Idea imperiale e continuita romana. Aspetti del culto di san Costantino in ambito romeno

Enciclopedia Costantiniana (2013)

Idea imperiale e continuità romana

Aspetti del culto di san Costantino in ambito romeno

Cesare Alzati
Serban Turcus

Per la storia del mondo cristiano Costantino costituisce un personaggio a vario titolo nodale: la configurazione istituzionale della Chiesa nella società, il valore ecumenico dei deliberati emessi dalle grandi assemblee episcopali, lo sviluppo delle forme del culto ecclesiale, la stessa scansione del tempo sociale secondo un ritmo ebdomadario cristiano sono aspetti decisivi nella storia europea (e non soltanto europea), in rapporto ai quali è stato il figlio di Costanzo Cloro e di Elena a porre in essere realtà e situazioni dimostratesi in grado di travalicare i secoli. I significati che la sua vicenda assume risultano molteplici in rapporto alle prospettive secondo cui essa viene accostata, ma in ogni caso – sia che si guardi a lui dall’interno dello spazio istituzionale e antropologico di eredità romana, sia che lo si consideri essendo estranei a tale contesto – egli resta figura imprescindibile per la comprensione degli ordinamenti istituzionali che la società ha assunto in Europa e non solo. Soprattutto il nesso tra ispirazione ideale delle istituzioni pubbliche e libertà individuale trova nei principi espressi dall’azione di Costantino un riferimento di particolare rilievo, anche in rapporto alle questioni poste, nel mondo contemporaneo, dal processo di globalizzazione in atto.

Segnatamente negli ambiti in cui più diretta si presenta l’eredità istituzionale romana, la persona di Costantino emerge con una speciale pregnanza di significati: specifici, per ciò che il personaggio è stato sul piano effettuale e ha rappresentato nel contesto concreto del suo tempo; ma anche significati di valore più generale, connessi alla condizione di vertice istituzionale dell’Impero, che ha permesso di trasfigurare i lineamenti del personaggio fino a farne il simbolo ideale del monarca cristiano.

Quest’ultimo aspetto assume una peculiare importanza in rapporto all’ambito antropologico e culturale del popolo romeno, considerata la centralità che la figura imperiale ha rivestito nell’orizzonte mentale di questo popolo, come lascia chiaramente intravedere il suo lessico.

Figura imperiale e Nuova Roma nella tradizione romena

In latino il termine imperator è sostantivo verbale derivato da imperare, dalla cui radice discende pure il sostantivo imperium.

Ma nella lingua romena è dal termine împărat (imperatore), che si genera il sostantivo indicante l’ordinamento istituzionale che dall’împărat deriva: împărăţie; nonché l’aggettivo che designa ciò che entra nella sfera della sua maestà: împărătesc; come pure il verbo che definisce l’esercizio del comando: a împărăţi.

Pur nella sua problematicità, l’indicazione contenuta in uno scritto relativo alla conquista ungherese dell’area a oriente del Tibisco può gettare un fascio di luce sul contesto storico in cui questo patrimonio linguistico ha trovato trasmissione e continuità. Nei Gesta Hungarorum, opera del XII secolo di un anonimo «maestro» e «notaio del re Bela» (P. dictus magister […] Bele regis notarius), dopo la presentazione della Pannonia come terra abitata da slavi, bulgari e valacchi, ossia romeni1, con riferimento agli inizi del X secolo e ai territori tra il Tibisco e i Carpazi occidentali, si afferma che un signore locale, il ‘dux’ Menumorout di Byhor, si rifiutò di cedere i propri domini ai potenti invasori, dichiarando che quella terra, sottratta ai suoi avi da Attila, «ora, per grazia del mio signore, l’imperatore di Costantinopoli, nessuno può sottrarre alle mie mani»2. Qualunque sia la valutazione che di tale racconto si voglia dare, da esso risulta con chiarezza che nel XII secolo poteva ritenersi pienamente plausibile il fatto che un organismo politico a occidente del territorio transilvano potesse rivendicare di fronte agli invasori ungari ascendenze tardo antiche e avesse quale proprio referente istituzionale l’imperatore romano di Costantinopoli.

Del resto, in merito alle istituzioni ecclesiastiche, va osservato come ancora nel 1205, riferendosi al «vescovado nella terra dei figli del cneaz Bela» («episcopatus in terra filiorum Bele kneze»), vescovado di rito ‘greco’ la cui cura pastorale era rivolta alla locale popolazione romena, papa Innocenzo III si mostri pienamente consapevole della possibile dipendenza di tale sede vescovile dal trono patriarcale di Costantinopoli3.

Il legame ideale con l’autorità imperiale romana conservato nello spazio carpato-danubiano dalle popolazioni locali parlanti idioma di matrice latina trova ulteriore manifestazione nella denominazione con cui esse si sono ininterrottamente designate lungo i secoli. Identificati dagli altri popoli, in tutta l’area centro-orientale e sud-est europea, con l’etnonimo reso in latino dal termine ‘Valachi4, quanti appartenevano a tali popolazioni si sono in effetti sempre detti ‘Rumâni’, in evidente continuità rispetto alla vasta e composita realtà di quell’Impero, cui già nel IV secolo si applicava il termine Romania5.

Di tale istituzione imperiale Costantinopoli continuò nel tempo a costituire il centro stabile e universalmente riconosciuto, sicché appare quanto mai congrua la recezione, anche in ambito romeno, del nome con cui la Nuova Roma sul Bosforo fu additata alle genti slave dalla missione cirillo-metodiana: Zarigrad (la città degli imperatori)6.

Nonostante tali elementi di continuità romana e il parlare ‘romano’ di quanti in ambito danubiano e carpatico si autodefinivano Rumâni, lungo i secoli medievali la loro vicenda politica e culturale si venne sviluppando in un contesto marcatamente segnato dalla tradizione slava. Nei voivodati sorti nel XIV secolo a mezzogiorno e a oriente dell’arco carpatico le gerarchie di corte, la relativa nomenclatura istituzionale e la lingua della cancelleria erano slavo-balcaniche; slavo era il lessico istituzionale ecclesiastico, e in lingua slava era celebrato il culto. A tutti gli effetti lo spazio romeno è stato pienamente partecipe per secoli della grande circolazione culturale della Slavia ortodossa, con importanza crescente a seguito del progressivo indebolirsi dei monarchi bulgari e serbi e del loro venir meno sotto la pressione ottomana7.

E tuttavia, pure in tale contesto, il riferimento a Costantinopoli non venne mai cancellato: a Costantinopoli fu richiesto il riconoscimento canonico per le sedi metropolitiche dei voivodati di Valacchia (la romena Țara Românească) e di Moldavia, e dalla «Città degli imperatori» tale legittimazione fu accordata – rispettivamente nel 1359 e nel 1401 – segnatamente a opera del patriarca della Grande Chiesa, operante in stretto accordo con l’imperatore8.

Alla luce di questa stabile presenza di Costantinopoli nell’universo ideale romeno, non può far meraviglia il constatare che sia împărat, sia Ţarigrad si trovino menzionati nel primo testo in lingua romena a noi pervenuto, e risalente – come pare – alla metà dell’anno 1521: la lettera del mercante Neacşu9. In quella missiva Costantinopoli continua a essere il luogo dove splende il trono dell’împărat, ma la ‘Città degli imperatori’ ormai non è più il vertice istituzionale dell’ecumene cristiana, bensì il centro politico della ‘Casa dell’Islam’ e il suo împărat è il sultano Solimano I.

L’archetipo imperiale e la sua riproposizione iconica nei voivodati romeni

L’appartenenza del vocabolo împărat al fondo arcaico della lingua romena è stata in anni non lontani confermata da Alexandru Niculescu, con riferimento anche alle indagini testuali dedicate da Florica Dimitrescu ai più antichi scritti in romeno, a cominciare dalle traduzioni bibliche e di carattere cultuale, stampate in area transilvana dal diacono Coresi e da altri maestri tipografi, nella seconda parte del XVI secolo sotto la spinta dei locali poteri protestanti (la luterana universitas Saxonum e il ceto aristocratico ungherese o maghiarizzato d’orientamento calvinista e unitariano)10.

