IL CINEMA POSTMODERNO

XXI Secolo (2009)

Il cinema postmoderno

Bruno Roberti

Tre linee di tendenza

Se nel Novecento il cinema inteso come espressione degli immaginari di massa ha costituito un compendio delle estetiche del moderno nel loro proporsi come rispecchiamento di un’epoca caratterizzata dai processi di riproducibilità tecnica, gli interrogativi posti dal nuovo secolo si giocano su un orizzonte più ampio, quello della medialità, in cui le immagini acquisiscono una pluralità di sensi, le culture visuali si traducono in una polivalenza di pratiche, la relazione spettacolo-spettatore si sviluppa in una dinamica interattiva. Il cinema attuale si colloca in un panorama della visione e del pensiero tipico della condizione postmoderna, che investe tanto l’uso di nuove tecnologie digitali (in particolare la rete e le immagini sintetiche) quanto le nuove sensibilità e i nuovi stili di espressione. Consapevolezza dell’artificio, messa in evidenza dei meccanismi di finzione, gusto dell’intreccio complesso e della molteplicità di livelli di senso, coniugati alla ripresa e alla rivisitazione di stilemi e codici popolari, al ricorso alla citazione ironica, alla costruzione di percorsi intertestuali, alla contaminazione di generi, al gioco combinatorio. Sono queste le caratteristiche che marcano i procedimenti di costruzione delle forme postmoderne. Come sottolineato da Francesco Casetti, la trasformazione del contesto nel quale il cinema si trova a operare è profonda, «basta pensare a come la globalizzazione ridisegni la tensione tra frammento e totalità; il contrasto, proiettato sul territorio fisico, diventa commistione tra locale e globale, ‘glocalismo’. […] O a come la miniaturizzazione delle tecnologie cambi i rapporti tra macchina e uomo: il corpo umano, più che prolungarsi in una serie di dispositivi, li ingloba direttamente in sé; la nozione di protesi lascia il posto a quella di ibridazione. O basta pensare a come l’emergere di nuove forme di passione, tutte estremamente fisiche, ridisegni il contrasto tra eccitazione e sensatezza: i due termini si saldano in un ‘sentire’ che ha l’energia o il ritmo come proprio propellente» (Casetti 2005, p. 293).

Da tali considerazioni si possono intravedere tre linee di tendenza lungo le quali procede la trasformazione del cinema odierno. La prima risulta rintracciabile lungo le zone di confine tra documentario e finzione. La seconda può essere riassunta nella spettacolarità della ‘mutazione’ dei corpi (soprattutto sul versante della virtualità, della tecnologia digitale, dell’immagine di sintesi). La terza appare in grado di stabilire nuovi e fecondi rapporti tra opera e spettatore, basandosi sulla multiformità dei supporti, dei luoghi di fruizione, delle modalità di visione, e stabilendo una nuova geografia del sentire che coinvolge anche sperimentazioni visuali diverse rispetto a quelle filmiche. Queste tre direzioni evidenziano altrettante nuove articolazioni del cinema cosiddetto della realtà (nelle contaminazioni tra finzione e documentario), del cinema spettacolare (nell’attraversamento dei diversi generi hollywoodiani, in un nuovo modello di autorialità, nell’uso degli effetti speciali) e del cinema sperimentale (nella dialettica tra cinema d’artista e sperimentazioni linguistiche).

Il cinema postmoderno deve fare necessariamente i conti con un ‘immaginario di sintesi’, attraverso stili di regia che mettono in campo una ‘resistenza’ del reale o una sua riconfigurazione testimoniale, o attraverso la scelta di un cinema dei corpi in mutazione, della postulazione di universi paralleli, di mondi impossibili, di percettività alterate. E infine, attraverso risposte che si configurano anche ‘oltre’ il cinema, nella sperimentazione di nuove modalità spaziotemporali di fruizione e di una narratività diversa, diffusa, destrutturata, interattiva e dislocata.

Le innovazioni tecnologiche, in primo luogo il digitale, hanno in un certo senso mutato la ‘natura’ del cinema, o meglio hanno enucleato ed estremizzato il carattere ‘virtuale’ che è insito nel dispositivo cinematografico. Le immagini digitali non attestano più la reale esistenza di un referente che è stato filmato, ma creano una ‘seconda realtà’ senza più modello.

Come nota Jean-Louis Comolli (2004) le immagini computerizzate disancorano i corpi, gli ambienti, le scenografie, i paesaggi dal riferimento al mondo esistente, al cosiddetto profilmico.

Inoltre la simulazione di mondi illusori, di universi paralleli, di organismi fittizi consentita dalle tecnologie digitali, con una gamma stupefacente di effetti speciali e di soluzioni visive prima impensabili, viene ‘tematizzata’ nelle costruzioni narrative di film postmoderni come la ‘saga’ di Matrix dei fratelli Andy e Larry Wachowski (The matrix, 1999, Matrix; The matrix reloaded, 2003, Matrix reloaded; The matrix revolutions, 2003, Matrix revolutions) o The Truman show (1998) di Peter Weir. Per tale ragione Comolli può parlare di una forma di rappresentazione amplificata, artificiale, derealizzata, «che però non viene respinta perché fruita come cosa più che reale (da sentire con intensità), anziché come surrogato imperfetto di una realtà assente» (2004; trad. it. 2006, p. 91).

In questo quadro si può parlare del passaggio dal cinema moderno a quello postmoderno come passaggio da un cinema dell’‘icona’ a un cinema del ‘simulacro’: cioè da un tipo di cinema in cui l’immagine attesta la presenza reale del soggetto, dell’ambiente, dell’oggetto e la trasferisce in un lavoro di rielaborazione dei materiali reali secondo una visione d’autore, a un altro in cui l’immagine, sganciata dal reale e divenuta simulacro, si rende, in quanto modello di simulazione e in quanto virtualità, autonomamente generativa del reale stesso.

Il mondo della rete crea immagini che circolano e proliferano in una presenza immediata, sotto il profilo sensoriale intensificata eppure del tutto apparente, virtuale, immateriale. Tutto ciò, come è ovvio, muta lo statuto del cinema in rapporto alla realtà e viceversa, così come cambia la situazione dello spettatore in rapporto al film, situazione divenuta oggi più che mai dislocata, interattiva, come l’opera filmica.

