IBN SABIN

Federiciana (2005)

IBN SA῾BĪN


Filosofo islamico d'ispirazione mistica, autore delle risposte alle questioni filosofiche dette 'questioni siciliane', poste da Federico II ai sapienti islamici del suo tempo.

Abū Muhammad ῾Abd al-Haqq b. Ibrāhīm b. Muhammad b. Nasr, al-Makkī al-Mursī Qutb al-Dīn, noto come Ibn Sab῾īn (letteralmente, 'figlio di settanta') o anche, come egli stesso si definiva, Ibn Dāra ('figlio dello zero, del circolo') ‒ in quanto la cifra 'settanta', nella notazione numerica detta 'bizantina' usata nel Maghreb, veniva indicata appunto con un circolo (dāra) ‒, nacque a Murcia, in al-Andalus (designazione del territorio iberico sotto la dominazione musulmana) nell'anno dell'egira 613 o 614 (1216-1217 d.C.). Di famiglia agiata, considerata da alcune fonti biografiche di origine meccana qurayshita e discendente da ῾Alī, il genero del profeta Muhammad, I.S. ebbe un'educazione vasta e solida, in campo letterario e religioso (scienze coraniche e tradizioni profetiche). Fin dalla più giovane età fu attirato dalla speculazione filosofica, inclinando verso una lettura neoplotiniana della filosofia islamica, che egli armonizzava con la tradizione mistica sunnita (sufismo).

Stabilitosi a Ceuta, sul lato africano dello Stretto di Gibilterra, I.S. vi acquisì presto fama di uomo santo e sapiente che, unita alla sua reputazione di alchimista e mago, gli conquistò un largo seguito di seguaci in al-Andalus e nel Nord dell'Africa, che da lui si definirono 'sabinisti' (al-sab῾īniyya) e che dettero vita a una vera e propria confraternita semiclandestina, caratterizzata dallo stile di vita povero e austero, in ossequio alla tradizione sufi. Né mancarono, da subito, i nemici: l'ambiente politico-religioso dell'epoca, nelle regioni più occidentali dell'Islam, era dominato dall'ortodossia malikita (v. Musulmani) e poco incline ad accettare letture varianti del dogma islamico. Ben presto, diverse dicerie corsero sul conto di I.S., accusato, fra l'altro, di connivenza con la tradizione filosofica ellenizzante, di mettere in dubbio la qualità di 'sigillo dei profeti' di Muhammad, ma soprattutto di affermare una concezione monista dell'Essere supremo in contraddizione con la teologia ortodossa che affermava la distinzione fra Dio e mondo. Costretto ad abbandonare Ceuta, I.S. si spostò in Ifriqiyya (v.; territorio comprendente l'odierna Tunisia, parte della Libia e dell'Algeria), all'epoca sotto dominazione hafside, inseguito dalla censura degli ambienti religiosi nordafricani. Qui l'eminente teologo andaluso Abū Bakr Ibn Khalīl al-Sakūnī, che si era stabilito a Tunisi, riuscì a rendergli ostile la classe politica e la popolazione, fino a spingerlo, intorno ai trent'anni, all'esilio volontario.

Fu a Ceuta, prima dell'esilio, che I.S. si trovò a rispondere alle cosiddette 'questioni siciliane', che l'imperatore Federico II andava ponendo ai sapienti musulmani, nell'ambito delle relazioni diplomatiche stabilite con i sovrani musulmani del bacino del Mediterraneo, il sultano ayyubide di Egitto, l'emiro hafside di Tunisi e il califfo almohade, regnante all'epoca su Marocco e parte della penisola iberica. Probabili emissari dell'imperatore furono Ruggero de Amicis e Oberto Fallamonica (v.), che avrebbero recapitato alle corti ayyubide e almohade i testi delle domande, tradotti maldestramente in arabo (probabilmente da Teodoro di Antiochia, segretario e astrologo di corte). È quello che si ricava da alcune polemiche osservazioni dello stesso I.S., che fu interpellato per rispondervi in ragione della sua reputazione e della sua familiarità con i termini della filosofia classica.