Questo radicamento nell’ininterrotta continuità dell’uso linguistico, fa del vocabolo in questione un testimone significativo della vicenda storica romena nella sua dimensione di lunga durata. In riferimento alle idealità istituzionali che hanno caratterizzato nel profondo tale vicenda, il confronto instaurabile tra testi cronachistici slavoni e romeni risulta non poco significativo. La Cronaca anonima di Moldavia, testo che risale ai tempi del voivoda Stefano il Grande e che fu redatto in slavone secondo i canoni retorici e gli schemi concettuali propri di tale sistema linguistico, ricordando il ritorno trionfale del menzionato signore dopo la sua straordinaria vittoria sui turchi a Vaslui nel 1475, nel descrivere la processione del clero e del popolo che andò a incontrarlo fuori dalla città, usa per designare questo voivoda il titolo di царъ (zar): «benedicevano lo zar: Viva lo zar!»11. Quando nella prima metà del Seicento tale testo fu utilizzato da Grigore Ureche per la sua Cronaca, il passo divenne: «eșindu-i înainte [...] ca înnaintea unui înpărat și birutoriu de limbi păgâne, de l-au blagoslovit»12. Un romeno, che esprimendosi in lingua romena si rivolgeva al contesto romeno, non ritenne opportuno ricalcare l’enunciato slavone «benedicevano l’imperatore: Viva l’imperatore!», ma giudicò conveniente dare al testo la forma: «a lui uscendo incontro [...] come davanti a un imperatore e vincitore di popoli pagani l’hanno benedetto». «Ca unui împărat (come a un imperatore)». Per Grigore Ureche, dunque, Stefano non era imperatore, ma riproduceva ai suoi occhi i lineamenti della figura imperiale. Ossia, come nell’icona si riflette lo splendore dell’archetipo e in qualche modo esso si fa presente, pur conservandosi la distinzione ontologica e la tensione dinamica tra le due realtà, così nel voivoda moldavo – che solo in rapporto all’ideale paradigmatico dell’imperatore veniva concepito (e non avrebbe potuto essere altrimenti in un ambito di tradizione romana orientale) – si vedeva riproposta l’immagine imperiale, la sua maestà, la sua gloria, il suo splendore, ma senza che per questo egli fosse imperatore. Risulta emblematica al riguardo un’espressione usata nel 1648 dal papa d’Alessandria Ioannikios in rapporto al voivoda moldavo Vasile Lupu: «αὐθέντης εὐσεβέστατος [piissimo signore] […] τόπον καὶ τύπον ἐπέχων τῶν ὀρθοδοξοτάτων καὶ ἁγίων βασιλέων [che tiene il posto ed è figura dei molto ortodossi e santi imperatori]»13.

«Tόπον καὶ τύπον ἐπέχων»: in effetti, per i presuli greci e per il popolo ortodosso viventi nella Costantinopoli ottomana dei secoli XVII e XVIII nessun principe cristiano era definito da una ritualità così immediatamente allusiva ai «santi basileis ortodossi», quanto i voivodi romeni. A quel tempo infatti, come ben sappiamo anche sulla scia degli studi di Corina Nicolescu e di più recenti lavori tra cui quelli di Radu Păun, a Costantinopoli si compiva la prima cerimonia d’investitura voivodale: i nuovi signori romeni, preceduti dalla guardia imperiale ottomana, si dirigevano alla chiesa del Phanar e in essa all’altare dalle mani del patriarca ecumenico ricevevano l’unzione col myron, come avveniva un tempo per i tardi imperatori dei romani. Acclamati dalle truppe, i nuovi signori venivano poi da queste scortati con solenne apparato attraverso la città, fino alla loro residenza: vero «Byzance après Byzance», secondo la felice espressione di Nicolae Iorga14.

Caposaldo delle idealità istituzionali della Nuova Roma era stata l’ecumenicità dell’autorità imperiale e il suo carattere paradigmatico per ogni altra potestà sulla terra. In questo l’archetipo imperiale restava, per qualsiasi monarca locale – idealmente ancor prima che effettualmente – inattingibile. E proprio il fatto che mai i voivodi romeni abbiano inteso proporsi quali împăraţi, pur configurandosi alla luce di quel modello, li rende i più autentici continuatori di quella romanità orientale, che nella ‘Città degli imperatori’ ha avuto per secoli la sua compiuta espressione15.

Il santo imperatore Costantino e il voivoda di Moldavia, Stefano, come sua icona

La lettera indirizzata da Eusebio di Cesarea alla sua Chiesa nel 325, in occasione del concilio di Nicea, permette di comprendere l’entusiasmante stupore che quella generazione cristiana, già testimone della persecuzione dioclezianea, dovette sperimentare di fronte alla persona di Costantino: l’imperatore che, sconfitti i persecutori pagani, aveva integrato la Chiesa negli ordinamenti imperiali e si faceva carico di tutelarne l’ortodossia e di garantirne l’unità istituzionale16. Questa situazione, assolutamente imprevedibile e decisamente straordinaria, ben spiega le parole che l’autore della Vita Constantini pone all’inizio del suo scritto:

Risulta a mio giudizio necessario che, a somiglianza dell’umana arte del dipingere, attraverso la parola si consacri nel ricordo l’icona di colui che fu caro a Dio […] E se, rispetto alla grandezza delle realtà delineate nell’esposizione, impari risultano la parola e la qualità del discorso, queste ultime possano ugualmente essere rese splendide dalla semplice enunciazione delle buone opere. La memoria delle imprese gradite a Dio, infatti, non è sterile, ma con estrema efficacia accorda a quanti hanno ben preparato la propria anima un incontro prezioso per la vita17.

La biografia dell’imperatore, dunque, non era concepita quale opera di documentazione storica ma quale testimonianza resa alla grandezza e luminosità di ciò che sotto Costantino, e per suo tramite, era avvenuto. Il culto di san Costantino imperatore rappresenta la proiezione a livello ecclesiale di tale lettura della sua figura18.

Un fenomeno molto simile può constatarsi con riferimento al voivoda Stefano, signore di Moldavia dal 1457 al 1504, che anche fonti esterne al voivodato già non molti lustri dopo la scomparsa definivano ‘il Grande’19 e che la venerazione popolare onorò col titolo di ‘Santo’20. L’accostamento tra le due figure fu, del resto, avvertito già vivente Stefano, trovando eloquenti manifestazioni.

Dopo un secolo di maturazione istituzionale, la Moldavia alla metà del Quattrocento aveva raggiunto un grado di autocoscienza, che necessitava d’essere nutrito e legittimato dal riferimento alle grandi figure della storia cristiana. In tale contesto importanza particolare è venuta assumendo la diffusione del Panegirico dei santi Costantino ed Elena, testo slavone dell’ultimo patriarca della bulgara Tărnovo, Evtimiy, che visse la conquista turca e si spense nel 1402. Di quest’opera la più antica copia d’ambito moldavo giunta a noi si deve allo ieromonaco Iacov, il quale in data 20 Maggio 1474 attesta di aver scritto «questo codice» su richiesta di Stefano voivoda «per il suo monastero di Putna»21. Non è certamente un caso che la trascrizione di Iacov, come tutti i restanti testimoni moldavi, contenga una significativa variante rispetto al testo di Evtimiy: l’omissione dell’originario riferimento del patriarca di Tărnovo al proprio zar Ivan Šišman22.

Questo particolare sembra suggerire una lettura, per i cui destinatari – moldavi – il riferimento allo zar bulgaro si sarebbe potuto trasformare in un’ermeneutica fuorviante. Evidentemente era nella realtà moldava coeva che andava cercata la riproposizione iconica della figura di Costantino.

La trasfigurazione del signore moldavo nella luce dell’archetipo imperiale emerge del resto con immediata evidenza qualora si proceda a una lettura sinottica del Panegirico eutimiano e della Cronaca anonima redatta nell’ambito della Corte nell’età del voivoda Stefano.

Come il Costantino di Evtimiy, il voivoda del cronista slavo-romeno ha raggiunto il trono dopo una strenua lotta (che l’imperatore sostenne «quando il perverso Diocleziano con i suoi turpi servi cercava di ucciderlo»); e, analogamente a Costantino, Stefano è risultato vittorioso dei propri nemici mentre era ancora nei suoi anni giovanili.

Dopo i suoi successi – nel 1465 a Chilia, come nel 1473 a Bucarest, e poi nel 1475 a Vaslui – del voivoda ritornato col suo esercito, il cronista moldavo afferma che, entrando come «colui che reca la vittoria» nella città dove s’innalza il suo trono, Suceava, «il metropolita e tutto il clero lo hanno accolto in modo meraviglioso e bello lodando Dio»23. La dinamica degli eventi corrisponde a quella descritta dal Panegirico di Evtimiy con riferimento a Costantino e alla sua vittoria su Massenzio:

E radunandosi una numerosa folla di Romani, con grande gioia lo aspettarono, ed egli con grande gloria entrò nell’imperiale Roma. Ed essendo usciti ad incontrarlo gruppi di gente d’ogni tipo, i boiari e i suoi consiglieri, le madri feconde di bene e le vergini, i preti, i monaci e le monache dagli occhi pieni di luce e dall’anima pura, lo accolsero, acclamando colui che, imperatore, recava la vittoria della Croce24.

Un’ulteriore assonanza tra la narrazione cronachistica relativa a Stefano e la rappresentazione di Costantino nel Panegirico eutimiano emerge in riferimento alle elargizioni compiute dal voivoda a favore dei propri dignitari e di tutto l’esercito dopo le battaglie del 1472, 1475 e 1481. Il cronista ricorda che il signore moldavo «tenne allora un grande banchetto per il suo metropolita e i suoi vescovi, per i suoi boiari e per tutte le sue milizie; ed istituì molti cavalieri, ed accordò molti donativi e vesti preziose ai suoi boiari e ai cavalieri e all’intera sua milizia»; quanto al Panegirico, in merito a Costantino così aveva detto: «Fece una grande festa di sette giorni per onorare la vittoria, e a tutti concesse benefici, ed apri il tesoro e fece elargizioni ai poveri».

