è rivolta in primo luogo al giovane clero, anche per i criteri ormai prevalenti nell’organizzazione e nel controllo degli studi dei seminari.

Sulla riforma dei seminari promossa da Pio X Piastrelli prevede che non può porre «un riparo a questi mali: li ha resi anzi più profondi e acuti». Pur giudicando alcune norme, come quelle dell’obbligo del conseguimento della licenza liceale o del seminario centrale nelle provincie, necessarie, pone il problema della scelta dei responsabili, selezionati solo con il criterio de «l’amodernismo – sinonimo di assenza d’ogni conoscenza della società e della cultura contemporanea – e la santità della vita acquistata coll’inerzia e colla passività di lunghi anni».

Gli studi storici degli ultimi decenni sulla formazione sacerdotale negli anni successivi alla crisi modernista hanno confermato quella diagnosi e quelle previsioni, formulate da Piastrelli, sulle difficoltà incontrate proprio dagli allievi più intelligenti e vivaci. A Piastrelli viene proibito il ritorno a Roma alla fine del 1908; a Perugia gli viene offerto l’insegnamento nel seminario, dopo l’allontanamento di Fracassini da rettore. Ma Perugia è tenuta sotto stretta sorveglianza e senza motivazioni significative l’incarico non viene confermato nell’anno successivo. Il suo impegno è allora unicamente pastorale, nella parrocchia di s. Agata; ricordando quel periodo su «Humanitas» scrive:

«La lotta contro il modernismo continuò spietata. Venne il giuramento antimodernista; cominciarono le defezioni. Era l’ora delle tenebre. Ciascuno di noi si pose davanti alle proprie responsabilità ed a quelle verso la Chiesa che intendevamo servire con animo fedele. Comprendemmo che era venuto il momento del silenzio e della preghiera»44.

Rimane il problema, da porre anche storicamente, della grande dispersione di energie, di speranze; di una repressione che non permetteva neppure di porre il problema del confronto con la società contemporanea e che, particolarmente in Italia, avrebbe accentuato fortemente un ritardo di riflessione culturale e teologica.

Nel 1919 a Perugia Piastrelli è uno dei fondatori del Partito Popolare e poi si impegna nella Fuci, creando il circolo universitario ‘Toniolo’ e divenendo nel 1922 assistente nazionale del ramo femminile e nel 1923 anche di quello maschile; di fatto attuando quella unificazione che l’associazione difendeva contro le pressioni in senso «anti autonomistico»45 della Giunta centrale dell’Azione cattolica, che avrebbe voluto vedere nei nascenti circoli femminili «un ramo della Unione femminile cattolica». La sua presenza nella Fuci era una testimonianza ulteriore di una qualche eredità del modernismo; era ormai l’unica associazione cattolica nella quale si

«polemizzasse con decisione contro ogni scissione tra scienza e fede, nella quale si considerasse negativamente la prospettiva di “cattolicesimo integrale”, nella quale si bollasse l’“estremismo” di Giuliotti […], in cui l’industrializzazione fosse considerato un fenomeno positivo»46.

Quella nomina per Piastrelli ebbe il significato di «un riconoscimento ufficiale da parte dell’autorità ecclesiastica, quasi una riconciliazione solenne dopo gli anni dell’isolamento»47. Le sue dimissioni nel 1925 sono da leggere nel clima politico di quegli anni. Le riforme degli statuti, che imponevano un ulteriore accentramento con la nomina pontificia dei presidenti nazionali di Azione cattolica, sono legate al mutato clima politico tra Vaticano e regime fascista. In una lettera di quel periodo scriveva: «La Chiesa oggi è incatenata da questa potenza paganeggiante di cui condivide i metodi di azione e i criteri di autorità»48. Pur mantenendo un rapporto stretto di amicizia con Montini, suo successore come assistente nazionale della Fuci, non partecipò più alla sua attività, dedicandosi unicamente all’azione pastorale nella parrocchia di S. Agata, che diveniva un centro di riferimento per la comunità ecclesiale e per l’ambiente cittadino. Solo alla fine degli anni Cinquanta avrebbe accettato, con qualche iniziale reticenza, di parlare della sua lunga e sofferta esperienza con Pietro Scoppola che conduceva le sue prime ricerche sulla crisi modernista49.

Don Mazzolari

Collegata con le speranze e le sofferenze dovute alla crisi modernista e alla dura repressione di quelle istanze è anche la vicenda di un protagonista tra i novatori del Novecento, Primo Mazzolari.