In altri termini il cinema, e più in generale i dispositivi dell’immagine, possono arrivare a costituire una realtà altra, immaginaria eppure nello stesso tempo immediatamente presente e forte (vedi, per es., il fenomeno di Second life, il mondo virtuale on-line creato nel 2003 dalla società americana Linden Lab e a cui possono accedere tutti gli utenti della rete di Internet creando liberamente personaggi, oggetti e contenuti audiovisivi), diffusa e inscritta come una finzione cinematografica fin nel nostro quotidiano. Allora, come scrive Roberto De Gaetano, «simulazione, modellizzazione, e virtualità non si oppongono a realtà, ma costituiscono la realtà proprio nel suo momento originario e più complesso» (2002, p. 193).

Sconfinamenti tra realtà e finzione

Il cinema contemporaneo, di fronte al processo di derealizzazione e alla dilagante simulazione introdotta dai media nella società e nell’immaginario di massa, ha da parte sua, quasi per reazione, messo in campo un ritorno del reale. In tale direzione si configura la rinascita di pratiche documentaristiche e di poetiche autoriali tese alla mescolanza e alla relazione problematica tra finzione e realtà, tra vero e falso. Laddove, nell’ambito del panorama mediatico, i materiali visivi provenienti da fonti diverse (televisioni, siti web, piccole telecamere digitali) possono arrivare a costituire la trama di un racconto drammatico sorretto da una forte cifra d’autore, come accade in Redacted (2007) di Brian De Palma, in cui le fonti audiovisive, riferite alla tragica attualità della guerra in ῾Irāq, costituiscono il soggetto e la sostanza del film.

Questo processo di ibridazione delle immagini del reale con quelle della simulazione mediale deriva da più trasformazioni in atto: l’inscriversi del paesaggio dei media nel paesaggio reale (dalla pervasività televisiva alle telecamere di sorveglianza, da Internet agli schermi proiettanti inseriti nel paesaggio urbano); la diffusione capillare di mezzi leggeri di ripresa (telecamere digitali, alta definizione, videofonini) che ha permesso una ‘presa diretta’ dell’accadere delle cose; una nuova sensibilità (tipica del glocal postmoderno) in cui l’utilizzo di Internet e delle sue possibilità globali va di pari passo con un ritorno dei localismi, delle culture minoritarie, delle identità etniche, dell’esplorazione di stati di coscienza alterati. Questo ritorno del sinestetico, del sensoriale, di una geografia emozionale, da un lato intensifica la voglia di ‘esperienza’ diretta delle immagini, dall’altro stimola la richiesta di identificare nelle immagini i veicoli di ‘viaggi’ in mondi lontani, situazioni estreme, stati impensati dell’essere, lati nascosti del reale.

I modi espressivi del documentario (presa diretta, macchina a mano, fluire libero del tempo contingente dell’accadere, invasività dell’occhio della camera nelle situazioni più nascoste o imprevedibili) si innervano in molti degli stili autoriali del cinema contemporaneo, fino a sfiorare la ‘maniera’ (gli esempi vanno dal cinema di Lars von Trier a quello dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, dai film di Oliver Stone a quelli di Jonathan Demme), mentre il procedimento costruttivo delle immagini rubate o prelevate dal reale di molti documentari di tipo ‘narrativo’ testimonia il contributo dato dai codici narrativi, anche di genere, alla struttura stessa del documentario (tra gli esempi più significativi i film di Michael Moore).

Lo sconfinamento dell’immagine verso un suo ‘oltre’, il suo senso altro e segreto opposto all’eccesso di visibilità che pervade il vissuto contemporaneo, riattiva l’ambiguità tra vero e falso, evidenziando un processo di continua ‘fuga’ dal significato immediato e prevedibile di ciò che appare allo sguardo e minando ogni sicurezza relativa all’idea che quelle immagini abbiano un valore univoco.

Nel cinema di Abbas Kiarostami ritroviamo la peculiare coniugazione di tempo della vita e tempo del racconto, la tensione tra flagranza dell’evento e suo significato allegorico, il trascorrere del paesaggio della realtà (l’Irān sospeso tra tradizioni millenarie e trasformazioni in atto) e l’irrompere in esso del medium di ripresa (spesso leggero e digitale, ma non per questo meno presente, anzi palesato nella sua evidenza), l’alternarsi tra apertura al caso e all’incontro e messa in scena progettata e realizzata nelle sue coordinate spaziotemporali (l’inserirsi in un interno familiare di un personaggio che finge di essere un regista in Nemā-ye nazdik, 1990, Close-up; il set di un film nel film in Zir-e derakhtān-e zeytun, 1994, Sotto gli ulivi; l’uso ricorrente della camera-car nel riprendere l’interno di un’automobile in Zendegi edāme dārad, 1990, E la vita continua, in Ta῾ m-e gilās, 1997, Il sapore della ciliegia, e in Ten, 2002, Dieci).

Il regista, che si richiama alla lezione neorealista di Vittorio De Sica e Roberto Rossellini, assume in tal modo un ruolo di verifica e di costruzione del progetto performativo che nel momento della realizzazione si apre all’imprevedibilità, così come gli ambienti interattivi progettati dagli artisti contemporanei che usano il cinema come mezzo espressivo: non a caso anche Kiarostami ha realizzato installazioni filmiche in gallerie e musei. Nei suoi film appare evidente la continua tensione verso un fuori campo che investe con la forza del non visibile ciò che si dà invece alla percezione. Nel caso di Five dedicated to Ozu (2003), dedicato appunto al regista Ozu Yasujirō, Kiarostami realizza cinque brevi film ‘di paesaggio’, ossia inquadrature fisse in tempo reale su alcuni scorci della natura (tra cui un pezzo di legno lambito dalle onde sulla battigia, una fila di oche che passano su una riva, il riflettersi della luna piena in uno stagno prima e dopo un temporale e nel passaggio dal buio della notte al chiarore dell’alba). E in Shirin (2008) inquadra centinaia di primi piani di volti femminili che guardano fuori campo la messa in scena di un famoso dramma persiano. Mentre in Ten, girato con due telecamere digitali, dieci sequenze scandiscono altrettanti incontri, ripresi in tempo reale, di una donna al volante di un’automobile che assume le caratteristiche di un vero microcosmo claustrofobico.