Anche nelle modalità con cui sono presentati gli echi dei trionfi di Stefano, il cronista sembra aver tenuto volutamente presente il testo del Panegirico. «E fu allora grande gioia tra tutti gli uomini e le signorie dintorno, tra tutti i cristiani ortodossi perché il voivoda ha vinto gli ‘idiomi’ pagani», dice la Cronaca anonima moldava; e nel Panegirico vi era: «E quelli dei dintorni, tutti gli ‘idiomi’ sino all’Oceano, gioirono e mostrarono verso di lui la loro amicizia»25.

È singolare il fatto che lo Sbornic di Putna contenente il Panegirico sia stato commissionato e copiato proprio l’anno prima della grande battaglia di Vaslui del 1475, che riuscì ad arrestare, per un certo tempo, l’avanzata ottomana verso l’Europa centro-orientale. Di certo è quasi impossibile non vedere nella figura di Costantino vincitore del pagano Massenzio, quale è delineata nel Panegirico, l’immagine attraverso cui, dopo la clamorosa vittoria del 1475, l’anonimo cronista moldavo filtrò la narrazione sul proprio signore, Stefano, anch’egli trionfatore sopra gli «‘idiomi’ pagani».

La cavalcata dell’imperatore Costantino: l’immagine in terra moldava e i suoi temi agiografici e istituzionali

Se la fruizione diretta della lettura di un testo slavone e la sua comprensione erano prerogativa riservata all’intellettualità ecclesiastica e a una ristretta cerchia di boiari, l’iconografia delle pitture monumentali fissate sulle pareti degli edifici di culto comunicava i contenuti di quel testo in un linguaggio d’immediata e universale fruibilità. In questo senso l’espressione più eloquente dell’agiografia costantiniana, nel suo intreccio con la realtà istituzionale del tempo, è rappresentata nella Moldavia di Stefano il Grande e dei suoi immediati successori dalla rappresentazione iconografica del santo imperatore, e segnatamente dalla composizione, designata come la Cavalcata dell’imperatore Costantino.

Tale iconografia ci viene trasmessa dalle chiese di Pătrăuți e di Arbore, nelle quali l’imperatore è raffigurato mentre, insieme a una schiera di santi tassiarchi, si affretta verso la vittoria sotto il segno della Croce. Se ne occupò alcuni decenni or sono Andrej Grabar in un suo saggio sul tema della crociata nell’Europa orientale e sui suoi riflessi nella creazione artistica26.

La chiesa di Pătrăuți fu edificata da Stefano il Grande nel 1487 e in essa, secondo l’ipotesi oltremodo plausibile di Maria Magdalena Székely, si conservava una reliquia della Santa Croce27. La scena della Cavalcata occupa una parete del pronaos e si presenta come una solenne sfilata di santi cavalieri, alla cui testa sta ad ali spiegate e sul suo cavallo un angelo, che un’iscrizione addita come l’arcangelo Michele28. Sulla scia di Ştefan Andreescu29, non si può che affidare la descrizione dell’immagine alla forza evocativa delle parole di Andrej Grabar:

Monté sur un beau cheval blanc, Michel semble inviter ses compagnons à le suivre, en se retournant vers le cavalier qui se tient derrière lui, en selle sur un cheval couleur orange. L’inscription nous le désigne comme Constantin le Grand. On distingue d’ailleurs la couronne et la dalmatique de l’empereur romain, et les traits familiers du grand héros chrétien. A un certaine distance, derrière Constantin, s’avancent deux saints guerriers adolescents, noblement portés par leurs chevaux, blanc et rose. Ce sont les saints taxiarques byzantins, Georges et Démétrius; le premier porte un fanion cramoisi au haut de sa longue lance. En fin, un peloton de soldats de la cavalerie céleste suit, en rangs serrés, son chef couronné et ses stratèges. On reconnaît les deux Théodores au visage identique; les saints Procope, Mercure, Nestor, Artème, Eustrate, plus difficiles à identifier, doivent être parmi ceux qui les entourent.

Davanti e sopra l’intero corteo brilla una Croce bianca. Essa rende il significato della scena nel suo insieme: l’imperatore Costantino «part pour le combat qui apportera la victoire à la foi chrétienne; l’archange se retourne pour lui montrer le signum apparu dans le ciel; les saints guerriers le suivent et protègent ses armes»30. Il contenuto dell’immagine è evidentemente legato alla dedicazione della chiesa alla Santa Croce, la cui festa si celebra il 14 Settembre, ma – come ha osservato il Grabar – lo schema iconografico del dipinto non trova riscontro nei comuni manuali di Erminia.

Esso è tuttavia reperibile anche nella chiesa dei Ss. Costantino ed Elena a Ochrid, grande sede ecclesiastica, le cui prerogative, fatte risalire all’antica cattedra arcivescovile di Iustiniana Prima, sono tuttora rivendicate dalla Chiesa di Macedonia quale fondamento della propria autocefalia. A Ochrid, come a Pătrăuți, la raffigurazione è collocata nel pronaos, segnatamente nel pronaos sud dell’edificio, che fungeva da solenne introduzione al luogo sacro: in tale spazio di accesso, oltre ai santi titolari, sono raffigurati anche il fondatore della chiesa, lo ieromonaco Parthenios, nonché la madre di lui, la ‘presbytera’ (ossia sposa di ecclesiastico) Maria. La fondazione dell’edificio risale agli ultimi decenni del XIV secolo, ma l’immagine della Cavalcata di Costantino sembra riconducibile a una nuova fase della decorazione pittorica risalente alla seconda metà del XV secolo31.

Quanto alla chiesa di Pătrăuți, l’immagine di Costantino vi è riproposta per tre volte: congiuntamente alla madre Elena, mentre con lei regge la Croce secondo il tipico schema iconografico fissato nell’Erminia (lunetta del portale di accesso al pronaos); nella Cavalcata (pronaos); e infine nell’immagine votiva (naos), in cui il santo imperatore funge da mediatore a favore del voivoda Stefano, presentandolo unitamente ai familiari a Cristo Signore32. Questo legame esplicitamente dichiarato tra l’imperatore e il voivoda fa sì che, pure nell’immagine della Cavalcata di Costantino verso la vittoria guidato dalla Santa Croce, diventi immediata l’allusione alla strenua lotta del signore moldavo contro coloro che della Santa Croce erano, a vario titolo, nemici.

La ricerca della fonte, che della singolare immagine della Cavalcata è stata all’origine, sembra condurre, più che alla tradizione letteraria eusebiana33, ancora una volta al Panegirico dei santi Costantino ed Elena di Evtimiy di Tărnovo.

In tale scritto la visione della Croce si ripropone a Costantino per tre volte. Il prodigio sarebbe avvenuto anzitutto prima della battaglia contro Massenzio a ponte Milvio, quale risposta all’invocazione d’aiuto, e si configura nell’apparizione di una Croce di stelle, splendenti in cielo nelle ore meridiane, accompagnate dalla scritta in caratteri latini «Costantino, con questo vincerai»; una nuova apparizione avrebbe avuto luogo in occasione della conquista di Bisanzio, quando nelle prime ore notturne l’imperatore scorge in cielo una Croce di stelle con la scritta «Con questo segno sconfiggerai tutti i tuoi nemici»; una terza volta il segno della croce sarebbe apparso nel cielo a Costantino quando questi, gettato il ponte sul Danubio, avviò la campagna per la sottomissione degli ‘Sciti’34.

A sua volta Evtimiy di Tărnovo risulta aver attinto alla Historia Ecclesiastica, che Niceforo Callisto aveva dedicato all’imperatore Andronico II Paleologo (1282-1328)35.

La reiterazione della visione ha spinto Ştefan Andreescu a vedere nella scena di Pătrăuți non il riferimento a una precisa battaglia, come fu quella di Ponte Milvio del 28 ottobre 312, bensì una composizione di significato più generale. Potremmo dire: non un’immagine commemorativa, ma il riflesso nel colore di un denso messaggio, a un tempo agiografico e istituzionale.

Il tema iconografico della Cavalcata di Costantino non rimase circoscritto in Moldavia alla sola chiesa monastica di Pătrăuți. Sorin Ulea ne ha individuata la ripresa sul muro occidentale della chiesa di Arbore. A suo giudizio l’immagine si legherebbe al voivoda Petru Rareş e andrebbe collocata dopo il recupero del trono moldavo da parte di questi nel 154136. Ma secondo altri la datazione andrebbe anticipata all’ultimo scorcio del principato di Stefano (1503-1504) e comunque entro il 1511, quando voivoda era il figlio legittimo e successore di Stefano, Bogdan III37. Acutamente la Székely ha evidenziato l’assenza ad Arbore dell’Arcangelo Michele, il che – qualora non sia dovuto a cause contingenti – sembrerebbe indicare, nella committenza o nell’artista, una più marcata attenzione alla dimensione storica della scena38.

In ogni caso resta indubitabile che, sia a Pătrăuți sia ad Arbore, ci si trovi di fronte a un chiaro riconoscimento della figura del santo imperatore Costantino quale archetipo e modello di ogni monarchia cristiana e che, riprendendo i tratti di tale archetipo, il signore di Moldavia, Stefano il Grande, a quel modello abbia guardato con reverenza e – senza enfasi di carattere imperiale – si sia sforzato di riproporlo nel contesto del suo voivodato.