Giovane chierico nella Chiesa cremonese di Bonomelli, si era formato a quelle prospettive di un rapporto positivo con la storia, nel superamento del temporalismo ecclesiastico, che il suo vescovo aveva espresso anche nella pastorale La Chiesa e i nuovi tempi del 1906, che grandi speranze aveva suscitato incontrando anche molte difficoltà con le autorità romane. Sulla sua vocazione una notevole influenza era stata esercitata dalla figura del barnabita padre Pietro Gazzola, allontanato da Milano per il sospetto di modernismo. Da giovane seminarista Mazzolari aveva seguito con entusiasmo le prospettive della democrazia cristiana di Murri; nella sua decisione di confermare la sua vocazione sacerdotale, negli anni del seminario, c’era la consapevolezza dell’accettazione di una difficile fedeltà, seguendo l’esempio di Bonomelli, di un’obbedienza ‘in piedi’ accolta con atteggiamento di servizio, superando il dubbio «se si deve rimanere o uscire (dalla Chiesa), dubbio che si è affacciato un giorno violentissimo»50. Le figure di padre Gazzola e Bonomelli sarebbero rimaste in lui come esemplari di una vita sacerdotale e di un modo di essere Chiesa; nel ricordarli richiamava le difficoltà e le ingiustizie subite dai superiori, ma anche l’obbedienza pur accettata con sofferenza. Questi temi sono molto presenti nelle sue riflessioni, coniugate con la convinzione della necessità di una riforma della Chiesa, che si poteva ottenere più efficacemente rimanendo all’interno; premessa indispensabile per un rapporto pastorale più efficace. Tutta la sua vita è caratterizzata da questa duplice fedeltà: l’obbedienza, ma anche la franca esposizione di prospettive ed esigenze diverse. Nei suoi appunti molto presente è la tradizione cattolico-liberale, da Lacordaire a Montalembert, ma anche l’antica tradizione della teologia morale, nel suggerire il rispetto per i lontani, per gli erranti, che rimarrà una costante della sua spiritualità prima ancora che della sua pastorale: «se il credere è grazia, non si può opporre il nostro privilegio al loro star male»51. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, Mazzolari partecipa alle posizioni della Lega democratica nazionale, condividendo le linee dell’interventismo democratico, in una prospettiva che tendeva ad unire religione e patria; ma quella esperienza, con la rivelazione della tragedia e della vastità della strage, lo avrebbe portato a una profonda revisione di alcuni di quei postulati. In particolare fin da questi anni si pone con forza il problema della riforma del clero, del rapporto con il laicato e dell’autonomia dell’azione del ruolo laicale. Sono temi e riflessioni ben presenti nei romanzi autobiografici La pieve sull’argine e L’uomo di nessuno52. Inoltre inizia una riflessione sugli eventi bellici, che lo porterà, durante il secondo conflitto mondiale, al rifiuto della guerra, fino alle posizioni coraggiose e isolate di fronte alla minaccia atomica, nel contesto italiano degli anni Cinquanta. Dagli anni Venti l’azione pastorale nella parrocchia, prima a Cicognara poi a Bozzolo, diventa il centro della sua attività religiosa; la cura d’anime come possibilità di essere vicino alle sofferenze di tutti, non solo cattolici, diventa una scelta pastorale e spirituale, che incontra molte incomprensioni, anche tra gli altri sacerdoti. Come parroco evita l’associazionismo cattolico, che rischiava di dividere i fedeli, visita tutte le famiglie, socialiste e cattoliche, partecipa alle lotte sindacali degli operai del suo paese, rifiuta le tariffe per le liturgie, condanna le prime violenze fasciste, attirando su di sé molte accuse e controlli. Mantiene un rapporto filiale, di obbedienza ma anche di franchezza, con il vescovo che non gli nega la sua fiducia53. È questa la prospettiva con la quale parlerà del sacerdote e del rapporto con i lontani, temi che gli hanno ispirato testi ben noti negli anni Trenta, come La più bella avventura54. Questo scritto viene giudicato erroneo dal Sant’Uffizio nel 1935, se non per errori dottrinali almeno per inopportunità; lo stesso provvedimento colpiva nel 1943 Impegno con Cristo; le censure alle sue prediche o interventi sono molto frequenti; in tutti questi anni la polizia lo controllava continuamente e interveniva anche tramite il Vaticano. Di fronte al fascismo la sua opposizione è netta ed espressa con la consapevolezza che la Chiesa antepone i privilegi acquisiti alla difesa dei diritti di tutti. Il suo rifiuto di farsi «strumento di galoppinaggio elettorale»55 in occasione del plebiscito per la Conciliazione, provoca un intervento delle autorità fasciste presso il vescovo. I controlli e le difficoltà frapposte dal regime sono continue. Nonostante ciò tra il 1938 e il 1940 vengono pubblicati Il samaritano; Tra l’argine e il bosco; I lontani e La Via Crucis del povero.

Fin dal primo dopoguerra, pur distinguendosi dalle posizioni di Gemelli che riproponeva il modello della società cristiana medievale, aveva formulato la speranza di una nuova cristianità, una nuova ‘società cristiana’, ispirata dalla Chiesa, un modello che Mazzolari non avrebbe mai abbandonato, pur declinandolo con temi e linguaggi differenti da quelli consueti nella cattolicità italiana. Nel socialismo, così come nel secondo dopoguerra nel comunismo, vede la denuncia di una esigenza evangelica dimenticata e si pone il problema di una riflessione storica sulle responsabilità e sui silenzi della Chiesa in relazione alle ingiustizie sociali. La sua distanza rispetto alla cattolicità italiana è molto ampia e le censure frequenti lo confermano. Partecipa alla Resistenza con i guelfi di Malvestiti e nel secondo dopoguerra, pur aderendo alla Dc, propone i temi della rivoluzione cristiana, un diverso rapporto con le forze di sinistra e un forte impegno per la pace, connesso con l’affermazione dell’autonomia della coscienza, assumendo posizioni di testimonianza radicale per la pace. Nei primi anni Cinquanta tiene una rubrica su «Adesso», la rivista che ha fondato dal gennaio 1949, dal titolo Pace nostra ostinazione. Quegli articoli sarebbero stati pubblicati in un volume nel 1955 con il titolo Tu non uccidere. Nel 1958 il Sant’Uffizio ordina il ritiro del volume.

Egli vuol collocare anche i problemi internazionali all’interno di un discorso di difesa dei poveri: «gli umili, la povera gente, che guarda a oriente per le stesse ragioni che altri umili e altra povera gente guarda a occidente, vuole la pace con egual cuore. Essi dunque sono uomini di pace, come noi siamo uomini di pace»56. La sua predicazione fu permessa solo in parrocchia; la sua testimonianza veniva riconosciuta come evangelica solo da Giovanni XXIII pochi mesi prima della sua morte.

Mazzolari era diventato una delle figure più significative del secondo dopoguerra per il forte richiamo evangelico connesso alla denuncia dei costi religiosi, ecclesiali e anche politici della identificazione della Chiesa italiana con la politica della Dc e per la rivendicazione di scelte diverse sul piano sociale, chiedendo un’attenzione e una condivisione delle ragioni e dei problemi dei poveri e dei lontani.Lorenzo Milani è una delle voci che con maggiore lucidità intervenne con parole nuove in questa situazione di crisi del mondo cattolico italiano.