La vicenda delle Questioni fu resa nota, in un articolo del 1853, da Michele Amari, che identificò l'imperatore svevo nel sovrano cristiano indicato come autore delle 'questioni siciliane' alle quali I.S. rispondeva, in un trattato filosofico contenuto in un manoscritto della Bodleian Library, la cui intestazione recitava infatti Libro delle risposte alle questioni siciliane di Ibn Sab῾īn, su di lui la misericordia, sull'immortalità dell'anima (le domande famose di un re cristiano). La prefazione al trattato descrive la circostanza dell'invio delle domande in numerosi paesi islamici. Disperando di trovare una risposta, l'imperatore si rivolge alla corte hafside, quindi a quella almohade, il cui sovrano, il califfo al-Rashīd (regnante fra 1232 e 1242), dà ordine al governatore a Ceuta, Ibn Khalās, di convocare I.S. per rispondere. Il giovane filosofo andaluso (all'epoca forse poco più che ventenne) accetta l'incarico, rifiutando tuttavia i ricchi doni che l'accompagnano e dichiarando di voler rispondere unicamente per umiliare il sovrano cristiano (la iattanza di tale risposta è in linea con la retorica ufficiale del regime almohade, ispirata all'idea del ǧihād e dell'umiliazione dottrinale dei non musulmani).

Poco dopo l'episodio delle 'questioni siciliane', I.S. lasciò il territorio almohade, dirigendosi prima in Ifriqiyya, come si è detto, poi al Cairo, dove incorse nell'ostilità del futuro sovrano mamelucco al-Malik al-Zāhir Baybars (all'epoca uomo forte del regime ayyubide), che avrebbe preso il potere nel 1260. La ragione di questa ostilità è stata individuata nell'inclinazione verso lo sciismo della quale il mistico andaluso fu accusato dai suoi detrattori. I.S. si stabilì allora alla Mecca, intorno al 652/1254, dove si pose sotto la protezione del signore della Mecca, Abū Numayy Muhammad (652-702/1254-1301). Per conto di quest'ultimo personaggio e dell'élite politica meccana, egli avrebbe scritto un'epistola formale al sovrano hafside di Tunisi, al-Mustansir bi-llāh, riconoscendone la sovranità e giungendo a identificarlo con il Mahdī, il mitico restauratore dell'ordine islamico sovvertito, con lo scopo di chiederne la protezione. Nel suo esilio, I.S. fu seguito da una massa di seguaci, gente di umile condizione, secondo molti dei suoi biografi, o che aveva fatto professione di povertà, e che il suo insegnamento galvanizzava. Fra questi, il poeta mistico al-Shushtarī, di origine andalusa (era nato a Cadice), che lo incontrò durante un suo soggiorno a Bugia, in Tunisia, nel 646/1248, e lo seguì fino alla Mecca, condividendo con il suo maestro l'accusa di eresia. A lui, che si faceva chiamare 'schiavo di Ibn Sab῾īn', si deve la definizione del maestro come di una 'calamita di anime' ed è opera sua anche un'ode nella quale è indicata l'ascendenza intellettuale sincretistica della setta sabinista, comprendente, fra gli altri, i nomi di Platone, Aristotele, Alessandro Magno, al-Hallāǧ (il più famoso dei mistici musulmani classici).

Alla Mecca le persecuzioni ricominciarono, orchestrate nuovamente da un religioso andaluso, Qutb al-Dīn al-Qastallānī. Fu forse il clima a lui perennemente ostile, che gli impediva di praticare la vita virtuosa alla quale aspirava, unito al desiderio mistico di ricongiungimento a Dio, che spinsero I.S., nel 668 o 669 (1270 o 1271), al suicidio per taglio delle vene, alla maniera stoica e contro la tradizione religiosa ortodossa, che vieta al musulmano di levarsi volontariamente la vita (secondo altri testimoni, I.S. sarebbe invece stato avvelenato). La sua confraternita mistica sopravvisse fino al sec. XIV almeno, quando il famoso teologo rigorista Ibn Taymiyya (m. 728/1328) l'attaccò nei suoi scritti.

