Identità personale

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007)

Identità personale

Michele Di Francesco

Il problema dell'i. p. ha diretta attinenza con una serie di questioni centrali della filosofia della mente chiamando in causa complesse tematiche metafisiche, etiche nonché epistemologiche. Tale problema può essere descritto come il tentativo di rispondere alle seguenti domande: chi sono e che cosa sono?

Quali sono le proprietà che mi rendono un certo individuo e mi distinguono da ogni altra cosa che esiste nel mondo? Si tratta di proprietà puramente fisiche oppure anche di caratteri mentali? Qual è la natura delle persone umane? Che cosa fa sì che una data persona esista in tempi differenti, sopravvivendo a una drastica serie di cambiamenti, ma restando sempre la stessa entità? E a quali cambiamenti, invece, non potrebbe sopravvivere? Per es., ha senso affermare che io sono stato un embrione e potrei divenire un vegetale umano?

Da questa prima lista di questioni emergono due tematiche principali: il problema della natura delle persone e quello dei criteri della loro identità attraverso il tempo. Al primo sono state storicamente fornite varie soluzioni: a) le persone sono corpi, entità fisiche come tutte le altre, con status metafisico e modi di persistenza identici a quelli di ogni ente materiale; b) le persone sono essenzialmente sostanze immateriali semplici (anime, spiriti); c) sono animali umani del genere homo sapiens; d) sono modi di sostanze semplici, la cui natura funzionale è indifferente al sostrato che le realizza (sono il prodotto della sostanza pensante, indipendentemente da cosa essa sia); e) sono illusioni che si originano a partire da fasci di percezioni; o costruzioni logiche a partire da stati mentali; f) sono entità primitive, indefinibili in termini di proprietà mentali o fisiche, in quanto l'attribuzione di queste ultime presuppone l'esistenza di persone; g) sono entità metafisiche costituite a partire da un sostrato fisico (tipicamente un corpo umano), ma che non si identificano con esso perché hanno diverse condizioni di persistenza (si pensi all'analoga tesi secondo cui la statua non si identifica con il marmo che la costituisce); h) sono costrutti sociali, la cui esistenza dipende da convenzioni, volta a volta stipulate dalle varie comunità umane; i) la domanda non ha una risposta chiara, dato che al concetto ordinario di persona non corrispondono criteri definiti di identità: se le persone sono entità, lo sono solo in un senso vago e indeterminato.

Anche il secondo problema, relativo ai criteri di identità attraverso il tempo, presenta un ventaglio di soluzioni, che sono ovviamente connesse a quelle appena elencate (dato che la natura di un'entità stabilisce i modi della sua identità e, verosimilmente, viceversa). Qui le soluzioni principali sono tre: 1) il criterio fisico-somatico; 2) il criterio psicologico; 3) la teoria della semplicità. A questi si aggiunge: 4) la teoria dell'indeterminatezza, ossia la negazione dell'esistenza di un criterio univoco.

Le origini del dibattito

Il dibattito moderno sull'i. p. nasce con l'Essay concerning human understanding (1690) di J. Locke, il cui sfondo di riflessione è il dualismo sostanzialistico di R. Descartes, il quale contrappone alla res extensa, che costituisce il nostro corpo, la res cogitans, che è rappresentata dalla nostra mente, e, pur considerando le persone umane come un mélange di anima e corpo, ritiene che si possa esistere senza quest'ultimo, ma non certo senza la mente. Locke sostiene invece che per risolvere il problema dell'i. p. non è necessario rispondere alla domanda metafisica intorno a quale sia la sostanza pensante (materiale oppure spirituale), perché è il flusso del pensiero che conta: è la serie degli stati mentali, unificati grazie al meccanismo della memoria, che crea l'identità personale. Locke distingue così tra essere lo stesso uomo, lo stesso spirito e la stessa persona e afferma che mentre nei primi due casi l'identità implica una continuità di sostanza, nel terzo ciò che conta è la continuità della coscienza, resa possibile dalla memoria. Fin dove si estendono coscienza e memoria si estende il soggetto.