Lorenzo Milani

La sua origine familiare, con il padre Comparetti e la madre Weiss che erano eredi di tradizioni culturali molto ricche e raffinate, gli aveva trasmesso una capacità critica e un’attenzione filologica nella lettura dei testi che, fin dal confronto con una cultura ecclesiastica come quella del seminario, rivela una certa distanza fin dagli anni di preparazione al sacerdozio. Egli infatti non assunse mai acriticamente i modelli legati a quella ricostruzione di una società cristiana, che coinvolsero tutta la realtà del mondo cattolico del dopoguerra. Più sensibile inizialmente agli ambienti riformatori che si ispiravano a Dossetti sul piano politico e attento alla riflessione pastorale che era scaturita in Francia e poi in Italia, a partire da La France pays de mission? e dall’esperienza dei preti operai, durante l’esperienza di cappellano a S. Donato la sua analisi diviene più radicale. Il problema dei poveri, degli operai, dei lontani, le compromissioni del clero e della Chiesa con la politica e con il potere democristiano suggeriscono, in un promemoria rivolto al cardinale Dalla Costa nel 1953, una netta separazione tra l’annuncio evangelico e la prassi del potere, politico ed ecclesiastico:

«Mi son così convinto del grave stato di disagio in cui vive il mio popolo, delle ingiustizie sociali delle quali è vittima e della profondità del rancore che nutriva verso la classe dirigente, il governo e il clero. Ho allora sentito quanto questo rancore fosse insormontabile ostacolo alla sua evangelizzazione e ho perciò deciso di dedicarmi a una precisa distinzione di responsabilità»57.

Esperienze pastorali, pubblicato nel 1958, quando era a Barbiana da quattro anni per un trasferimento che era stato giudicato e sentito come un esilio, rappresenta una meditazione radicale sugli errori della Chiesa italiana, ma anche una approfondita ricerca sui contenuti della fede del suo popolo. La presenza di una religiosità consuetudinaria, ormai residuo di una civiltà contadina e di una cristianità che si era dissolta, si risolve in un ossequio solo formale agli obblighi cultuali che Milani accusa di «incoerenza» e ritiene privo di ogni reale valore cristiano. Nella sua analisi nega che la «scristianizzazione» potesse essere dovuta al comunismo, contro il quale tanta parte della Chiesa italiana si era mobilitata:

«Cos’ha di cristiano una fede che osserva il rito (e non tutto) e poi fuori di quello non vuol essere turbata in nulla? […] Hanno votato per il comunismo. E i preti sono cascati dalle nuvole. È parso loro un mostro improvviso, imprevedibile, inspiegabile. […] Era da secoli che il loro cuore si rifiutava a qualsiasi intervento del Cristo e della Chiesa nella loro vita»58.

La Chiesa in realtà non aveva saputo cogliere le ragioni profonde dei mutamenti e non si era schierata in difesa di più deboli: «I contadini […] hanno intuito prima di noi l’inconsistenza cristiana dell’attuale ordinamento sociale. Quando hanno aperto gli occhi non ci hanno trovato schierati alla difesa della loro conculcata dignità umana. Hanno allora perso ogni fiducia nell’insegnamento del prete»59.

I suoi giudizi sulle responsabilità politiche e pastorali della Chiesa avevano trovato qualche isolata comprensione, come quella di La Pira, che era stato tramite con mons. D’Avack, vescovo di Camerino, che aveva scritto la prefazione; questi, nel giustificare la propria scelta in una lettera al Sostituto della Segreteria di Stato Angelo Dell’Acqua, che gli aveva inviato una relazione molto severa sul volume, sottolineava «i gravissimi danni spirituali» che derivavano dalla decisione di «imporre gravemente ai cattolici di sostenere un unico partito»60. La consapevolezza dei costi religiosi ed ecclesiali di una così ampia politicizzazione della vita religiosa era condivisa anche dal cardinale di Firenze Elia Dalla Costa, che aveva cercato di applicare in modo ‘misericordioso’ la scomunica ai comunisti, prevedendone il costo per le fratture ecclesiali, e che, pur con modalità che non sono del tutto chiarite, aveva concesso l’imprimatur al volume. Ma questa consapevolezza non era condivisa nella gerarchia cattolica italiana e dopo poco il volume veniva ritirato dal commercio per richiesta del Sant’Uffizio, che faceva anche pubblicare una censura su «L’Osservatore romano».

Le considerazioni contenute in Esperienze pastorali sono all’origine di quel «classismo anticlassista»61, come è stata felicemente descritta la sua posizione, con lo schierarsi dalla parte dei poveri, come prete e maestro, per dare ai poveri la parola, il possesso pieno della lingua, quale condizione per avere strumenti e voce per incidere, per cambiare la realtà, ma anche per una consapevole adesione alla proposta evangelica. Questo era stato il significato della scuola popolare di S. Donato a Calenzano, aperta a cattolici e comunisti. A Barbiana, dove la realtà tradizionale della struttura parrocchiale era quasi inesistente, si accentua l’identificazione tra sacerdote e maestro. Ma la ricerca e l’indicazione di modalità diverse per la presenza religiosa non modifica in Milani il suo modo di essere prete nella Chiesa, né la sua immagine di Chiesa, identificata in primo luogo con la sua missione salvifica, strettamente legata alla vita sacramentale e alla predicazione della Parola, piuttosto che con la sua struttura gerarchico-istituzionale. Profondamente sentita è la responsabilità verso il «suo» popolo, pur in un atteggiamento profondamente rispettoso delle scelte di coloro che sono lontani. Le sue posizioni relative ad autorità e obbedienza avevano trovato censure frequenti nel nuovo arcivescovo di Firenze, mons.Ermenegildo Florit. Nei primi anni Sessanta a Firenze, in occasione del processo al primo obiettore cattolico, Gozzini, si crea una solidarietà in più ambiti e lo scolopio Ernesto Balducci viene accusato e subisce un processo per apologia di reato per aver difeso la liceità dell’obiezione di coscienza. In una lettera circolare, scritta insieme a don Bruno Borghi e inviata a tutti i sacerdoti della diocesi, Milani affrontava proprio questi temi, che ricorrono in più occasioni nelle sue lettere. Uno dei testi più significativi è la lettera inviata nel 1959 a Pistelli per «Politica» e non pubblicata allora: Un muro di foglio e d’incenso. Analoga è l’ispirazione della Lettera ai cappellani toscani e poi della Lettera ai giudici, in occasione del processo per apologia di reato per aver difeso l’obiezione di coscienza; di fronte alla crisi di civiltà che deriva dall’incapacità di rispondere adeguatamente ai rischi di una guerra nucleare la sua risposta per un rinnovamento civile e religioso è nella sua prassi di scuola: «Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto»62.