Anche il lavoro del regista russo Aleksandr N. Sokurov mette in gioco la portata del reale in un film come Russkij kovčeg (2002; Arca russa), realizzato con una telecamera digitale ad alta definizione e in un unico piano-sequenza, il più lungo della storia del cinema, affidato all’abilità dell’operatore di steadycam, il tedesco Tilman Büttner, e perfettamente coincidente con la durata dell’opera filmica.

Il film inizia con lo schermo nero mentre la voce fuori campo di Sokurov recita: «Apro gli occhi, e non vedo niente». È una dichiarazione paradossale che mentre afferma la presenza dell’autore, del suo ‘punto di vista’, lo elide e affida al movimento continuo e ‘senza soggetto’ del piano-sequenza un attraversamento dello spazio e del tempo che è anche un attraversamento del processo finzionale. Il farsi della finzione, la sua forma, hanno un andamento onirico, ma ciò non sottrae assolutamente verità alle immagini che sembrano anzi accadere e prendere corpo nell’attimo presente, proprio sotto i nostri occhi, come il documentario di un sogno o del pensiero che immagina, ricorda, vede e non vede, un pensiero che sembra riferirsi a un’intera collettività, all’intera Russia.

Lo sguardo in soggettiva, che ininterrottamente ci immerge in un paradosso in cui lo spazio appare dilatato in più direzioni temporali, è infatti insieme quello del regista e quello dello spettatore che ripercorre le sale dell’Ermitage ma anche secoli della storia russa. Il soggetto dello sguardo è la Storia stessa, nel suo scorrere e ricorrere come le onde dell’oceano che alla fine del film circondano il museo rievocando appunto l’immagine dell’Arca. E questo procedimento è reso possibile a Sokurov dall’uso del mezzo digitale, di una telecamera leggera e sensibile che permette riprese ininterrotte, e al contempo dall’uso in postproduzione di accorgimenti tecnologici atti a rendere il tutto più visionario e insieme più sensorialmente presente. Come scrive Amaducci: «contrariamente a tutti i registi che hanno usato l’idea della continuità come sintomo di ‘maggiore verità’ scaturita dall’assenza di montaggio, Sokurov costruisce una situazione quasi fantascientifica, onirica, tutta interna allo sguardo del viandante-protagonista-regista» (2007, p. 127).

Il digitale, con le sue possibilità tecniche, incarna l’utopia rosselliniana di una presa diretta continua sul reale. Così la memoria, vero archivio di immagini, appare sottoposta alla fagocitazione del digitale in grado di sospendere gli eventi nel tempo, mentre il piano-sequenza esalta l’unicità del tempo della visione, spostando il paesaggio della memoria sull’asse di un presente assoluto. Questa complessità dello sguardo si muove nel flusso della storia, nel flusso di un sogno e nel flusso della vita, tra loro quasi coincidenti, abdicando a una delle prerogative del cinema rispetto al reale: quella di riprodurlo in un montaggio. In ragione di questa scelta, tutti gli attori coinvolti (867) e tutta la troupe tecnica agiscono sul set che «diventa scena, in una assoluta unità di luogo e di tempo» perché «proprio come sulla scena, si può ‘girare’ ‘una sola volta, senza possibilità di errori (se ci fosse un errore, ‘l’intero film’ sarebbe da rigirare). Per questo, come accade sulla scena, il tempo di lavorazione si spende nella ripetizione delle prove, nel raggiungimento di una perfetta sincronia tra i movimenti degli attori e quelli della steadycam, collegati tra loro da una pianificazione minuziosa e ripetuti fino a diventare ‘naturali’» (A. Cappabianca, Da ‘Ottobre’ a L’arca russa’. Tempo, sogno e tecnica all’Ermitage, in Passages, 2008, pp. 212-13).

Sokurov riesce a far diventare stile e novità di linguaggio la simbiosi priva di incrinature tra artificio e realtà resa possibile dal digitale. In Russkij kovčeg il mezzo tecnologico «conferisce [...] concretezza e una strana opacità alla messa in scena» che appare assolutamente rigorosa mentre «i personaggi in costume [...] si presentano come figure [...] venate da un senso di futuribile, come se tutto il film fosse un viaggio nel futuro in cui, per un paradosso temporale, i fantasmi del passato ritornano a recitare brandelli della loro esistenza» (Amaducci 2007, p. 128).

Tutto il cinema di Sokurov, del resto, si muove lungo una fluttuazione della storia che coniuga l’elemento testimoniale al dato interiore della memoria: sia nella trilogia dei totalitarismi composta da Moloch (1999), Telec (2000; Toro) e Solntse (2005; Il sole) (rispettivamente sugli ultimi giorni di Hitler, Lenin e Hirohito), sia nella serie più propriamente documentaristica delle Elegie (1989-2001). Tutto il suo lavoro ha infatti «educato lo spettatore […] a confrontarsi con un cinema testimoniale, che si avvale di un lungo periodo di ricerca in archivi e istituzioni pubbliche» (L. Avvantaggiato, Rifigurazioni. Incroci tra storia e finzione nel cinema contemporaneo, in Passages, 2008, p. 62) e a misurarsi con il processo elaborativo della memoria. E dal momento che «l’immagine cinematografica digitale è duttile e malleabile in sé […] domina tra i suoi elementi costitutivi un elemento di autoreferenzialità che è unico nel suo genere. E questa più intima proprietà diviene il basamento perfetto utilizzabile da configurazioni narrative che si avvalgono di tracce storiche e che si formalizzano come racconti storici» (p. 69). Evidentemente questa complessa stratificazione di immagini l’una dentro l’altra, di tempi che scorrono accavallandosi, resa nell’intreccio tra testimonianza-documento e congettura-artificio «ricorda in qualche modo la struttura stessa del ‘fulcro’ del digitale, la memoria dell’hard-disk, dove tutto è registrato ma contemporaneamente disponibile in tempo reale sia alla fruizione che alla modificazione» (Amaducci 2007, p. 132).