Molto rilevante dal punto di vista contemporaneo è l'uso di esperimenti mentali introdotto da Locke per difendere la sua tesi. Egli immagina così di trasferire i ricordi di un principe nel corpo di un ciabattino, e argomenta che in questo caso la persona del principe si ritroverebbe in un nuovo corpo. Correlativamente, il trasferimento dell'anima di un individuo, priva di ogni ricordo e tratto psicologico, nel corpo di un altro, non renderebbe minimamente quest'ultimo identico al primo: l'identità di sostanza pensante senza coscienza e memoria non basta a fare l'identità della persona. Secondo le tesi lockiane l'identità di sostanza pensante (o di 'uomo', ovvero di individuo biologico) non fornisce pertanto una condizione necessaria né sufficiente per l'identità personale. Con ciò Locke si pone come l'inventore del cosiddetto criterio psicologico dell'identità personale.

Le sue tesi vennero criticate fin dall'inizio dai suoi contemporanei, i quali misero in luce limiti e difetti del criterio della memoria. Tra questi, G.W. Leibniz, che nei Nouveaux essais sur l'entendement humain (1704) metteva l'accento su una difficoltà grave per qualsiasi teoria psicologica e funzionale della persona, vale a dire il fatto che l'identità qualitativa del contenuto mentale non produce di per sé stessa l'identità numerica della persona: non c'è nulla di inconcepibile (apparentemente) in due individui numericamente distinti, ma identici dal punto di vista mentale. Con ciò egli segnalava (a uno sguardo contemporaneo, almeno) come il criterio psicologico finisca per depotenziare sul piano ontologico la nozione di persona: sganciata da una sostanza, la continuità psicologica non fornisce garanzia di identità personale. Questo depotenziamento si sarebbe accentuato in D. Hume: se lo scopo di Leibniz era mostrare che, se non vi fosse la continuità di una sostanza spirituale, la teoria di Locke non sarebbe in grado di spiegare l'i. p., nel Treatise of human nature (1739-40) Hume avanzava la tesi opposta: non esiste alcuna prova dell'esistenza di un io unitario e perdurante come identico nel tempo; la nostra i. p. è il frutto illusorio di un'attività mentale che consiste nel flusso continuo di fasci o collezioni di percezioni. L'importanza del pensiero di Hume consiste quindi nell'aver affermato che, non esistendo una sostanza perdurante e identica che fonda la nostra identità, in un certo senso non vi sono persone. Si tratta di una tesi che - malgrado esprima un apparente paradosso: l'io non esiste - è stata autorevolmente ripresa nel Novecento (per es. da B. Russell e L. Wittgenstein) ed è tuttora viva nel dibattito contemporaneo sull'i. p., la natura dell'io, della coscienza e della soggettività (un nome per tutti è quello di D.C. Dennett).

Criteri di identità personale

Da questa breve disamina storica sono già emersi i principali criteri dell'i. p. discussi in letteratura. Il criterio fisico-somatico è quello criticato da Locke, quando insiste sulla distinzione tra uomo e persona. Gli esperimenti mentali da lui proposti hanno lo scopo di mostrare come, nel determinare la nostra esistenza nel tempo, ciò che conta non è la continuità spazio-temporale del corpo, ma la continuità psicologica. L'essenza della critica lockiana (e neolockiana) è l'idea che noi potremmo sopravvivere al nostro corpo purché sia garantito un grado sufficiente di continuità psicologica. Una versione contemporanea di questa posizione (Shoemaker 1984, 1999) fa riferimento all'ipotesi di un trapianto di cervello. Supponiamo di informare Tizio che il suo cervello sarà trasferito nel corpo di Caio e viceversa, e che, dopo il trapianto, uno dei due riceverà una grossa somma di denaro e l'altro sarà torturato. Tizio può scegliere a chi sarà consegnata la somma e chi invece patirà la tortura. Cosa gli conviene fare? Se l'identità fosse legata al corpo, probabilmente dovrebbe scegliere Tizio-con-il-cervello-di-Caio. Ma se riteniamo che sarà l'individuo Caio-con-il-cervello-di-Tizio a mantenere i ricordi, le speranze, i progetti di Tizio, sarà naturale aspettarsi che proprio questa sarà la sua scelta. Per quanto oggetto di critiche e discussioni (Williams 1973, Olson 1997), questo argomento porta acqua al mulino dei criteri psicologici: la mera continuità corporea non appare sufficiente per l'i. p. (né lo sarebbe, viene sostenuto dai neolockiani, identificare la persona con il suo cervello o con la parte del cervello che veicola i contenuti psicologici rilevanti).