Milani fu poi condannato dalla Corte d’appello nell’ottobre del 1968, quando era già morto. Dal 1966 aveva iniziato con i suoi ragazzi la scrittura collettiva della Lettera a una professoressa, che ebbe una vastissima risonanza con la denuncia dei meccanismi di selezione di classe nella scuola italiana. L’acquisizione della parola e della lingua, che era stato elemento base di tutta la sua scuola, diventava strumento di liberazione e proposta anche sociale e religiosa.

Le difficoltà, la grande risonanza e gli entusiasmi suscitati da Milani sono emblematici della crisi vissuta dalla Chiesa italiana a partire dagli anni Cinquanta e negli anni del concilio. Le indicazioni della gerarchia e le mobilitazioni elettorali si scontravano con una società attraversata da conflitti e caratterizzata da una laicizzazione della vita civile che era molto lontana da quel modello di ‘società cristiana’ idealizzato. Emergono figure che indicano esigenze e proposte diverse, che assumono il pontificato di Giovanni XXIII e ilconcilio Vaticano II come la risposta ad una riforma lungamente attesa.

Turoldo e Balducci

David Maria Turoldo, servita, ed Ernesto Balducci, scolopio, possono ben considerarsi esemplari di questa stagione della vita della Chiesa e della società italiana. Turoldo è già sacerdote negli anni della guerra; la sua partecipazione alla Resistenza, con l’inseparabile amico e confratello Camillo de Piaz, lo ha segnato profondamente; ricorderà più volte la necessità della memoria, la denuncia del tradimento di tante speranze; in quegli anni e in quelli successivi a Milano – ha scritto – «ho imparato a “resistere” e a “essere libero”. Non per nulla, fin da allora, feci precisamente della Resistenza la mia divisa interiore. E mai mi pentii di avere già da quegli anni coniata la nuova beatitudine: “beati coloro che hanno fame e sete di opposizione”: a salvarmi da seduzioni e da allettamenti»63. La sua fedeltà alla Chiesa, come sarebbe avvenuto per Balducci, si caratterizza come una fedeltà critica e libera:

«A questi livelli va considerata la mia fedeltà e la mia libertà rispetto alle istituzioni. Da qui si deve dedurre il mio modo di essere e di stare nella Chiesa; un esserci (un Dasein) sempre in dialettica, uno starci in permanenza con spirito critico, amorosamente critico. Critico per passione, critico per fede»64.

I modelli di fedeltà che ripropone sono significativi: Newman, Rosmini, papa Giovanni, Mazzolari, esemplari in primo luogo di un rapporto di amore «alla tradizione, alle tradizioni», coniugato con «l’urgenza della novità»65. La sua opposizione ad un partito ‘cattolico’ si pone in continuità con l’esperienza della Resistenza, contrariamente a quella che era la linea prevalente.

A Milano l’impegno della Corsia dei Servi, con Turoldo e de Piaz, è volto a realizzare un dialogo e una collaborazione tra credenti e non credenti, come è evidente nel foglio «L’uomo», ideato dopo il 25 luglio e clandestino dopo l’8 settembre, che anche dopo la liberazione difendeva il ruolo del Cln, era attento alle vicende della Sinistra Cristiana e all’esperienza de «Il Politecnico», testimoniata anche dall’amicizia di de Piaz con Vittorini. Atteggiamenti che coesistevano con alcuni accenti apologetici, ma che erano comunque molto lontani, anche sul piano spirituale, dal trionfalismo ierocratico legato alla regalità di Cristo, esaltato da Gemelli. Turoldo è molto coinvolto nell’esperienza di don Zeno Saltini e nella nascita di Nomadelfia, inizialmente permessa anche da Schuster, poi guardata con molto sospetto dalla Dc e dalla gerarchia e interrotta nel 1952 per un certo periodo. Mazzolari e la sua rivista «Adesso» dal 1949 costituiscono un polo di riferimento comune, un modello nel proporre temi e problemi, in particolare l’urgenza dei poveri, che imponeva scelte significative in ambito politico-sociale, così come per la riflessione sulla pace. Si creano allora legami tra gruppi e riviste che negli anni Cinquanta hanno avuto un ruolo significativo di rinnovamento nella cattolicità italiana. Questi sono anche colpiti regolarmente dalle censure del Sant’Uffizio, con una notevole corrispondenza di date e di accuse, generiche, ma sostanzialmente coincidenti nel rimprovero di ‘criptocomunismo’.