Contemporaneo e conterraneo di Ibn ῾Arabī, il maggiore filosofo sufi di Spagna (come lui nato a Murcia), I.S. ne condivise la vocazione esoterica, caratteristica del sufismo ibero-musulmano fra i secc. XII e XIII, e, sia pure con varianti significative, il monismo ontologico che nega la separazione fra Dio e mondo (I.S. avrebbe tuttavia giudicato negativamente anche la scuola mistica andalusa, definendo 'corrotti' tanto Ibn ῾Arabī quanto Ibn Masarra, capostipite di questa tendenza in ambito iberico). Più ancora che per le risposte alle Questioni, I.S. occupa un posto di assoluto rilievo nella storia della filosofia islamica medievale per il trattato mistico dall'enigmatico titolo di Budd al-῾ārif, del quale varie interpretazioni sono state proposte (fra queste, 'L'idolo del mistico' o, più verosimilmente, 'La scappatoia dello gnostico'), nel quale I.S. espone il sistema panteista da lui professato, fondato sulla wahdat al-wuǧūd, l'unicità dell'essere, dalla quale egli fa discendere ogni conoscenza ed esperienza possibile, senza separazione fra sfera spirituale e materiale. Depositario di questa conoscenza è lo gnostico (῾ārif), il più perfetto degli esseri umani (tale evidentemente si considerava I.S.), dotato di logica intuitiva e "illuminativa" opposta alla logica categoriale aristotelica. Quest'ultima è giudicata da I.S. inutile alla comprensione della realtà, in quanto essa non giunge a comprendere la fondamentale unità dell'esistente. L'annunziata traduzione del trattato da parte dello studioso spagnolo Esteban Lator non si è mai realizzata, a causa probabilmente della difficoltà estrema d'interpretazione dell'opera, anche sul piano linguistico. I.S. ebbe del resto fama di autore di opere scritte con un sofisticato sistema crittografico, nel solco dell'esoterismo mistico ma anche, probabilmente, per sfuggire alle critiche dei teologi ortodossi. Molte delle sue epistole furono glossate dagli allievi, al fine di renderne intelligibile il contenuto.

Se la paternità del Libro delle risposte alle questioni siciliane, contenuto in un manoscritto a tutt'oggi unico (Oxford, Bodleian Library, Hunt. 534), era già stata attribuita a I.S., l'identità del destinatario ‒ a cui il testo dà i titoli di 're dei Rūm' (nome col quale gli arabi dell'epoca indicavano i bizantini e, per estensione, gli europei), 'principe della Sicilia' e amīr tūr ‒ era stata oggetto d'illazioni senza fondamento. Fu Amari, nello studio prima citato, a decifrare l'enigma posto da quest'ultimo titolo leggendolo come anbaratūr, ossia 'l'imperatore', e per antonomasia Federico II di Svevia (Gottschalk, 1957, stabilirà poi che tale titolo è stato usato dagli storici arabi esclusivamente per Federico II e suo figlio Manfredi). L'ipotesi è confermata da un altro luogo della prefazione, dove si specifica che il personaggio in questione aveva mandato un'ambasciata con le domande al califfo almohade al-Rashīd, regnante dal 1232 al 1242, ossia quando re di Sicilia era Federico. L'attribuzione probabile della redazione delle questioni a Teodoro di Antiochia (v.) è suffragata dalla sua intensa attività di traduttore di documenti diplomatici e di trattati scientifici, fra i quali il celebre De arte venandi cum avibus, negli stessi anni (nel registro palatino del 1239-1240, dunque nella stessa epoca della risposta di I.S. alle Questioni, lo si menzionerebbe come redattore delle lettere in arabo dell'imperatore al sovrano hafside di Tunisia).

Il contenuto del trattato è variamente indicato nel testo come al-masā'il al-siqilliyya ('le questioni siciliane'), al-kalām ῾ala l-masā'il al-siqilliyya ('discorso filosofico sulle questioni siciliane') e al-aǧwiba ῾an al-as'ila al-siqilliyya ('risposte alle questioni siciliane'). Si tratta, come è spiegato nella prefazione del trattato, attribuibile a un seguace di I.S., della contestazione di cinque quesiti (ma i quesiti filosofici veri e propri sono quattro) che l'imperatore svevo avrebbe posto ai sapienti di diversi paesi musulmani, 'per confutarli' secondo le fonti arabe, in realtà coerentemente col costume speculativo e con l'interesse per la cultura musulmana dimostrati da Federico II in altre occasioni.