Tale atteggiamento ideale ha trovato recente conferma nell’iconografia seguita alla canonizzazione di Stefano del 1992. L’icona, in qualche modo ufficiale, che del voivoda riassume le sante imprese, a cominciare dalle molte fondazioni di chiese e monasteri, ripropone nella sua fascia inferiore la Cavalcata dell’imperatore Costantino di Pătrăuți e viene inserendo nel corteo che si muove sulla scia del santo imperatore – dopo le figure dei due supremi tassiarchi, i megalomartiri Giorgio e Demetrio – la figura del signore moldavo con corona e veste voivodali.

Ma l’immagine della Cavalcata dell’imperatore Costantino, con la forza evocativa che la caratterizza, non poteva restare senza echi oltre gli ambiti ochridense e moldavo.

L’impegno profuso da Stefano a difesa del mondo cristiano era stato di fatto oltremodo rilevante, e gli valse un conseguente, ampio prestigio. Se dall’Occidente latino papa Sisto IV gli si rivolse appellandolo «vero atleta di Cristo»39, nell’Oriente ortodosso il gran knjaz moscovita Ivan III ritenne opportuno intrecciare con lui strette relazioni, ben rappresentate nel 1483 dalle nozze del proprio figlio ed erede, Ivan, con la figlia di Stefano, Elena. Lo zarevič premorì al padre, sicché quell’unione non riuscì a tradursi in un concreto disegno politico, ma non sembra essere rimasta senza conseguenze sul piano culturale. Con la presenza di Elena a Mosca (e fino a che ella e il figlio Dimitrie non caddero in disgrazia a partire dall’anno 150040) si sviluppò nella Rus’ moscovita una fase di vivace dibattito intellettuale, cui dovettero probabilmente contribuire anche uomini e testi di provenienza moldava41.

In ogni caso, in occasione delle nozze di Elena come alcuni studiosi hanno ritenuto, o durante la successiva signoria del fratello di lei Bogdan III, e comunque nei primi decenni del XVI secolo, giunse a Mosca lo Skazanie vkratcě o moldavskĭich gospodarech (Narrazione in breve intorno ai signori moldavi), che fu successivamente integrato nella cronachistica russa, attraverso la quale è a noi pervenuto42. La prima sezione di tale testo – sezione le cui ascendenze sembrano da ricercare nella regione del Maramureş (regione inserita nel regno ungherese) – viene segnalando l’origine romana dei Romeni, ma in un contesto che sul piano religioso comporta il rifiuto tanto dell’Antica quanto della Nuova Roma, con esaltazione invece del legame con l’Ortodossia serba (conservatasi estranea al concilio Fiorentino)43. Si trattava di un testo che perfettamente poteva inquadrarsi nell’elaborazione ideologica allora in corso nella Moscovia. È in effetti in terra moscovita che, tra il 1511 e il 1522, la lettera di Spiridon Savva viene a delineare l’imperatore romano Augusto quale fonte di legittimità per ogni potere nell’intera ecumene44, ed è là che attorno al 1523, nella sua famosa lettera a Misjur’ Munechin, il monaco Filofej di Pskov vede in Mosca il condensarsi dell’Impero romano, con esclusione delle città imperiali che precedentemente quell’Impero avevano detenuto: «L’Impero romano è indistruttibile [...] Tutti gli Imperi cristiani sono giunti alla fine e si sono uniti, secondo i libri dei profeti, nell’unico Impero del nostro signore, cioè l’Impero romano. Giacché due Rome sono cadute, ma la terza sta e non ce ne sarà una quarta»45.

Questa affermazione, a forte impronta escatologica, avrebbe assunto nel 1547 con Ivan IV una concretissima accezione storica attraverso la solenne incoronazione e unzione a zar nella cattedrale moscovita della Dormizione.

In tale contesto e in seguito alla vittoria conseguita sui nemici della croce nel 1552 con la conquista di Kazan’, per quella stessa cattedrale della Dormizione, dove venne collocata presso il seggio dello zar, fu realizzata la splendida icona della Cavalcata dell’imperatore Costantino, ora conservata nella Sala 61 della Tret’jakovskaja Galereja.

Si tratta dello stesso tema con cui era stata ornata in Moldavia la chiesa della Santa Croce di Pătrăuți, fondazione di Stefano il Grande; ma di quel tema l’icona rappresenta la declinazione moscovita, non soltanto perché nel corteo del santo imperatore (che porta la Croce tra le mani) sono inseriti, e con posizione di spicco, i santi principi della Rus’: Vladimir, Boris e Gleb, ma soprattutto perché attorno a Costantino (la cui immagine tende a confondersi con quella dello zar), oltre alle schiere dei santi tassiarchi, stanno i fanti e i cavalieri dell’esercito della Santa Rus’ di ritorno da Kazan’46.

Non siamo più nella romena Moldavia, per la quale l’împărat continuava, romanamente, a sussistere nella ‘Città degli imperatori’, città da cui – per via ecclesiastica – il voivoda continuava ad attingere anche il proprio modello giuridico47, ma siamo nella Terza Roma russa, in cui lo zar, secondo le parole del metropolita Zosima, stava saldamente quale «nuovo imperatore Costantino, signore della nuova Città di Costantino: Mosca»48.

Dal culto all’antroponimia: avvio di una ricerca

Gheorghe Brătianu ha definito il popolo romeno «un enigma ed un miracolo storico»49 per la sua tenace continuità in un quadro di rarefatta documentazione e per la sua emersione storica con precisi lineamenti, non soltanto linguistici, ma culturali, religiosi, istituzionali.

Analogamente sembrerebbe potersi dire per l’antroponimo ‘Costantino’ nel contesto della realtà, antropologicamente variegata, del voivodato transilvano, porzione di particolare rilievo del Regno d’Ungheria.

Non presente nell’onomastica tradizionale della Chiesa romana (papa Costantino, all’inizio del secolo VIII, era in realtà d’origine sira) e, di riflesso, inusuale nella Chiesa latina, il nome emerge improvvisamente alla metà del Duecento (1246), quando compare un Constantinus, che funge da decano del capitolo nella chiesa episcopale di Alba-Iulia50. Successivamente il nome sparisce nel nulla, per ricomparire, dopo oltre un secolo, in una significativa sequenza antroponimica, le cui varianti si direbbero riflettere una certa diffusione: Kostantyn, nobile romeno (cneaz); Koztantyn sempre romeno, assessore distrettuale; nonché (in forma ipocoristica) Koztha, anch’egli cneaz romeno. I tre nomi si trovano nel medesimo documento: un diploma rilasciato il 1° giugno 1360, relativo alla terra di Hațeg51. Quest’ultima, accanto alla terra del Maramureș, è una delle regioni che più hanno conservato il carattere istituzionale romeno con una larga autonomia rispetto al regno ungherese. Va altresì osservato come tale regione di Hațeg, al cui interno sorse un tempo la capitale della Dacia romana, Ulpia Traiana Augusta Dacica Sarmizegetusa, è anche il territorio in cui – tra Due e Trecento – si trova la più grande densità di chiese in pietra di tutta la Transilvania, costruite con materiale di reimpiego, tratto dalle strutture di difesa e dagli edifici romani circostanti. Tenendo conto dal fatto che la Transilvania è stata comunque ampiamente birituale, con interscambi rituali e con fondazioni monastiche d’iniziativa regia, tanto di rito latino, quanto di rito greco, non sembra azzardato supporre che anche il decano Costantino potesse essere stato originariamente un romeno, inseritosi successivamente in un’istituzione della Chiesa latina.

Uno scenario diverso si presenta al di là dei Carpazi, dove l’elemento autoctono romeno col secolo XIV venne strutturando compiuti ordinamenti politici ed ecclesiastici, nei quali poté ampiamente esprimere la propria tradizione religiosa e la connessa onomastica.

In tale contesto e con riferimento specificamente alla Moldavia, nel periodo che val dal 1384 al 1448, è riscontrabile solo la forma ipocoristica di ‘Costantino’: Costea, con 25 occorrenze, distribuite tra boiari (17), zingari servi (7) e monaci (1)52. La frequenza del nome presenta connotazioni analoghe anche a cavallo tra Quattro e Cinquecento, quando nel periodo 1487-1505 la documentazione attesta trenta personaggi di nome Costea, e altri tre individuati da un’altra forma ipocoristica: Costin. In tali casi la forma Costea appare legata a figure o di rango elevato (boiari), o appartenenti ad ambiti istituzionali, cui si associava una certa formazione culturale: funzionari di Cancelleria, ma altresì ecclesiastici e loro familiari.