Uno di questi poli di riferimento diviene la Firenze di La Pira e Balducci. Negli anni del seminario Balducci aveva trovato difficoltà per i suoi interessi culturali più ampi e diversi dai programmi imposti e aveva trovato molte diffidenze e ostilità da parte del rettore. Dai primi anni Cinquanta si allontana dagli interessi prevalentemente letterari, comuni a un certo cattolicesimo fiorentino; si laurea con Momigliano suFogazzaro, riflette sulle tematiche proprie della crisi modernista e Rosmini diventa un importante fonte di riferimento. Le Cinque piaghe rappresentano uno dei testi più ricorrenti nelle sue meditazioni. Nella sua riflessione, in questi anni, si evidenzia l’influenza delle linee di tanta parte della teologia europea contemporanea, francese in primo luogo. Egli partecipa, con un progetto su Rosmini, alle ipotesi editoriali legate alla «nuova collezione» di «testi e fonti cristiane» che viene promossa dalla Corsia dei Servi nei primi anni Cinquanta. È convinzione di questi ambienti che sia necessario «ritornare alle fonti», perché i «numerosi battezzati che affermano di non credere più […] hanno bisogno che la Chiesa sia loro riproposta nella sua essenza sacra e misteriosa, di là degli offuscamenti di certe sovrastrutture temporali e al di fuori di certe forme di proselitismo di massa»66, come afferma Camillo de Piaz nel 1955 in un promemoria steso su sollecitazione di monsignor Pignedoli; questo testo suscitò diffidenze in Montini, che riteneva celasse «un criterio pericoloso». Come «Quaderni di spiritualità» viene fondata da Balducci, nel 1958, la rivista «Testimonianze».

Ma Turoldo già nel 1952, nonostante una certa protezione da parte di Schuster che gli aveva affidato la predicazione in duomo, viene trasferito da Milano; il cardinal Ottaviani, prefetto del Sant’Uffizio, aveva imposto questa scelta al padre generale: «fatelo girare, perché non coaguli»67; il motivo principale era Nomadelfia, che infatti nello stesso anno venne chiusa e i ragazzi dispersi. Inizia così una peregrinazione continua in numerosi paesi europei e americani, fino al 1954, quando per interessamento di La Pira e del padre provinciale Taucci, che lo comprendeva anche perché aveva avuto problemi con la gerarchia durante la crisi modernista, viene chiamato a Firenze alla SS. Annunziata. Nel clima fiorentino di quegli anni Turoldo partecipa con entusiasmo a numerose iniziative, conosce Milani, Bartoletti, Rosadoni. Ma dal 1959, quando Florit assume la guida della diocesi, viene di nuovo allontanato, per ordine del Sant’Uffizio. Analoga sorte tocca a Balducci e a Giovanni Vannucci, anch’egli servita. Turoldo riprende così la sua peregrinazione in Europa e in America fino al 1963, quando, dopo la morte di papa Giovanni, chiede di andare in un convento a Sotto il Monte, fondando un Centro di studi ecumenici Giovanni XXIII; il vescovo di Bergamo Clemente Gaddi accetta la sua proposta e mantiene un rapporto di stima e di lealtà nei suoi confronti. Per comprendere appieno questa iniziativa bisogna ricordare il grande rilievo avuto dal pontificato di Roncalli nella Chiesa, per la convocazione del concilio e per le nuove prospettive che si intravedevano, per la speranza di una riforma, ma anche come un modello spirituale nel quale si coniugavano mitezza evangelica e il coraggio della convocazione del concilio.

La stagione conciliare rappresenta, non solo per questi sacerdoti, un momento nel quale sembrano avverarsi attese e speranze a lungo coltivate, che si ritrovano negli accenti dei padri conciliari. In questi anni in realtàBalducci subisce il processo e la condanna per apologia di reato per aver difeso l’obiezione di coscienza; ma tale condanna viene vissuta in un momento di plenitudo68, come scrive nel Diario, per le speranze legate al rinnovamento conciliare. Si accentua allora una grande attività pubblicistica e divulgativa per creare una consapevolezza ecclesiale sui temi del concilio e mobilitare un movimento che possa riformare la Chiesa e la società. Molte iniziative, e in particolare quelle per la pace, vedono una partecipazione comune di Balducci e Turoldo, anche se quest’ultimo ha una presenza peculiare con la sua produzione poetica. La difficile realtà del postconcilio, con la riproposizione di modelli in continuità con la tradizione precedente da parte della gerarchia italiana, e le tensioni inevitabili, vedono ancora Turoldo e Balducci su posizioni di autonomia o di dissenso e di «fedeltà critica». A proposito della riforma liturgica, un tema che era stato sempre al centro della sua attenzione e attività pastorale, Turoldo scrive:

«La Chiesa si ri-forma sempre partendo da un altare. Un popolo di Dio o nasce dalla liturgia o non nasce in nessun modo e in nessun altro luogo. Io sono convinto che la decisione più grande e ardita del Concilio è stata la riforma liturgica […]. Anche se poi la vera riforma è stata tradita e falsata a causa di una Chiesa che non ha avuto il coraggio di andare fino in fondo. Anzi è da qui che comincia il tradimento del Concilio […]. Il prete è tornato ad essere casta, ancora un isolato, forse più di prima»69.

Una crisi molto forte avrebbe scosso la Chiesa fiorentina nel 1968-1969 per le vicende dell’Isolotto. Balducci, che pur si era posto come momento di mediazione, doveva subire censure pesanti all’interno dell’ordine, e solo per intervento di Paolo VI non si arrivò a una condanna definitiva. Nel 1968, Sirio Politi, una delle figure storiche di prete-operaio, offriva il suo riferimento come segreteria a un coordinamento di sacerdoti che si erano ritrovati a Sotto il Monte, da Turoldo, anche con Balducci, per confrontarsi sul tema della «contestazione giovanile». La risposta delle autorità ecclesiastiche veniva giudicata assolutamente inadeguata, «ispirata ad un concetto del potere teologicamente immotivabile e sostanzialmente lesivo della corresponsabilità della comunità cristiana, come dimostrano, fra l’altro le gravi inadempienze nella creazione di quegli organismi previsti dal Concilio e dal Sinodo»70. Sono i temi che sarebbero divenuti consueti nelle comunità di base. Si accentua allora la contrapposizione tra le scelte di tanti, legati in vario modo a espressioni del dissenso o delle comunità di base, e le scelte dell’episcopato, tendenti a riproporre le linee del modello di cattolicesimo politico preconciliare. In una lettera al padre provinciale del 1972 Balducci ribadiva la sua posizione di frontiera, spiegando perché non gli era possibile rinunziare ad una duplice appartenenza, legata a «due imperativi»; infatti da una parte

«la ragione della mia esistenza è l’annuncio del Vangelo e l’impegno di testimoniarlo, nella vita e nei pronunciamenti, col massimo della fedeltà, senza riguardo di persona. Dall’altra è mio dovere e mia volontà ferma restare in comunione con la Chiesa e quindi con i suoi pastori. Non posso rinunciare a nessuno dei due imperativi, ma essi, al momento attuale, non possono andare d’accordo, né mi è lecito semplificare il conflitto passando con leggerezza sopra uno dei due»71.