Assimilabile a questo percorso volto al rimescolamento tra storia, identità, paesaggio etnico-religioso, costruzione di finzione e resa documentaristica che si incontra con le ambiguità inerenti all’uso del mezzo di ripresa, è il lavoro dell’israeliano Amos Gitai. I suoi film sono caratterizzati dall’uso di un incessante movimento della cinepresa in carrello (travelling, camera- car) che conferisce allo spettatore uno sguardo nomade, esiliato, regalandogli un’identità che appare in trasformazione continua e grazie alla quale viene assimilato allegoricamente alla condizione di diaspora del popolo ebraico, ma anche allo stato di perenne incertezza e conflitto della regione mediorentale (dove sono ambientati molti dei suoi film, da Bayt, noto anche come House, 1980, a Yoman sadeh, noto anche come Journal de campagne, 1982; da Golem – L’esprit de l’exil, 1992, Golem – Lo spirito dell’esilio, a Devarim, 1995, L’inventario; da Alila, 2003, a Free zone, 2005). Ma un tale lavoro sui territori e sui confini fisici, politici, psicologici è inteso da Gitai anche come una riflessione sugli sconfinamenti del cinema, tra documento e finzione, tra passato e futuro, tra memoria e attualità.

Altri importanti autori hanno fatto propria questa meditazione sulle identità in movimento, sugli spazi di frontiera sia fisici sia mentali, sul continuo trascorrere tra il dentro e il fuori, i luoghi e i non luoghi, le istituzioni e il vagabondaggio, come nella ricognizione sui ‘mondi a parte’ costituiti dai sordomuti o dai bambini rispettivamente in Le pays des sourds (1992; Nel paese dei sordi) e in Être et avoir (2002; Essere e avere) di Nicolas Philibert, o in quella sui rapporti che caratterizzano il mondo del lavoro e quello della scuola nei film di Laurent Cantet Resources humaines (1999; Risorse umane), L’emploi du temps (2001; A tempo pieno), Entre les murs (2008; La classe); ma anche nell’indagine sul perdersi in orizzonti estremi come il deserto (La captive du désert, 1990, La prigioniera del deserto) nei documentari di Raymond Depardon, e sul rinchiudersi in situazioni di disfacimento fisico e morale, come in quelli del portoghese Pedro Costa (per es. No quarto da Vanda, 2000, Nella stanza di Vanda) ambientati fra i tossicodipendenti nei sobborghi di Lisbona. E in molti puntano il loro sguardo sul disorientamento o l’inquietudine di società in trasformazione: si pensi alla Cina delle fabbriche dismesse e delle pianure desolate dei film di Wang Bing (per es., Tie xi qu, 2003) e Jia Zhangke (Sanxia haoren, 2006, Still life), alle giungle e ai fiumi delle Filippine percorsi da allucinazioni nei film di Lav Diaz (Kagadanan sa banwaan ning mga Engkanto, noto anche come Death in the land of Encantos, 2007, e Melancholia, 2008), che entrano in una dimensione ‘altra’ del tempo, sfidando l’esperienza della visione con lunghissime durate. Viene così esplorata la gamma di reazioni umane in rapporto con il mistero della natura (emblematici a tal proposito i contemplativi e stranianti itinerari nei paesaggi del Nord del lituano Sharunas Bartas, per es. in Koridorius, 1994, e Freedom, 2000), e ci si interroga sulla molteplicità delle immagini nella società tardocapitalista e sui destini ambientali del pianeta (come nel caso dei film di Chantal Akerman, radicalmente votati alla testimonialità delle situazioni in tempo reale, e dell’ipnotico lavoro di montaggio visivo-sonoro sperimentato da Godfrey Reggio nella sua Qatsi trilogy composta da Koyaanisqatsi, 1982, Powaqqatsi, 1988, e Naqoyqatsi, 2002, in cui realizza vere e proprie partiture filmico-musicali collaborando con il musicista Philip Glass).

Nel 2007, Costa, Bing e la Akerman hanno partecipato, insieme ad altri registi, alla realizzazione di un film collettivo significativamente intitolato O estado do mundo, prodotto dalla Fondazione Gubelkain e dedicato allo stato delle cose in un mondo globalizzato. Nell’episodio da lei diretto, Tombée de nuit sur Shanghai, la Akerman fa uso di inquadrature fisse nel registrare una visione isterica e allucinatoria della baia di Shanghai: edifici immensi ricoperti da schermi e immagini che appaiono e scompaiono alternativamente, rifrangendosi in un landscape che è insieme un infoscape, lasciando affiorare un mondo dominato dalla profusione di suoni e immagini dove tutto si mostra e allo stesso tempo si cancella.

In questo scenario di riferimento complessivo si colloca anche la pratica del mockumentary, che simula i modi del documentario, riprendendo però fatti inventati. Tipologia ormai sempre più diffusa, il falso documentario ha generato una nuova forma di satira (dal lontano Zelig, 1983, di Woody Allen fino a Borat, 2006, di Larry Charles), e ha contribuito a mettere politicamente in questione la credibilità del reale in rapporto alle manipolazioni dei media, come nei film di Moore, da TV nation (1997) fino a Fahrenheit 9/11 (2004), oppure a ridefinire l’uso della soggettiva e del reportage per far vivere allo spettatore in diretta i fatti nel loro accadere (dato come reale), in nuove forme di horror come [Rec] (2007) di Jaume Balagueró e Paco Plaza, Diary of the dead (2007; Le cronache dei morti viventi) di George A. Romero, The Blair witch project (1999; The Blair witch project – Il mistero della strega di Blair) di Daniel Myrick ed Eduardo Sánchez. Quest’ultimo, presentato come un vero documento (un video ritrovato dopo la sparizione di un gruppo di giovani avvenuta mentre erano intenti a girare un documentario sulle tracce di immaginarie streghe in un bosco) è stato un caso mondiale, il successo di una operazione multimediale che ha coinvolto anche la rete e che ha tentato «di fornire al cinema una dimensione di coinvolgimento insieme cinestesico e visivo che il cinema come tale non ha», assumendo «un taglio documentaristico [...] caratteristico di molta videoarte contemporanea» (Senaldi 2008, p. 92 ).

Corpi in mutazione e defigurazione digitale

Una buona parte della produzione del cinema postmoderno si colloca tra l’impostazione d’autore e il mainstream della spettacolarità, e si rivela in grado di minare dall’interno la riconoscibilità dei codici visuali attraversando i generi e l’industria hollywoodiani. Ricorre in questo tipo di cinema l’uso degli effetti speciali, delle immagini di sintesi, del digitale, teso alla defigurazione e allo sganciamento dalla prevedibilità diegetica, senza però rinunciare in tal modo al grande spettacolo e al suo fascino, e sperimentato soprattutto spingendosi nei territori del perturbante, del fantastico, dell’horror.