Amari fornì anche le prime estese indicazioni bio-bibliografiche su I.S., in base alle conoscenze disponibili all'epoca, ma anche a una personale interpretazione della figura di I.S., nel quale egli identificava un filosofo aristotelizzante in lotta contro il pregiudizio ostile alla filosofia greca diffuso negli ambienti religiosi ortodossi. Tale equivoco si è protratto fino agli studi novecenteschi su I.S., più consapevoli della natura sincretistica e irriducibile ai canoni europei del misticismo sunnita medievale. È stato in particolare Mario Grignaschi, in un articolo fondamentale della bibliografia sabiniana (1955), a ricondurre I.S. nel solco del misticismo musulmano panteista, nutrito asistematicamente di filosofia aristotelica e pseudoaristotelica ma non riconducibile a una qualsiasi definizione filosofica occidentale.

Il testo arabo delle Questioni è stato edito nel 1943 dallo studioso turco Serefettin Yaltkaya, maestro di Grignaschi, che ne aveva dato in precedenza (1934) una traduzione in turco piuttosto carente. Viceversa, esse restano a tutt'oggi solo parzialmente tradotte nelle lingue europee (e Grignaschi ha sottolineato come molta parte delle loro oscurità, il principale ostacolo alla traduzione, non potrà chiarirsi finché il Budd al-῾ārif non sia correttamente interpretato).

Questo il contenuto delle questioni, secondo la parafrasi fattane da I.S. stesso nel rispondervi (e nella traduzione di Grignaschi). Prima domanda: "Il Saggio [Aristotele] ha parlato con eloquenza, in tutte le sue asserzioni, dell'eternità del mondo e non vi è dubbio che fosse tale la sua opinione. Dubbio è soltanto se abbia dato una dimostrazione di questa sua tesi e quale sia stata la sua dimostrazione. Se non ha dato una dimostrazione, di quale genere è il suo discorso sull'argomento?". I.S. inizia col definire la nozione di eternità, e quindi passa a descrivere la teoria aristotelica relativa all'eternità del mondo quale essa è articolata nelle opere classiche, dove Aristotele sembra concludere dell'impossibilità dell'eternità del mondo, mentre diversa, a suo dire, appare la sua opinione nelle opere più tardive, in realtà apocrife: il 'Libro del bene assoluto', il 'Libro della mela' (è il Liber de pomo, conosciuto anche in ebraico e in latino, in una traduzione commissionata proprio da Manfredi, figlio di Federico II), il 'Libro dell'unità' e il 'Libro della teologia'. La posizione di I.S., che verrà ribadita nella discussione successiva, è che occorra prescindere dalla posizione di Aristotele e dei suoi seguaci e derivare invece la convinzione dell'eternità sostanziale del mondo dal suo essere "incluso nell'essenza della divinità". La risposta di I.S. è stata tradotta quasi interamente da Amari, e ampiamente commentata da Mehren (1879).