Un punto di svolta è il referendum sul divorzio. È significativa la polemica che vede contrapposti Turoldo e Comunione e liberazione nella primavera del 1975, perché è emblematica delle dinamiche postconciliari nella Chiesa italiana e della ripresa di un processo di riaggregazione identitaria. Da quegli anni Balducci abbandona le speranze di una riforma della Chiesa, almeno nelle modalità sperate con il concilio, quando credeva alla realizzazione di

«quella universalità, di quel suo nuovo radicamento nella storia che era l’intento esplicito del Concilio […]. Tutte queste attese […] richiedono la fine dell’ecclesiocentrismo […]; di delusione in delusione sono giunto alla convinzione che la Chiesa, assumendo se stessa come centro, non è in grado di realizzare l’universalità di cui è potenzialmente segno e strumento. Basti pensare alla sorte toccata alla collegialità, che non è cosa da poco; basti pensare al ristabilirsi di un certo stile monarchico pontificio»72.

Nella sua predicazione allora si accentua il confronto tra la fede, la Parola e le scelte del credente, in un rapporto ravvicinato con le opzioni politico-sociali, tra le quali «la necessità morale della pace» assume la forza di «un imperativo assoluto da cui dipende la stessa sopravvivenza dell’umanità». In una prospettiva utopica immaginava un cambiamento radicale delle grandi religioni che assumessero come valore sommo la salvezza dell’uomo, in una integrazione tra culture diverse. Per il cristianesimo egli riteneva necessario un profondo ripensamento della theologia crucis, con l’assunzione della prospettiva dei più poveri ed emarginati e con la denuncia della logica del potere «di qualsiasi natura, anche quello sacro»73. Nella riflessione religiosa importante era recuperare il senso dell’ampiezza del mistero del Christus absconditus, per acquisire «una più profonda coscienza e una più ricca espressione di quella verità ancora nascosta»74.

Il tema della libertà, della fedeltà al Vangelo, in una Chiesa rinnovata aveva, pur in modi diversi, ispirato gli ambienti e i personaggi che si sono ricordati in questo percorso di quasi due secoli. Alcune di quelle istanze sono state accolte, sono stati formulati alcuni riconoscimenti, anche se spesso con grandi ritardi. Vanno però ricordati la sofferenza spesso richiesta a chi proponeva posizioni innovatrici e il peso di una tradizione difficile da superare, nella formazione del clero e nel modello ecclesiale, relativamente al rapporto con il mondo contemporaneo. Quelle ampie aperture e riforme che il confronto con le libertà moderne avevano suggerito e che ad alcuni erano sembrate realizzarsi nel concilio, in realtà restano come problemi aperti anche nei decenni successivi. Le linee che erano emerse nel dibattito conciliare sarebbero rimaste in un confronto ecclesiale non risolto dalle scelte della gerarchia e dei pontefici. In parte mutate sono le tematiche e i momenti del confronto, ma le diversità interne e la complessità della realtà ecclesiale rimangono, dovute all’esigenza di un profondo rinnovamento che continua ad animare la vita della Chiesa.

Note

1 Il trionfo della santa Sede e della Chiesa contro gli assalti dei Novatori combattuti e respinti colle loro stesse armi. Opera di don Mauro Cappellari monaco camaldolese ora Gregorio XVI, Venezia 1832.

2 «Costoro non affettano anche il titolo di filosofi, come fanno i primi, aborrono anzi di essere tradotti per Novatori mentre vogliono innovare all’antica, vogliono star fra i cattolici finché maturi la messe; ma sono miscredenti come gli altri», in Supplemento al Giornale ecclesiastico di Roma dell’anno 1793, Roma 1793, p. 110, cit. in A. Aquarone, Giansenismo italiano e rivoluzione francese prima del triennio giacobino, in Id., Alla ricerca dell’Italia liberale, Napoli 1972, p. 17, ma tutto il saggio è ricco di riferimenti a questa problematica.

3 A. Giovagnoli, Dalla teologia alla politica. L’itinerario di Carlo Passaglia negli anni di Pio IX e Cavour, Brescia 1984.

4 C. Passaglia, Petizione di novemila sacerdoti italiani a S.S. Pio IX e vescovi con esso uniti, Torino 1862; cfr. anche F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminiana lombardo-piemontese (1825-1870), Milano 1970.

5 A. Giovagnoli, Dalla teologia alla politica, cit., p. 209, pp. 165-209.

6 F. Traniello, s.v. Curci Carlo Maria, in DSMC, II, pp.142-146 e la bibliografia citata.

7 Lettera a Tito Chiesi, del 28 luglio 1853, in A. Gambaro, Riforma religiosa nel carteggio inedito di Raffaello Lambruschini, 2 voll., Torino 1926: II, pp.239-250, ripubblicata anche in A. Di Mauro, Libertà e riforma religiosa in Raffaello Lambruschini, Milano 2004, pp. 104-108, con un’ampia bibliografia.

8 E. Passerin D’entrèves, Il cattolicesimo liberale in Europa ed il movimento neoguelfo in Italia, in Nuove questioni di storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, Milano 1969, pp. 565-606.

9 «Io ho sempre conosciuto, come conosco tuttavia, le grandi riforme di che la Chiesa ha bisogno; e sono d’accordo in ciò col Rosmini e con tutti i più dotti e pii del nostro clero. Ho sempre desiderato altresì e desidero, che tutte le sette cristiane si riuniscano alla Chiesa cattolica: e considero la cosa fattibile in sé; ove di qua e di là non si opponessero idee preconcette e spiriti di parte», lettera di Lambruschini a Tito Chiesi del 28 luglio 1853, cit., p. 240.