Il criterio psicologico appare così la posizione più solida. Ma anch'esso non è esente da problemi. Alcuni erano stati segnalati già ai tempi di Locke (perfare qualche esempio, da J. Butler e Th. Reid) e vertono su due argomenti: quello della dimenticanza e quello della circolarità. Il primo fa notare che, presa alla lettera, la proposta di Locke sembra implicare che non possiamo attribuire a noi stessi anche una sola delle azioni che abbiamo dimenticato. Una soluzione standard consiste nell'indebolire la forza della connessione psicologica necessaria per parlare di permanenza dello stesso individuo, per es. parlando di "continuità psichica" (Shoemaker 1984), ovvero della relazione che sussiste tra due stati mentali di un soggetto, quando nel successivo questo ha ricordi del precedente. Sulla base di questa relazione, possiamo richiedere, come condizione di persistenza di un io, che sussista una catena di ricordi collegati causalmente gli uni agli altri in una relazione sufficientemente ricca da costituire una trama psicologica mediamente accettabile (per es., richiedendo che un soggetto ricordi ogni giorno almeno la metà delle esperienze del giorno precedente). Questa soluzione indebolisce però la plausibilità della proposta lockiana, introducendo un elemento convenzionale.

La situazione peggiora non appena prendiamo in esame l'obiezione della circolarità, per la quale la continuità della memoria presuppone, e non fonda, l'identità personale. Secondo questo argomento, la nostra definizione di memoria presuppone l'esistenza (e il concetto) di persona: quando dico che S ricorda m, fa parte dell'idea stessa di ricordo che l'esperienza ricordata sia accaduta al soggetto che ricorda (non posso ricordare eventi accaduti a un altro, anche se posso credere di ricordarli). Per poter quindi costruire il soggetto in termini di catene di ricordi, occorre una nozione di quasi-ricordo o q-ricordo (Shoemaker 1984, Parfit 1984) che eviti la presupposizione appena esplicitata. In questo quadro, ho un q-ricordo di un'esperienza passata se: a) mi sembra di ricordarla; b) qualcuno (non necessariamente io) ha avuto l'esperienza; c) il mio q-ricordo dipende causalmente da quell'esperienza. Anche questa soluzione ha i suoi costi, tuttavia. La condizione c) richiede infatti che esista una connessione causale tra il q-ricordo e l'esperienza ricordata, ma che tipo di connessione è richiesta? Perché si parli di identità tra me e Tizio, devo ereditare i ricordi da Tizio attraverso un'appropriata relazione causale tra i suoi e i miei stati psichici: ma come definirla? La riflessione su questo punto solleva il problema della fissione (nelle versioni del teletrasporto e del trapianto di emisferi). Immaginiamo che il mio corpo venga teletrasportato (come nei film di fantascienza) da un pianeta all'altro, ma che all'arrivo, per un errore, la macchina che ha dissolto il mio corpo per inviarlo altrove ne crei due copie: avremmo due individui psicologicamente identici, ciascuno dei quali, via criterio psicologico, potrebbe pretendere di essere me (Parfit 1984). E qualora, obbligati dalla logica, dovessimo negare quest'identità, che ragione avremmo per affermarla nel caso in cui la macchina funziona bene? Come può l'esistenza o meno di una copia in più cambiare l'eventuale relazione di identità tra me stesso e il mio io prima del teletrasporto?