Tale defigurazione si traduce spesso visivamente in un processo di frammentazione, scomposizione, mutazione dei corpi: «il corpo ‘spezzettato’ è propriamente quello della ipermodernità e della postmodernità in cui l’elemento di scomposizione, ricomposizione e creazione ex novo di parti eterogenee è reso in maniera esplicita» (G. Curtis, Identità defigurate. Il corpo rilevante, in Passages, 2008, p. 135). È un corpo che non possiede più un’identità di rappresentazione, «un corpo digitalizzato, cibernetico o iperrealistico» colto in «una trasformazione che agisce sullo stesso dispositivo di rappresentazione» (p. 137). La tecnologia digitale consente da un lato lo sganciamento dal referente reale, dall’altro la creazione di un corpo sintetico, costituito di materia ‘virtuale’.

Questa linea di realizzazione e di ricerca trova la sua origine alla fine del Novecento, nella capacità di autori come Steven Spielberg, Francis Ford Coppola, George Lucas di indirizzare la potenza ‘fantastica’ del cinema classico così come il metalinguaggio del cinema moderno verso la creazione di un nuovo immaginario in grado di sfruttare tutte le possibilità espressive offerte dalle nuove tecnologie. Da tutto ciò nasce la neospettacolarità ‘d’autore’ hollywoodiana che si ritrova agli inizi del nuovo secolo nei film di cineasti quali Quentin Tarantino, Jonathan Demme, Lawrence Kasdan, Robert Zemeckis, John Carpenter, James Cameron, Paul Verhoeven, Robert Rodriguez, Sam Raimi, Steven Soderbergh.

E sempre da qui procede la rifondazione delle categorie filmiche di spazialità, temporalità, identità dei personaggi, ripensate in questo continuo spingersi fino al limite estremo del visibile, con una «ridefinizione dello statuto dell’immagine filmica che va nella direzione del meticciato e dell’ibridazione» (G. Canova, Il cinema di Robert Zemeckis. Per un’immagine ibrida e meticcia, in Robert Zemeckis, 2008, p. 9). La via spettacolare e tecnologica degli effetti speciali apre in questo modo il cinema di massa a una sperimentazione linguistica inusuale. Il corpo mutante, composto di carne e metallo, di fisicità e di immaterialità informatica, produce una nuova immagine, altrettanto ibrida e perturbante.

In tal modo, ricorrendo alla sofisticata tecnica della performance capture, grazie alla quale il corpo dell’attore agisce munito di sensori che trasferiscono digitalmente tratti facciali ed espressioni a personaggi animati, Zemeckis, in film come The polar express (2004) e Beowulf (2007; La leggenda di Beowulf), sceglie di realizzare immagini in cui procedimento digitale e referenza analogica risultano mescolati, generando una ‘nuova fisicità’ naturale e artificiale a un tempo. Questi ‘nuovi corpi’ filmici ridefiniscono il nesso vedere-sentire, lo spostano su un piano in cui «lo spazio non è più oggetto frontale e separato da chi vede, bensì pluralità dispersa di punti di vista possibili coagulati e fusi insieme dal movimento» (M. Grosoli, Beowulf. Archeologia del futuro, «Fata Morgana», 2008, 4, p. 190).

Con Beowulf, in particolare, grazie all’animazione digitale in 3D, si mira a uno sganciamento dal referente reale che svincola l’occhio dalla sua naturale visione prospettica; si creano in tal modo inquadrature ‘impossibili’, rese però molto coinvolgenti grazie a un effetto di simulazione illusoria che ‘immette’ lo spettatore nell’immagine, quasi come avviene nelle esperienze di realtà virtuale. La percezione dello spettatore si fa a un tempo paradossalmente «smaterializzata» e «tattile»: come evidenzia Grosoli, «continui movimenti forsennati gettano lo spettatore nei punti di vista più disparati, riconnessi fluidamente con rapide pennellate incursive spesso prive di stacchi» e «lo spettatore è ben dentro l’azione pur se immobile e senza parteciparvi, e la tocca con gli occhi anche grazie al movimento illusorio» (p. 190). Quanto osservato da Grosoli a proposito di Beowulf può essere riferito a molte opere che si muovono tra cinema fantasy, science fiction e ispirazione fumettistica, in versione postmoderna (X2, 2003, X-Men 2, di Bryan Singer; MirrorMask, 2005, di Dave McKean; Sin city, 2005, di Frank Miller, Rodriguez e Tarantino; Spider-Man 3, 2007, di Sam Raimi), così come a molto cinema d’azione contemporaneo che fa uso di effetti speciali digitali (Paychek, 2003, di John Woo; Collateral, 2004, di Michael Mann). Il movimento della camera simulato al computer diventa libero da impedimenti fisici, ma nello stesso tempo rende ‘fisiche’ le straordinarie performances dei corpi e ‘presenti’ visioni inaudite. Gli scenari sono quelli di una fantascienza pervasa da venature mistiche, sconfinanti in un territorio esoterico o parareligioso, e nei film di registi come David Cronenberg, David Lynch, Tsukamoto Shin’ya (da Tetsuo, 1989, fino ad Akumu Tantei, 2006, Nightmare detective) affiorano costantemente riferimenti più o meno espliciti a scrittori come H.P. Lovecraft, Jorge Luis Borges, Philip K. Dick, William Burroughs.

Il cinema di Cronenberg, per es., riprende idee ricorrenti in questi scrittori: la crisi dell’identità, la mutazione dei corpi, l’alterazione dello spazio e del tempo e soprattutto l’ibridazione tra organismi fisici e strutture tecnologiche, sentita come un contagio trasmesso da forme sconosciute di virus o di droghe, e che dà vita a una morfologia mutante dei corpi. In film anticipatori di questa tendenza alla ‘defigurazione’ del cinema postmoderno come Videodrome (1983), Crash (1996), eXistenZ (1999) viene ipotizzata un’«alterazione che si contrae dai media [...] e che trasforma il corpo in uno strumento controllato da un dispositivo che induce a disfarsi della vecchia carne per la nuova carne» (Alfano Miglietti 20083, pp. 22-23). In queste opere sindromi aliene, virus tecnologici, stati mentali alterati inducono una mutazione organica che mette in moto situazioni e storie al limite dell’orrore, mentre si crea l’accesso a una dimensione sconosciuta basata su geometrie, dinamiche spaziotemporali, flussi di coscienza che rinviano alle potenzialità ontologiche delle nuove immagini virtuali.