10 F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna 2007, p. 23.

11 R. Lambruschini, Dell’autorità e della libertà. Pensieri di un solitario, edizione critica completa a cura di A. Gambaro, Firenze 1932, p. 13.

12 A. Gambaro, L’apporto di Raffaello Lambruschini al Risorgimento italiano, «Bollettino storico-bibliografico subalpino», 60, 1962, pp. 7, 20 segg.; per «La Civiltà cattolica» cfr. la recensione a Dell’istruzione elementare di secondo grado, del 1850, nel vol. III, sempre del 1850, pp. 157-163, dove si polemizzava non solo per l’idea della istruzione popolare e «donnesca», ma per i principi liberali che la ispiravano; e la recensione a Memorie sull’Italia, e specialmente sulla Toscana, dal 1814 al ’50, di G. Montanelli, Torino 1853, «La Civiltà cattolica», 1853, III, pp. 666-679, a p. 670 Montanelli, definito «apostata», veniva accomunato «col Lambruschini che vuol dichiararsi evangelico, combattendo il cattolicismo farisaico».

13 Lettera a Gino Capponi, del 7 agosto 1831, in A. Gambaro, Riforma religiosa nel carteggio inedito di Raffaello Lambruschini, cit., II, p. 2.

14 R. Lambruschini, Dell’autorità e della libertà, cit., pp. 193-194. Sul sansimonismo dell’autore cfr. F. Pitocco, Utopia e riforma religiosa nel Risorgimento. Il sansimonismo nella cultura toscana, Bari 1972; cfr. anche la recensione a questo volume di E. Passerin d’Entrèves, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 11, 1975, pp. 230-236.

15 R. Lambruschini, Dell’autorità e della libertà, cit., pp. 161-162.

16 E. Passerin d’Entrèves, Il cattolicesimo liberale in Europa ed il movimento neoguelfo in Italia, cit., p. 591.

17 F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale, cit., p. 93.

18 R. Lambruschini, Dell’autorità e della libertà, cit., p. 144-149.

19 Lettera a un amico (che Gambaro ipotizza sia il Tommaseo), in A. Gambaro, Riforma religiosa nel carteggio inedito di Raffaello Lambruschini, cit., II, pp. 67-90.

20 R. Lambruschini, Dell’autorità e della libertà, cit., p. 23.

21 Ibidem, pp. 146, 148.

22 Lettera a un amico, cit., in A. Gambaro, Riforma religiosa nel carteggio inedito di Raffaello Lambruschini, cit., II, p. 67.

23 R. Lambruschini, Pensieri di un solitario, a cura di M. Tabarrini, Firenze 1887.

24 G. Verucci, L’eresia del Novecento. La Chiesa e la repressione del modernismo in Italia, Torino 2010, pp. 100-106; cfr. anche M. Guasco, Il «caso Gambaro» (1912-1913), «Fonti e documenti», 9, 1980, pp. 515-571.

25 L. Pazzaglia, Apprendistato e istruzione degli artigiani a Valdocco (1846-1886), in Don Bosco nella storia della cultura popolare, a cura di F. Traniello, Torino 1987, pp. 13-80.

26 P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, 2 voll., Zürich 1968-1969: I, pp. 106-109.

27 C. Fasano, Murialdo Leonardo, in DSMC, cit., pp. 409-414, con l’indicazione della bibliografia.

28 L. Pazzaglia, Apprendistato e istruzione degli artigiani a Valdocco, cit., p. 17.

29 P. Bairati, Cultura salesiana e società industriale, in Don Bosco nella storia della cultura popolare, cit., pp. 331-357.

30 R. Murri, Note autobiografiche (inedite), in G. Gronchi, Quello che ha significato Romolo Murri, a cura di L. Bedeschi, Urbino 1997, pp. 113-114. Su Murri, molto ampia è la bibliografia, cfr. le due voci biografiche di M. Guasco, s.v. Murri Romolo, in DSMC, II, pp. 414-422 e di L. Bedeschi in Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, Roma 1977, pp. 616-626; cfr. inoltre Romolo Murri nella storia politica e religiosa del suo tempo, a cura di G. Rossini, Roma 1972, in partic. M. Guasco, Aspetti religiosi, pp. 91-135; Romolo Murri e i murrismi in Italia e in Europa cent’anni dopo, a cura di I. Biagioli, A. Botti, R. Cerrato, Atti del Convegno internazionale (Urbino 2004), in partic. D. Menozzi, Murri e il rinnovamento ecclesiale, pp. 17-58, e la bibliografia richiamata nei saggi.

31 I. Biagioli, Con Roma e per Roma sempre!, in Id., Battaglie d’oggi, I, Roma 1904, p. 16, n. 1.

32 L. Bedeschi, Cristianesimo e libertà. Il discorso di Romolo Murri (San Marino 1902), Urbino 1999, p. 129.

33 Ibidem, p. 133.

34 R. Murri, L’anarchia spontanea, «Cultura sociale», 1905, 1 aprile.

35 Il concetto dell’obbedienza in san Tommaso d’Aquino, «Cultura sociale», 1906, 1 maggio, pp. 18-20, cit. a p. 18; cfr. M. Guasco, Romolo Murri. Tra «Cultura sociale» e «Il domani d’Italia» (1898 -1906), Roma 1988.

36 S. Brandi, L’obbedienza al papa e alla chiesa nella dottrina di S. Tommaso, «La Civiltà cattolica», 57, 1906, 2, pp. 641-658; cfr. D. Menozzi, Murri e il rinnovamento ecclesiale, cit., pp. 42-45.

37 Lettera a monsignor Castelli, arcivescovo di Fermo, del 19 marzo 1909, dopo l’annuncio della scomunica, cit., da M. Guasco, Aspetti religiosi, cit., p. 127.