Seconda domanda: "Quale è la meta della teologia e quali i preliminari necessari della stessa, seppur possiede preliminari?". Nella risposta a questa domanda, I.S. passa nuovamente in rassegna le opinioni di Aristotele e dei suoi seguaci relativamente ai preliminari della teologia, enumerando quattordici opere aristoteliche, senza distinzione fra autentiche e apocrife. In seguito, espone le posizioni dell'ortodossia musulmana, per la quale le premesse della teologia si trovano nelle fonti islamiche (Corano, sunna, ecc.). Espone quindi la posizione del sufismo, al quale egli stesso aderisce: per il sufi, tutta la conoscenza descritta è preliminare alla teologia, che non è altro che il riconoscimento che "Dio è la realtà delle cose esistenti", e che dunque tutto quello che vi è da conoscere dipende dalla volontà divina (il che, sottolinea Grignaschi, non poté che rafforzare l'accusa di monismo che gli muovevano i teologi musulmani). I.S. termina rivolgendosi direttamente al sovrano siciliano, in un modo che illustra bene il persistente tratto esoterico della sua biografia intellettuale, ma anche il teso clima dottrinale dell'epoca. Citeremo quest'ultimo passaggio secondo Grignaschi, che ha interamente tradotto e autorevolmente commentato la risposta nel saggio prima citato (nella traduzione più faziosa di Amari, I.S. sembrava invece invitare il sovrano siciliano a un colloquio privato e segreto, e a render oscuri i termini della domanda per non incorrere, come lui, nelle ire degli ortodossi): "Tu mi hai interrogato sul fine della scienza teologica […]. Ora è compiuto, come conveniva, il (mio discorso) teco, ma sarebbe opportuno che m'incontrassi con te. In verità la tua domanda lascia comprendere che non sei a giorno della scienza [religiosa] e che sei digiuno in materia di problemi speculativi. D'altro lato è manifesto [da te] che tu desideri di essere diretto (verso il vero). Se dovesse riuscirti difficile di venire da me, mandami qualcuno che conosca la teologia (mutakallim), una persona in cui hai fiducia e gli si scriverà tutto quanto c'è da dire su questo argomento. E tutte le domande che mi hai posto sono più chiare, per i nostri confratelli, di un fuoco sulla vetta di un monte […]. Chiedi cose più profonde e più oscure. Un qualsiasi allievo musulmano, che (ancora) studi e non sia (ancora) sapiente è (già) troppo nobile per discutere con te intorno a simili argomenti. In una sola parola, i sapienti non si sono in verità curati di questi problemi. Non rientrano fra gli argomenti che, nella loro opinione, convengono a chi viene interrogato e a chi interroga. Anzi considerano che il trattarne costituisca un (sintomo di) delirio per chi [con quel discorso] dà informazioni in proposito e (un attestato di stoltezza) per colui a cui se ne parla. E se dovessero sapere per certo che io ti ho risposto su tali quesiti, mi guarderebbero (con disprezzo), come guardano (con disprezzo) a questi argomenti".

Terza questione: "Che cosa sono le categorie, come le si adopera ne[i generi de]lle scienze, di modo che il loro numero sia completo ‒ e il loro numero è dieci ‒ e quale è il loro numero, e se è possibile che siano di meno o di più e quale ne è la prova". L'enunciato goffo e impreciso della questione, tale da suscitare lo sdegno di I.S., è stato generalmente attribuito all'incapacità del traduttore di Federico a renderne la complessità dei termini. I.S. è del resto famoso per simili sfoghi umorali, che, nel Budd al-῾ārif, non risparmiano i grandi nomi della filosofia islamica classica (cf. Massignon, 1928). In realtà, il monismo ontologico professato da I.S. lo rende radicalmente estraneo, come si è visto nelle precedenti risposte, al concetto stesso di una conoscenza che proceda gradualmente in modo categoriale, laddove la conoscenza della realtà materiale e spirituale è innata e istantanea, derivando dall'unità sostanziale dell'intelletto con Dio. Non esistono traduzioni complete del testo della risposta.

Quarta questione: "Quale è la prova dell'immortalità dell'anima ed è essa immortale e dove si oppone Alessandro [di Afrodisia] al Saggio [Aristotele]". Nella risposta, frammista a considerazioni polemiche causate, forse, dalla delicatezza del tema, I.S. afferma l'immortalità dell'anima invocando l'insieme delle sue fonti, quelle filosofiche (Platone e Aristotele) ma anche tutti i libri scritturali ammessi dalla teologia islamica, dal Corano ai Vangeli alla Torah, dai sabei agli zoroastriani, fino all'interpretazione dei mistici musulmani ai quali egli si richiama. Alla questione su Alessandro di Afrodisia I.S. obietta l'imprecisione e la vaghezza della formulazione ("tu non spieghi in cosa, in che modo né a che proposito questa opposizione abbia luogo"); ciò nonostante, la interpreta come riferita alle specie dell'intelletto, e alla loro diversa interpretazione. Mehren ha fornito una traduzione, non priva di punti discutibili, di tale questione.

La quinta e ultima questione non fa parte, in realtà, delle questioni filosofiche, e anche il suo dettato appare dubbio: essa riguarderebbe l'interpretazione di un hadīth, ossia uno dei detti tradizionalmente attribuiti al profeta Muhammad o ai suoi primi seguaci, del cui significato Federico si mostra curioso (ignoriamo come sia giunto a conoscere tale hadīth e perché l'abbia giudicato interessante). Il detto, attribuito allo stesso Muhammad, recita: "Il cuore del credente è fra due dita del Misericordioso". I.S. ne svolge il commento metaforicamente, secondo la tradizione dell'esegetica coranica classica.