Il tema costantiniano, tanto marcatamente presente nella letteratura e nell’iconografia della Moldavia quattrocentesca e nel corso della prima parte del Cinquecento, non è altrettanto riscontrabile nella Valacchia. Una spiegazione al riguardo risulta di non facile formulazione. Indubbiamente il voivodato a mezzogiorno dei Carpazi era molto più esposto alla pressione ottomana, con immediate conseguenze anche per la stabilità politica: mentre la Moldavia dal 1457 al 1504 fu retta continuativamente da Stefano, nello stesso periodo la Valacchia dovette annoverare sette voivodi, e quasi tutti con più periodi di signoria. Sotto l’aspetto dell’antroponimia, e con riferimento al nome ‘Costantino’, non se ne riscontra una presenza significativa. Nei 303 diplomi relativi a questo voivodato, emessi tra il 1247 e il 1500, sono stati censiti cinque soggetti col nome Costantino e sei col nome Costea/Costia: tutti collocabili nel XV secolo. Le persone che portano il nome Costantino appartengono tutte al ceto nobiliare, mentre tra i Costea/Costia a tre nobili s’accompagnano tre servi zingari.

Questo dato valacco sembra aprire un’interessante prospettiva d’indagine in merito all’onomastica romena: il culto come generatore di nuovi e più ampi orizzonti culturali, capaci di educare a trascendere la pura realtà locale. Sembrerebbe in effetti che la più tarda fortuna onomastica di ‘Costantino’ nelle terre romene sia inseparabile dal progressivo affermarsi in esse dell’ellenismo che, rendendole polo fondamentale del ‘Commonwealth fanariota’53, ancor più vi venne radicando le memorie imperiali cristiane della ‘città di Costantino’ e la venerazione per chi quella città aveva rifondato quale vertice istituzionale dell’ecumene cristiana.

1 «Dicevano che in essa affluivano corsi d’acqua maestosi, il Danubio e il Tibisco, e altri fiumi maestosi, in cui abbondavano ottimi pesci. E che quella terra era abitata dagli Slavi, dai Bulgari e dai Valacchi e pastori dei Romani, giacché dopo la morte del re Attila i Romani affermavano che la terra pannonica era pascolo, per il fatto che in quella terra le loro greggi erano condotte a pascolare» («Dicebant quod ibi confluerent nobilissimi fontes aquarum, Danubius et Tyscia, et alii nobilissimi fontes bonis piscibus habundantes. Quem terram habitarent Sclavii, Bulgarii et Blachii ac pastores Romanorum, quia post mortem Athila Regis terram Pannonie Romani dicebant pascua esse, eo quod greges eorum in terra Pannonie pascebantur»): Anonymus, Gesta Hungarorum, in Scriptores Rerum Hungaricarum tempore ducum regumque stirpis Arpadianae gestarum, ed. E.(I.) Szentpétery, I, Budapestini 1937, p. 45.

2 [...] «modo per gratiam domini mei imperatoris Constantinopolitani nemo potest auferre de manibus meis», Ivi, pp. 60-61. Per le varie ipotesi di datazione dell’opera si può vedere: A. Madgearu, Românii în opera Notariului Anonim (I Romeni nell’opera del Notaio Anonimo), Cluj-Napoca 2001, pp. 19-25; quanto ai problemi connessi alla cronologia interna ai Gesta: Ivi, pp. 31-47.

3 «Provideas autem attentius, ne episcopatus ille sit ecclesiae Constantinopolitanae subiectus, quia cum ipsa Constantinopolitana ecclesia nuper ad Apostolicae Sedis redierit unitatem, eam nolumus suo iure privari»: Die Register Innocenz’ III., hrsg. von O. Hageneder, A. Sommerlechner, C. Egger, et al., VIII, Wien 2001, n. 46 (Colocensi archiepiscopo [Iohanni]), p. 79. Cfr. Ş. Turcuş, Sfântul Scaun şi Românii în secolul al XIII-lea (La Santa Sede e i Romeni nel XIII secolo), Bucureşti 2001, pp. 156-158.

4 Il termine sembra derivare dal nome di tribù celtiche, ricordato anche da Cesare nella forma Volcae (Caes., Gall. VI 24; cfr. VII 7,64). I germani lo fecero proprio, applicandolo a chi, come le popolazioni della Gallia, apparisse loro romanizzato e parlante lingua latina (antico alto tedesco: Walhisc). Sulla base di questo elemento lessicale si sarebbe formata tutta una serie di denominazioni tra cui il tedesco Wälscher e l’anglosassone Wealh (inglese Welsh). Il lessico germanico avrebbe influenzato su questo punto anche l’antico slavo: nella Vita Methodii si trova l’espressione «нз Влахъ» (dall’Italia) (Житиѥ Меѳодия, V/2, recensuit et illustravit F. Tomšić, in F. Grivec, F. Tomšić, Constantinus et Methodius Thessalonicenses. Fontes, Zagreb 1960, p. 155). In tale quadro assume rilevanza il fatto che la medesima parola usata da cechi e polacchi per indicare chi appartenesse alle genti italiche (ceco: Vlach; polacco: Włoch) fu impiegata in bulgaro (Влах), in serbo (Влах), in russo (Волох › polacco Wołoch) per designare chi in area carpato-danubiana si definiva rumân. Da una lingua slava trassero infine questa denominazione gli Ungheresi: Oláh (romeno), Olasz (italico); e sempre tramite la mediazione slava essa giunse in ambito greco: Βλάχος. Il latino conosce le due forme Valachus e Olachus mediate rispettivamente dallo slavo e, come detto, dall’ungherese. Tra la ricca bibliografia al riguardo vedano: L. Tamás, Romains, Romans et Roumains dans l’histoire de la Dacie Trajane, in Archivum Europae Centro-Orientalis, 1 (1935), pp. 45-48; A. Armbruster, Romanitatea Românilor. Istoria unei idei (La romanità dei romeni. Storia di un’idea), Bucureşti 1972, pp. 12-16.

5 Sulla continuità dell’autodefinizione romanus tra le popolazioni romene, si potrà vedere la sintesi di V.A. Georgescu, Le terme de romanus et ses équivalents et dérivés dans l’histoire du peuple roumain, in La nozione di “Romano” tra cittadinanza e universalità, Atti del II Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma” (Campidoglio 21-23 aprile 1982) Napoli 1984, in particolare le pp. 416-422. Segnatamente sulla forma Român, che nell’ultima parte del XVI secolo appare emergere in un contesto fortemente influenzato da cultura umanistica e da tensioni confessionali – per le sue premesse a livello di lessico comune: E. Stănescu, Premisele medievale ale conştiinţei naţionale româneşti. Mărturii interne. Român, românesc în textele româneşti din veacurile XV-XVII (Le premesse medioevali della coscienza nazionale romena. Testimonianze interne. Român, românesc nei testi romeni dei secoli XV-XVII), in Studii. Revistă de istorie, 17 (1964), p. 981; per le premesse in ambito letterario slavone: A. Mareş, Rumân “roman” în vechile texte româneşti (Rumân “roman” negli antichi testi romeni), in Studii şi cercetâri lingvistice, 23 (1972), pp. 63-67 – cfr. C. Alzati, Etnia e universalismo. Note in margine alla continuità del termine Romanus tra le genti romene, in La nozione di “Romano” tra cittadinanza e universalità, Atti del II Seminario internazionale di studi storici Da Roma alla Terza Roma, cit., pp. 445 segg. Quanto al termine Romania quale designazione dell’ecumene imperiale, in cui gli uomini liberi – dopo la Constitutio Antoniniana (anno 212) – tutti erano a pieno titolo cittadini romani, attorno al 383 in area danubiana esso è reperibile nell’espressione «in solo Romaniae» presente nella lettera di Aussenzio di Dorostorum, conservata negli scolia di Palladio di Ratiaria al concilio aquileiese del 381: Auxentius Dorostorensis, Epistula de fide, vita et obitu Wulfilae, in Maximini Dissertatio contra Ambrosium, 37, in Scolies Ariennes sur le Concile d’Aquilée, éd. par R. Gryson, Paris 1980, pp. 246, 248; per la datazione, p. 63. Ma poco prima il termine già era stato in quest’area usato nella greca Passio S. Sabae Gothi, 4,8, cfr. H. Delehaye, Saints de Thrace et de Mésie, in Analecta Bollandiana, 31 (1912), pp. 218, 221 (Saba fu martirizzato nel fiume Buzău il 12 aprile 372; per la datazione della Passio ad anno di poco successivo: ivi pp. 288-291). Il termine è del resto attestato per l’ambito linguistico greco anche in Atanasio (h. Ar. 35) e in Epifanio (haer. LXIX 2). In ambiente africano ne fa uso Possidio nella Vita Augustini, XXX 1. Più in generale si vedano: G. Paris, Romani, Romania, lingua Romana, Romanicum, in Romania, 1 (1872), pp. 1-22; J. Zeiller, L’apparition du mot «Romania» chez les écrivains latins, in Revue des Études Latines, 7 (1929), pp. 194-198.