In film più recenti come Spider (2002), A history of violence (2005), Eastern promises (2007; La promessa dell’assassino) Cronenberg si libera completamente dall’uso esornativo dell’effetto speciale, in un certo senso ‘introiettandolo’: non è infatti più tanto il corpo a ibridarsi e a mutare, quanto la mente (rispettivamente quella di un alienato, di un assassino, di un killer) a contaminare l’ambiente circostante, a renderlo ‘protesi’ di una pulsione irrefrenabile di violenza, di follia o di percezione alterata.

Si tratta in ogni caso dell’avvento di una materia filmica nuova, esibita dal cinema del 21° sec. nel suo esito ‘estremo’, ossia nelle alterazioni rese possibili grazie all’uso del digitale. Questa immagine aliena prende l’avvio da film di culto come Alien (1979) di Ridley Scott «dove le vischiosità, i liquidi, i tessuti e le melme diventano il contrassegno morfologico del mostro» (Buccheri 2000, p. 69), e fonde l’organico nell’inorganico, il plastico nel fluido, il metallico nel liquido, la riconoscibilità del corpo in un’«instabilità formale e strutturale», materializzandosi tanto negli alieni «fatti di acqua e membrane» di The abyss (1989; Abyss) diretto da James Cameron, quanto nel cyborg cattivo di Terminator 2Judgment day (1991; Terminator 2Il giorno del giudizio) ancora di Cameron, che può plasmare il proprio corpo di metallo liquido (Buccheri 2000, p. 69). Una corporalità permeata di psichismo in cui l’effetto speciale può occultarsi nel fuori campo ed essere altrettanto perturbante, come nelle inquietanti creature dei film di M. Night Shyamalan, da Signs (2002) a The village (2004) a Lady in the water (2006), sospese in una dimensione alterata dello stato organico o in altri livelli di esistenza, vere e proprie dimensioni parallele richiamate dai diversi punti di vista implicati nel film.

Anche un artista-cineasta sperimentale come Matthew Barney nel ciclo di film Cremaster (1994-2002), destinati tanto alle sale cinematografiche quanto ad ambienti museali, adotta un sincretismo che unisce rituali iniziatici, tradizioni, miti, divinità, cosmogonie alla mescolanza tra generi (dal musical al gangster movie al film epico) e soprattutto alle mutazioni di un corpo inteso come supporto di profonda trasformazione e rinascita, per cui «corpi metà uomo e metà bestia, mutanti, ermafroditi, satiri [...] sono simulacri, repliche artificiali, esseri di una wasteland frutto di nuove ibridazioni che segnano il passaggio dall’umano al postumano» (Sossai 2008, p. 41).

Ma è lo stesso funzionamento del film che spesso diviene organismo mutante, generatore di dimensioni spettrali e allucinatorie, tali da contaminare tanto i corpi quanto gli spazi filmici che li contengono, come avviene nei film di Lynch. Nel suo cinema i dispositivi narrativi subiscono una totale alterazione che innerva le sequenze e le singole inquadrature, metafora costante della mutazione dell’intero sistema costituito dall’immaginario cinematografico, identificato con Hollywood. Mulholland Dr. (2001; Mulholland drive), in particolare, è ambientato in una Hollywood diventata terra di nessuno, non luogo, dove continuamente i corpi e quindi le identità si sfaldano: ed è il film stesso, raccontato anche nel suo processo di ‘costruzione’ (provini, ‘dietro le quinte’, descrizione del set e dell’industria dello show-business) e presentato come dispositivo spettacolare misterioso e fantasmatico, ormai in decomposizione, a disseminare segnali in tal senso.

In Inland empire (2006; Inland empire – L’impero della mente) Lynch trasforma il set in uno spazio inquietante, soglia misteriosa tra dimensioni parallele, universi della mente e stati percettivi: il mondo del cinema e dei media diventa agente di una contaminazione che deforma il senso dell’identità, la percettività e lo sguardo privati di ogni appartenenza e ancoraggio, tanto per i personaggi del film quanto per i suoi spettatori. Questo rapporto tra corpo, identità, sensorialità, punto di vista da un lato, e trauma, dolore, contagio, virus dall’altro accomuna Lynch e Cronenberg che mediante percorsi diversi, ma con un analogo fine, scelgono di dissolvere in una mutazione continua le immagini, sospendendo le modalità consuete di percezione.

Anche nel cinema di Quentin Tarantino i corpi vengono sottoposti a uno svuotamento e dislocati all’interno di un racconto frammentato che si sottrae al tempo cronologico, postulando una simmetria acronica, decostruita: Pulp fiction (1994), Kill Bill: Vol. 1 (2003; Kill Bill: volume 1), Kill Bill: Vol. 2 (2004; Kill Bill: volume 2), Death proof (2007; Grindhouse – A prova di morte) sono film che non solo destrutturano il tempo del racconto ma esasperano le figurazioni, i cliché, i codici dei generi cinematografici (dal gangster film al western, al kung fu) fino a deformarli al limite della riconoscibilità. Le forme tendono a debordare oltre lo schermo, sfondandone il perimetro in ogni direzione, imprimendo un’accelerazione e una dilatazione del campo visivo.

Nel cinema di Peter Greenaway, invece, il composit­ing visivo (tecnica che usa procedimenti digitali per modificare e alterare in fase di edizione il filmato aggiungendo, interpolando, sovrapponendo più fonti visive trattate con effetti speciali) funziona incastrando immagini dentro immagini, operando sullo schermo come su una superficie pittorica, come avviene, per es., nella sua trilogia multimediale The Tulse Luper suitcases (2003-04; Le valigie di Tulse Luper).

L’uso degli effetti digitali approda attraverso il morphing a una fluida trasformazione senza stacchi di una morfologia corporea e fisionomica in un’altra, non necessariamente umana; tale procedimento scompone il campo visivo senza l’ausilio di trucchi ottici oppure di montaggio, ma facendo costantemente interagire immagini simulate con il computer.