Se qualcuno ritenesse che per confutare l'argomento è sufficiente richiedere che la relazione causale sia realizzata da cause normali della continuità psichica (come la continuità del cervello), eliminando quelle fantascientifiche, dovrebbe rispondere all'ulteriore obiezione del trapianto di emisferi cerebrali. Il nostro cervello ha due emisferi, che sono la base causale della nostra continuità psichica e che (idealmente) potrebbero essere trapiantati in due corpi diversi. In questo modo avremmo però due individui diversi, entrambi in continuità psichica con il possessore originario del cervello, e in possesso di tale continuità grazie a un meccanismo causalmente rispettabile (la continuità di un emisfero cerebrale). Ma entrambi, pur essendo distinti tra loro, per il criterio psicologico, avrebbero diritto a dichiararsi identici a una terza persona (il possessore originario del cervello integro). La discussione dei problemi della fissione ha condotto a un dibattito molto intricato. Tra le soluzioni interne al paradigma psicologico possiamo ricordare quella della 'coabitazione' (Noonan 1989): fino alla fissione due entità coabitavano nello stesso individuo; quella del candidato migliore (eredita l'identità colui che esibisce la maggiore continuità spazio-temporale e somiglianza qualitativa con l'originale); il criterio psicologico moderato, che sostiene che si ha identità soltanto in presenza di una continuità 'non ramificata'.

Una prima morale riguardo alle difficoltà del criterio psicologico, questa, è che può sopravvivere alle obiezioni solo allontanandosi dall'iniziale intuitività: nella sua versione originaria esso conduce a una progressiva dissoluzione dell'io, permettendo il trasferimento dell'identità, la fissione e fusione dei soggetti e così via. E per rimediare deve introdurre vincoli e limitazioni da molti considerati ad hoc, che per di più non sembrano in grado di sbarrare la strada a esiti paradossali che portano a fusioni, fissioni e persino coabitazioni nello stesso corpo di persone distinte. Venuto meno il rimando a una specifica classe di entità facilmente caratterizzabili (gli esseri umani), il concetto di persona appare perdere le proprie connotazioni precise, assumendo tratti sempre più sfumati e avvicinandosi a quella visione 'forense' (adombrata dallo stesso Locke) secondo cui una persona è (solo) una costruzione sociale.

Senza volerci addentrare nei problemi del relativismo implicito nel costruzionismo sociale, notiamo che le difficoltà del criterio psicologico sono rafforzate se si prende in considerazione un ulteriore argomento, l'obiezione 'delle troppe menti', alla cui influenza si deve il ritorno in auge di una versione del criterio corporeo, il cosiddetto animalismo (Olson 1997). In sintesi, il problema è il seguente: dato che, in linea di principio, un individuo può sopravvivere via trapianto o trasferimento di contenuti mentali al proprio corpo vivente, per il criterio psicologico occorre distinguere tra la persona e l'animale umano. In un caso ordinario, quindi, avremo una persona, caratterizzata dal possesso di un certo tipo di contenuti psichici, e il suo corpo, l'organismo che lo costituisce; e queste due entità saranno distinte (dato che hanno diverse condizioni di persistenza). Ora, la persona è senza alcun dubbio contraddistinta dal possesso di certe caratteristiche mentali, ma che dire dell'organismo? Ebbene, dato che esso 'possiede' il cervello (lo stesso che veicola la vita psichica della persona), se accettiamo che gli stati mentali sopravvengano su quelli fisici (l'identità fisica implica l'identità mentale; non si dà differenza mentale senza differenza fisica), ne consegue che anche all'organismo vanno attribuiti gli stati mentali. In sintesi: c'è un animale umano coestensivo con la persona; questo animale ha un cervello; e questo cervello ha stati mentali. Quindi avremmo due entità distinte che coesistono nello stesso luogo e nello stesso tempo e pensano gli stessi pensieri! Per contrastare questo argomento sono state presentate varie dottrine che spaziano dalla tesi secondo cui anche l'animale (umano) ha condizioni di persistenza basate su proprietà mentali - e quindi non c'è conflitto con il criterio psicologico - a quella, opposta, che non è possibile attribuire proprietà mentali a un animale, in quanto queste si applicano a entità differenti da quelle che godono di meri predicati fisici. Sul piano ontologico, molte di queste soluzioni sembrano implicare l'adesione a una qualche forma di teoria della costituzione, ossia la (discussa) tesi secondo la quale entità distinte possono essere costituite dalla medesima base fisica. O rimandano alla difesa di una teoria "quadridimensionalista" degli oggetti (un oggetto esiste identico in varie fasi temporali, due oggetti possono condividere una fase e differire nelle altre).