6 Così già la Vita di Costantino/Cirillo, apostolo degli Slavi: Житїе Костантина философа IV/1, ed. F. Tomšić, in F. Grivec, F. Tomšić, Constantinus et Methodius Thessalonicenses, cit., p. 99. Non sembra fuori luogo in tale contesto ricordare il dibattito che, avviato in età illuministica, ancora permane intorno all’ubicazione della Grande Moravia, ossia intorno ai territori in cui operò la missione cirillo-metodiana. Al riguardo, in antitesi alla vulgata ampiamente diffusa, che fa della Moravia di Rastislav un’entità territoriale centro-europea, nei recenti anni Novanta, oltre alle argomentazioni di Charles Bowlus a favore di una collocazione nell’area pannonica – Franks, Moravians and Magyars. The Struggle for the Middle Danube. 788-907, Philadelphia 1995; Frankish-Moravian Conflicts in the Ninth Century. A Turning Point in the History of the Carpatian Basin, in Thessaloniki - Magna Moravia, Proceedings of the International Conference (Thessaloniki 16-19 October 1997), Thessaloniki 1999, pp. 53-63 –, ha assunto particolare attenzione l’accurata analisi delle fonti condotta da Martin Eggers, che ha collocato il territorio missionario di Metodio proprio nel menzionato bacino del Tibisco, avendo quale centro di gravitazione il basso corso del Maros (romeno Mureş) (Das “Großmärische Reich”. Realität oder Fiktion? Eine Neuinterpretation der Quellen zur Geschichte des mittleren Donauraumes im 9. Jahrhundert, Stuttgart 1995; Das Erzbistum des Method. Lage, Wirkung und Nachleben der kyrillomethodianischen Mission, Bonn 1996; The Historical-Geographical Implications of the Cyrillo-Methodian Mission among the Slavs, in Thessaloniki - Magna Moravia, cit., pp. 65-85).

7 Per una rapida sintesi su tali aspetti della vicenda culturale del popolo romeno, sia permesso rinviare a C. Alzati, Tradizione cultuale slava, appartenenza confessionale e identità culturale tra i Romeni transilvani nella seconda metà del ‘500, in Sant’Ambrogio e i santi Cirillo e Metodio. Le radici greco-latine della civiltà scrittoria slava, Atti del primo dies academicus (Milano 25-26 maggio 2009), a cura di M.C. Pesenti, K. Stantchev, Milano-Roma 2010, pp. 181-193.

8 I documenti relativi alla costituzione della metropolia «di tutta l’Ungrovalacchia» nel 1359 e al riconoscimento nel 1401 del vescovo Josif quale metropolita di Moldavia possono vedersi in E. de Hurmuzaki, Documente privitoare la Istoria Românilor (Documenti riguardanti la Storia dei Romeni), XIV: Documente greceşti privitoare la Istoria Românilor (Documenti greci riguardanti la Storia dei Romeni), publicate după originale, copiile Academiei Române şi tipărituri de N. Iorga, 1, Bucureşti 1915. Cfr. N. Iorga, Condiţiile de politică generală în care s-au întemeiat Bisericile româneşti în secolele XIV-XV (Le condizioni di politica generale in cui le Chiese romene sono state fondate nei secoli XIV-XV), in Analele Academiei Române. Memoriile Secţiunii Istorice (Annali dell’Accademia Romena. Memorie della Sezione di Storia), 35 (1913), pp. 387-411. Sulla temporanea presenza, tra il 1370 e il 1419, di una seconda metropolia «di parte dell’Ungrovalacchia» con sede a Severin nell’area occidentale del voivodato, cfr. P.Ş. Năsturel, Autour de la partition de la Metropole de Hongrovalachie (1370), in Buletinul Bibliotecii Române. Freiburg (Bollettino della Biblioteca Romena. Freiburg), 1977-1978, pp. 293-326. Vasta è ovviamente la bibliografia dedicata alle travagliate vicende che portarono al riconoscimento del metropolita Iosif di Moldavia nel 1401; in merito basti qui segnalare i contributi di V. Laurent, Contribution à l’histoire des relations de l’Église byzantine avec l’Église roumaine au début du XVe siècle, in Bulletin de la section historique de l’Académie Roumaine, 26 (1945), pp. 165-184; Id., Aux origines de l’Église moldave. Le métropolite Iérémie et l’évêque Joseph, in Revue des Études Byzantines, 5 (1947), pp. 158-170.

9 Si tratta di una comunicazione, scritta in caratteri cirillici e con indirizzo in slavone, che il mercante Neacşu inviò da Câmplung [slavonico: Длъгополе] in Valacchia al giudice sassone Hans Benkner di Kronstadt [Braşov] in Transilvania, per informarlo dei movimenti dell’esercito ottomano lungo il Danubio: cfr. N. Cartojan, Istoria literaturii române vechi (Storia della Letteratura Romena Antica), Bucureşti 1940: postfaţa şi bibliografii finale de D. Simonescu, Bucureşti 1980, p. 80.

10 A. Niculescu, L’‘empereur’ des Roumains, in Spazio e centralizzazione del potere, Atti del IV Seminario internazionale di studi storici Da Roma alla Terza Roma (Campidoglio, 18-19 aprile 1984), a cura di M.P. Baccari, Roma 1998, pp. 175-178. L’autorevole filologo e linguista segnala tra l’altro come nella latinità occidentale il termine imperator si sia trasmesso «par des voies cultivées, des ‘cultismes’ ou ‘sémicultismes’», mentre è nel solo romeno che esso si presenta quale frutto di una continuità senza alcuna interruzione dell’antico fondo linguistico. Di fatto nel secolo XVI il termine risulta organicamente presente nel Salterio di Sturdza Şcheianu (73 occorrenze), nel Tetraevangelo di Coresi (69 occorrenze), nel Salterio di Coresi (72 occorrenze), nella Cazania di Coresi (101 occorrenze): cfr. F. Dimitrescu, Contribuţii la istoria limbii române vechi, Bucureşti 1973, p. 167.

11 Cronicile slavo-romîne din sec. XV-XVI (Le Cronache slavo-romene dei secoli XV-XVI), publicate de I. Bogdan, ediţie revăzută şi completată de P.P. Panaitescu, Bucureşti 1959, p. 9.

12 Grigore Ureche, Letopisețul Țării Moldovei (Cronaca della Terra di Moldavia), ediţie îngrijită de L. Onu, București 1967, p. 98.

13 Citato da P.Ş. Năsturel, Considérations sur l’idée impériale chez les Roumains, in Byzantina, 5 (1973), p. 413.

14 N. Iorga, Byzance après Byzance, Bucureşti (19351) 1971. Quanto in particolare al rito d’investitura, cfr. C. Nicolescu, Le couronnement – “Încoronatia”. Contribution à l’histoire du cérémonial roumain, in Revue des Études Sud-Est Européennes, 14 (1976), pp. 661-663; R.G. Păun, Încoronarea în Ţara Românească şi Moldova în secolul al XVIII-lea, in Revista Istorică, 5 (1994), pp. 743-759; V. Barbu, G. Lazăr, Coronatio. Tradiţia liturgică în Ţările Române (Coronatio. La tradizione liturgica nei Paesi Romeni), in Naţional şi universal în istoria Românilor. Studii oferite Prof. Şerban Papacostea cu ocazia împlinirii a 70 de ani (Nazionale e universale nella storia dei Romeni. Studi offerti al Prof. Şerban Papacostea in occasione del suo LXX compleanno), Bucureşti 1998, pp. 40-69.