Per finire, I.S. si rivolge nuovamente a Federico, riassumendogli lo spirito generale delle sue risposte ("ho evitato di aggiungervi osservazioni e lunghe spiegazioni, tanto più che tu desideravi conoscere solo l'opinione più generalmente accettata") e invitandolo nuovamente a un colloquio personale ("quando avremo un colloquio insieme, parleremo di persona degli stessi argomenti e sarà la cosa più sicura").

Dell'autenticità delle Questioni e delle risposte datevi da I.S. esistono diverse conferme. Sappiamo, per esempio, da un'importante fonte storico-biografica araba di un altro sapiente musulmano, residente in Siria, al quale sarebbero state poste probabilmente le stesse questioni, in aggiunta ad altre sulla matematica. Si tratta di ῾Ilm al-Dīn Qaysar, detto Ta'āsif, poliedrico sapiente hanafita e funzionario del sultano ayyubide al-Malik al-Kāmil (1218-1238) (ai cui ordini avrebbe lavorato Ibn Wāṣil [v.], successivamente capo di un'ambasciata a Manfredi per conto del sultano mamelucco Baybars), del quale si dice: "Quando giunsero al re al-Kāmil le domande dell'imperatore, signore di Sicilia, sui generi della sapienza e sulla matematica, egli fu designato a rispondervi" (al-Safadī, Al-Wāfī bi l-wafayāt, cit. da Spallino, 1996). Questa notizia conferma quanto affermato nella prefazione alle Questioni, e cioè che Federico avrebbe mandato ambasciate pure in Siria ‒ dove risiedeva all'epoca ῾Ilm al-Dīn Ta'āsif ‒, Egitto, Anatolia [Durūb], Iraq e Yemen): ciò dovette avvenire fra il 1238, anno di morte di al-Malik al-Kāmil, e il 1242, anno di morte del califfo almohade al-Rashīd, ossia quando I.S. aveva un'età compresa fra ventidue e ventisei anni.

Una conferma, più indiretta e problematica, della ricezione delle risposte proviene da un aneddoto narrato da al-Maqqarī (che ne scrive tuttavia nel sec. XVII), relativo al fratello di I.S., Abū Tālib, inviato in ambasciata a Roma presso il pontefice per perorare la causa dell'emiro Ibn Hūd di Murcia, vassallo di Ferdinando III di Castiglia e da questi spodestato nel 1243. Il pontefice, Innocenzo IV, uomo di scienza e all'epoca ancora vicino a Federico II, avrebbe presentato al suo entourage l'ambasciatore musulmano come fratello di "un uomo tale che non vi è oggi, fra i musulmani, alcuno che conosca Dio meglio di lui". L'episodio, se vero, confermerebbe che le risposte di I.S. furono conosciute e apprezzate nei circoli filosofici e scientifici ghibellini.

Infine, le risposte alle Questioni sono menzionate nel commento a una sorta di testamento filosofico scritto da I.S., opera di uno dei suoi fedeli (Rasā'ilIbn Sab῾īn, 1956).

L'invio delle Questioni è, del resto, affatto coerente con la famigerata curiosità intellettuale di Federico II, il suo essere Fragensteller: è noto che, oltre alle questioni siciliane, egli avrebbe posto a sapienti siriani il problema della quadratura di un segmento di cerchio; ai sapienti di al-Malik al-Kāmil, il sovrano ayyubide menzionato sopra, domande sull'ottica e su altri temi scientifici e matematici. Quindi, sempre in arabo, una serie di domande di argomento pure geometrico a Judah-ha-Cohen (v.) di Toledo. Conosciamo infine un elenco di domande, di vario soggetto (astronomia, geografia, storia naturale) poste dall'imperatore al segretario-filosofo Michele Scoto (v.; su tutti questi aspetti, e la bibliografia relativa, cf. Haskins, 1927 e 1928). Secondo Henry Corbin, l'invio delle questioni andrebbe invece inquadrato nel sogno federiciano di una "théologie impériale, axée sur l'idée de l'Homme Parfait comme centre du monde, imperator du cosmos" (1986, p. 367).

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〈\aut>Bruna Soravia〈/aut>

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