La complessità delle questioni sopra accennate conferma la forza dell'argomento delle troppe menti e spiega perché l'animalismo che da esso si alimenta sia una posizione che ha guadagnato una grande attenzione. Secondo questa prospettiva (Olson 1997), le persone sono animali umani: le condizioni di identità della persona Tizio sono quelle dell'animale umano Tizio. Essere una persona è una proprietà che l'animale umano può acquisire oppure perdere (si pensi al caso degli embrioni o degli individui in stato vegetativo irreversibile). Nello stesso tempo c'è un senso chiaro in cui la persona che io sono è stata un tempo un embrione (si tratta dello stesso animale umano). Al di là delle complesse questioni bioetiche suscitate, un limite di questa prospettiva è che si scontra con le intuizioni che sono comunque alla base del criterio psicologico: se trapianto il cerebro da Tizio a Caio, l'animale umano Tizio sarà lo stesso, ma i contenuti mentali verranno trasferiti a Caio, ed è tutt'altro che chiaro cosa ci dica l'intuizione circa chi sia chi dopo il trasferimento.

Le perplessità e le difficoltà relative al criterio psicologico e quello fisico-biologico giustificano due ulteriori soluzioni contrapposte: la teoria della semplicità e l'eliminativismo. Entrambe concordano sull'impossibilità di trovare una soddisfacente definizione di i. p., traendo però da questo stato di fatto conclusioni opposte. Per i teorici della semplicità ciò significa che quello di persona è un concetto semplice e primitivo (Strawson 1959, Lowe 1996); una simile posizione può associarsi a una teoria spiritualista (persone come sostanze immateriali semplici), ma non deve necessariamente essere così. L'eliminativismo ha invece molte facce: in un senso afferma che alla nostra nozione non corrisponde alcun tipo di entità (o, se esiste una qualche corrispondenza, non è rilevante ai fini pratici, etici e cognitivi per i quali il concetto è stato introdotto); in un secondo senso che il contenuto e il riferimento del concetto sono socialmente negoziabili e culturalmente variabili; e in un terzo senso infine considera l'idea stessa di io perdurante come un'utile finzione, e così via.

Malgrado una certa preminenza quantitativa degli aderenti al criterio psicologico, il dibattito sull'i. p. appare aperto a molteplici soluzioni, anche per le sue implicazioni e ramificazioni in differenti ambiti della filosofia, come la metafisica, la logica filosofica e la filosofia pratica.

bibliografia

P.F. Strawson, Individuals, London 1959 (trad. it. Milano 1978).

B. Williams, Problems of the self, Cambridge 1973 (trad. it. Milano 1990).

R. Nozick, Philosophical explanations, Oxford 1981 (trad. it. Milano 1987).

D. Parfit, Reasons and persons, Oxford 1984, 19872 (trad. it. Milano 1989).

S. Shoemaker, Personal identity: a materialistic account, in S. Shoemaker, R. Swinburne, Personal identity, Oxford 1984, pp. 67-132.

H.W. Noonan, Personal identity, London-New York 1989.

E.J. Lowe, Subjects of experience, Cambridge 1996.

E. Olson, The human animal, Oxford 1997 (trad. it. Milano 1999).

M. Di Francesco, L'io e i suoi sé. Identità personale e scienza della mente, Milano 1998.

S. Shoemaker, Self, body and coincidence, in Proceedings of the Aristotelian society, Supplementary Volume 1999, 73, pp. 287-306

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