15 Non appare, dunque, condivisibile l’opinione di quanti hanno sostenuto una rivendicazione, da parte dei voivodi romeni, del rango imperiale e del carattere imperiale del loro potere. Spiccano in tal senso le molteplici pubblicazioni offerte a partire dagli scorsi anni Settanta da Dumitru Nastase, che è giunto a parlare di un cripto-impero cristiano: Idea imperială în ţările române. Geneza şi evoluţia ei în raport cu vechea artă românească [secolele XIV-XVII] (L’idea imperiale nei Paesi Romeni. Sua genesi ed evoluzione con riferimento all’antica arte romena [secoli XIV-XVII]), Atena 1972; L’héritage impérial byzantin dans l’art et l’histoire des Pays Roumains, Milano 1976; Βοεβόδας Οὐγγροβλαχίας καὶ αὐτοκράτωρ ῾Ρωμαίων. Remarques sur une inscription insolite, in Byzantinisch- neugriechische Jahrbücher, 22 (1976), pp. 1-16; L’idée impériale dans les Pays Roumains et ‘le crypto-empire chrétien’ sous la domination ottomane, in Σύμμεικτα, 4 (1981), pp. 201-251; Unité et continuité dans le contenu de recueils manuscrits dits ‘Miscellanées’, in Cyrillomethodianum, 5 (1981), pp. 22-48. La ricchezza della documentazione e il sapiente intreccio delle fonti, che caratterizzano questi lavori, non mutano il quadro sopra delineato, che non viene scalfito dall’irrigidimento in senso istituzionale di singole enunciazioni di retori greci insofferenti nei confronti della turcocrazia. Quanto ai romeni di Transilvania e della regione Partium Regni Hungariae, va osservato come il progressivo inserimento (negli anni successivi al 1686) dei territori da loro abitati nel sistema asburgico abbia significato un concreto ritrovare l’împărat quale fonte della legittimità, garante di giustizia e polo di convergenza per la vita istituzionale, anche ecclesiastica: si trattava, peraltro, non di colui che sedeva sul trono nella ‘Città degli imperatori’, ma del sacro romano imperatore che da Vienna reggeva l’Impero, il Divus Caesar Augustus, cui si rivolgeva il Supplex libellus Valachorum (1791: il testo in appendice a D. Prodan, Supplex Libellus Valachorum or The Political Struggle of the Romanians in Transylvania during the 18th Century, Bucharest 1971, p. 443). Questo ci fa capire quanto fu traumatica per tali popolazioni, sul piano istituzionale e psicologico, l’instaurazione nel 1867 della doppia monarchia: in effetti, la trasformazione del Gran Principato di Transilvania in regione del regno d’Ungheria significò per i romeni transilvani essere privati del loro imperatore. Non a caso essi, per difendersi dalla politica vessatoria dello Stato nazionale in cui erano stati inglobati, si rivolsero ancora una volta dai propri villaggi con accorate petizioni al «Drăguţul de împărat» («Caro imperatore»: A. Niculescu, L’‘empereur’ des Roumains, p. 177), invocandone l’intervento contro le nuove leggi emanate da un re mai prima conosciuto. Per quale fosse il legame con la figura imperiale nella Transilvania d’inizio Ottocento cfr. P. Din, Ipostaze ale mitului ‘bunului împărat’ în Transilvania sub Francisc I al Austriei (Ipostasi del mito ‘del buon imperatore’ in Transilvania sotto Francesco I d’Austria), in Identitate şi alteritate. Studii de Istorie Politică şi Culturală (Identità e alterità. Studi di Storia politica e culturale), III, Omagiu profesorului Liviu Maior, din partea Catedrei de istorie modernă a Universităţii ‘Babeş-Bolyai’ (Omaggio al professor Liviu Maior, da parte dell’Istituto di Storia Moderna dell’Università ‘Babeş-Bolyai’), a cura di N. Bocşan, S. Mitu, T. Nicoară, Cluj Napoca 2002, pp. 340-351. Del resto, Aurel Popovici avrebbe continuato, fino al termine dei suoi giorni nel 1917, ad attestare quanto il riconoscimento di quella suprema autorità istituzionale potesse associarsi a una piena affermazione dei diritti nazionali dei singoli popoli ed esserne anzi la sicura garanzia: A.C. Popovici, Die Vereinigten Staaten von Groβ-Österreich. Politische Studien zur Lösung der nationalen Fragen und staatsrechtlichen Krisen in Österreich-Ungarn. Mit einer Karte des föderativen Groβ-Österreich, Leipzig 1906. Si è evidentemente di fronte – per i romeni – a un dato linguistico e a una sensibilità istituzionale di lunga durata, che sarebbe entrata in crisi solo in conseguenza del trionfo in Europa delle ideologie nazionaliste, con la conseguente affermazione di Stati nazionali ispirati – più o meno direttamente – alla filosofia politica hegeliana. Cfr. su quest’ultimo aspetto: P. Catalano, Impero: un concetto dimenticato del Diritto Pubblico, in Cristianità ed Europa. Miscellanea di studi in onore di Luigi Prosdocimi, a cura di C. Alzati, II, Roma-Freiburg-Wien 2000, pp. 29-51.

16 Eus., ep. Caes.

17 Eus., v.C. I 10.

18 Cfr. Poteri religiosi e istituzioni: il culto di san Costantino imperatore tra Oriente e Occidente, a cura di F. Sini, P.P. Onida, Torino 2003.

19 Stephanus ille Magnus: così lo designa il re polacco Sigismondo in una missiva del 3 febbraio 1531 al più tardo voivoda moldavo Petru Rareş (E. de Hurmuzaki, Documente privitóre la istoria Românilor (Documenti riguardanti la Storia dei Romeni), II/1, Bucurescĭ 1891, p. 22), e sempre in ambito polacco «grande principe dei Moldavi» lo qualifica il cronista Martin Cromer (cfr. P.P. Panaitescu, Ştefan cel Mare în lumină cronicarilor contemporani din ţările vecine (Stefano il Grande alla luce dei cronisti contemporanei dei Paesi vicini), in Studii şi Cercetări Ştiinţifice. Istorie (Studi e Ricerche Scientifiche. Storia), 11 (1960), pp. 199-226).

20 «Non per la sua anima, che è nelle mani del Signore, poiché egli di fatto è stato un uomo con i suoi peccati, ma per le sue imprese senza eguali, né prima, né dopo di lui». Cfr. l’Atto patriarcale emesso il 2 luglio 1990 nel monastero di Putna, con cui è stato istituito il Parastas Voievodal Naţional. Per le testimonianze della devozione popolare nei confronti del voivoda: S. Teodorescu-Kirileanu, Ştefan cel Mare şi Sfânt. Istorisiri şi cântece populare strînse la un loc (Stefano il Grande e Santo. Narrazioni e canti popolari insieme raccolti), Mănăstirea Neamţ, 19243. Il 20 giugno 1992 il Santo Sinodo della Chiesa ortodossa romena, sotto la presidenza del patriarca Teoctist, ha decretato la canonizzazione del voivoda, fissandone la festa al 2 luglio. In occasione del V centenario della sua morte un importante convegno internazionale si è tenuto nel monastero di Putna, da lui fondato e che ne custodisce la tomba: Ştefan cel Mare şi Sfânt, atlet al credinței creştine. 1504-2004 (Stefano il Grande e Santo, atleta della fede cristiana. 1504-2004), Sfânta Mănăstire Putna 2004.

21 Cfr. G. Mihăilă, Tradiția literară constantiniană, de la Eusebiu al Cezareei la Nichifor Calist Xanthopulos, Eftimie al Târnovei şi domnii Ţărilor Române (La tradizione letteraria su Costantino, da Eusebio di Cesarea a Niceforo Callisto Xanthopoulos, Evtimiy di Tărnovo, nonché ai Signori dei Paesi Romeni), in Id., Cultură şi literatură română veche în context european (Cultura e letteratura romena antica nel contesto europeo), Bucureşti 1979, pp. 217-279.

22 L. Pilat, Modelul constantinian şi imaginarul epocii lui Ştefan cel Mare (Il modello costantiniano e l’immaginario dell’età di Stefano il Grande), in Ştefan cel Mare şi Sfânt, atlet al credinței, cit., pp. 431-432.

23 Cronicile slavo-romîne, cit., p. 17, 62-63.

24 Mihăilă, Tradiția literară constantiniană [Panegiricul], pp. 340-341.

25 Cfr. A. Pippidi, Tradiţia politică bizantină în Ţările Române în secolele XVI-XVIII (La tradizione politica bizantina nei Paesi Romeni nei secoli XVI-XVII), Bucureşti 20012, pp. 102-103.

26 A. Grabar, Les croisades de l’Europe Orientale dans l’art, in Id., L’Art de la fin de l’Antiquité et du Moyen Âge, I, Paris 1968, pp. 168-175 (già in Études sur l’histoire et sur l’art de Byzance. Mélanges Charles Diehl, II, Art, Paris 1930, pp. 18-27). Si veda il contributo in questa stessa opera di T. Sinigalia.

27 M.M. Székely, Ştefan cel Mare şi cultul Sfintei Cruci (Stefano il Grande e il culto della Santa Croce), in Analele Putnei (Annali di Putna), 1 (2005), pp. 27-28.

28 Cfr. J. Bouchard, ‘Cavalcada’ de la Pătrăuţ. Inscripţiile picturii (‘La Cavalcata’ di Pătrăuţi. Le iscrizioni del dipinto), in Analele Putnei (Annali di Putna), I (2) (2005), pp. 13-14.

29 Ş. Andreescu, Pătrăuţi e Arezzo: un paragone e le sue conseguenze, in Annuario dell’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia, 6-7 (2004-2005), Bucarest-Venezia 2005, pp. 121-131; edizione romena: Pătrăuţi şi Arezzo: o comparaţie şi consecinţele ei, in Ştefan cel Mare şi Sfânt, atlet al credinţei, cit., pp. 375-388.

30 A. Grabar, Les croisades de l’Europe Orientale, pp. 169-170 (pp. 19-20).

31 L’affresco della Cavalcata è in parte perduto: vi si individuano comunque il santo imperatore con la Croce nella mano, quasi come scettro, seguito da tre santi cavalieri: cfr. G. Subotić, Свети Константин и Јелена у Охриду (Santi Costantino ed Elena a Ochrid), Beograd 1971; riproposizione dello schema iconografico alla tav. 9; riferimento a Pătrăuţi: pp. 86-87.

32 Cfr. M.M. Székely, Ştefan cel Mare şi cultul Sfintei Cruci, cit., p. 24.

33 Eus., v.C. I 28. In tal senso si erano espressi studiosi quali Sorin Ulea (in Istoria artelor plastice în România [Storia delle arti plastiche in Romania], redactată sub îngrijirea acad. prof. G. Oprescu, I, Bucureşti 1968, p. 354) e Virgil Vătăşianu (Pictura murală din nordul Moldovei [La pittura parietale nel Nord della Moldavia], Bucureşti 1974, p. 19).