38 Citato da M. Guasco nella voce biografica nel DSMC, cit., p. 421.

39 Una lettera di Piastrelli ad «Humanitas», in Per il rinnovamento cattolico. La testimonianza di Luigi Piastrelli, con lettere inedite di G.B. Montini, a cura di M.C. Giuntella, Brescia 1981, pp.29-43, cit. a p. 32.

40 Ibidem, p. 37.

41 Ibidem, p. 237.

42 M. Guasco, Modernismo. I fatti, le idee, i personaggi, Cinisello Balsamo 1995, pp. 164-165.

43 Cit. da M. Guasco, L’azione di mons. Piastrelli nei confronti del giovane clero, cit., p. 57.

44 Una lettera di Piastrelli ad «Humanitas», cit., pp. 42-43.

45 M.C. Giuntella, Luigi Piastrelli assistente nazionale delle FUCI (1922-1925), in Per il rinnovamento cattolico. La testimonianza di Luigi Piastrelli, cit., pp. 73-89, cit. a p. 75.

46 R. Moro, La religione e la «nuova epoca». Cattolicesimo e modernità tra le due guerre mondiali, in Il modernismo tra cristianità e secolarizzaione, a cura di A. Botti, R. Cerrato, Urbino 2000, p. 551.

47 M.C. Giuntella, Luigi Piastrelli assistente nazionale delle FUCI (1922-1925), cit., p. 78.

48 Ibidem, p. 86.

49 P. Scoppola, Luigi Piastrelli e il modernismo, in Per il rinnovamento cattolico. La testimonianza di Luigi Piastrelli, cit., pp. 17-27. Per questi motivi nella prima edizione del suo lavoro Scoppola aveva indicato il nome di Piastrelli con una sigla.

50 P. Mazzolari, Diario (1905-1926) e Lettere a V. Fabrizi de Biani, presentazione e note di A. Bergamaschi, Bologna 1974, p. 539 (7 gennaio 1917), cit., in G. Miccoli, Una presenza cristiana nella cronaca e nella storia italiana, in G. Miccoli, E. Peyretti, G. Vaggi et al., Don Primo Mazzolari. L’uomo, il cristiano, il prete, Milano 1986, pp. 7-54. Molto ampia è la bibliografia su Mazzolari; per iniziativa della Fondazione Mazzolari è in corso l’edizione critica delle opere, alcuni volumi sono stati editi.

51 P. Mazzolari, I lontani. Motivi di un apostolato avventuroso, Bologna 1981, p. 53.

52 P. Mazzolari, La pieve sull’argine; L’uomo di nessuno, a cura di D. Saresella, Bologna 2008.

53 P. Mazzolari, Obbedientissimo in Cristo… Lettere al vescovo 1917-1959, a cura di L. Bedeschi, Milano 1996.

54 P. Mazzolari, La più bella avventura, Brescia 1974; sulle censure e il ritiro dal commercio cfr. P. Mazzolari, Obbedientissimo in Cristo…, cit., in partic. pp. 99-174.

55 P. Mazzolari, Obbedientissimo in Cristo…, cit., pp. 70 segg.

56 M. Guasco, Tensioni cattoliche e guerra fredda, cit., p. 489.

57 L. Milani, Lettere alla mamma, 1943-1967, Milano 1973, p. 100.

58 L. Milani, Esperienze pastorali, Firenze 1958, p. 198.

59 Ibidem, p. 334.

60 Lettera di G. D’Avack, arcivescovo di Camerino a monsignor Angelo Dell’Acqua, sostituto della Segreteria di Stato, del 6 agosto 1958, pubblicata in M. Toschi, Don Lorenzo Milani e la sua Chiesa. Documenti e studi, Firenze 1994, pp. 118-123.

61 G. miccoli, Don Lorenzo Milani nella Chiesa del suo tempo, in Id., Fra mito della cristianità e secolarizzazione, Casale Monferrato 1985, pp. 428-454, cit., a p. 439.

62 L. Milani, Lettera ai giudici, in L’obbedienza non è più una virtù, Firenze 1967, p. 34.

63 D.M. Turoldo, La mia vita per gli amici, vocazione e Resistenza, Milano 2001, p. 76.

64 Ibidem, p. 29.

65 Ibidem, p. 106.

66 D. Saresella, David M. Turoldo, Camillo De Piaz e la Corsia dei Servi di Milano (1943-1963), Brescia 2008, p. 147.

67 D.M. Turoldo, La mia vita per gli amici, vocazione e Resistenza, cit., p. 74.

68 E. Balducci, Diari (1945-1978), a cura di M. Paiano, Brescia 2009, p. 433.

69 D.M. Turoldo, La mia vita per gli amici, vocazione e Resistenza, cit., p. 72.

70 Archivio Fondazione Balducci, Archivio privato, V, Preti-suore corrispondenza 1964-1982, cc. 202; cit. in B. Bocchini Camaiani, Balducci, il sacerdote, la Chiesa, in Ernesto Balducci. La Chiesa, la società, la pace, Brescia 2005, p. 97.

71 La lettera al padre provinciale è del 19 gennaio 1975, in AFB, IV, Chiesa,I, 1/7, Segreteria di Stato, 1962-1971, cc. 274-275; cit. in B. Bocchini Camaiani, Ernesto Balducci. La Chiesa e la modernità, Bari 2002, p. 260.

72 E. Balducci, Il cerchio che si chiude. Intervista autobiografica a cura di Luciano Martini, Genova 1986, pp. 95-96.

73 E. Balducci, Il baricentro, in Id., Il tempo di Dio. Ultime omelie. Avvento 1991-Pasqua 1992, San Domenico di Fiesole 1996, pp. 192-197. Il testo commenta il brano della Passione, letto nella domenica delle Palme 1992.

74 E. Balducci, La terra del tramonto. Saggio sulla transizione, San Domenico di Fiesole 1991, p. 155.

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