Il cinema ‘installato’ e il nuovo sentire

Secondo Casetti (2008) il nuovo orizzonte telematico produce rispetto alla tradizionale fruizione cinematografica un fenomeno cosiddetto di ‘rilocazione’: «il cinema non si identifica più con la sala. [...] Oggi il film si vede anche sul televisore domestico, sul lettore di DVD, negli home theatre, nelle stazioni dei treni e del metro, sugli autobus, sugli aerei, nelle gallerie d’arte, attraverso il proprio computer, pescando in rete, in spazi virtuali come You Tube o come Second Life, attraverso scambi peer to peer, sul proprio telefonino» (p. 27).

Subentra quindi una nuova condizione dello spettatore che viene sempre più ‘immerso’ nell’opera cinematografica, oltre a incontrare e fruire il film in spazi eterogenei, come argomenta sempre Casetti: «Lo spettatore non è più chiamato solo a contemplare un’esposizione; è chiamato a immergersi in un universo. L’‘inclusione’ che in questo come in altri casi si realizza, ci riporta direttamente alla capacità del cinema di costruire spazi ‘eterotopi’, e cioè dei punti di passaggio tra il ‘qui’ e l’‘altrove’» (2008, pp. 31-32).

Se molti autori negli anni Ottanta e Novanta (Wim Wenders, innanzitutto, e poi Steven Soderbergh, Greenaway, Kathryn Bigelow) hanno anticipato questa condizione propiziando l’interazione del film con altre scritture visive (la fotografia, il video, la televisione), diversi artisti hanno operato in questi primi anni del nuovo secolo una trasposizione dell’esperienza filmica nei luoghi dell’arte (gallerie e musei) e nella pratica delle installazioni, allargando così l’uso del supporto video o filmico, già tipico nelle postavanguardie artistiche, a un’esplorazione della percettività, del linguaggio, di tutto l’orizzonte sensoriale pertinente all’immagine audiovisiva. Queste opere espandono il cinema su pareti di sale espositive o lo diffondono all’esterno mediante proiezioni su facciate di edifici; gli artisti costruiscono dispositivi, scene, ambienti dove vengono proiettati e dislocati spezzoni filmici, e tali spazi sono destinati a essere percorsi fisicamente dallo spettatore, che in questo modo viene sollecitato a una fruizione sensoriale complessa. Per definire questa nuova forma espressiva, che riconfigura il rapporto tra cinema e arti visive contemporanee, si è fatto ricorso anche all’espressione cinema installato (o installativo: cfr. Senaldi 2008).

Una tale sperimentazione trova radici negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, grazie a figure di filmmakers e artisti, come Valie Export Harry Smith, Robert Breer, Andy Warhol, Robert Whitman, Rebecca Horn, e in un’idea di cinema espanso (expanded cinema), già teorizzato e praticato a metà del Novecento da Gene Youngblood, «un tipo di cinema totale e sinestetico, una realtà espansa che crei un continuum spazio-temporale, in cui materiali eterogenei si combinano in un’unica visione, capace di produrre la percezione armonica di impulsi diversi» (Sossai 2008, p. 14).

Questo processo ha poi subito un’evoluzione e una trasposizione negli anni Novanta convergendo in un doppio esito: il film d’artista che ricontestualizza il cinema con tutto il suo apparato di immaginario e memoria, e il lavoro di alcuni cineasti contemporanei (da Kiarostami alla Akerman, da Lynch ad Atom Egoyan, da Agnès Varda a Gitai, da Greenaway a Cronenberg) che sempre più spesso allestiscono installazioni filmiche in spazi museali con l’intento di allargare i confini del cinema oltre gli ambienti deputati.

Lynch, per es., ha progressivamente intensificato i suoi sforzi in questa direzione a partire dal suo sito web, un vero e proprio ‘mondo virtuale’ per il quale realizza brevi film destinati solo al pubblico in rete, in cui corpi e ambienti, grazie al digitale di bassa definizione, sono avvolti da un’atmosfera pulviscolare, onirica, e assimilati a un universo in mutazione, dove i confini tra interiorità e fisicità risultano abbattuti.

Nelle installazioni di Bill Viola, per esempio in The passions (2003), i corpi filmati in movimento vengono proiettati con un fortissimo effetto di rallentamento cosicché le tensioni muscolari si dilatano e vengono enfatizzati i momenti di tensione, di emozione, di sofferenza, di pathos, traumi che si trasmettono come una sorta di corrente a tutto l’ambiente visivo in cui sono immersi, in modo da dilatare il tempo della visione. Come supporti di proiezione, le installazioni di Viola fanno uso di schermi sospesi nell’oscurità degli ambienti o di monitor dislocati in modo da creare percorsi che immergono lo spettatore ora nella luce ora nel buio, lasciandogli percepire i corpi, ingranditi o rimpiccioliti, come improvvise, fantasmatiche presenze.

Ancora più forte appare l’esigenza di alcuni autori di sondare le condizioni e le possibilità di una soggettività spinta a interagire tra i diversi media o tra gli spazi architettonici (cfr. Senaldi 2008, p. 66). Come avviene in Sleepwalkers (2007) di Doug Aitken, una multiproiezione in cui alcuni attori celebri (Tilda Swinton, Donald Sutherland) si muovono come sonnambuli in una quotidianità sperimentata attraverso l’espansione gigantesca delle immagini, proiettate su otto facciate del MOMA (Museum Of Modern Art) nella notte di New York. Mentre nel 2005 Melik Ohanian ha realizzato con Invisible film un’opera che mette in gioco un dispositivo di ri-proiezione filmica: l’artista recupera la pellicola, pressoché introvabile, di un film di Peter Watkins, Punishment Park (1971), girato nel deserto di El Mirage, e la riproietta nello stesso deserto, usando un potente proiettore in grado di disperdere la luce verso l’orizzonte che funge da schermo, ma anche da spazio aperto e totalmente sconfinato dove la proiezione finisce per integrarsi e confondersi con il paesaggio naturale.

Anche il lavoro di un artista-cineasta cinese, Yang Fudong, fa interagire l’ambiente e il paesaggio con un uso del cinema dislocato in spazi espositivi. In Seven intellectuals in a bamboo forest (realizzato tra il 2003 e il 2007 e presentato nel 2007 alla Biennale di Venezia), cinque film di media durata, girati in bianco e nero nel paesaggio nebbioso delle montagne e delle foreste cinesi, vengono ‘installati’ in altrettanti ‘box’ destinati alla proiezione, dove il pubblico progressivamente prende posto, spostandosi dall’uno all’altro.