34 Mihăilă, Tradiţia literară constantiniană [Panegiricul], pp. 339, 346, 347.

35 Niceph. Call., h.e. VII 29; 47; 49, (PG 145, cc. 1272C, 1324B-C, 1328A). Agli inizi del XVIII secolo, nell’VIII tomo della sua Bibliotheca Graeca, Johan Albert Frabicius, riprendendo le notizie offerte nella seconda metà del Seicento da Peter Lambeck, direttore a Vienna della Biblioteca Imperiale (Commentarii de Bibliotheca Caesarea Vindobonensi), aveva segnalato la tormentata vicenda del testimone manoscritto dell’opera di Niceforo, ora Österreichische Nationalbibliothek, Cod. Hist. gr. 8 Samml. databile al 1320 circa. Il codice, prezioso per precocità e per rarità, appartenne un tempo alla ricca biblioteca del re d’Ungheria, discendente da famiglia aristocratica transilvana di origine romena, Mattia Corvino. Cfr. PG 145, cc. 549-552.

36 S. Ulea, L’origine et la signification idéologique de la peinture extérieure moldave, in Revue Roumaine d’Histoire, 2 (1963), pp. 29-71, in partic. 49-50, 61.

37 Cfr. in tal senso I.I. Solcanu, Datarea ansamblului de pictură de la biserica Arbure (La datazione del complesso pittorico della chiesa di Arbure), I, Pictura interioară (I dipinti dell’interno), in Anuarul Institutului de Istorie şi Arheologie ‘A. D. Xenopol’ (Annuario dell’Istituto di Storia e Archeologia ‘A. D. Xenopol’), 12 (1975), pp. 35-55; I.I. Solcanu, R. Theodorescu, T. Sinigalia, Artă şi civilizaţie în timpul lui Ştefan cel Mare (Arte e civiltà nel tempo di Stefano il Grande), Bucureşti 2004, p. 71.

38 M.M. Székely, Ştefan cel Mare şi cultul Sfintei Cruci, cit., pp. 27-28, 32-33.

39 E. de Hurmuzaki, Documente privitóre la istoria Românilor, cit., II/1, p. 14.

40 Cfr. T. Panova, Soarta marii cneaghine Elena, fiica lui Ştefan cel Mare (Il destino di Elena, gran principessa, figlia di Stefano il Grande), in Ştefan cel Mare şi Sfânt, atlet al credinţei, cit., pp. 455-474.

41 Alla cerchia della figlia di Stefano, proveniente da una terra in cui significativa era la presenza delle correnti hussite, sono state accostate, già dai detrattori della principessa, alcune dottrine non conformiste e istanze di rinnovamento apparse a Mosca tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo, alle quali si è spesso attribuita la globalizzante definizione di ‘giudaizzanti’: N.A. Kazakova, J.S. Lur’e, Антифеодальные еретические движения на Руси (Il movimento ereticale antifeudale in Russia), Moskva-Leningrad 1955; A.I. Klibanov, Реформационные движения в России (Il movimento riformatore in Russia), Moskva 1960. A loro volta, tali nuovi orientamenti di pensiero sono stati considerati il diretto precedente di quelle correnti dottrinali (represse tra il 1553 e il 1558 dal metropolita Makarij e da Ivan IV) i cui fautori, rifugiatisi oltre la frontiera occidentale della Moscovia, furono tra i partecipanti ai dibattiti suscitati nella Rzeczpospolita polacco-lituana dalle componenti più estreme del radicalismo protestante d’orientamento antitrinitario: cfr. L. Ronchi De Michelis, Eresia e Riforma nel Cinquecento. La dissidenza religiosa in Russia, Torino 2000, pp. 57 segg.

42 «Signori moldavi» si è detto, giacché il gospodar’ (che in questo caso alcuni mss. rendono con gosudar’) e l’equivalente gospodin’ si presentano nel linguaggio istituzionale dei voivodati romeni, a partire dalla cancelleria ungrovalacca, come il corrispettivo slavo del latino dominus (romeno: domn), desunto dal lessico feudale della cancelleria ungherese. Al riguardo, dopo le analisi di I. Bogdan, Originea voevodatului la români (L’origine del voivodato presso i romeni), Bucureşti 1902, pp. 16 segg.; e di A. Cazacu, Patronatul şi domnia (Patronato e Signoria), in Revista istorică (Rivista Storica), 21 (1935), pp. 110 segg., si veda anche E. Vîrtosu, Titulatura domnilor şi asocierea la domnie în Ţara Romînească şi Moldova (pînă în secolul al XVI-lea) (La titolatura dei Signori e l’associazione al trono in Valacchia e Moldavia [fino al secolo XVI]), Bucureşti 1960, pp. 183-196. Lo Skazanie si presenta redatto in uno slavone russo, ma i punti di contatto con la cronachistica del monastero di Putna e alcuni elementi linguistici d’origine bulgara tradiscono il precedente moldavo. Nell’edizione di F.A. Grekul, V.I. Buganov, Славяно-Молдавские летописи XV-XVI вв. (Cronache slavo-moldave dei secoli XV-XVI), Moskva 1976, pp. 6 segg., viene offerto un accurato quadro della tradizione manoscritta, costituita da alcuni codici della Voskresenskaja Letopis’, da un manoscritto della Nikonovskaja Letopis’ e da tre altri codici miscellanei, nei quali il testo moldavo precede vario altro materiale cronografico. Quanto alla datazione dell’arrivo del testo moldavo in Moscovia, il collegamento col matrimonio di Elena – in continuità rispetto a precedenti autori, da Hasdeu a Bogdan, da Iorga a Jacimirskij – è stato riproposto da A.V. Boldur, Cronica slavo-moldovenească din cuprinsul letopisei ruse Voskresenski (La Cronaca slavo-moldava all’interno della russa Voskresenskaja Letopis’), in Studii. Revistă de Istorie (Studi. Rivista di Storia), 16 (1963), pp. 1107 segg. Alle signorie di Petru Rareş (1527-1538; 1541-1546) aveva invece pensato P.P. Panaitescu in Cronicile slavo-romîne din sec. XV-XVI (Le Cronache slavo-romene dei secoli XV-XVI), publicate de I. Bogdan, ediţie revăzută şi completată de P.P. Panaitescu, Bucureşti 1959, pp. 153-154. A sua volta Matei Cazacu (seguendo M.E. Byčkova, Общие традиции родословных легенд правящих домов Восточной Европы (Le tradizioni comuni delle leggende genealogiche riguardanti le casate dominanti dell’Europa Orientale), in XVI, Культурные связи народов Восточной Европы в XVI в (Le relazioni culturali dei popoli dell’Europa Orientale nel XVI secolo), red. B.A. Rybakov, Moskva 1976, p. 299) è venuto additando la prima fase della signoria di Bogdan III (Aux sources de l’autocratie russe. Les influences roumaines et hongroises. XVe-XVIe siècles, in Cahiers du monde russe et soviétique, 24 (1983), pp. 22-23), non diversamente da quanto proposto a suo tempo anche da N. Cartojan, Istoria literaturii române vechi, cit., p. 55.

43 Cfr. C. Alzati, La coscienza etnicoreligiosa romena in età umanistica, tra echi di romanità e modelli ecclesiastici bizantinoslavi, in Lo spazio romeno tra frontiera e integrazione in età medioevale e moderna, Pisa 2001, pp. 95-107.

44 Ed. R.P. Dmitrieva in L’idea di Roma a Mosca. Secoli XV-XVI. Fonti per la storia del pensiero sociale russo, a cura di P. Catalano, V.T. Pašuto, Roma 1993, pp. 13-14 (trad. it.: p. 218).

45 Ed. N. Sinicyna, ivi, p. 147 (trad. it.: pp. 356-357).

46 Segnalazione anche in Grabar, Les croisades de l’Europe Orientale, pp. 172-175 (pp. 24-27); più recentemente: I.A. Kočetkov, К истолкованию иконы “Церковь воинствующая”: «Благословенно воинство небесного царя» (Per l’interpretazione dell’icona “La Chiesa militante”: «Benedette le schiere dello zar celeste»), in Труды Отдела древнерусской литературы, 38 (1985), pp. 185-209; sulle ascendenze moldave, pp. 205-206.

47 Cfr. D.I. Mureşan, De la place du Syntagma de Mathhieu Blastarès dans le Méga Nomimon du patriarcat de Constantinople, in Le patriarcat oecuménique de Constantinople aux XIVe-XVIe siècles: rupture et continuité, Actes du colloque international (Rome 5-7 décembre 2005), Paris 2007, pp. 429-469.

48 Изложение пасхалии (Esposizione della Tavola pasquale), ed. N. Sinicyna, in L’idea di Roma a Mosca. Secoli XV-XVI. Fonti, cit., p. 124 (trad. it.: p. 334).

49 G.I. Brătianu, O enigmă şi un miracol istoric: Poporul român (Un enigma e un miracolo storico: il popolo romeno) (19401), Bucureşti 1988.

50 Documente privind Istoria României. C. Transilvania (Documenti riguardanti la Storia della Romania. C. Transilvania), I, 1075-1250, Bucureşti 1953, pp. 328-329.

51 Documenta Romaniae Historica. C. Transilvania, XI, Bucureşti 1982, pp. 606-610.

52 Documenta Romaniae Historica. A. Moldova, I, 1384-1448, Bucureşti 1975, p. 448-449.

53 Cfr. C. Alzati, L’Ortodossia, in Storia del Cristianesimo, III, L’età moderna, a cura di G. Filoramo, D. Menozzi, Roma-Bari (19971) 2008, pp. 313-317.

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