Esiti postmoderni del cinema moderno

Se la pratica e la riflessione delle nouvelles vagues nel corso degli anni Sessanta portarono a maturazione l’autoconsapevolezza linguistica, il lavoro sui materiali, il nuovo rapporto con la realtà, la rifondazione del concetto di messinscena, nell’orizzonte postmoderno gli esiti di questo importante processo si riconfigurano spinti sino all’estremo in rapporto al complesso panorama mediale odierno.

In particolare, in alcuni percorsi emerge con maggiore evidenza come la sperimentazione linguistica, stilistica ed estetica si muova lungo direttrici che furono fondamentali per la rivoluzione attuata dal cinema moderno e che appaiono oggi ripensate in un quadro tecnologico e di interazione opera-spettatore completamente mutato. Decisamente prevalente l’una o l’altra in certi autori oppure reciprocamente implicate nel lavoro di altri, si configurano fondamentalmente come decostruzione degli schemi narrativi e delle coordinate spaziotemporali con sconfinamenti continui tra diegesi ed extradiegesi; nitida messa in evidenza dei procedimenti formali; consapevole esplicitazione del filmare come atto del pensiero.

Così in film come Gerry (2002) ed Elephant (2003) di Gus Van Sant vengono fatte saltare le distinzioni tra diegetico ed extradiegetico, tra campo e fuori campo, nonché la linearità nella successione delle sequenze, mentre si stabilisce una nuova dinamica del punto di vista. Nel primo caso con l’elezione a paesaggio privilegiato di un deserto in cui due ragazzi perdono l’orientamento fino a compiere l’atto gratuito di un’uccisione, nel secondo con la scelta degli spazi labirintici (paragonabili a quelli di un videogame) di una scuola dove viene perpetrata una strage da parte di giovanissimi studenti.

Vengono in tal modo ridefinite le ‘normali’ configurazioni del montaggio cinematografico e si stabilisce un nuovo rapporto tra lo spettatore e l’‘oggetto’ filmico: nei film dell’ungherese Béla Tarr (che non a caso hanno ispirato il lavoro di Van Sant), per es., il tempo della narrazione diegetica viene decostruito e dilatato su lunghe durate, come nelle otto ore di Sátántangó (1994), dove il procedimento stilistico allinea le azioni mostrandole più volte, in tutta la loro durata, ma ogni volta partendo da diversi punti di vista, in una sorta di visione ‘cubista’.

E se, come visto in precedenza, il rinnovamento linguistico di questi anni arriva a oltrepassare i tradizionali schemi fruitivi e compositivi del cinema, ciò implica che anche in film destinati alla fruizione in sala si sperimentano inedite dimensioni spaziotemporali. Risale al 2004 il film Sud pralad (Tropical malady) del regista thailandese Apichatpong Weerasethakul, prodotto dalla Anna Sanders Film, una società che riunisce artisti e cineasti e il cui scopo è «produrre progetti filmici presenti sia nel circuito dell’arte contemporanea che in quello dei festival cinematografici, in una forma ibrida che si colloca nel punto di convergenza tra arti visive e cinema» (Sossai 2008, p. 34). In quest’opera ci si sgancia progressivamente tanto dalla narrazione, quanto da dimensioni spaziotemporali riconoscibili: in una giungla tropicale viene filmato un misterioso incontro tra un soldato, una tigre e la strana figura di un fantasma-demone, e i sensi dello spettatore sono tenuti costantemente in allerta, immersi in un ambiente visivo che, come in un videogame, si trasforma continuamente sotto i suoi occhi.

Un analogo e interessante processo di decostruzione narrativa è riscontrabile in molte opere del nuovo cinema asiatico, in particolare in quelle di cineasti cinesi come Jia Zhangke (da Zhantai, 2000, Palcoscenico; a Shijie, noto anche come The world, 2004, a Sanxia haoren) e Hou Hsiao-hsien (da Beiqing cheng-shi, 1989, Città dolente, a Le voyage du ballon rouge, 2007) e del taiwanese Tsai Ming-liang (da Aiqing wansui, 1994, Vive l’amour, a Hei yanquan, noto anche come I don’t want to sleep alone, 2006).

La messa in evidenza di una reciproca implicazione tra lo sguardo dell’autore e quello dello spettatore in virtù della leggerezza dei mezzi di ripresa e di una rinuncia a ogni ‘effetto’ di messinscena (abolizione di luci artificiali, commento musicale, ellissi di montaggio) è quanto persegue L. von Trier e la ‘vague’ cinematografica cui ha dato vita con il manifesto programmatico Dogme 95.

Ma il paradosso riscontrabile nei suoi lavori è che l’adozione di uno stile apparentemente ruvido, caratterizzato dalla macchina da presa tenuta ‘a mano’, dall’uso di riprese digitali a bassa definizione, arriva poi in film come Dancer in the dark (2000) o Dogville (2003) a una estrema ‘formalizzazione’, a un esito stilizzato che concepisce l’ambito filmico come pura ‘convenzione’, mentre lo spettatore viene costantemente tenuto in sospeso tra straniamento ed empatia.

Entrare nelle pieghe più segrete del processo di costruzione delle immagini, reinventando ogni volta l’idea del cinema come stato del pensiero che unisce spettatore, autore e film in un ‘circuito’ percettivo è infine la fondamentale prerogativa di autori il cui percorso affonda le radici nelle vagues storiche e che nel nuovo secolo continuano incessantemente a sperimentare nuovi linguaggi, aprendo l’orizzonte del postmoderno sul versante di un ‘cinema di pensiero’. È il caso di registi come Raúl Ruiz, con la sua labirintica opera che attraversa formati, saperi, durate, ‘stati’ del cinema (dalla rivisitazione dell’opera di Marcel Proust in Le temps retrouvé, 1999, al ciclo di Cofralandes, rapsodia chilena, 2002), o Júlio Bressane, instancabile esploratore della natura filosofica inerente alla costruzione dell’immagine (per es. in film come Dias de Nietzsche em Turim, 2001, ad A erva do rato, 2008), o di un maestro come Jean-Luc Godard, che con quella summa della sua poetica che sono i ‘capitoli’ delle Histoire(s) du cinéma (1988-1998), ridefinisce l’intera storia del cinema, sperimentando modalità digitali, lavoro su immagini di archivio, e un montaggio visivo-sonoro di inesauribile inventiva.

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